lunedì 20 luglio 2009
Carlo Mattogno: Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodologia. – Conclusione.
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Introduzione. – Capitolo I. Paragrafo: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9. Capitolo II: § 1. - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 1.4 - 1.5 - 1.6 - 1.7 - 2 - 3 - 3.1 - 3.1.1 - 3.1.2 - 4 - 5 - 6 - 7. Capitolo III: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 8.1 - 8.2 - 8.3 - 8.4 - 8.5 - 8.6 - 8.7 - 8.8 - 8.9 - 9 - 10. Capitolo IV: § 1 - 2 - 3. Capitolo V: § 1 - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 2 - 2.1 - 2.2 - Conclusione - Appendice - Abbreviazioni - Bibliografia - Note.
Rinvii:
Testo integrale - Graf -
Il capitolo sui «centri di sterminio», come ho rilevato nell’Introduzione, rappresenta la quintessenza de La distruzione degli Ebrei d’Europa, alla quale l’intera opera mira come scopo ultimo, in funzione del quale si giustifica e trova la sua ragion d’essere. Non a caso Hilberg pretendeva di essere uno specialista in gasazione di Ebrei. Tuttavia egli non ha mai prodotto alcuno sforzo personale di ricerca documentaria in questo campo fondamentale della sua specializzazione. Egli non si è curato affatto di ricercare eventuali documenti sui «centri di sterminio» in loco, in Polonia, non ha avuto neppure la curiosità di visitare archivi essenziali come quello del Museo di Auschwitz o importanti come quello del Museo di Lublino-Majdanek o di Stutthof, né di ispezionare i luoghi: ha semplicemente fornito un riassunto della letteratura olocaustica dell’epoca.
L’ossatura della sua descrizione dei campi di Chełmno, Bełżec, Sobibór e Treblinka è costituita dal libro curato da Adalbert Rückerl NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse (687) - un resoconto dei processi celebrati nell’allora Germania occidentale su questi campi - citato da Hilberg almeno quaranta volte. Per quanto riguarda Auschwitz, prescindendo dalle scarne testimonianze, la sua esposizione si basa essenzialmente sull’articolo del giudice Jan Sehn Concentration and extermination camp at Oświęcim (Auschwitz-Birkenau), senza però disdegnare il libro crassamente propagandistico di Filip Fridman This was Oświecim (688). Egli, in questo capitolo, ignora fonti all’epoca imprescindibili, come Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftas. Eine Dokumentation (689), o Les chambres à gaz ont existé. Des documents, des témoignages, des chiffres, di Georges Wellers (690), o Auschwitz. Nazi Extermination Camp (691), o le numerose opere di Hermann Langbein, ma soprattutto, incredibilmente, non fa alcun riferimento al processo Auschwitz di Francoforte, che fu celebrato dal dicembre 1963 all’agosto 1965 e sul quale erano disponibili due resoconti: Der Auschwitz-Prozess. Eine Dokumentation, di Hermann Langbein (692) e Auschwitz. Bericht über die Strafsache gegen Mulka u.a. vor dem Schwurgericht Frankfurt, di Bernd Naumann (693).
Nel paragrafo dedicato a «I processi», che comincia a p. 1144, Hilberg, incredibilmente, non menziona né il processo Höss (11-29 marzo 1947), né il processo della guarnigione del campo di Auschwitz (25 novembre-16 dicembre 1947) né il processo Auschwitz di Francoforte!
Nella sua esposizione sui «centri di sterminio», Hilberg si è dunque basato essenzialmente su fonti letterarie olocaustiche, per di più oltremodo lacunose.
Per quanto riguarda le testimonianze, la prima osservazione che si impone è il fatto che egli accetta o comunque presenta aprioristicamente come veritiere tutte le testimonianze, grazie soprattutto alla sua pratica ordinaria dell’estrapolazione dal contesto. Al processo Zündel, egli dichiarò candidamente che la sua metodologia, nella trattazione delle testimonianze, consisteva nel discernere le parti attendibili e veritiere da quelle inattendibili e non veritiere e nel citare «fuori contesto» le prime e nel tacere le seconde, senza informare della loro presenza. In tal modo egli crea una concordanza di testimonianze puramente illusoria, un contesto fittizio costituito da singoli elementi estrapolati da varie testimonianze le quali non solo sono in contraddizione reciproca, ma presentano anche parti inattendibili e non veritiere che ne infirmano il valore. La metodologia adottata da Hilberg è evidentemente truffaldina, in quanto mira a far credere che tutte le testimonianze siano veritiere e convergenti tacendo le contraddizioni, le falsità e le assurdità che contengono. Due emuli di Hilberg, Michael Shermer e Alex Grobman, hanno sancito un decalogo di metodologia storiografica il cui punto 2 recita: «La fonte ha presentato altre tesi chiaramente esagerate? Se un individuo è noto per avere travisato i fatti in precedenza, ciò chiaramente mina la sua credibilità» (694). Questo principio mina la credibilità di tutte le testimonianze presentate da Hilberg. Ciò vale in particolare per quelle di Gerstein e di Höss, nelle quali, al processo Zündel, Hilberg ammise esplicitamente la presenza di elementi non veri o non credibili.
Come ha rilevato Gie van den Berghe, Hilberg «considera un avvenimento sufficientemente provato se un testimone oculare l’ha menzionato». Anzi, egli tenta addirittura di surrogare i documenti - che non conosceva - con singole testimonianze, sempre puntualmente smentite dai documenti, come ad esempio riguardo alle installazioni igieniche di Lublino-Majdanek e di Auschwitz.
Un altro criterio di giudizio impiegato da Hilberg per considerare un avvenimento sufficientemente provato è la sua ripetizione letteraria: se due o più testimoni raccontano il medesimo evento, esso per Hilberg è reale. Ma la ripetizione di una menzogna non trasforma certamente la menzogna in verità, perciò questo non può essere un criterio di veridicità. E infatti parecchi testimoni hanno dichiarato concordemente il presunto evento dello sterminio ad Auschwitz di quattro milioni di persone: ma questa ripetizione rende forse l’evento reale?
Hilberg adduce inoltre una serie di testimoni insignificanti, a volte addirittura anonimi («un poliziotto», «un ferroviere») che pone incredibilmente sullo stesso piano di testimoni importanti: tutti contribuiscono allo stesso modo a creare il suo tessuto narrativo.
I testimoni fondamentali su Auschwitz menzionati da Hilberg, oltre a Höss, sono Ella Lingens-Reiner, Gisella Perl e Olga Lengyel, complessivamente citate più di venti volte; esse sono tanto importanti che Robert Jan van Pelt, nella sua ponderosa opera su Auschwitz (695), non menziona mai nessuna delle tre. Il testimone principale, Filip Müller, citato da Hilberg almeno quindici volte e da lui definito «una persona straordinaria, precisa, attendibile», era, come ho documentato sopra, un fantasioso plagiario. Charles Sigismund Bendel era invece un volgare impostore, al pari di Miklos Nyiszli, di cui Hilberg ignorava incredibilmente il libro Auschwitz. A Doctor’s Eyewitness Account (696).
La sua credulità appare, per contrasto, ancora più sorprendente se si mette a confronto con l’atteggiamento almeno parzialmente critico di Gerald Reitlinger nei confronti dei «racconti dei superstiti» (697).
La metodologia di Hilberg riguardo ai documenti non è meno aberrante. Essa si basa infatti su tre presupposti indimostrati: l’esistenza a priori di un ordine di sterminio di Hitler, di «centri di sterminio» e di un «linguaggio in codice». Conseguentemente, il suo argomentare si esplica in un circolo vizioso in cui il presunto ordine di Hitler e gli «eufemismi» che apparirebbero nei documenti tedeschi “dimostrano” la realtà dei «centri di sterminio» e i «centri di sterminio» “dimostrano” la realtà dell’ordine di Hitler e degli «eufemismi». Ciò appare particolarmente lampante nella sua manipolazione dei documenti tedeschi contenenti il termine “Endlösung”, i quali, per la semplice presenza di questo termine, vengono da lui aprioristicamente presentati come altrettante “prove” del presunto progetto nazionalsocialista di sterminio ebraico, anzi, addirittura, come la “prova” dell’esistenza di un ordine di sterminio di Hitler!
In tal modo egli ha operato un travisamento sistematico dei documenti, corredato di omissioni di documenti importanti o di parti importanti di documenti citati, e talvolta anche di vere e proprie menzogne, fino allo spergiuro.
Questa straordinaria carenza di senso critico, nel capitolo in questione, si estende anche alla storiografia olocaustica, trasformandosi in una sorta di autoritarismo storico che non ammette discussione. Hilberg presenta le sue opinioni riguardo alla genesi del presunto sterminio ebraico in modo apodittico, non come congetture tra altre congetture, ma come fatti assodati, come certezze indiscusse, senza il minimo accenno ai dibattiti che su questo argomento si erano accesi tra gli storici olocaustici proprio all’inizio degli anni Ottanta e ai quali aveva partecipato egli stesso. Egli non menziona mai le controverse interpretazioni dei suoi colleghi, ma, citando e travisando fonti documentarie e testimoniali, vuole accreditare la propria interpretazione come unica e autorevole. Forte della mole della sua opera e dei suoi riferimenti, Hilberg si atteggia ad autorità ad di sopra delle parti, ma in quei dibattiti i suoi colleghi non gli riconobbero alcuna particolare autorità e trattarono le sue opinioni alla stregua di quelle di qualunque altro storico. Il suo ruolo non fu mai di primo piano.
In definitiva, il «processo di distruzione» degli Ebrei europei descritto da Hilberg nell’edizione definitiva de La distruzione degli Ebrei d’Europa e soprattutto nel capitolo IX, «I centri di sterminio», è caratterizzato da faciloneria e credulità nella raccolta delle fonti, capziosità e malafede nel loro uso ed è pertanto documetariamente infondato e storicamente inconsistente.
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