lunedì 30 novembre 2015

28. Letture: Nathan WEINSTOCK: Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese, Massari editore, 2006.

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La letteratura sul sionismo è certamente assai estesa e noi non abbiamo nessuna intenzione di abbracciarla tutta quanta e di diventare un “esperto” di sionismo. Ci è sufficiente avere una visione d’insieme, tenendo conto di un “contradditorio” virtuale fra storici “sionisti” e “antisionisti”, collocandoci noi nella schiera degli “antisionisti” ma proprio per questo particolarmente se non principalmente interessati alle interpretazioni “sioniste”, dichiarate o meno. Inoltre, ci permettiamo di rinviare ad un’apposita nostra opera documentaria già avviata nel nostro blog di geopolitica, dove abbiamo predisposto un’apposita sezione con il titolo “La questione sionista e il Vicino Oriente”, ben lungi dall’essere completata ma senza che il nostro interesse - distolto da altri temi - sia mai venuto meno. L’opera di Weinstock giaceva nei nostri scaffali da anni e all’epoca dell’acquisto era il solo titolo che aveva attirato la nostra attenzione o il solo a noi accessibile. Adesso metteremo a confronto la narrazione dei diversi titoli - non pochi - di cui abbiamo predisposto schede di lettura, ossia non predisposte per recensioni, ma per uno studio aperto sull’argomento con la redazione di schede e appunti che possono essere condivise con i miei ideali, sempre presenti, Cinque Lettori. La traduzione italiana, del 2006, un originale francese del 1969, apparso presso Maspero con il titolo Le sionisme contre Israël. È un volume di 300 pagine di grande formato. Il titolo originale è interessante e fa pensare a taluni interpretazioni che andremo a verificare e non stiamo adesso ad anticipare.

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27. Letture: Vincenzo VINCIGUERRA: Storia cronologica del conflitto mediorientale. Dalla nascita del sionismo al 2009, Editore: www.archivioguerrapolitica.org, 2015.

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Per chi si interessa alla storia del sionismo appare subito utilissima questa ampia cronologia di 380 pagine in formato grande. Non si tratta però di tratta però di nude date, giacché per ognuna di esse è data una sufficiente spiegazione dell’evento. Poiché ogni libro ha un suo piglio pare utile riportare testualmente la quarta di copertina: «In nome del diritto all’esistenza che nessuno è mai stato in grado di minacciare, Israele è una potenza militare che ha, più volte, minacciato i suoi vicini di impiegare ordigni nucleari, il cui numero e potenza non si conoscono perché non ha mai firmato il trattato di non proliferazione e non ha mai accettato ispezioni internazionali nei suoi siti. In nome del diritto all’esistenza, Israele è l’unico Stato moderno che ha ufficialmente adottato la tortura come mezzo d’interrogazione sistematico. In nome del diritto all’esistenza, ha condotto rappresaglie spietate e sanguinose contro i popoli vicini, totalmente sproporzionate rispetto ai danni subiti».

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26. Letture: Alan HART: Sionismo. Il vero nemico degli Ebrei. Vol. 1°: Il falso Messia, Zambon 2015.

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Finalmente, dopo che Civium Libertas aveva auspicato la traduzione italiana dell’opera di Alan Hart sul sionismo - di cui avevamo dato anticipazioni - è comparso un editore italiano, che ne ha pubblicato in giugno il primo volume di pagine 430 al costo contenuto di 20 euro. Speriamo seguano a breve gli altri due volume, per pagine complessive di oltre mille, destinate ad essere per chi legge solo l’italiano un punto di riferimento essenziale. È troppo l’ignoranza su questo argomento di cruciale importanza per la geopolitica del Vicino Oriente. E ci piace approntare una serie di “schede di lettura” su questi argomenti, proprio in coincidenza con la Giornata internazionale per la Palestina che cade ogni anno il 29 novembre e si svolge in tutto il mondo, a Roma, ieri in Piazza dell’Esquilino, dove si sono dette cose che non si leggono in genere sui giornale, e cioè, in particolare, che i giovanissimi dell’«intifada dei coltelli» sono degli assoluti disperati, nati dopo gli accordi fallimentari e truffaldini di Oslo, nel 1993, dove in pratica ha cessato di esistere l’«Organizzazione per la Liberazione della Palestina», che non doveva scendere a patti con nessuno ma doveva soltanto “liberare” tutta la Palestina ed aveva una indubbia legittimità che discendeva dal “processo di liberazione”. Alla OLP è succeduta l’Autorità Nazionale di Palestina (ANP) che si è rivelata niente altro che un governo fantoccio per consentire il completamento del piano di “pulizia etnica”, cioè di “genocidio” - secondo una equivalenza stabilita dalla normativa ONU, dopo i fatti della ex-Iugoslavia -, dando vita a quella truffa consapevolmente perpetrata che è chiamata “processo di pace” ma che è in realtà è un “processo di esecuzione di un genocidio in atto”, che avviene nel silenzio della cosiddetta comunità internazionale e nell’abbandono da parte dei paesi arabi della “causa palestinese”, che fino a non molti anni fa aveva una forte caratterizzazione da parte del mondo arabo, messo sempre più in crisi dal tradimento delle monarchie del Golfo. Queste cose i giovani lo sanno ed hanno scelto di andare incontro a morte certa, armati di coltello contro armamentari da fuoco di ogni genere. Se esiste una “guerra di religione” (vedi Atzmon), questa la si può trovare solo nella “intifada dei coltelli”, non nella falsa opposizione religiosa fra sunniti e sciiti.

I tre volumi di Alan Hart ci aiutano a capire come si sia giunti alla situazione odierna, anche se la narrazione storica non arriva alla “intifada dei coltelli”. Eravamo decisi a redigere questa nostra scheda di lettura direttamente sul testo inglese, quando casualmente - non certo a seguito di una pubblicità commerciale - abbiamo appreso dell’uscita dell’edizione italiana, del primo volume, augurandomi che presto seguano gli altri due. Non voglio qui addentrami nei segreti commerciali di una casa editrice, ma ad un mio interessamento presso altro editore era emerso che erano eccessivamente alti i diritti all’epoca pretesi non dall’Autore, ma dall’editore americano. A questi costi erano poi da aggiungere i costi di traduzione, di distribuzione, di promozione. Per il volume di Atzmon, importantissimo e da abbinare ai volumi di Hart, non mi sembra che ci sia stata pubblicità o promozione. Il libro non è stato da me comprato in libreria (ma tramite ibs), cosa che comporta in genere un costo dal 30 al 50%... del prezzo finale di copertina. Appunto, non voglio addentrami oltre in segrete cose, ma il libro di Atzmon è rimasto sconosciuto a oltre un anno dalla sua apparizione e sono proprio io quello che ne ha fatto la maggiore pubblicità e promozione... Non vorrei che la stessa sorte* toccasse ad Alan Hart, di cui confronto la traduzione italiana con il testo inglese, non perché abbia da dubitare che la traduzione sia di ottimo livello, ma perché è un modo per esercitare il mio inglese e la mia tecnica personale di traduzione. Una prima differenza è nell’illustrazione di copertina: sempre il “muro del pianto”, ma con figure umane diverse. Non so se la cosa abbia un significato.

“Sionisti” al seguito degli «Alleati»
* Update: (esiste anche una pagina FB, con post singolarmente non linkabile, dove si possono leggere deliziosi commenti sionisti. Ne riportiamo il primo: «Non capisco la meraviglia.... Le posizioni dell’ANPI sono note... Continuo a leggere da più parti di complotti sionisti, con parole pressoché identiche a quelle usate da fascisti e nazisti... E sono convinto che pochi di coloro che usano tale linguaggio hanno una idea, almeno approssimativa, di ciò che vuol dire sionismo e di come il sionismo abbia operato... Tra i vari frutti dell'albero della conoscenza questo deve essere poco appetito... Io invece l'ho approfondito...») è di pochi minuti fa la notizia, a me giunta, di una presentazione del libro di Hart a cura dell’ANPI. Il fatto produce una isterica reazione da parte di un feroce gruppo sionista attivo sul web italiano. La reazione è divertente perché l’isteria si accompagna alla incomprensione e ignoranza del libro, immersa nella consueta retorica della partecipazione del sionismo alla «Resistenza» italiana e alla favole del mufti ispiratore di Hitler. È nel nostro programma di “schede di lettura” un libro dove sono documentati i rapporti del sionismo con il fascismo, al quale si deve la creazione della marina di guerra israeliana. E sempre sullo stesso tema un’altra scheda del libro di Mariantoni dove viene data una diversa interpretazione delle leggi razziali del 1938, ricondotte a quel 25 % di ebraismo (sionismo) internazionale che costituiva la controparte ai legionari fascisti nella guerra di Spagna del 1936-38: il Fascismo, che tanto aveva beneficato l’ebraismo italiano (molti ebrei italiani erano fascisti) si sentì tradito e da allora iniziò il sospetto di una mancata fedeltà e di una subdola infiltrazione. I rapporti fra Antifascismo, sionismo, Resistenza, narrazione e strumentalizzazione della «Shoah» richiederebbero una trattazione articolata, che qui non è possibile sviluppare. Tuttavia, con un’ottica rovesciata, si rinvia a un libro appena uscito, di Manuela Consonni, che però noi non leggeremo nell’immediato, perché ci distrarrebbe inutilmente e perché ne intuiamo già le tesi, esposte nella scheda pubblicitaria redatta da Marco Belpoliti sulla Stampa, ora diretta da Maurizio Molinari.

Buona, efficace e per noi condivisibile la Prefazione alla traduzione italiana fatta da Diego Siragusa, da cui estrarremo alcuni citazione. Da notare tuttavia una critica allo stesso Alan Hart per la sua eccessiva fiducia in Golda Meir, che a giudizio di Siragusa era e sarebbe rimasta fino alla fine una “sionista”, con quel che questo termine significa. Inoltre, fra i vari autori citati nella Prefazione stupisce la mancanza di un qualsiasi accenno a Gilad Atzmon, pure tradotto e pubblicato dallo stesso editore. Sul tema della “identità ebraica” e nella definizione del “sionismo” a noi sembra che Atzmon abbia dato contributi decisivi che superano tutte le analisi finora fatte.

Alcune citazioni estratte dalla Prefazione di Diego Siragusa:

- circa il sionismo: «Negli ultimi tempi, esso ha subito considerevoli sconfitte: si allarga la schiera dei suoi critici; gli organismi internazionali, timidamente censurano la condotta  del suo baluardo fisico, lo stato di Israele; fiorisce e cresce, una discreta letteratura che ne contesta la legittimità e le finalità sempre più paragonate al nazismo. Eppure, i sionisti, ovunque sparsi nel mondo, non demordono e, con encomiabile caparbietà, si affannano a mettere il belletto alla loro ideologia recitando il ruolo di vittime, trasformando la Shoa in una retorica dell’autoassoluzione e dell’inganno» (p. 5)

- Utile questa definizione dell’Hasbarah: «In ebraico significa “spiegazione”. Si tratta di un sistema organizzato di contrasto verso qualunque descrizione critica di Israele, del sionismo e degli ebrei sionisti. Dalla più piccola comunità ebraica sino ai vertici dello stato di israele, l’hasbarah funziona come una reazione “militare” contro chiunque osi criticare o rivelare notizie che, per i sionisti, devono rimanere segrete. L’immagine di Israele e del sionismo deve sempre, contro qualunque evidenza, essere soggetta ad encomio e ad esaltazione positiva. Non vi sono vie intermedie*».

* Si veda a questo riguardo il post curato da Egeria: «Ero pagato per fare il troll sionista pro-Israele». Che io sappia non esiste in Italia un giornalismo investigativo o uno studio sistematico sul modo, i luoghi, i tempi, le persone, le istituzioni direttamente o indirettamente influenzate dal governo israeliano.

Il Prefatore Siragusa affronta anche la famosa dichiarazione del Presidente Napolitano. Personalmente, ritengo che il Presidente, che aveva accettato un honoris causa in Israele, sia certamente un “sionista”, ma che la sua conoscenza del sionismo non sia originaria, ma indotta da qualche suo “consulente”. Infatti, avevo rispettosamente scritto al Presidente, per conoscere le fonti del suo magistero dottrinale e ho avuto l’alto onore non di una Sua augusta risposta, ma appunto quella di un suo Consulente... Successivamente, ebbe a pronunciarsi sulla Dichiarazione direttamente Ilan Pappe, il quale rovesciò l’assunto presidenziale, circa l’equiparazione di antisemitismo e antisionismo, affermando che “si deve essere antisionisti se non si vuole essere antisemiti”. Ma questi problemi - come sosteneva Herzl citato da Siragusa - non si risolvono sul piano della dottrina, ma su quello della mera e bruta forza: inutile che l’agnello se ne stia a discutere con il lupo, che può solo essere abbattuto da una forza superiore. È il solo argomento che conosce. Il solo argomento che con lui si può usare.

Il libro di Hart è successivo a quello dei politologi Mearheimer e Walt ed in un certo senso puà dirsi complementare. Hart critica il titolo timido de “La Israel lobby e la politica estera americana”. Avrebbe dovuto dirsi “lobby sionista”. Certamente, il libro dei due politologi migliora il dibattito sull’argomento, ma ancora non spiega cosa il sionismo sia. È ciò che Alan Hart intende spiegare, particolarmente al popolo americano. Gli si potrebbe obiettare, ma bisognerebbe poter scrivere forse altri tre volumi come i suoi, per poterlo argomentare in egual misura, che oggi come oggi non si può può parlare di “antisemitismo”: non ne esiste ombra alcuna. O meglio, l’unico antisemitismo che esiste, in senso proprio, è la cosiddetta «islamofobia»: ve ne è tanta ed è crescente, fomentata oltre che dalle stesse comunità antagoniste, dalle reti televisive, dai giornali, da uno stuolo di giornalisti e blogger, forse a libro paga, ma certamente inquadrati in un esercito non meno “fondamentalista” di quello dell’ISIS.

L’«antisionismo» va considerato per se stesso, ossia come reazione e contrato, rifiuto, del “sionismo”, una buona volta che ci si sia accordati su cosa esso sia. Ed è esattamente ciò che si intende fare in una gamma di libri sempre più estesa. Per fare alcuni nomi oltre a quello di Alan Hart, vi è da porre in primo piano Gilad Atzmon, Ilan Pappe, Shlomo Sand, Abraham Burg e tanti tanti altri, che i vertici dell’ANPI ignorano bellamente, immersi come sono in un ideologismo anacronistico che tanti guasti ha recato ad un Paese dicono essere il loro...

Già ho parlato di ANPI perché il semplice annuncio in fondo della presentazione di un libro ha scatenato il grande senso democratico dei vertici nazionali dell’ANPI e dei loro “amici”. Si possono leggere qui le loro “Dichiarazioni”, altamente liberali e democratiche: hanno paura non del “terrorismo” che partito dallo sconquasso che il “sionismo” ha causato in tutto il Vicino Oriente, ora giunge da noi, costringendoci a difenderci... Loro hanno paura - questi coraggiosi “resistenti” - della presentazione di un libro, al quale non hanno altri argomenti da opporre che i loro vuoti ideologismi.
Io direi che la fottuta paura che hanno, questi Eroici Partigiani (dopo 70 anni ne sono rimasti?), al di là della sciocca dichiarazione del Non più Presidente Napolitano, è di scoprire documenti alla mano che l’«antisionismo» non è da equiparare all’«antisemitismo» - come vorrebbe Giorgio Napolitano - ma se mai all’«antifascismo» e all’«antinazismo» che è sempre stata la loro patente di legittimazione storica e politica. La “storia filosofica” della nostra contemporaneità che studia la dinamica delle “essenze filosofiche” non segue le prescrizioni e i comandamenti della stampa embedded o dei burocratici vertici nazionali dell’ANPI, uno dei tanti istituti che hanno fatto il loro tempo e che occorrebbe dismettere... Paradossalmente, ciò che darebbe una qualche vitalità al “vertice nazionale” è proprio quella sezione locale “don Garofalo” che ha deciso (se non verrà costretta al ritiro e all’abiura dell’iniziativa) di aprire gli occhi sul “sionismo” e di “resistere” al vertice nazionale... Ma resisteranno gli eredi dei Resistenti Partigiani al potere sionista?

Siamo indecisi se commentare riga per riga le sciocchezze delle Dichiarazioni ufficiali, disponibili in rete, prontamente raccolte dai siti sionisti, dai quali occorrerebbe liberare il nostro Paese. Per adesso seguiamo gli sviluppi e ci riserviamo riflessioni finali e riassuntive. Che dire del resto circa declamazioni isteriche improntate a queste si a “becera” e invincibile ignoranza? Gli “eredi” putativi dei «Partigiani» hanno una strana paura che qualcuno possa rompere le loro palline di vetro colorate... Esiste addirittura una «AnpiLibri» - non lo sapevo - la cui funzione consiste evidentemente nell’impedire la presentazione di libri non allineati e non fuggire davanti alla discussione e al confronto che questi libri necessariamente ispirano... Evidentemente, questi “partigiani” danno tutto il loro sostegno alla repressione del cosiddetto “negazionismo” che significa in Germania, ma presto anche in Italia, infliggere fino a dodici anni di carcere a chi viene dichiarato colpevoli non di gravissimi crimini di mafia e di stragi, ma di aver scritto... un libro! Questa è la “democrazia” e la “libertà” che hanno saputo regalarci!

Quanto ai Signori Ebrei la questione è assai semplice ed è questo il senso del libro di Hart, il quale avverte è “il sionismo è il peggiore nemici degli Ebrei”: è nella piena facoltà di ognuno di essi il dirsi o non dirsi “sionisti” e dovrebbe essere nella facoltà di tutti gli altri che ebrei non sono – e non hanno amici ebrei o non dipendono da ebrei - il poter dire cosa il sionismo è o non è. Qualche “amico” di ebrei pensa di aver scritto un gran libro - mi pare premiato - dove si equiparata il sionismo al nostro Risorgimento, cosa che a chi scrive suona come un grande insulto. I “calabresi” possono non avere motivo di gratitudine per i piemontesi che hanno trattato da “briganti” i loro nonni e bisnonni che “resistettero” all’invasione piemontese... ma non sembra che abbiano subito una “pulizia etnica” come i palestinesi per mano di “ebrei sionisti” partiti anche dall’Italia e con passaporto italiano. Insomma, in un Paese che pretende di essere democratico e libero non si dovrebbero avere timopri di sorta per l’espressione del proprio pensiero in tutte le sue forme, inclusa la traduzione e pubblicazione di un libro come quello di Hart - guarda caso il suo editore è pure lui un “ebreo” – e relativa presentazione e discussione.

Con dedica  Alan Hart
Finito di leggere il Prologo - che dà il senso di tutta l’opera - si ha netta l’impressione di una grande amicizia dell’Autore verso gli ebrei, con i quali ha intrattenuto rapporti per oltre 40 anni. E ciò nononostante riceve da parte loro una grandissima ostilità! Cosa sarebbe mai stato se anziché “amico” avesse voluto essere loro “nemico”! Sembra che la sua preoccupazione stia tutta o in buona parte nel rischio che possa risvegliarsi il mostro dell’«antisemitismo», con quel che ci è stato narrato. L’Autore non tiene in nessun conto l’opera degli storici “revisionisti” che offrono tutt’altra narrazione... Ma non si può chiedere troppo a un uomo che di coraggio ne ha già dimostrato moltissimo. Anche perché egli ha una sua propria sincera convinzione di ciò che narra. Non mente sapendo di mentire, come succede per molti altri autori di libri e giornalisti. Tuttavia, almeno in prima battuta, non ci sembra che egli si curi molto dei terzi, ossia di quelli che non sono i contraenti di una possibile o impossibile pace, ma di quanti hanno solo a cuore l’interesse di una giustizia che deve essere regolatrice della convivenza pacifica fra i popoli, i quali non possono riconoscere un “diritto all’esistenza” che concretamente significa un diritto a commettere genocidio di un popolo. E quale pace sarebbe mai quella che vede il consenso dell’offeso, della vittima? E tutti gli altri, i terzi, cosa fanno? Applaudono? Si rallegrano?

...Ci giunge la notizia che la Presentazione del libro di Hart, annunciata per domani mercoledi 7 dicembre 2015, sotto il patrocinio dell’ANPI, o almeno di una delle sue sezioni, è stata annullata per disposizione di organi territoriali preposti. Se ne possono leggere alcune reazioni nel sito stesso dell’ANPI, dove non aggiungeremo nostri commenti. La Presentazione avrà comunque luogo in altra sede. Non conosciamo la struttura dell’ANPI, non ci interessa e si appare fuori tempo come possono esserlo le associazioni garibaldine se ancora esistono come enti pubblici e ricevono magari appositi finanziamenti. Sono enti anacronistici che non hanno più senso e se occorreva una dimostrazione del loro nonsenso è proprio il suddetto “annullamento” a fornirne la prova. È un atto che danneggia molto di più lo stesso ANPI che non i Lettori del libro e quanti potevano avere interesse a una pubblica discussione, ai quali coraggiosamente gli eredi dei “partigiani” del 1945 si sottraggono: 2015 - 1945 = 70 anni. Posto che gli eroici combattenti del 1943-45 avessero allora almeno 20 anni, l’età della ragione e della responsabilità, oggi ne avrebbero non meno di 90 se dovessero partecipare a un dibattito pubblico, dopo aver letto e compreso il libro di Alan Hart. Dubito che queste persone esistano e penso che chi oggi ne porta le insegne abbia lo stesso titolo degli appartenenti a un’associazione garibaldini o una borbonica, se ancora ne esistono ed hanno un carattere culturale più che politico. Ma quel che è peggio è che io dubito fortemente che i signori dell’ANPI abbiano letto una sola pagina del libro di Hart e che la loro posizione - il coraggioso annullamento, in una loro sede e con il loro patrocinio, - della presentazione e pubblica discussione di un libro (hanno paura dei libri!) sia stato il risultato di una richiesta pervenuta, di una richiesta alla quale non si poteva dire di no... Non conosciamo i retroscena e non vogliamo indulgere oltre in congetture e illazioni.

Da parte nostra, avevamo accelerato la lettura del libro per la buona regola di andare preparati a una presentazione di libro, in genere seguita da dibattito con interventi del pubblico. Se non nell’ANPI, un simile dibattito potrà avvenire in un qualsiasi altro luogo, se l’editore si adopera in tal senso... Non siamo noi che dobbiamo fare le sue veci e sostituirci a lui... Il dovere di un editore che non sia un mero stampatore è quello di promuovere e saper promuovere un libro che decide di pubblicare, sapendo cogliere tutte le opportunità che una società “aperta” offre per il dibattito e la discussione delle idee... Sarebbe strano, ben strano, quell’editore che affronti i costi della pubblicazione di un libro per poi tenerselo in magazzino... E in fondo perché mai ancora si scrivono e si pubblicano libri? Il senso di un libro, stampato da Gutenberg in poi, è la sua più ampia e universale pubblicità...

Ma non diciamo oltre su una politica editoriale che ci resta incomprensibile. Possiamo procedere invece più lentamente e distesamente nella lettura del libro, di cui abbiamo già superato le 100 pagine. L’Autore ha già liquidato la “bugia” della propaganda sionista, espressa nella formula “un popolo senza terra per una terra senza popolo”. La Palestina storica era abitata! Senza ombra di dubbio e tema di smentite. Esisteva in America un libro, di cui non ricordo il titolo e l’autore, ma di cui Norman G. Finkelstein ha fatto giustizia, smascherando l’implicito razzismo della tesi secondo cui i palestinesi... non esistono! Una tesi ancora oggi ricorrente...

Un’altra bugia è quella mitologica-archeologica, secondo cui gli “ebrei” (sionisti) ritornerebbero a casa loro dopo un’assenza di... 2000 anni! Di una simile “bugia” ha già ampiamente fatto giustizia Shlomo Sand in un apposito libro di cui redigeremo apposita scheda di lettura. In sostanza, ciò che si apprende in un’ottima prosa divulgativa è che tutti o quasi gli attuali ebrei sono discendenti dei Kazari che si convertino al giudaismo nell’VIII secolo, per poi secoli dopo essere scacciati dalle loro terre dai mongoli che li spinsero nei paesi dell’Europa orientale da dove poi migrarono nell’attuale Palestina o Israele a seconda di come la si vuol chiamare. Il “sionismo” in quanto ideologia politica si formò nella seconda metà del XIX secolo e Shlomo Sand ne fornisce un’ottima narrazione, che leggeremo volentieri una seconda volta. All’interno della “bugia” del ritorno si pretende che nel 637 dopo Cristo gli Arabi o Islamici sarebbero arrivati in Palestina, scacciandone gli ebrei autoctoni... Non è per nulla così e Alan Hart lo dice bene in due pagine che riportiamo:

Quando il tempo e gli eventi mostrarono come una sciocchezza l’idea che la Palestina fosse una “terra vuota”, i sionisti erano pronti a raccontare un altro pezzo di mitologia. In Palestina ci sono stati gli arabi, ma il loro arrivo fu tardivo. Giunsero attraverso la conquista araba musulmana nel 7° secolo d.C. La giustificazione implicita, se non sempre apertamente dichiarato nella propaganda sionista, era che, siccome i primi Israeliti furono in Palestina circa 2000 anni prima della conquista araba musulmana, la pretesa sionista in Palestina era molto, molto superiore a quella degli arabi. Per coloro che non conoscono la storia, questa era, e sarebbe rimasta, una storia plausibile, per coloro che la conoscevano, era un’altra grande bugia.

Come Henry Cattan ha sottolineato nel suo acclamato libro, Palestine and International Law (LA Palestina e il diritto internazionale), “arabo” è un termine generico che, indipendentemente dalla loro religione, comprende tutti i popoli che vivono in Medio Oriente la cui lingua madre e l’arabo. Oggi ci sono arabi musulmani, arabi cristiani e arabi israeliani. Gli arabi, in origine erano pagani, hanno vissuto in Medio Oriente, compresa la terra di Canaan, che divenne la Palestina, fin dagli albori della storia. Prima della conquista musulmana della Palestina nel 637 d.C., la maggior parte della popolazione indigena era araba cristiana. Come conseguenza della conquista, la maggior parte dei cristiani arabi palestinesi fu convertita all’Islam e divenne araba musulmana. Fu la religione, l’Islam, che venne con la conquista araba, non i palestinesi. «La conquista araba musulmana della Palestina non aveva comportato alcuna immigrazione di massa degli arabi dalla penisola Arabica in Palestina o qualche colonizzazione del paese. In realtà, il numero degli invasori era molto piccolo e questi furono
assimilati dalla popolazione indigena». [ nt 20 = Cattan, op. cit., p 10] I sionisti, per le loro ambizioni politiche, non ebbero successo nella loro ricerca iniziale di un sostegno da parte di una grande Potenza. Herzl si rivolse prima ai turchi come “titolari” per diritto di conquista della Palestina a quel tempo. L’accordo che Herzl propose al Sultano di Turchia, Abdul Harnid, teneva conto della condizione dell’impero turco che era in un processo di disintegrazione, “decomposizione”, come dissero alcuni.

A partire dai primi anni del 1880, la Gran Bretagna ne aveva occupato alcune parti, l’Egitto e il Sudan. Quando si incontrarono, Abdul Harnid disse a Herzl che era disposto a ricevere immigrati ebrei in tutte le sue province con l’eccezione della Palestina, a condizione che diventassero sudditi ottomani, accettassero il servizio militare e si stabilissero “distribuendosi, cinque famiglie qui e cinque famiglie la.” [nt 21 = Alfred M. Lilienthal, What Price Israel?, Chicago, Henry Regnery, 1953, pp. 220-22] Ma Herzl voleva, addirittura, una Palestina ebraica autonoma all’interno dell’impero turco, ed era andato alla riunione fiducioso che avrebbe potuto fare ad Abdul Hamid una buona offerta, sufficiente per ottenere ciò che voleva. L’offerta era che il WZO avrebbe preso in carico i debiti esteri dell’impero turco. Se Herzl avesse chiarito queste con i banchieri ebrei o semplicemente avesse accettato la loro disponibilità, a me non è noto. All’offerta Abdul Hamid rispose: “Non posso accettare di vivisezionare ... il mio popolo che ha combattuto per questa terra e l’ha fecondata col suo sangue ... che gli ebrei si tengano i loro milioni.” [nt 20, nel testo di Hart]
Peccato che la risposta del Sultano sia stata resa da Hart in una forma accorciata. Mi era già nota in forma più estesa da un altro libro, che al momento non ritrovo. Ma appena mi capita di nuovo fra le mani ne darò per esteso la dignitosissima risposta del Sultano, che fa pensare a una Turchia assai diversa da quella odierna di Erdogan, che pretende appunto di ricostituire l’Impero Ottomano e di proporsi lui come Nuovo Sultano.

Faccio un’annotazione rapida in corso di lettura, omettendo altre osservazioni che potrei fare con il rischio di non giungere mai alla fine del libro. Si sa che gli amici sono sempre in ansia per gli amici e spesso consigliano la prudenza, per evitare inutili rischi. È per questo che dei sinceri amici di Hart giudicano sbagliata la scelta del titolo di questo primo volume: “Il falso messia”. Andando però a pagina 142 e seguenti (Capitolo 5) si comprende come il titolo non fosse a capriccio, o messo apposta per irritare e far concentrare sull’Autore tutto il fuoco delle artiglierie sioniste. Il capitolo tratta di un personaggio, confesso, a me finora sconosciuto: Ahad Ha’ham, pseudonimo di Asher Zevi Ginsberg (1856-1927), padre del cosiddetto “sionismo spirituale”, che con lui era a quanto sembra una cosa seria e non il solito inganno. Tanto è vero che Ginsberg fu un fiero avversario del sionismo “politico”, che egli definiva appunto il “falso Messia”: «Se questo sarà il messia, non voglio vedere la sua venuta» (p. 143). Fine annotazione. Proseguo il più rapidamente possibile nella lettura, ma intanto mi appare evidente che Alan Hart non avrebbe potuto scegliere un titolo diverso per il primo volume della sua Storia del Sionismo.

A proposito della mia sopra dichiarata ignoranza del nome di Asher Ginsberg, scrive Hart a pag. 145-146: «...Penso che sia ragionevole supporre che il sionismo, probabilmente, abbia fatto del suo meglio per limitare la circolazione del messaggio di Ahad Ha’am». Caspita! È esattamente quel che ora succede per l’opera divulgativa di Alan Hart, del cui libro proprio nel momento in cui scrivo (ore 17.23 del 7 dicembre 2015) avrebbe dovuto parlarsi in una sala di Via Galilei (!), in Roma, patrocinata dall’ANPI sezione di Roma, opportunamente avvicinata dalla Lobby sionista... Ma se ne parlerà domani, alla fiera del Libro, e sono curioso di assistere a cosa ancora succederà. Per domani, cerco di andare più avanti possibile nella lettura sequenziale del libro. Quindi, la mia “ignoranza” è più che giustificata, considerato l’accurato dispositivo di silenziamento ad opera dei poteri sionisti. A maggior ragione questo oscuramente vale per il libro di Atzmon, pur tradotto in italiano... Ho persino dei sospetti, terribili, al riguardo che però non posso formulare... non tanto per timore di querele o simile, ma perché potrebbe essere del tutto infondati... e non è nella mia natura sostenere cose false.

...Torno dalla Fiera del Libro in Roma, dove vi è stata una breve Presentazione del libro. Purtroppo, non era ciò che mi aspettavo, per poterne riferire ai miei Cinque Lettori – che da questo momento diventano Sei, perché se ne aggiunto Uno, che ce lo ha fatto sapere –, dunque, ai miei Sei Lettori. Infatti, si è trattato di una semplice esposizione del contenuto del libro nello spazio di un’ora concessa dall’organizzazione della Fiera. Non vi è stato il dibattito sul libro, che era stato pubblicizzato per la presentazione che avrebbe dovuto tenersi con il patrocinio dell’ANPI in Via Galilei, sempre in Roma. Erano annunciati oltre al traduttore, Diego Siragusa, anche tre disputanti tutti rigorosamente ebrei, magari “antisionisti”. Se ho capito bene perfino questi tre “ebrei antisionisti” si sarebbero poi ritirati. La presentazione di Via Galilei si è poi tenuto nello stesso giornale nella sede della Comunità di Base di San Paolo. Molti però, io compreso, non ne hanno avuto notizia e quindi sono stati assenti all’incontro, al quale sarebbero stati interessati a partecipare.

Oltre alla esposizione del contenuto del libro, che pare stia andando molto bene ed avrà presto una seconda edizione, purgata da fastidiosi errori di stampa, il Traduttore ha reso noto l’incredibile opera di censura che le organizzazione ebraiche stanno esercitando. La segreteria della Fiera ha reso noto che perfino alla Fiera stessa - luogo per antonomasia deputata alla presentazione di libri - sono giunte richieste censorie: avrebbero dovuto non consentire l’uso di una sala per altro già pagata! Non riporto quale sarebbe stata la “minaccia”, che dal pubblico è stata commentata con un “E chi se ne ...!” Quel “potere ebraico” di cui parla continuamente Gilad Atzmon, un potere a carattere “globale” – cioè presente in tutti i paesi, dove esistono “comunità ebraiche” che agiscono di concerto con lo «Stato ebraico di Israele» e i suoi Ambasciatori – esce sempre più allo scoperto. La sua “essenza” consiste nel fatto che non si deve sapere che esiste, e soprattutto non se ne deve parlare: pena la terroristica accusa di “antisemitismo”!

Non potendola impedire, la presentazione alla Fiera del Libro, appare sul sito del Moked un turpiloquio che a proposito del sionismo non riesce ad andare oltre la petizione di principio: «“Il sionismo – ha proseguito Gattegna – è un elemento fondante dell’identità ebraica contemporanea. Qualsiasi operazione volta a screditare questo assunto risulta così fuorviante e grottesca”». Il volume di Hart non è per nulla «controverso» se non nella testa di r.s. tutta in preda a una esilarante isteria: per essere “controverso” se ne deve accettare la discussione, cosa che con tutti i mezzi si cerca di evitare. Meno male che tuttavia possiamo così autorevolmente sapere non solo come il “sionismo” viene recepito e considerato dai vertici dell’Ebraismo italiano, ma considerando in quali ambiti istituzionali italiani, non ebraici, esso trova credito, diventa ora possibile un chiaro tracciamento di linee. Il testo di Alan Hart, per quanti prima o poi dovranno prendersi la briga di doverlo leggere, se ne vogliono parlare con cognizione di causa, è così pacato nel tono, chiaro nella forma, forte negli argomenti che messo a confronto con pagine ufficiali dell’ebraismo, come quella citata, renderà finalmente possibile nel popolo italiano una chiara comprensione del sionismo e dei problemi che pone alla politica estera italiana. Si va adempiendo lentamente una sorta di profezia contenuta nel libro di Gilad Atzmon, dove si parla di “temporalità”, per intendere cosa potrà succedere quando la gente comune aprirà gli occhi sul “sionismo” e potrà così risorgere quel “mostro” che Alan Hart ha tentato di scongiurare.

È da dire che con l’ANPI la partita non pare affatto chiusa e l’aver impedito una pubblica discussione nella sua sede, per imposizione autoritaria dei vertici, rischia di aprire una contestazione interna fra gli “iscritti” a questa Associazione, piuttosto datata a 70 anni dalla fine della guerra. Non so se esistono ancora Associazioni di Garibaldini, ma siamo su quelle linee di vetustà. Se l’ANPI è fondato su idee di “resistenza”, “liberazione”, solidarietà con i popoli oppressi, opposizione al razzismo e all’occupazione militare, al “colonialismo di insediamento”, alla “pulizia etnica”, e simili, dovrà fare dei bei salti mortali per non vedere ciò che è evidente non solo in Palestina, ma soprattutto sul presunto regime di libertà, ottenuto in Italia grazie alla Resistenza e alla Liberazione, al punto tale da non poter presentare un libro e poterne sostenere un libero, sereno, civile confronto fra persone che il libro lo hanno letto, intendono leggerlo e sentire l’opinione di cittadini finalmente informati e non resi idioti da un controllo capillare di stampa e televisione nelle mani di uno Stato straniero che ne condiziona la politica editoriale. Ma non siano noi degli “iscritti” all’ANPI, non avendo noi l’età per aver potuto fare la “guerra di liberazione”, sarà tuttavia interessante seguire ogni notizia di una associazione che si autodefinisce “sana” (sic!*), come la cucina kosher. Un rifiuto di prendere conoscenza del contenuto di un libro: «“in linea con i valori e i principi dell’associazione, che rifiutano qualsiasi forma di razzismo ed antisemitismo”», significa essersi data la zappa sui piedi in quanto “razzismo” e “antisemitismo” stanno esattamente dentro la linea del proprio fronte, di qua, al proprio interno, e non dall’altra parte! Affidiamo la materia all’arte di un Crozza, che troverebbe qui un magnifico soggetto per far ridere il suo pubblico.

* ANPI Roma says: 5 dicembre 2015 18:29 L'ANPI è una associazione sana, con tante anime e sensibilità diverse e se qualcuno la critica affermando che è di destra significa che non ha a cuore la storia dei Partigiani e della Resistenza. - Fonte: http://www.anpiroma.org/2015/12/comunicato-stampa-presentazione-libro.html#comment-post-message. I commenti sul sito ufficiale dell’ANPI - al netto delle voci critiche ammesse («Da quando l’ANPI è diventata filonazista? Lo stato di Israele prosegue nella sua politica razzista e neonazista che oggi trova consensi fra chi ha lottato per liberarci dal nazismo. Come cambiano i tempi e le idee.» - sono al tempo stesso istruttivi e divertenti. Essi denotano non già della mera ignoranza, fatto in sè fisiologico (siamo tutti ignoranti), quanto l’ostinato rifiuto a prendere conoscenza di tesi che possono mettere in discussione gli ideologismi acquisiti e la malvagità nel non voler consentire ad altri un libero percorso di conoscenza, diverso da quello che gli ideologismi resistenziali vogliono a forza imporre. Ne diamo una silloge: 1) Plauso alla censura ANPI, in nome di presunte “personalità preparatissime”, più di quanto non lo sia Alan Hart: «Ottima decisione. Il libro in questione non è critico della condotta del governo e dei governi israeliani, ma è critico di un movimento, quale il sionismo, che come tutti i movimenti nazionali è stato ed è estremamente eterogeneo. L'anpi non può permettersi di incentivare dibattiti del genere. Se si vuole parlare di sionismo o di conflitto mediorientale esistono personalità preparatissime, non faziose, che possono assolvere a tal compito seriamente». 2) Gratuiti insulti al primo commento, fortemente critico verso l’ANPI, tacciata di “filonazismo”: «G.*** T***, sei soltanto un poveraccio, un rimasticatore imbelle di luoghi comuni spacciati per verità storiche. Fai tanta pena, povero ometto, e cercar di interloquire con uno come te è soltanto tempo sprecato, come infatti sto sprecando il mio...». 3) Non manca il revisionismo storico alla Netanayu: «Vorrei ricordare il fattivo contributo palestinese in favore del nazismo e la creazione di unita' ss formate con la benedizione del Mufti di Gerusalemme». 4) L’asino che dà del somaro agli altri: «E*** B***, mancavi soltanto tu, per istruirci sulla non coincidenza di anti-sionismo con anti-semitismo! Ma che brava! E donde ti deriva tal saggezza? Da un qualche studio serio direi di no, giacché una simile sciocchezza solitamente è appannaggio degli ignoranti; diciamo allora, che se qui c'è una "Svista pesantissima" questa è senz'altro la tua, la quale, ad onor del vero, non trattasi tanto di "svista" bensì di vera e propria ignoranza condita con una buona dose di preconcetti, tipica di coloro che si riducono a strumenti di replicazione delle sciocchezze altrui senza il minimo spirito critico. Temo che sia tu, pertanto, a dover chiedere SCUSA, se non altro a te stessa, perché non credo che vorrai perdonarti una così crassa ignoranza; è brutta cosa convivere costantemente con essa... ». - Salto... È inutile che stia a riportare tutti i commenti e faccia di ognuno il mio commento... Non intervengo nel Forum perché so già quale vespaio solleverei. Chi vuole, ha il link dove andare e seguire eventuali aggiornamenti.

Update:  Finalmente, trovo la dichiarazione di uno degli oratori che avrebbero dovuto dibattere sul libro con sponsorizzazione dell’ANPI. Dell’esistenza di questa dichiarazione ne avevo appreso da una registrazione You Tube. Mancata la sala il 7 dicembre, vi è poi stato un rapido spostamento in Via Ostiense, nella sede della Comunità di Base San Paolo. Di questo spostamento molti che potevano essere interessati a partecipare non ne sapevano nulla. Era per me importante leggere il testo di una simile dichiarazione, che non riporto ma che si legge nel link dato. La dichiarazione di questo signore appare nel sito del Moked, ossia nell’«ovile» di appartenenza di questo signore che veniva indicato come una voce critica dentro lo stesso ebraismo al punto da essere incorso insieme ad altro personaggio in una fortissima contestazione interna all’ebraismo. Questi Signori sono tutti così... estremisti che appena qualcuno di loro lo è un poco di meno passa per una sorta di rivoluzionario, è talmente bistrattato al punto da guadagnarsi la solidarietà dei goy. In realtà, per tutti costoro vale la definizione di “antisionista sionista” coniata e concettualizzata da Gilad Atzmon, il quale resta a mia conoscenza l’Autore che nel modo filosoficamente più approfondita ha trattato il problema della “identità ebraica”. Il testo di Alan Hart resta a sua volta l’analisi più approfondita, aggiornata, organica, attuale del sionismo, dalle sue origini ai giorni nostri. Per questo, da un punto di vista terzo, poteva essere interessante le critiche provenienti dal campo ebraico e/o sionista. Non si trovano però argomenti di nessun genere. E sarebbe stato in effetti difficile argomentare davanti alle analisi implacabili di Alan Hart: solo insulti! Davanti all’invito per un contraddittorio e un confronto sono scappati! Addirittura, il buberiano dice che non sapeva nulla che fosse stato fatto “nella locandina” il suo nome, che dunque appariva “a sua insaputa”. Ed è cosa davvero strana e inesplicabile. Mah! Non si capisce poi se il libro sia stato comunque letto... Se non è stato letto il giudizio di «indegno» deve evidentemente basarsi solo sul titolo: “sionismo, il vero nemico degli ebrei” oltre sulla liquidazione della «natura del curatore e promotore» del libro, dichiarazione piuttosto incompatibile con l’art. 3 della costituzione italiana che riconosce a ogni cittadino eguale dignità senza distinzione di «razza» o “natura”. Viene presunta invece come “degna” la stessa ANPI, scambiata forse con qualche manipolo della famosa «brigata ebraica», che certamente deve essersi poi fatta valere in quel che successe in Palestina nel 1948: la pratica al servizio delle truppe britanniche deve essere servita a qualcosa... Mah! Non deludono mai questi Eletti Signori. Per fortuna, dopo le esplicite pressioni per rinnovare il diniego dell’ANPI, non ha avuto successo l’analogo tentativo presso la direzione della Fiera del Libro, la cui Direttrice, presente all’evento, ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Dopo la richieste di annullare la presentazione - spiega la coordinatrice Silvia Barbagallo - abbiamo verificato il contenuto del libro per accertarci che, al di là delle posizioni rigide sul sionismo e la questione palestinese, non ci fosse nulla di antisemita. Abbiamo invitato i rappresentanti della comunità a confrontarsi con noi perché le critiche ci sono sembrate eccessive e politiche. Abbiamo seguito l’incontro e non c’è stata alcuna allusione razzista. Nulla di offensivo nemmeno nel libro a nostro avviso, e così abbiamo deciso di andare avanti»(Fonte). Dunque, il giudizio di un ente terzo è del tutto diverso da ciò che si pretende... Ma Loro son fatti così, hanno fatto sempre così e sempre così faranno. Il libro di Alan Hart al quale aggiungo quello di Gilad Atzmon lo spiegono assai bene: l’uno sul piano storico documentario, l’altro sul piano filosofico. Puerile la reazione di chi si atteggia a “vittima” dopo il fallito tentativo di chiudere la bocca ad altri. Ma anche questo “vittimismo” del prepotente è nella intima “natura” del sionismo.

Accanto alla accusa di “antisionismo” si accompagna spesso quella di “complottismo”, come per esempio si potrebbe attribuire allo stesso Hart in quei capitoli in cui spiega come si sia giunti alla redazione della “Dichiarazione Balfour”. Nel testo di Hart si pubblicano testi desecretati dopo oltre 50 anni. Si fa certamente uso di ipotesi e congetture. È un modo legittimo e normale di procedere nell’interpretazione storica. La teoria del “complottismo” - se ben ricordo, in attesa di ritrovare la fonte della mia lettura - è stata elaborata propria dalla CIA per screditare tutte quelle posizioni che mettevano in dubbio o contestavano apertamente le tesi immesse nei media proprio dalla CIA o dal Mossad. Recentemente, un giornalista tedesco, Udo Ulfkotte, ha gettato la maschera, pentendosi e rivelando di che natura è fatto il mondo dell’informazione. Ovviamente, non si può che essere “complottisti”, oltre che antisemiti, quando si parla non elogiativamente della politica di Israele e del suo Mossad, per il quale abbiamo in serbo un’apposita scheda di lettura. E comunque il fatto che l’ebraismo italiano si riconosca almeno nella sua componente ufficiale come sicuramente “sionista”, significa per lo meno una chiara assunzione di responsabilità sia dalla parte di chi in tal modo si sente gratificato e onorato, sia dalla parte di chi, non avendo un alto concetto del sionismo, può fondatamente equiparare non antisionismo e antisemitismo, ma sionismo ed ebraismo: ad ognuno il suo!

Riprendiamo, quindi, la nostra ampia analisi, se si vuole anche prolissa, includendo nella lettura sequenziale (siamo a circa pagina 200 su 430) del primo volume (su tre usciti) di Alan Hart anche il testo autorevole e significativo del Moked, ossia una testata virtuale dell’ebraismo italiano. Sembrerebbe proprio che il suo estensore fosse una di quella “ventina” (si noti la punta malcelata di disprezzo, lasciando intendere: erano pochi..., “quattro gatti”) di persone presenti, e quindi 20 - 1 = 19. Ma perché non ci ha concesso lui, autorevolmente, quel “contraddittorio” ardentemente cercato? Lo avremmo in 19 tutti ascoltato, pendendo dalle sue labbra. Se poi era lui la persona che pretendeva dalla Direzione della Fiera che venisse negata anche la saletta (Sala Corallo) pagata per appena un’ora di presentazione, poteva spiegarci il suo buon diritto, la sua pretesa di tappare la bocca a tutti noi, poveri goy: noi, di intelligenza “inferiore”, non riusciamo a capirlo il fondamento costituzionale di un simile diritto. Forse è scritto e spiegato nel Talmud, ma noi non leggiamo né studiamo il Talmud... È da dire che nell’articolo del Moked vi sono due tipi di virgolettato, che fanno intuire la presenza di r.s. fra la Ventina: un virgolettato (“potere ebraico”) di frasi effettivamente pronunciate durante la scarsa ora di presentazione, ma altri virgolettati che devono essere stati spiati o carpiti nei cessi della Fiera e che io o altri ha potuto sentire, quelle in specie che riguardano l’ebraicità dell’editore Zambon (un “ebreo” anche lui) e le battute sul prezzo di copertina (davvero basso del libro), dal quale si sarebbe preteso un ulteriore sconto... Una parte che se non è stata inventata di sana pianta, certamente non è stata recitata durante lo svolgimento ufficiale della Presentazione, consistita per la gran parte in una introduzione da parte dell’editore Zambon (che ha parlato anche di Shlomo Sand, altro ebreo dissociatosi dal sionismo e perfino dall’ebraismo), quindi in un’ampia esposizione del libro di Hart da parte del traduttore Siragusa, e in un breve spazio concesso al pubblico per fare domande o interventi. Ci dispiace veramente tanto che r.s. non sia intervenuto anche lui... Avremmo potuto continuare con lui la discussione anche fuori della Sala, da lasciare essendo scaduto il tempo concesso e pagato... Invece, r.s. ha preferito andarsene e orinare tutto il suo livore nel pagina del Moked, dove si citano virgolettati attribuiti a Gattegna, Capo di tutti gli Ebrei d’Italia, o ai Capi Nazionali e Locali dell’ANPI, che davvero democraticamente, dopo averci conquistato la libertà dalla tirannia del fascismo, hanno pure protetto le nostre anime dai pericolosi contenuti del libro di Hart, da non leggere, ma solo da censurare e mettere all’Indice: il popolo italiano è minorenne e l’ANPI vigila e sorveglia la sua formazione intellettuale e previene le cattive influenze... Non si sa mai... Con cattive letture come quelle di Alan Hart, chissà cosa potrebbe mai succedere a questo povero e idiota popolo italiano... Lo abbiamo “liberato”, ma è capace di cacciarsi nei guai, se noi “parte sana”, non siamo sempre vigili e protettivi su di lui...

Magari, r.s., per loro conto, per conto di Gattegna e l’ANPI, avrebbe potuto darci l’interpretazione autentica, talmudica, di un ampio brano, riportato da Hart, di un testo certamente canonica del sionismo, che forma l’identità dell’ebraismo italiano, a sentire il virgolettato di r.s. Diamo anche noi per esteso il testo di Jabotinsky, citato da Alan Hart, e poi aspettiamo di leggerne l’interpretazione autentica direttamente sul sito del Moked:
Non ci può essere alcuna discussione di riconciliazione volontaria con gli arabi, non ora e non nel prossimo futuro. Tutte le persone ben intenzionate, con l’eccezione di coloro che sono ciechi dalla nascita, hanno capito molto tempo fa l’impossibilita completa di arrivare a un accordo volontario con gli arabi della Palestina per la trasformazione della Palestina da un paese arabo in un paese con una maggioranza ebraica.
Tutti i popolo nativi vedono il proprio paese come la loro casa nazionale, di cui saranno i padroni completi. Essi non permetteranno mai volontariamente un nuovo padrone. Così è per gli arabi. Conciliatori, tra di noi, cercano di convincerci che gli arabi sono una specie di stupidi che possono essere ingannati con formulazioni scaltre dei nostri obiettivi fondamentali. Mi rifiuto categorieamente di accettare questa visione degli arabi palestinesi.
Hanno la psicologia precisa che abbiamo noi. Essi considerano la Palestina con lo stesso amore istintivo e vero fervore con cui ogni azteco ha considerato il suo Messico o un qualsiasi Sioux la sua prateria. Ogni popolo lotterà contro i colonizzatori finché si spenga l’ultima scintilla di speranza di poter evitare i pericoli della colonizzazione e della conquista. I palestinesi lotteranno in questo modo con audacia fino a quando vi sarà una scintilla di speranza.
Non importa che tipo di parole usiamo per spiegare la nostra colonizzazione. La colonizzazione ha il suo significato integrale e imprescindibile compreso da ogni ebreo e ogni arabo. La colonizzazione ha un solo obiettivo. Questo è nella natura delle cose. Cambiare la natura è impossibile. È stato necessario portare avanti la colonizzazione contro la volontà degli arabi palestinesi e la stessa condizione esiste ora.
Anche un accordo con i non-palestinesi (gli altri arabi) spiega lo stesso tipo di fantasia. Considerando i nazionalisti arabi di Baghdad, La Mecca e Damasco, avrebbero dovuto rifiutare di accettare di pagare un prezzo così grave per mantenere il carattere arabo della Palestina.
Non possiamo dare alcun compenso per la Palestina, né ai palestinesi né agli altri arabi. Quindi, un accordo volontario è inconcepibile. Ogni colonizzazione, anche la più ristretta, deve continuare a dispetto della volontà della popolazione nativa. Pertanto, si può proseguire e svilupparsi solo sotto lo scudo della forza che comprende un muro di ferro che la popolazione locale non potrà mai sfondare. Questa è la nostra politica araba. Formularla in altro modo sarebbe ipocrisia.
V. Jabotinsky (1880-1940)
Sia attraverso la Dichiarazione Balfour che attraverso il Mandato, la forza esterna è una necessità per stabilire nel paese le condizioni di governo e di difesa per mezzo delle quali la popolazione locale, indipendentemente da ciò che desidera, sarà privata della possibilità di ostacolare la nostra colonizzazione, amministrativamente o fisicamente. La forza deve svolgere il suo ruolo con intensità e senza indulgenza. In questo, non ci sono differenze significative tra i nostri militaristi e i nostri vegetariani. Uno preferisce un muro di ferro di baionette ebraiche, l’altro un muro di ferro di baionette inglesi.
Se si vuole colonizzare una terra in cui le persone stanno già vivendo, è necessario fornire una guarnigione per quella terra, oppure trovare un uomo ricco o un benefattore che fornisca un presidio a vostro nome. O altro? Oppure, rinunciate alla vostra colonizzazione, perché senza una forza armata che renda fisicamente impossibile qualsiasi tentativo di distruggere o prevenire questa colonizzazione, la colonizzazione è impossibile, non è difficile, non è pericolosa ma è IMPOSSIBILE! Il sionismo è un’avventura di colonizzazione e quindi sta in piedi o cade per un problema di forza armata. È importante parlare l’ebraico, ma, purtroppo, è ancora più importante saper sparare, altrimenti ho finito di giocare alla colonizzazione.
Pulizia etnica del 1948 in Palestina
Al rimprovero trito e ritrito che queste punto di vista è immorale, rispondo: assolutamente falso. Questa è la nostra etica. Non c’e altra etica. Finché ci sarà la minima scintilla di speranza per gli arabi di contrapporsi a noi, non venderanno queste speranze, non per certe parole suadenti né per qualsiasi boccone saporito, perché questi (i palestinesi) non sono una plebaglia, ma un popolo, persone viventi. E nessun popolo fa concessioni così enormi su simili questioni fatali, tranne quando non c’e più speranza, finché abbiamo abbiamo rimosso ogni apertura visibile nel muro di ferro.
Questo è l’elemento fondante dell’ebraismo italiano: «“Il sionismo – ha proseguito Gattegna – è un elemento fondante dell’identità ebraica contemporanea. Qualsiasi operazione volta a screditare questo assunto risulta così fuorviante e grottesca”». Questo l’elemento fondante dell’ANPI, ossequiente alle richieste dell’ebraismo italiano: «“in linea con i valori e i principi dell’associazione, che rifiutano qualsiasi forma di razzismo ed antisemitismo”». Sarebbe interessante avere un’autorevole interpretazione da parte dei vertici dell’ebraismo italiano e dei vertici dell’ANPI del brano “sionista” sopra riportato e da Hart interpretato e commentato. È stata offerta alla controparte ebraica abbia facoltà di contraddittorio, a quanto pare, ma la risposta è stato una sola: censura, denigrazione, diffamazione, non far sapere al popolo o al più grande pubblico...

La novella mediatica continua con nuovi dettagli che noi seguiamo con interesse e anche un poco di divertimento. I nostri commenti sono rigorosamente fondati sui testi di cui diamo ogni volta il link e non siamo assolutamente responsabili del virgolettato che vi si trova. Sappiamo per esperienza quanto esso sia spesso falso e ingannevole. E pertanto diamo con beneficio di inventario quelle citazioni che estraiamo da testi non nostri né da noi controllati... L’unica cosa affidabile è il testo edito di Alan Hart, a cui la pubblicità sia pure malevola, denigratoria, diffamatoria riesce pur sempre utile nella misura in cui produce una maggiore attenzione sul libro e induce un più ampio pubblico a leggere il libro, che è di una straordinaria freschezza e attualità, utilissima a comprendere i conflitti mediorientali di questi giorni, molto più di quanto i media non riescano a farci capire, anzi a non farci capire, perché fanno solo disinformazione, falsificazione, manipolazione. Da condividere l’invito di Diego Siragusa a NON leggere i giornali italiani e  se mai a concentrarsi sulla lettura di pochi buoni libri, come è certamente questo di Alan Hart, del quale bisognerebbe seguire anche la vicenda personale, giacché la scrittura della sua “Storia del Sionismo” molto gli è costata. Le ultime sue notizie è che si è ritirato a vita privata e ha interrotto i rapporti con i suoi Lettori.

Sto proseguendo nella lettura del libro, resistendo alla tentazione di soffermarmi si singole pagine. Vi saranno certamente numerose riletture. Il libro di Hart è una autentica miniera non solo per le informazione che contiene, ma per le fonti alle quali rinvia e che ricevono per questo una chiave di lettura e di ricerca. Per chi desidera diventare uno “specialista” in questo genere di conoscenza il libro di Hart è certamente un buon inizio. Si badi: i singoli documenti sono o possono essere già noti, come pure esistono ormai una serie di libri documentati sui rapporti fra nazismo e sionismo. Ciò che si trova di più in Hart è la capacità di collegarli insieme per dare una visione complessiva di quell’autentico mostro che è il sionismo, che alcuni addirittura mettono sullo stesso piano del nostro Risorgimento. Si comprende perciò il furore che esso suscita da quella estesa parte ebraica ormai interamente identificantesi con il sionismo:  condividendone e portandone tutto il peso della responsabilità criminale, che Hart - amico degli ebrei in quanto persone connotate da una fede religiosa intesa come faccenda privata - tenta disperatamente di scongiurare. Dunque, stiamo procedendo celermente nella lettura, per poi ritornavi sopra. Ma su un punto dobbiamo subito indugiare. Quale? Ma la questione del muftì di Gerusalemme, sulla quale lo “storico revisionista” Netanayu ha inteso riscrivere la storia per far ricadere sui palestinesi tutto la colpa per... L’«Olocausto».

Una piccola premessa per dire che Alan Hart assume senza battere ciglio la versione storica accreditata e ufficializzata sotto pena di pesantissime sanzioni penali, fino a 12 anni di carcere, come nel caso di Horst Mahler, per chiunque osi contestare le verità ufficiali... L’analisi critica della letteratura revisionista (o “negazionista”) non è l’oggetto della ricerca di Hart, ma lo è certamente lo spudorato e sfacciato uso strumentale che il sionismo ha fatto e continua a fare dell’«Olocausto»...  Del resto, come salta subito agli occhi dalla lettura del libro di Hart, la capacità che il sionismo dimostra oltre che di corrompere apertamente con l’offerta di denaro, addirittura di assassinio politico e terrorismo di Stato. e  ancora la capacità di manipolare, occultare, falsificare fonti documentarie e giornalistiche, oltre che di condizionare qualsiasi organo politico e giudiziario, induce al legittimo sospetto di qualsiasi “verità” che venga sottratta, per legge, al vaglio critico e al contraddittorio... Ma torniamo al muftì Amin al-Husseini che si sarebbe incontro con Hitler il 28 novembre 1941 per suggerire lui a Hitler la «soluzione finale». La speranza del mufti era quella di ottenere un’alleanza contro gli inglesi. Di questa speranza o timore (da parte degli inglesi) si parla nel libro di Hart. Dunque, una prima parte dell’infamia è la stessa idea di una associazione o alleanza con i nazisti, che sono il male assoluto per definizione e tale da contaminare irrimediabilmente chiunque in qualsiasi momento ne sia venuto a contatto. Ciò premesso, veniamo finalmente alla pagina 263-64 del libro di Hart. Cosa contiene? Un documento autentico scoperto nell’archivio dell’ambasciata tedesca ad Ankara, in Turchia. Di cosa si tratta? Di un accordo in negoziazione con i nazisti dell’Irgun, l’organizzazione terroristica fondata da Jabotinsky e della quale il nonno di Gilad Atzmon - di cui diremo in altra scheda di lettura - era componente. È importante la data della negoziazione: l’11 gennaio 1941, cioè una data precedente l’incontro del muftì con Hitler. Ne riportiamo il testo come pubblicato da Alan Hart:
...L’istruzione ricevuta da Lubentschik consisteva nel negoziare un accordo direttamente con i fascisti di Mussolini e dei nazisti di Hitler. Non fece alcun progresso coi fascisti, ma nel gennaio 1941 incontrò due importanti nazisti. Uno di loro era Otto von Hentig, il capo del Dipartimento Orientale del Ministero degli Esteri della Germania nazista. Von Hentig era considerato un ”filo-sionista” poiché preferiva inviare gli ebrei in Palestina in cambio di denaro come alternativa al loro massacro. L’esito delle discussioni consisteva nella proposta di Stern di stringere un’al1eanza tra il suo movimento e il Terzo Reich di Hitler.

Il protocollo che stabilisce la proposta di Stern, uno dei documenti più sorprendenti e infami di tutta 1a storia, è stato finalmente scoperto negli archivi dell’ambasciata tedesca ad Ankara, in Turchia. Il documento, datato 11 gennaio 1941, era intitolato:

PROPOSTA DELL’ORGANIZZAZIONE MILITARE NAZIONALE
IRGUN ZVEI LEUMI 
CONCERNENTE LA SOLUZIONE DELLA QUESTIONE EBRAICA IN EUROPA
E LA PARTECIPAZIONE DELL’O.M.N. ALLA GUERRA
A FlANCO DELLA GERMANIA.

Questo documento - era autentico, non un falso - così recitava (i1 corsivo e mio):
«L’ evacuazione delle masse di ebrei provenienti dall’Europa è una precondizione per risolvere la questione ebraica; ma questo può essere reso possibile solo e completamente attraverso l’insediamento di queste masse nella patria deI popolo ebraico, la Palestina, e attraverso la creazione di uno Stato ebraico nei suoi confini storici ...
L’O.M.N., che conosce bene la buona volontà del governo del Reich tedesco e delle sue autorità nei confronti dell’attivita sionista all’interno della Germania e verso i piani di emigrazione sionista, è del parere che:
Potrebbero esistere interessi comuni tra l’istituzione di un Nuovo Ordine in Europa, in conformità con la concezione tedesca e le vere aspirazioni nazionali del popolo ebraico come sono incarnate dall’O.M.N.
La cooperazione tra 1a nuova Germania e una rinnovata ebraicità patriottico-nazionale sarebbe possibile. La creazione dello Stato storico ebraico su base nazionale e totalitaria, vincolato da un trattato con il Reich tedesco, sarebbe nell’interesse di una consolidata e rafforzata futura posizione di potere tedesca in Medio Oriente.
Procedendo da queste considerazioni, l’O.M.N., in Pa1estina, sotto la condizione delle aspirazioni nazionali summenzionate deI Movimento per la Libertà di Israele riconosciute dal Reich tedesco, si offre di prendere attivamente parte alla guerra, a fianco della Germania.
Questa offerta dell’O.M.N., .... sarebbe collegata alla formazione militare e all’organizzazione di manodopera ebraica in Europa, sotto la guida e il comando della O.M.N. Queste unità militari prenderebbero parte alla lotta per conquistare la Palestina, qualora un tale fronte fosse deciso.
La partecipazione indiretta del Movimento di Liberazione di Israele nel Nuovo Ordine in Europa, già nella fase preparatoria, dovrebbe essere collegato a una soluzione positiva del problema ebraico europeo, in conformità con le aspirazioni nazionali sopra citate dei popolo ebraico. Questo rafforzerebbe straordinariamente la base morale del Nuovo Ordine agli occhi di tutta l’umanità
Gli sternisti sottolinearono anche una dichiarazione che era un ritornello costante del loro dialogo con i nazisti: “L’O.M.N. è strettamente legata ai movimenti totalitari dell’Europa nella sua ideologia e struttura.”
Stern ed i suoi colleghi dirigenti, tra cui Shamir, non sarebbero stati a disagio con quello che avevano proposto perché erano consapevoli che il WZO aveva fatto un compromesso con il nazismo attraverso l’Ha’avara Agreement. L’offerta di fare un accordo con i nazisti non fu ripreso ma si trattò una proposta seria fatta da persone illuse.
Nei deeenni successivi, il sionismo, indignato, negò il tentativo degli sternisti di fare accordi con la Germania di Hitler (e i fascisti di Mussolini); e il sionismo riuscì con successo a scoprire la verità su quell’episodio tenuto segreto (e molti altri ancora). I non ebrei che cercarono di dire la verità furono denunciati come rabbiosamente antisemiti; e scrittori ebrei che cercavano di dire la verità furono condannati come ”ebrei-che-odiano-se-stessi”, con l’implicazione di essere persone molto malate.
….

Non erano, però, solo i sionisti che corteggiavano i nazisti. L’allora capo in esilio degli arabi palestinesi, Haj Amin Husseini, il Mufti di Gerusalemme, ebbe delle conversazioni con lo stesso Hitler. In una di queste, il 21 novembre 1941, Hitler disse di avergli detto due cose: la prima, che la Germania non poteva richiedere apertamente l’indipendenza di eventuali possedimenti arabi in mano a inglesi e francesi, perché la Germania non voleva inimicarsi Vichy, che ancora dominava in Nord Africa; la seconda, che quando i tedeschi avevano invaso il Caucaso, avrebbero potuto rapidamente dirigersi verso la Palestina e distruggervi gli insediamenti sionisti. Se Hitler aveva qualche intenzione di onorare la promessa fatta al Mufti, a me non e noto.
Poveri palestinesi! Non era da escludere che sarebbero stati ingannati dai tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale come erano già stati ingannati dagli inglesi alla fine delle prima guerra mondiale e come continuano oggi ad essere ingannati e vilipesi oggi dalla cosiddetta Comunità internazionale con la burla del “processo di pace” che è un modo di dare altro tempo ai sionismo per completare la sua “pulizia etnica della Palestina”, che secondo la normativa ONU - citata da Pappe - equivale ad un vero e proprio “genocidio”, lo stesso che si è inteso condannare con l’«Olocausto», sul quale il sionismo ha tratto la sua legittimazione alla fondazione dello «Stato ebraico di Israele».

WEBGRAFIA ITALIANA
(in ordine casuale)

1. Stefano Zecchinelli,





(Segue)

domenica 29 novembre 2015

La bufala dello scisma islamico e della guerra fra sunniti e sciiti. L’«islamofobia» come forma dell’odierno “antisemitismo”.

Enuncio in forma di tesi quanto dovrebbe essere ampiamente descritto e analizzato. Mi baso - come in questo caso - su trasmissioni demenziali*, abbastanza simili l’una all’altra, ma anche su registrazioni in cui si elabora una strategia di attacco volta a favorire all’interno forme di discriminazioni che oggi sono il vero e proprio “antisemitismo”, considerando che gli “islamici” sono “semiti” in senso proprio, mentre non sono gli israeliani in larghissima di origine europea. La documentazione per uno studio scientifico può essere difficile da raccogliere, ma sono possibili intuizioni sulla base dei dati disponibili e di un metodo che consiste nel ricavare informazioni vere da menzogne subdole o manifeste. La menzogna ha necessariamente rapporti con quella verità che intende occultare: si tratta di smascherare la menzogna per far emergere in tutto o in parte quella verità che si tenta di nascondere.

* Se ne parla poco, o meglio i media e i talk show - come quello in questione dove è sorta una querelle sull’«unico» Stato democratico - tendono a nascondere il pieno coinvolgimento di Israele in tutto ciò che sta succedendo con la sigla dell’ISIS. Il ruolo di Israele è duplice: uno sul piano militare-spionistico-diplomatico; l’altro sul piano mediatico, ispirando ad esempio la teoria dello “scisma religioso” e tenendo sotto controllo tutto il sistema “occidentale” della comunicazione mediatica, interamente o quasi governata da Israele e dalla rete dei suoi “sayanim”. Si trova sul sito Aurora la traduzione di un articolo che contiene una notizia da tempo nota: la cattura di un colonnello israeliano tra le fila dell’ISIS. I siti sionisti si sono già mobilitati per mettere una pezza... Si ricordi, nell’aprile del 2011, la morte misteriosa del povero Vittorio Arrigoni, ricondotta a una mano omicida “salafita”! È del marzo 2011 l’inizio del tentativo di rovesciare il governo di Assad e del progetto di un principato salafita, alleato di Israele... Ci piace essere “complottisti” ed immaginiamo uno scenario dove Vittorio sarebbe stato un cronista assai scomodo, direttamente ubicato nel luogo degli eventi programmati... Ciò che è successo dopo, può forse spiegare quella strana morte, del tutto assurda e inconcepibile se avvenuta per mano palestinese.

Voler spiegare i conflitti del Vicino Oriente come conseguenza di un anacronistico “scisma” religioso, sia pure islamico, è in realtà un’astuzia propagandistica per nascondere i veri fattori, gli interessi geopolitici ed economici, che da parecchio tempo gravitano sulle risorse economiche ed energetiche del mondo arabo. L’ISIS è una creazione dell’«Occidente» (metto sempre tra virgolette un’espressione che mi culturalmente, linguisticamente e spiritualmente estranea, ma che va per la maggiore) al pari di Israele – una creatura del defunto Impero britannico – e gli Stati del Golfo, vere e proprie pompe di benzina, che più che petrolio pompano il sangue dei popoli arabi venduto all’«Occidente» e alle sue multinazionali per i famosi Trenta Denari, o forse di più. È certo che le ricchezze pompate dagli Emirati non vanno a beneficio dei popoli del Vicino Oriente. Già questo fatto basterebbe a dare una spiegazione plausibile delle guerre in corso, “terrorismo” incluso, che non ha nulla a che fare con la religione in sé, che quando esiste ed è sinceramente sentita e praticata è soltanto spiritualità: non ne hanno neppure un briciolo quei “cattolici” o “cristiani” che tali si professano, mostrando nei talk show tutta la loro miseria intellettuale e spirituale. Del resto, crocefisso o non crocefisso, da togliere o lasciare nelle aule scolastiche, a me sembra che di cristianesimo, in forma cattolica o non cattolica, non se ne veda nemmeno l’ombra. A occhio e croce mi sembra che gli islamici, i musulmani, abbiano un maggiore attaccamento alla loro fede religiosa di quanto non ne abbiano dei presunti cristiani e cattolici, che dopo il Concilio Vaticano II non sanno più perché mai Cristo sia salito in croce, chi ce lo abbia messo e perché mai sia sia morto... Probabilmente, quanti danno addosso ai musulmani in ragione della loro fede si sentono orfani della propria e pretendono che nessuno nel mondo possa avere una fede religiosa da porre come base della propria vita e sistema di valori. Da qui una feroce “islamofobia”*, che è il vero “antisemitismo” dei nostri tempi, e che disgraziatamente non protegge per nulla da quello che viene chiamato “terrorismo”, ma se mai lo potenzia e ne fa il gioco... Se proprio si vuole scendere in dettaglio occorrerebbe andarsi a studiare il wahbismo o cosa sono i salafiti, e simili forme religiose, che al pari dell’ISIS vengono finanziati e strutturati dagli stessi Emirati... Solo loro che hanno i soldi per finanziare la costruzione di moschee, o di università - come quella islamica di Lecce - e sono solo loro gli unici ad aver interesse, nelle moschee (se è così), a reclutare “terroristi” che vadano a combattere contro capi di governi “laici” come Assad, i quali a differenza degli Emiri hanno interesse a fare il bene dei loro popoli... I libici difficilmente raggiungeranno con la presunta “democrazia”, - fatta loro importare a forza ovvero da noi “occidentali” esportata per il loro bene - quella pace e quel benessere di cui godevano con Geddafi... Gli studiosi di politologia, anzi di polemologia, non dovrebbero avere difficoltà nel distinguere i fattori endogeni di un qualsiasi conflitto bellico dalla forma ideologica con la quale esso decide di presentarsi... potrebbe essere la religione ma anche lo sport o qualsiasi altra cosa... Confondere forma e sostanza, abito e corpo che l’abito contiene, significa fare disinformazione, manipolazione ossia ciò che i talk show, i giornali, i telegiornali, esattamente fanno... Chi ci tiene a non essere manipolato e preso per i fondelli ed ha amor proprio, farebbe bene a tenerne conto, salvo poi ad assumere le opzioni politiche che meglio crede... Se dobbiamo metterci in guerra l’uno contro l’altra, ahimé! che sia, ma guardandoci negli occhi e senza ingannarci l’un l’altro nell’interesse di un terzo che ci manipola entrambi...

* Update. - Non so se si tratta di una pronta polemica a distanza con quanto noi scrivevamo, ma vi è una corrispondenza speculare con i nostri argomenti. Noi diciamo: “islamofobia” = “antisemitismo”, nel senso che oggi, anno 2015, non esiste quell’antisemitismo che poteva aversi nel XIX in ben diverso contesto. Allora l’«antisemitismo» era perfino lecito e benemerito come oggi può esserlo, a seconda dei gusti e delle opzioni politiche, l’«antifascismo», «l’antinazismo», l’«anticomunismo»... Oggi l’«antisemitismo» e la professione di “antisemitismo” è un titolo di reato penale per il quale si va in carcere. Purtroppo, la definizione di “antisemitismo” è così generica da essere diventata una sorta di “lettre de cachet” di cui si avvalgono solitamente le comunità ebraica per far fuori i loro avversari o personaggi non graditi o non proni alla stessa comunità ebraica o allo stato di Israele. La tesi che tento di illustrare è che se per davvero la dizione “antisemitismo” può e deve avere un contenuto di “fattispecie concreta” questa andrebbe individuata in ciò che comunemente si indica con il termine “islamofobia” che ha in primo luogo una connotazione soggettiva nel senso che solitamente sono “semiti” in senso proprio i cittadini di religione islamica in buona parte immigrati da paesi “semitici” ed in secondo luogo si traduce in veri e proprio atti discriminatori e intimidatori, in insulti e contumelie, in quei “discorsi di odio” che sono in sé problematici nella misura in cui è giuridicamente arduo la penalizzazione normativa di un mero sentimento... Sarebbe la fine del diritto, in senso tecnico, secondo la tradizione occidentale, se si pretendesse di sanzionare o premiare i sentimenti umani, di solito trattati dalla morale, dall’etica, dalla religione, dalla psicologia in tutte le sue branche fino alla psicopatologia. Il direttore del Foglio si atteggia a vittima per dire che non si può parlare male dell’Islam... È esattamente il contrario: se ne parla e come, ed a parlarne male sono i signori del Foglio e gli Altri Signori al cui servizio si pongono... A Napoli si dice: “ca nisciuno è fesso...”. La propaganda israeliana per manipolare e influenzare gli sprovveduti cittadini europei ha dimensioni industriali, dispone di un apparato di strutture, mezzi, uomini impressionante... Ed è assolutamente priva di scrupoli!

Sono un “pagano”, ma sto meglio con i musulmani che con ebrei o cristiani
Per fortuna, esiste una contro-informazione come questa intervista, dove è ben descritto il deplorevole dilettantismo, perfino criminale, dei consueti “talk show” dove passa la propaganda nostrana. Non mi soffermo sugli “eroi” di queste trasmissioni: basta indicarli in blocco come una massa di incompetenti nel più benevolo giudizio che se ne possa dare. Più spesso, sono alla ricerca di pubblicità elettorale, o di visibilità commerciale, o perfino inclini a una smodata vanità. Non sarebbe forse neppure serio per li osserva e ascolta parlarne eccessivamente. Si rischia di indignarsi fortemente e questo è un male, una caduta rispetto a quella serenità di giudizio e di stile che non si dovrebbe mai perdere.

Le mie tesi sono dunque:

- Non esiste nessun “scisma islamico” come spiegazione dell’attacco “occidentale” alla Siria del legittimo governo di Assad;
- Assad non è il “feroce dittatore e macellaio” che i media tentano di accreditare senza documentazione e senza analisi;
- Assad non è in nessun caso peggiore del monarca “dittatore” del Qatar, al quale oggi il nostro ministro degli esteri è andato a baciare le pantofole;
- Geddafi ci aveva avvertito di quel “terrorismo” (allora si chiamava “Alqaida”, ed rimane sempre lo stesso cambiando solo il nome, oggi ISIS) che oggi effettivamente ci ritroviamo;
- La sorte di Assad era stata decisa da Usa e Israele e dalle multinazionali insieme con quella di Assad: erano in uno stesso pacchetto neocon.
- Il marzo 2011 in Siria dovrebbe essere studiato e conosciuto meglio: sono abbastanza certo, o almeno sono propenso a credere, che tutti le “pacifiche” e “democratiche” manifestazioni per attuare “cambi di governo” sono opera di servizi segreti “occidentali” e di agenzie specializzate. I “media”, dalle agenzie di informazioni ai nostri talk show, sono parte integrante di questa unitaria forma di guerra “ideologica”, volta a disinformare e manipolare i teledipendenti e quelle sprovvedute persone che vengono raggiunte dai microfonisti dei talk show.
- Ad essere attaccato non è l’«Occidente» ma l’Islam... Si invertono i ruoli fra aggressore e aggredito... La via della pace va cercata ponendo innanzitutto fine ad una aggressione da parte dell’«Occidente» che dura per lo meno da un secolo (1916: patti segreti per la spartizione delle spoglie dell’Impero Ottomano; aspirazioni tradite per l’unità del mondo arabo) e quindi iniziando una politica di riconciliazione, di risarcimento, di collaborazione e cooperazione paritaria in campo economico, sociale, culturale, religioso, politico...

lunedì 23 novembre 2015

25. Letture: Martin HEIDEGGER: Quaderni neri 1931/1938 [Riflessioni II-VI], Bompiani 2011. - Annotazioni in margine a un convegno in corso

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È uscito, in traduzione italiana, nello scorso ottobre un volume di cui molto si è discusso e polemizzato, almeno dentro la cerchia delle persone non solo interessate alla filosofia, ma al quadro politico culturale uscite dalla secondo guerra mondiale. Giova ricordare che Martin Heidegger è nato nel 1889 e morto nel 1976. Ho comprato il volume direttamente al convegno che si è tenuto oggi al CNR, in Roma, nei pressi dell’Università La Sapienza. Dirò qualcosa, ma solo qualcosa sul convegno, nelle misura in cui se ne può dire qualcosa. Update: in intervento di Angelo Bolaffi, ebreo, sul convegno heideggeriano di una curatrice, ebrea e sionista ma la cui carriera accademico qualcosa deve alla sua occupazione heideggeriana. È divertente la faida interna al mondo ebraico in relazione alla filosofia di un grande filosofo, piaccia o non piaccia, come Heidegger: ci riserviamo a dopo una più attenta lettura dell’intervento di Bolaffi. Se Heidegger era per davvero - e a noi interessa poco - “nazista” e “antisemita” - ma sarebbe interessante una buona volta sapere cosa significa -, il problema non è di Heidegger ma di quelli che si professano “filosofi” o pensano di avere un qualche rapporto con la “filosofia” e soprattutto con la libertà di pensiero e quindi di poter filosofare. Se nel loro tempo Heidegger, Schmitt, Jünger - le tre stelle più brillanti del firmamento - pensarono di aderire, almeno nel 1933-36, al nazismo, non resta che prenderne atto e considerare più seriamente le ragioni di un diffuso e qualificato consenso ad un regime che succedeva allo sfasciume di Weimar. Non pare che sia intelligente risolvere la questione dicendo che le stelle non erano stelle ma tremolanti ed effimeri lumini.

Del resto, la questione di quale fosse il tipo di nazismo di Heidegger, se “spirituale” o non spirituale, o anche quello di Schmitt, o il tipo di fascismo di Evola, il problema che emerge chiaramente è che all’interno di un qualsiasi movimento o partito politico vi è sempre dibattito sulla auto-definizione o sulla caratterizzazione che nei fatti il Movimento o il Partito ha o che se ne vuole dare. Esistono perciò tanti “nazismi”, “fascismi”, “comunismi”, “socialismi”, ecc., quanti se ne vogliono teorizzare. Altra questione è la concreta prassi di un movimento in una precisa epoca storica e in un determinato Paese. Ma ecco che il problema diventa di natura prettamente storica se il dato movimento ha cessato di esistere. Se però di questo cessato movimento si vuol fare demonologia e non storia, gli “studiosi” dimostrano di essere condizionati dalla ideologia e dal regime del loro tempo presente non meno pesantemente di quanto Heidegger, Schmitt, Jünger non lo fossero nel loro tempo e nel loro Paese. Quanto poi all’«antisemitismo» è utile ricordare che il termine nel XIX sec. aveva un significato diverso da quello odierno. Allora era perfino possibile costituire apposite Associazioni e Circoli Antisemiti fin nell’intestazione. Oggi sarebbe un reato penale. Ma allora era una situazione giuridica creata dalla rivoluzione francese con l’equiparazione e assimilazione degli ebrei nella restante società. Se ne occupò già Marx nella sua “Questione ebraica”. La propaganda odierna, di matrice israeliana, tende poi a confondere tre fenomeni assolutamente distinti, concettualmente e cronologicamente: l’antigiudaismo di natura prevalentemente teologico, l’antigiudaismo di natura giuridica e l’antisionismo di natura politica. Mescolando, diventano antisemiti Dante Alighieri e San Francesco d’Assisi. Ed i Vangeli stessi sono da bandire in quanto testi antisemiti...

I convegni accademici hanno loro peculiari gestazioni che qui non interessa investigare. Sembra volersi dire che si coglie occasione dell’uscita dei discussi «Quaderni neri» per una considerazione dell’intera sterminata opera di Heideger in circa 100 volumi editi. È però un fatto che l’input sia stato dato e tuttavia sia dato dal presunto o scontato “antisemitismo” del filosofo tedesco nonché della sua acclarata adesione al nazionalsocialismo. A mio avviso, si tratta di banali pregiudizi che testimoniano se mai della mancanza di libertà intellettuale e spirituale degli “specialisti” che accademicamente parlando hanno campato e campano sui suddetti 100 volumi, che per quanto ci riguarda disperiamo di riuscire a leggere tutti, trascurando interpreti e Sekundärliteratur. Senza poi contare una fortissima pressione esterna di carattere interamente politico. Non per nulla la curatrice del Convegno, una pasionaria del sionismo, si trova sotto attacco dei suoi sodali sionisti, che non vanno tanto per il sottile e le rimproverano una sostanziale e clamorosa ambiguità, che anche noi per altri versi rileviamo. Ci chiediamo, infatti, se la stessa oggi non manderebbe in carcere proprio Martin Heidegger per il reato di manifestazione del pensiero, o meglio di un pensiero non ammesso, non consentito. L’Autore è però morto nel 1976 e non corre di questi rischi, a meno di non volergli fare un processo post mortem come ai tempi di papa Formoso.

Il convegno è su Martin Heidegger, ma Carl Schmitt è subito avvertito come il convitato di pietra... Iniziali citazioni piuttosto fumose, riprese da un volume edito da Taubes (Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen), ma poi nell’ultima relazione della Sessione viene saltata la parte su Carl Schmitt per indugiare oltre ogni senso su un personaggio di Musil, Meingast ma in realtà L. Klages (1872-1956), del quale pare si sia occupato l’Ufficio di Rosenberg, che pure si era interessato nel gennaio del 1937 di Carl Schmitt, con un ciclostilato di 14 pagine, dove veniva passata in rassegna tutta la produzione di Carl Schmitt per pronunciarne infine la “scomunica” dal punto di vista dell’ortodossia nazista, che Rosemberg stesso riteneva di rappresentare... Avevo tentato una domanda su questa curiosa economia di trattazione, ma la mia alzata di mano non è stata accolta... Senza disarmare, a “evento” pomeridiano concluso, mi avvicino al Relatore per chiedere conto della omissione e soprattutto se aveva cognizione di un documento dell’Ufficio di Rosenberg proprio su Carl Schmitt... La mia sensazione è stata che ne ignorasse l’esistenza e alla mia offerta di portaglielo ha declinato: “no, non ne voglio più sapere di questa roba...”. Mah! Questo il grande convegno “scientifico”... Ritornerò mercoledi mattina, per sentire Gianni Vattimo, ed avere con lui qualche scambio di idee, in margine al convegno stesso, se possibile. Infine, una nota sulla curatrice, alla quale rivolgo una domanda pubblica: Non trova Ella, Illustre Signora, una qualche incoerenza con la sua professione di “filosofa” e la sua posizione sulla legge “antinegazionista” con la quale anche in Italia si vuole mandare in galera persone che hanno la sola colpa di pensarla diversamente sa lei in materia di libertà di pensiero, di ricerca, di insegnamento... Le cui “opinioni” – senza nessunissima altra fattispecie concreta di reato – vengono da lei rubricate a “reati”? Prendendo la tradizione filosofica “occidentale” da Talete in poi, come può un “filosofo” negare ad altri la “libertà” del “pensare”? Non mi dichiaro conoscitore professionale di Heidegger, ma in Heidegger si trova una simile illiberalità? Ed Heidegger stesso con le leggi vigenti in Germania non sarebbe oggi compagno di cella di un certo Horst mahler, che sconta 12 anni di carcere per aver scritto un... libro?

In realtà, l’uscita del “Quaderni Neri”, a 40 anni dalla morte del suo Autore, deve aver scatenato una faida interna fra i cultori professionali di Martin Heidegger, schiacciati dai condizionamenti ideologici della politica culturale del governo tedesco, rappresentata dalla presenza della Ambasciatrice, alla quale avremmo voluto chiedere le statistiche ufficiali delle persone penalmente perseguite dal 1994 ad oggi e da me stimate per difetto in 200.000. Non siamo particolarmente interessati a seguire la faida, ma lo siamo invece a leggere l’opera sterminata di Heidegger in oltre 100 volumi. Dei rapporti fra Carl Schmitt e Martin Heidegger si hanno poche tracce. L’unico rapporto che avevo potuto indicare, a chi mi chiedeva al riguardo, era la persona di un comune allievo: Günther Krauss, soprattutto allievo di Schmitt, ma che aveva frequentato qualche lezione di Heidegger, di cui ricordava la voce cavernosa... Si sapeva poi di una lettera di Heidegger presente nel Nachlass schmittiano... Questa lettera è stata pubblicata lo scorso anno, 2014, nel Band II, della Nuova Serie di Schmittiana, inaugurata dal compianto Piet Tommissen. Dal nostro computer ne facciamo “omaggio” ai nostri Cinque Lettori come “contributo esterno” al Convegno heideggeriano ancora in corso. La corrispondenza si trova alle pagine 181-183 ed è preceduta da una introduzione di Reinhard Mehring. Insieme alla trascrizione e alla traduzione, che sarà fatta in seguito, si fornisce direttamente l’immagine, che per una migliore leggibilità, si può ingrandire, cliccandoci sopra.

IX. Martin Heidegger

Heidegger und Schmitt wurden vor 1933 schon als komplementare Autoren wahrgenommen, die sich wechselseitig erhellten. Leo Strauss und Helmut Kuhn waren beide von der Philosophie Martin Heideggers (1889-1976) stark beeindruckt. Bald schrieben mit Herbert Marcuse und Karl Löwith auch zwei enge Heidegger-Schüler kritische Auseinandersetzungen mit Schmitt. Vor und nach 1933 finden sich aber wohl keine direkten persönlichen Kontakte. “Ging nicht zu Heidegger”, notiert Schmitt am l. Dezember 1927 - im Erscheinungsjahr des Begriffs des Politischen wie von Sein und Zeit - ins Tagebuch, als Heidegger in Bonn einen Vortrag über “Kants Lehre vom Schematismus und die Frage nach dem Sinn von Sein” hält. Nur im Jahre 1933 gab es wohl einen politischen Schulterschluss und eine persönliche Begegnung. Im Schmitt-Nachass befindet sich ein Widmungsexemplar der Rektoratsrede über Die Selbstbehauptung der deutschen Universität (191)

191 Martin Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität. Rede gehalten bei der feierlichen Obernahme de Rektorat der Universität Freiburg i. Br. Am 27.5.1933, Breslau 1933 (RW 265-24812); Schmitt besaß (RW 265-28106) auch die um Heideggers Rektoratsbericht ergänzte Neuausgabe von 1983 (Martin Heidegger. Die Selbstbehauptung der deutschen Universität - Das Rektorat 1933/34, Frankfurt 1983) mit Besitzvermerk (,.erhalten um Pfingst (Mai) 1983”). Der gesamten Text hat Schrnitt damals erneut durchgearbeitet und mit Randbemerkungen versehen.

mit der Widmung: ,,Mit deutschem Gruß/Heidegger” (RW 265-24812). Darunter steht ein Besitzvermerk “Carl Schmitt/Juli 1933”. Demnach erfolgte die Sendung der Rektoratsrede Wochen vor Heidegger Brief (RW 265-5839) vom 22. August. Das Widmungsexemplar ist mit Bleistiftunterzeichnungen ohne Randbemerkungen durchgearbeitet. Schmitt antwortete auf Heideggers Sendung der Rektoratsrede mit der gerade erschienenen Neufassung seines Begriffs des Politischen von 1933. Heidegger antwortete dann seinerseits auf Schmitts Gegengabe mit seinem Brief vom 22. August 1933, den Schmitt höchstwahrscheinlich am 27. August beantwortete, notierte er doch einen Antwortbrief stenographisch unter Heideggers Brief. Die Notizen konnten durch Hans Gebhardt weitgehend entziffert werden. Eine Berliner Begegnung am 8. oder 9. September 1933 ist wahrscheinlich. (192) Schon im Wintersemester 1933/34 (193) und dann WS 1934/35 setzte Heidegger ich dann umgehend kritisch mit Schmitts Begriff des Politischen auseinander, weshalb es nicht zu weiteren Kontakten kam. Schmitt las nach 1945 zahlreiche Schriften Heideggers. Nachgelasene Materialien zu Heidegger und dessen Schülern (Lowith u. a.) finden ich zahlreich. Der Abdruck von Heideggers Brief in der Heidegger-Gesamtausgabe (GA Bd. XVI, 156) berüsichtigt Schmitts Marginalien nicht und lost einige Abkürzungen auf.

192 Dazu vgl. Reinhardt Mehring,  9. September 1933 im Kaiserhof? Martin Heidegger und Carl Schmitt  - nach neuer Quellenlage, in: Merkur 67 (2013), 73-78; ders., Heideggers Winter Semester 1934/35, in: Zeitschrift für Ideengeschichte Jg. 7, Heft l (2013), 118- 121.
193 Martin Heidegger, Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, in: Heidegger-Jahrbuch 4 (2009), S. 53-88.

l. Martin Heidegger an Carl Schmitt
Brief, hs., LAV NW, Abt. Rheinland, RW 265-5839
Freiburg i. Br. 22. August [19]33.

Sehr verehrter Herr Schmitt!

Ich danke Ihnen für die Ubersendung Ihrer Schrift, die ich in der zweiten Auflage schon kenne u.[nd] die einen Ansatz von der großten Tragweite enthält.

Ich wünsche sehr, mit Ihnen darüber einmal mündlich sprechen zu konnen.

An Ihrem Zitat von Heraklit hat mich ganz besonders gefreut, daß Sie den Βασιλεύς nicht vergessen haben, der dem ganzen Spruch erst einen vollen Gehalt gibt wenn man ilio ganz auslegt. Seit Jahren habe ich eine solche Auslegung mit Bezug auf den Wahrheitsbegriff bereit liegen - das ’έδειξε und ’εποίησε, die im Frag.[ment] 53 vorkommen.

Aber nun stehe ich selbst mitten im πόλεμος u. Literarisches muß zurücktreten.

Heute möchte ich Ihnen nur sagen, daß ich sehr auf Ihre entscheidende Mitarbeit hoffe, wenn es gilt, die juristische Fakultät im Ganzen nach ihrer wissenschaftlichen und erzieherischen Ausrichtung von Innen her neu aufzubauen.

Hier ist es leider sehr trostlos. Die Sammlung der geistigen Kräfte, die das Kommende herauffuhren sollen, wird immer dringender.

Für heute schließe ich mit freundlichen Grüßen

Heil Hitler!
        Ihr Heidegger

2. Carl Schmitts stenographische Randnotiz eines Antwortbriefes
27/8 33

Sehr verehrter Herr Heidegger,

vielen Dank für Ihren Brief. Auch ich würde mich sehr freuen, mit Ihnen mündlich sprechen zu können. Wie groß meine Freude ist (über Ihre Wahrnehmung zum πόλεμος bitte ich Sie aus den beiliegenden Andeutungen meiner kleinen Antrittsvorlesung (194) zu entnehmen. Auch meinen Willen zu jeder Art von Mitarbeit dürfen Sie darin erkennen. Ich weiß, um wie viel es geht. Ihre Rede (195) war ein großartiger Aufruf. Ob ihn die Vielen verstehen, ist gleichgültig. Ich kenne auch me Macht des [.........] WilIen , der Vergleich als eines [....] Modus, das bewundert [......]

194 Die Kölner Antrittsrede Reich - Staat - Bunde wurde erst* 1940 in Carl Schmitts Positionen und Begriffe, Berlin 1940; S. 190-198 veröffetllicht, in diesem Band S. 42-51.
195 Rektoratsrede.

* Dal nostro Computer ne estraiamo subito la nostra traduzione, avvertendo l’opportunità di rileggere quello stesso testo ora come interlocuzione con Heidegger. Il testo che segue è illustrato con le pagine tratte dai Tagebücher di Schmitt, finora usciti, dove compare il nome Heidegger. Per leggerle distesamente ingrandire sull’immagine.

CARL SCHMITT
22.
REICH - STATO - FEDERAZIONE (*)
 (1933) 


Prolusione tenuta all’università di Colonia il 20 giugno 1933.

La materia di insegnamento del diritto pubblico partecipa con particolare immediatezza alla vita dei popoli e degli Stati. Da due decenni essa è perciò toccata dallo stesso rapido sviluppo e movimento, che ha afferrato tutto il nostro mondo. Questa materia anche nella sua particolarità scientifica si trova nella più grande vicinanza esistenziale con il destino dei popoli e degli Stati. Contrapposizioni di opinioni dottrinali appaiono subito come contrapposizioni politiche. Non c’è nessun risultato scientifico della dottrina del diritto pubblico che non possa essere subito utilizzato dall’una contro l’altra parte, e la lotta degli argomenti passa immediatamente oltre nella lotta politica dei popoli e dei partiti. Così questa materia riveste attualità e interesse in un modo spesso assai pericoloso e fatale per la vita.

* La questione centrale di questa lezione, il rapporto fra i concetti di Reich, Stato e Federazione nella storia costituzionale tedesca, io l’ho trattata più volte in conferenze del semestre invernale 1932/33 e della primavera 1933 sotto l’impressione delle esperienze del processo Prussia-Reich davanti all’Alta Corte di Stato in Lipsia, in particolare nel mio discorso per la festa di fondazione del Reich del 18 gennaio 1933 nell’Alta Scuola per il Commercio in Berlino. La prolusione in Köln dà la redazione definitiva, stabilita attraverso le esperienze della mia collaborazione alla legge sul governatore del Reich del 7 aprile 1933. Cfr. il resoconto in Westdeutschen Beobachter, Colonia, 21 giugno 1933.

Ogni studioso di una simile materia, che è consapevole di questa particolarità e della responsabilità scientifica connessa, conosce anche questo pericolo. Taluni hanno sperato per un momento che sarebbero ritornate presto le condizioni garantite del periodo prebellico e si potesse riguadagnare la quiete non pericolosa che allora regnava almeno in apparenza. Essi scambiano la sicurezza di una situazione politica del tutto determinata con l’oggettività ed il realismo del pensiero su questa situazione. Già oggi è così che tutti i tentativi di svignarsela in una sicurezza priva di problemi ci appaiono come un’abdicazione, come una rinuncia alla scienza del diritto pubblico. La fuga dalla problematica del tempo in un passato non problematico o in una purezza priva di riferimenti e di oggetto, non ha nemmeno più l'apparenza della scientificità in sé. Il sentiero che porta lontano dalla vita concretamente presente può condurre solo là dove dei morti parlano su ciò che è morto.

Se io qui parlo intorno al Reich, allo Stato e alla federazione, uso tre parole, di cui ognuna è in sommo grado nello stesso tempo forte di storia e piena di presente, ma che io tratto intenzionalmente ed espressamente come concetti. Da ciò potrebbe sorgere l’equivoco come se io volessi parlare in una falsa astrazione di vuote forme e menare avanti la triste materia, che con parola di rimprovero si indica come “giurisprudenza dei concetti”. Ci sono ad ogni modo molti simili concetti astratti in un cattivo senso. Ma ci sono anche altri concetti pieni di vita e di sostanza, e fa parte proprio del compito della scienza del diritto pubblico riconoscere e contrassegnare i concetti autentici. Nella lotta politica i concetti e le parole divenute concettuali sono tutt’altro che un vuoto suono. Essi sono espressione di contrapposizioni elaborate in modo penetrante e preciso e costellazioni amico-nemico. Così inteso, il contenuto della storia mondiale accessibile alla nostra consapevolezza per tutte le epoche è diventato una lotta intorno a concetti e parole. Naturalmente non sono cose vuote, ma parole e concetti carichi di energia e spesso armi assai acuminate. Vuote e astratte in un senso cattivo sono esse solo quando il campo di lotta e l’oggetto della disputa vengono meno e sono divenute non interessanti. Io vi ricordo la lotta intorno alla formula “per grazia di Dio”; oppure ad esempio le riflessioni che si sono fatte nell’inverno 1870/71 circa il fatto se al presidente della federazione del Reich bismarckiano si dovesse dare il titolo di ”imperatore dei tedeschi”, “imperatore della Germania” o “imperatore tedesco”. Ricordo inoltre l’inevitabile disputa sulle cosiddette formalità in tutti i grandi processi politici intorno alla questione di chi sia capace di esser parte davanti ad un supremo tribunale di Stato o davanti ad una corte internazionale, chi legittimato attivamente, autorizzato all’intervento ecc. Apparentemente piccole deviazioni nella redazione concettuale possono qui essere di una portata pratica incalcolabile. In questo senso del tutto pratico di una concettualità intesa concretamente appare tutta la storia tedesca di passione dell’ultimo mezzo secolo come la storia dei tre concetti “Reich, Stato, federazione”.

Il concetto di Stato ha distrutto il vecchio Reich. Se Pufendorff nel XVII secolo definisce il Reich come un monstrum, egli con ciò vuoI dire che non è uno Stato. Il concetto di Stato e di sovranità statale gli appare giuridicamente comprensibile e senz’altro plausibile. Il Reich invece è divenuto incomprensibile e giuridicamente privo di senso, proprio perché ha vinto il concetto di Stato. Sul territorio del Reich tedesco si sviluppano Stati e la superiorità giuridica-decisionista del concetto di Stato di fronte al concetto di impero appare alla formazione concettuale della scienza giuridica così grande che il concetto di Stato fa saltare dall’interno il Reich. Dal XVIII secolo in poi non c’è più assolutamente il diritto del Reich, ma ancora solo il diritto dello Stato. Il Reich è concepito ancora solo come uno Stato composto da Stati o un “sistema di Stati”. Lo scritto del giovane Hegel dell’anno 1802 sulla ”Costituzione del Reich tedesco” incomincia con la frase lapidaria “la Germania non è più uno Stato”. Il fatto che non è più uno Stato è il motivo del perché essa “non può più essere compresa”. Lo Stato tedesco ha distrutto il vecchio Reich tedesco. Il concetto di Stato era il peculiare nemico del concetto di Reich. Il diritto diventa diritto dello Stato e diritto statale. Perfino la filosofia diventa filosofia dello Stato ed il più grande filosofo, Hegel, fugge dal Reich divenuto incomprensibile alla volta di un concetto di Stato divenuto tanto più illuminante.

Per la storia dell’idea di Reich è di grande importanza il fatto che allora sorsero subito anche due nuovi imperi, il controimpero francese di Napoleone I e l’impero sostitutivo della monarchia asburgica; quello espansivo ed offensivo, questo difensivo e conservativo. Ma è altrettanto importante che intorno a questo stesso periodo dopo il 1806 si sviluppa la vera e propria statualità della Prussia in modo tanto più chiaro ed intenso, mentre il resto, la cosiddetta terza Germania, diventava una federazione di Stati. Non dimentichiamo mai che tutto il cosiddetto diritto pubblico federalistico del XIX secolo con tutte le sue antitesi di federazione di Stati e Stato federale, diritto dei popoli e diritto dello Stato, trattato e costituzione è sorto nell’epoca della federazione del Reno. Gli Stati tedeschi, che in quanto Stati hanno scardinato il Reich, dichiarano alla loro uscita il 10 agosto 1806 che essi fondano “una federazione adeguata alle nuove situazioni” a protezione della sovranità statale e dell’indipendenza dei membri della federazione e sotto il protettorato e la garanzia dell'imperatore dei francesi. La letteratura di diritto pubblico e costituzionale del periodo della federazione del Reno costruisce subito un sistema del Reich. E che genere di Reich! Da Carl Salomo Zachariä (“Il diritto pubblico degli Stati della federazione del Reno e degli Stati federali”, Heidelberg 1810, p. 129) è dipinto il quadro seguente: tutti gli Stati europei si dividono in due classi, in quelli che “sono membri della grande associazione europea di Stati, al cui vertice sta l’imperatore dei francesi, in parte come protettore contrattuale della federazione, in parte come capo della famiglia imperiale, e in Stati che non sono entrati in questa associazione europea di Stati”. Fra gli Stati della prima classe, cioè nella grande “associazione” europea “di Stati” dell'imperatore dei francesi, appartengono gli spagnoli, gli Stati italiani, l’Olanda, la Svizzera, il ducato di Varsavia e gli Stati federali del Reno. Gli altri Stati europei sono o ad essa alleati o amici: la Prussia, l’Austria e la Danimarca; oppure sono nemici della federazione europea: l’Inghilterra ed i suoi alleati federali. La federazione del Reno appare come parte di un sistema imperiale a guida francese, al quale è aggregato un sistema federale (con Russia, Austria, Prussia). L’epoca dell’egemonia francese fu troppo breve perché si fosse potuto sviluppare un compiuto diritto costituzionale, sia del Reich sia della federazione. Ma anche questo breve intermezzo di sei anni rivela il rapporto fra i concetti di Reich, Stato e federazione, caratteristico per lo sviluppo tedesco dell’ultimo secolo. La federazione degli Stati tedeschi è stata sempre orientata contro il Reich tedesco. Il concetto di federazione era qui sempre l'alleato del concetto di Stato contro il concetto di Reich. Il senso della federazione, cioè protezione, garanzia e guida dei membri della federazione si rivolge contro il Reich tedesco. Il titolare egemonico della federazione si trova nella federazione del Reno fuori della Germania e il dualismo tipico di tutto il successivo federalismo tedesco è qui il dualismo di Francia e Germania, la forma peggiore e più triste di un dualismo, perché nega e sopprime l’unità tedesca in quanto tale.

La federazione di Stati, il “Deutscher Bund”, realizzata nel congresso di Vienna, fu per un mezzo secolo (dal 1815 fino al 1866) la forma dell’unità politica della Germania. Anche qui l’idea di federazione aveva il senso di una garanzia della statualità contro il Reich. Stato e statualità sono anche qui contrapposizioni concettuali polemiche contro il Reich. Il Reich era andato in rovina per il fatto che non era uno Stato; la federazione degli Stati tedeschi con la sua garanzia della statualità altresì non vuole essere un Reich. Al grido generale del popolo tedesco di un Reich essa vuol dare un surrogato compromissorio, ma in netta alternativa fra diritto dei popoli e diritto dello Stato solo come associazione di diritto internazionale. La titolarità della federazione si divideva in una compresenza di tre grandezze: le due grandi potenze guida della Prussia e dell' Austria, ma il cui territorio si trovava in parte fuori della federazione e la cosiddetta terza Germania, il cui Stato più importante, la Baviera, poteva pretendere per sé il fatto che essa era uno Stato puramente tedesco, situato dentro il territorio della federazione e la cui pretesa di guida, oggi non più molto comprensibile, era dovuta a questa situazione; analogamente per taluni aspetti al sovrappeso sproporzionato dell’Ungheria nella monarchia asburgica, nella quale tutte le restanti nazioni stavano con almeno un piede fuori della monarchia. Il dualismo tipico della Federazione tedesca è un dualismo dell' egemonia, che porta in un conflitto le due grandi potenze dell'Austria e della Prussia.

La vittoria prussiana del 1866 ha eliminato questo dualismo, ha spinto in disparte il regno sostitutivo austriaco ed ha introdotto lo Stato federale “Deutsches Reich”. La costituzione di questo “Secondo Reich” parla ancora - per riprendere la felice espressione di Carl Bilfinger - «la lingua della federazione». Si indica un «legame eterno” dei principi; è nominato come organo principale un “Consiglio della federazione” (Bundesrat), mentre la rappresentanza democratica di tutto il popolo tedesco si chiama Consiglio del Reich (Reichstag), ecc. Il caratteristico dualismo è qui di duplice natura: un dualismo della costruzione costituzionale, che cerca di unire i due principi contrapposti di monarchia e democrazia, e un dualismo di Prussia e Reich, dietro il quale si trova il dualismo di Stato singolo e Stato collettivo, conservatorismo e democrazia, con una divisione interamente dualistica delle competenze (legislazione del Reich ed esecutivo dello Stato) e con un concetto intermedio come “sorveglianza del Reich” in quanto correlato di una simile divisione di competenze. La scienza del diritto pubblico si sforza di gettare un ponte sopra il dualismo. Ma essa però non è stata in grado di superare la vera e propria disgrazia, cioè l’antitesi di Federazione di Stati e Stato federale, diritto dei popoli e diritto dello Stato, trattato e costituzione. Del resto, nei primi anni, dopo il 1867, il timore davanti al concetto di “Reich” non era ancora assai diffuso, poiché si ricordava ancora che all'essenza del Reich apparteneva il non essere uno Stato. Così diceva Georg Meyer nel 1868: «L’espressione Reich è usata in impieghi così molteplici che propriamente si può solo dire che esso indica un grande complesso di Uinder con parti diverse e fino ad un certo grado autonome». Bluntschli dà una definizione particolarmente interessante nella sua “Logica dello Stato” nel 1872. Vorrei qui ricordarla perché essa non identifica semplicemente il Reich con lo Stato federale ed a torto è stata del tutto dimenticata. Bluntschli parla di un “Reich federale tedesco”, di uno «Stato principale in quanto creatore della federazione, senza la quale il Reich non può esistere» e definisce: «Il Reich federale tedesco è nella sua essenza un’unione in congiunzione alla potenza principale ed originaria della Prussia, ma assurto ad una presentazione collettiva comune del popolo tedesco».

La costituzione di Weimar del 1919 ha abolito l’egemonia della Prussia ed al tempo stesso ha lasciato continuare ad esistere il Land di Prussia in tutta la sua estensione. Essa non ha trovato nessun nuovo principio costruttivo come sostituto della precedente costruzione egemonica ed ha commesso l’errore di costruzione catastrofico abbastanza spesso discusso negli ultimi anni. Essa abolisce il fondamento federale, anche statal-federale; essa non parla più nemmeno “il linguaggio della federazione”, ma evita la parola “federazione” e non dice più “Consiglio della federazione” (Bundesrat) ma “Consiglio del Reich” (Reischsrat). Il forte incitamento di Friedrich Naumann nella commissione costituzionale di Weimar di chiamare da adesso in poi il Reich tedesco (Deutsche Reich) “Federazione tedesca” (Deutscher Bund) non fu presa sul serio. Per questo la dottrina pubblicistica della costituzione di Weimar nei primi anni dopo il 1919 partiva dal fatto che ormai fosse stata abolita la statualità dei Länder e che la Germania non fosse più uno Stato federale. Ma il conflitto fra il Reich e la Baviera dell’anno 1923 decise la questione in modo favorevole all’altra tendenza di diritto statal-federale guidata dalla Baviera e cosÌ divenne dottrina dominante che anche la costituzione di Weimar sia una costituzione da Stato federale. Con il colpo prussiano del 20 giugno 1932 il Reich ha tentato di “incassare” la Prussia e di superare in questo modo il dualismo fra Prussia e Reich. Questi avvenimenti sono ancora nel ricordo di tutti, cosicché io non devo diffondermi al riguardo. Solo ad un punto vorrei accennare, perché mostra il significato pratico delle costruzioni pubblicistiche: l’Alta Corte di Stato nella sua nota sentenza del 25 ottobre 1932 ha basato la sua decisione interamente sulla
costruzione del diritto statal-federale. Essa conferma i concetti del “governo regionale autonomo”, la pretesa di un governo regionale parlamentare secondo l’art. 17 comma 2 come un diritto fondamentale, il diritto alla propria politica; essa conferma la costruzione federalistica di un abisso incolmabile fra il governo di un Land e il governo del Reich, partendo dal fatto che mai da parte del Reich possa essere rimosso o perfino insediato un governo della federazione. Essa fa tutto questo non in qualche modo sulla base del tenore letterale della costituzione di Weimar, ma soltanto sotto l’impressione di una determinata teoria della costituzione e della formazione dei concetti di diritto statal-federale, niente altro che il risultato finale di un’evoluzione del concetto di Stato orientata contro il concetto di Reich, e parimenti del suo alleato, un concetto federalistico di Federazione, che dal punto di vista del diritto costituzionale è stato il vero garante della statualità dei Uinder e della non statualità del Reich.

È questo, in un breve schizzo, il significato politico dei concetti di Reich, Stato, federazione e del tiremmolla lungo un secolo intorno alle definizioni di federazione di Stati e Stato federale. Per noi oggi la questione decisiva è: come si comportano i tre concetti l’uno con l’altro? E soprattutto: come dobbiamo noi comportarci verso di essi nella situazione presente? Ognuno dei tre concetti ha per noi tedeschi la sua peculiare forza ed efficacia. Le nostre rappresentazioni del Reich sono radicate in una grande storia tedesca millenaria, la cui forza mitica sentiamo tutti. Su ciò non ho bisogno qui di parlare oltre. Ma c’è presso di noi anche un mito dello Stato, e la parola Stato ha pure un’eccezionale forza e tradizione storica che va assai oltre il significato meramente oggettivo della materia. Infatti, la Prussia, il tipo di uno Stato compiuto, proprio sulla base delle sue peculiarità specificatamente statuali ha avuto la forza di produrre l'unificazione statal-federale del Secondo Reich. La parola “Stato” eccita il nostro sentimento tedesco, da quando il grande re tedesco nell’estrema disperazione della guerra dei sette anni, dopo la battaglia di Kolin,
pensò "che un principe non può sopravvivere al suo
Stato", e pensando in questo modo al suo Stato trovò davanti
al suicidio il sostegno spirituale e la salvezza. « Qui si
destava il mio attaccamento (attachement) allo Stato »,
scrive egli nel settembre 1757 a sua sorella, margravia di
Bayreuth, in una commovente e importante lettera, decisiva
per la storia del concetto di Stato. Al di là dell' elemento
sentimentale la parola e il concetto di Stato hanno
poi avuto una crescita nell'elemento metafisico, specialmente
da quando la nostra ultima grande filosofia culmina
nella filosofia dello Stato di Hegel. D'altro canto in al tra

maniera, ma non con minore forza è divenuta poi in ultimo
anche la parola federazione una portatrice di grandi ricordi
e di energie politiche. Essa è vitale a partire dalla storia
medievale delle leghe di città tedesche e leghe di cavalieri
e dalle federazioni di ogni specie fino alle tracce di pensiero
federale nei movimenti federativi della nostra gioventù
tedesca. Perfino nell'utilizzazione abusiva della designazione
"Volkerbund" la traduzione tedesca ufficiale, ma
inesatta di "Société des Nations", ha potuto concedere alla
formazione ginevrina triste per le orecche tedesche ancora
un suono idealistico.
Ma per questo motivo - cioè perché ognuno dei nostri
tre concetti è per noi più di uno schema concettuale
astratto o una vuota formula - la scienza giuridica tedesca,
se vuole restare consapevole della sua responsabilità
politica e della realtà della nostra attuale situazione - deve
sempre considerare con attenzione quanto è facile far giuocare
in modo pericoloso l'un concetto contro l'altro.
Quanto spesso nella nostra storia tedesca fino a quella più
recente si è ripetuto questo abuso! Tanto l'efficacia e la
portata politico-pratica dell'impiego singolo di ognuno di
questi tre concetti quanto il loro reciproco rapporto sono
spesso cambiati. Sotto la profonda impressione delle esperienze
del nefasto processo PlUssia contro Reich davanti
all'Alta Corte di Stato in Lipsia dipendeva da me il porre
in risalto in tutta la sua asprezza proprio il legame pericoloso
che il concetto di "Stato" nella nostra storia giuridica
ha contratto con il concetto di "federazione". Su questo legame
di un pensiero avente ad oggetto lo Stato e il pensiero
avente per oggetto la federazione si basa il grande pericolo
politico di un federalismo, del quale molti, che parlano
a favore del Reich ed a favore della federazione e contro
lo Stato, non sembrano assolutamente siano consapevoli.
Anche il concetto di "Stato federale" è soltanto un
concetto di compromesso oggi superato da lungo tempo e
che risente di questa origine storica. Superando le diffe

renze fra federazione di Stati e Stato federale è riuscito ad
una specie determinata di pensiero federalistico di evitare
che il Reich divenisse uno Stato effettivo. Questo è l'elemento
decisivo. Con l'allettante motivazione che il "Reich"
è qualcosa di infinitamente più elevato e superiore allo
"Stato" il Reich doveva essere meno e restare meno di uno
Stato. Questo è il pericolo politico del quale io volevo parlare.
A questo pensiero federalistico è riuscito di portare il
grande problema dell'unificazione nazionale della Germania
sempre di nuovo nella camicia di forza della domanda:
federazione di Stati o Stato federale? A questo stesso federalismo
è riuscito di disconoscere al Reich il suo diritto allo
Stato ovvio all'epoca d'oggi ed alla piena statualità, sebbene
nella situazione storica data e nella realtà politica data
del nostro tempo non possa esserci nessun Reich senza
forte Stato. A questo federalismo che si richiama al
"Reich" è riuscito nello stesso tempo di imporre nei confronti
del Reich la statualità autonoma degli Stati singoli e
dei Lander come una caratteristica essenziale dello Stato
federale a spese di un sicuro potere del Reich che decida il
caso di conflitto. lo penso questo, quando dico che i concetti
di Stato e federazione si sono uniti nella nostra storia
contro il concetto di Reich. Tutte le numerose pretese costruite
"dal punto di vista del diritto statal-federale", le
istanze e le argomentazioni dei Lander e delle frazioni del
Landtag nel processo davanti all' Alta Corte di Stato durante
l'inverno 1932 mi hanno svelato la pericolosità di
questo federalismo. I tentativi del federalismo bavarese nell'ultimo
inverno andavano nella stessa direzione e cercavano
di adoperare un concetto federalisticamente-federati vamente
falsificato di Reich per conservare ai Lander la
loro propria statualità a spese della statualità del Reich.
Simili sforzi malgrado l'impiego della parola "Reich" si
trovano praticamente del tutto nella direzione di uno sviluppo
che a partire dal 1923 è divenuto decisivo anche nel
pensiero pubblicistico. Essi hanno portato in Germania ad

renze fra federazione di Stati e Stato federale è riuscito ad
una specie determinata di pensiero federalistico di evitare
che il Reich divenisse uno Stato effettivo. Questo è l'elemento
decisivo. Con l'allettante motivazione che il "Reich"
è qualcosa di infinitamente più elevato e superiore allo
"Stato" il Reich doveva essere meno e restare meno di uno
Stato. Questo è il pericolo politico del quale io volevo parlare.
A questo pensiero federalistico è riuscito di portare il
grande problema dell'unificazione nazionale della Germania
sempre di nuovo nella camicia di forza della domanda:
federazione di Stati o Stato federale? A questo stesso federalismo
è riuscito di disconoscere al Reich il suo diritto allo
Stato ovvio all'epoca d'oggi ed alla piena statualità, sebbene
nella situazione storica data e nella realtà politica data
del nostro tempo non possa esserci nessun Reich senza
forte Stato. A questo federalismo che si richiama al
"Reich" è riuscito nello stesso tempo di imporre nei confronti
del Reich la statualità autonoma degli Stati singoli e
dei Lander come una caratteristica essenziale dello Stato
federale a spese di un sicuro potere del Reich che decida il
caso di conflitto. lo penso questo, quando dico che i concetti
di Stato e federazione si sono uniti nella nostra storia
contro il concetto di Reich. Tutte le numerose pretese costruite
"dal punto di vista del diritto statal-federale", le
istanze e le argomentazioni dei Lander e delle frazioni del
Landtag nel processo davanti all' Alta Corte di Stato durante
l'inverno 1932 mi hanno svelato la pericolosità di
questo federalismo. I tentativi del federalismo bavarese nell'ultimo
inverno andavano nella stessa direzione e cercavano
di adoperare un concetto federalisticamente-federati vamente
falsificato di Reich per conservare ai Lander la
loro propria statualità a spese della statualità del Reich.
Simili sforzi malgrado l'impiego della parola "Reich" si
trovano praticamente del tutto nella direzione di uno sviluppo
che a partire dal 1923 è divenuto decisivo anche nel
pensiero pubblicistico. Essi hanno portato in Germania ad un sistema costituzionale che può essere giustamente caratterizzato come “Stato federale dei partiti”. Di fronte a questo il Reich era spinto sulla difensiva. Per il mantenimento della necessarissima unità politica dipendeva dai poteri eccezionali, dai poteri del presidente del Reich secondo l’art. 48 della costituzione di Weimar. Come sempre nella nostra precedente storia vi era anche qui l’unione dei concetti di Stato e federazione, che fu dannosa al Reich tedesco, in federazione di Stati, come in Stato federale, in un sistema monarchico-dinastico come in uno pluralistico-partitico. Ma all’inizio del nostro anno 1933 il risultato era che la Germania divenne una formazione senza sicura guida politica e sempre ancora malata del più pericoloso ed intimo dualismo, quello fra Reich e Prussia. Il colpo prussiano del 20 luglio 1932, che aboliva il governo Braun-Severing, aveva unito in una sola mano precisamente il governo del Reich ed il governo prussiano, ma non poteva mantenere costantemente l’unione di Reich e Prussia.

Solo il nuovo Stato della rivoluzione nazionale, sorto con la direzione politica di Adolf Hitler, ha risolto il problema vecchio di secoli con la legge sul governatore del Reich del 7 aprile 1933. I governatori del Reich sono sottocapi del capo politico Adolf Hitler. Essi esercitano il potere del Land in nome del Reich. Il parlamentarismo dei Länder, la cattiva radice dello Stato federale dei partiti, è abolito. Con una frase lapidaria esso è colpito nel cuore: “Le votazioni di sfiducia del Landtag contro presidenti e membri di governi del Land sono inammissibili”. Anche questo ci sembra oggi già superato. Così a fondo questa soluzione del grande problema ha abolito la vecchia contrapposizione di Reich, Stato e federazione. Non è un semplice, felice colpo di mano, non una mera improvvisazione, ma una soluzione costruttiva ben pensata fino in fondo, che si trova solo nel più stretto contesto con la costruzione complessiva della nuova unità. Questa poggia su tre colonne: sull’apparato statale delle autorità, sull’organizzazione del partito che regge lo Stato e su un ordinamento sociale corporativo. Una direzione politica assai energica, che proviene da un partito che regge lo Stato, porta le più svariate parti e organizzazioni nel loro giusto rapporto. La forma anonima e camuffata di esercizio del potere politico del precedente Stato federale dei partiti è superata. Responsabilità politica e onorabilità politica sono adesso di nuovo possibili, dopo che nel sistema dello Stato costituzionale liberale erano divenute cose prive di senso ed impossibili. La nostra lezione ha tentato di esporre in una breve ora sulla scorta di tre concetti una problematica vecchia di un secolo. Quando vengono discussi i rapporti reciproci dei tre concetti, deve necessariamente originarsi un vuoto ed astratto trastullo concettuale, se sono proprio solo vuoti e astratti concetti quelli che in tal modo si legano l’uno con l’altro o si contrappongono l'uno all'altro. Ma i concetti di Reich, Stato e federazione sono anche come concetti una parte della enorme realtà politica di cui essi parlano. Non sono etichette nominalistiche, finzioni normativistiche, parole ad effetto meramente suggestive. Sono portatrici dirette di energie politiche e fa parte della loro reale forza che esse siano capaci di una formazione concettuale giuridicamente convincente.

Per questo anche la lotta intorno ad esse non è una disputa intorno a vuote parole, ma una guerra di immane realtà e presenza. È compito della scienza riconoscere questa realtà oggettivamente e guardarla con occhio sicuro. Se essa adempie al suo dovere verso la verità scientifica, allora vale anche per la lotta scientifica ciò che Eraclito ha detto della guerra: che essa è padre e re del tutto. Ma vale poi anche la continuazione meno spesso citata, ma non meno significativa di quella frase spesso citata della guerra come padre di tutte le cose. Poi questa lotta scientifica avrà in sé la sua verità e giustizia interna e produrrà qualcosa che in altro modo con mezzi umani non è producibile. Dopo infatti essa mostra come Eraclito prosegue: gli uni come dei, gli altri come uomini, gli uni essa rende liberi, gli altri schiavi. Questa è la suprema gloria anche della nostra scienza. Essa ci rende liberi, se noi superiamo la lotta. Questa libertà non è la libertà fittizia degli schiavi, che ragionano nelle loro catene, essa è la libertà di uomini politicamente liberi e di un popolo libero. Non c'è nessuna libertà scientifica in un popolo dominato dallo straniero e nessuna lotta scientifica senza questa libertà politica. Restiamo quindi anche qui consapevoli del fatto che ci troviamo nell’immediato presente del politico, cioè della vita politica intensa! Mettiamocela tutta per superare anche scientificamente la grande lotta, per non essere schiavi ma tedeschi liberi.

Update: è un articolo che appare sulla “Stampa”, dove si dice che si deve “smettere di leggere” un filosofo, Heidegger, per il suo “antisemitismo”, che non si sa bene cosa poi sia... Viene da pensare che da Dante Alighieri in poi, passando per ogni Paese, moltissimi pensatori, scrittori, poeti siano tutti da mettere all’Indice.

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(Segue)