mercoledì 28 dicembre 2016

Gilad Atzmon: «La risoluzione 2334 dell’Onu non sarebbe mica male per Israele».

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Gilad Atzmon
Questo articolo esce sei ore fa in Come Don Chisciotte ed ha preceduto il nostro interesse a pubblicarlo su Civium Libertas. Il nostro collaboratore ad hoc è ancora impegnato nella traduzione di un altro testo di Atzmon. Niente di male e non ci dispiace affatto che CDC ci abbia preceduto. Potendo i suoi articoli venire ripresi con indicazione della fonte, lo facciamo ben volentieri ringraziando la Redazione e il suo traduttore. L’interpretazione di Atzmon è effettivamente acuta. Potrebbe essere questa l’ultima occasione per la ”salvezza” e il mantenimento dello Stato di Israele, ossia la creazione dei Due Stati al posto di Uno Solo all’interno del quale scoppierebbe il regime di apartheid. In altre occasioni Atzmon ha sostenuto che la soluzione giusta sarebbe lo “smantellamento” dello Stato ebraico, termine che lascia intendere una procedura giuridica pacifica e regolata dal diritto, non uno scenario di violenza come invece viene strumentalmente inteso nel termine ”distruzione”, usato dalla propaganda israeliana come il più grande di tutti i mali della storia, proprio i politici israeliani si impegnano attivamente nella balcanizzazione di tutto il Medio Oriente, mettendo a rischio la pace mondiale. Che poi dietro a tutto questo vi sia una sceneggiata per ingannare l’opinione pubblica mondiale, può essere, ma è cosa che diranno gli eventi futuri. Spesso si viene a sapere e capire cià che oggi bolle in pentola solo molto tempo dopo. Noi siamo solo spettatori degli eventi, non artefici e protagonisti, se non in misura piccolissima.

DI GILAD ATZMON

gilad.co.uk

Il 23 dicembre il  Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC)  ha votato per adottare una risoluzione (Reso 2334) che condanna le attività di insediameno di Israele, definendole illegali, e chiedendo che  Israele “cessi immediatamente e completamente tutte le sue attività di insediamento nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est”.

Per una volta, gli Stati Uniti hanno deciso di unirsi al resto dell’umanità e non hanno posto il loro veto alla risoluzione. Il messaggio è chiaro: se il sionismo era la promessa di rendere il popolo ebreo come gli altri, è stato un fallimento colossale. Lo Stato ebraico e le sue lobby sono un popolo come nessun altro. 14 su 15 membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU hanno votato contro Israele e gli Stati Uniti si sono astenuti. Per dirla più chiaramente, il Consiglio di Sicurezza ha denunciato il modo in cui lo stato ebraico tratta il popolo palestinese. Se Israele fosse uno stato qualsiasi, come inizialmente aveva promesso il sionismo, avrebbe preso un minimo di tempo per riflettere sulla risoluzione e prendere in considerazione le misure necessarie per modificare la sua immagine pubblica. Ma come chiunque si sarebbe aspettato, lo stato ebraico ha fatto esattamente il contrario, si è messo a fare il bullo e ha deciso di punire il mondo intero.

Nella sua prima reazione a questa risoluzione il PM israeliano,Netanyahu, ha detto ai suoi che il comportamento del Consiglio di Sicurezza era stato “vergognoso”. Ha anche aspramente denunciato la scelta del Presidente Obama di astenersi. Immediatamente si è  formata una lunga lista di smidollati deputati americani,  che si sono affrettati a versare lacrime per questo caos e a promettere che metteranno un rimedio a questo danno. Netanyahu ha incaricato gli ambasciatori di Israele in Nuova Zelanda e in Senegal di “tornare in Israele per consultazioni”. Una visita del PM ucraino a Gerusalemme, programmata per la settimana prossima, è stata annullata. Netanyahu ha anche ordinato di chiudere il rubinetto di  shekel ( la valuta israeliana) e non pagare alcune istituzioni delle Nazioni Unite.

Ma le cose potrebbero essere un po’ più complicate di quanto sembrano a prima vista. Se Uno Stato (formato da due nazioni) è una minaccia per l’esistenza di Israele, cioè per lo Stato ebraico, allora la recente risoluzione delle Nazioni Unite è, ovviamente, un ultimo tentativo di far rivivere la soluzione Due Stati. Di fatto questa risoluzione legittima l’esistenza dello Stato ebraico entro i confini precedenti al 1967 e offre a Israele una pratica e pragmatica possibilità di sciogliere i suoi insediamenti in Cisgiordania. Le banche e le imprese possono cominciare a smettere le loro attività nei territori occupati e i militari israeliani in servizio nei territori occupati saranno sottoposti al controllo del diritto internazionale. Netanyahu, a quanto pare, ha fatto un gran polverone per questa risoluzione, ma è lui che adesso può giocarsela tutta, infatti gli si sta offrendo l’opportunità di rompere la situazione di stallo con i palestinesi. Netanyahu lo sa. Il presidente Obama lo sa e anche il presidente-eletto ne sarà informato appena smetterà un momento di mandare Twitt.

Ma se questa risoluzione fa comodo agli interessi della nazione e alla sicurezza di Israele, perché Netanyahu si è messo a fare il bullo? La risposta è semplice.  Bibi è un populista. Anche lui, come il presidente-eletto Trump conosce bene come sono fatti i suoi elettori. Lui sa quello che cercano nei loro leader, sia gli ebrei che gli israeliani: Vogliono che il loro RE celebri l’eccezionalismo ebraico. Vogliono che il loro padrone mostri disprezzo verso i goyim. Il PM Netanyahu sa molto bene che David Ben Gurion (il leggendario primo ministro israeliano) respinse l’ONU, con la famosa frase  “non importa cosa dicono i goy (gli altri popoli, i non ebrei), l’unica cosa che conta è quello che fanno gli ebrei.”

Non è affatto chiaro se Ben Gurion disprezzasse veramente i goy. Comunque era amato dal suo popolo per il modo in cui proponeva la sua immagine. Bibi segue la stessa regola. Agli occhi del pubblico, è sprezzante verso le Nazioni Unite e verso tutti i goy, in generale. Ma, in effetti, sa bene che questa risoluzione è essenziale per l’esistenza stessa dello Stato ebraico. Forse è l’ultima possibilità di abbassare il tiro di un troppo pretenzioso sogno sionista e di adattarlo alla realtà terrena.

Permettetemi di rassicurarvi, non sono io a stare con il fiato sospeso, si tratta – in realtà –  degli israeliani che non stanno perdendo l’occasione di perdere un’occasione.
Gilad Atzmon

martedì 13 dicembre 2016

Gilad Atzmon: «Il quotidiano “Israel National News” contro Gilad Atzmon».

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Gilad Atzmon
Strana coincidenza. L’articolo anti Atzmon in Israele appare dopo un mio privato scambio di opinioni, quasi subito interrotto per incompatibilità di vedute. In una messaggistica privata con un ebreo italiano, o ex italiano, residente in Tel Aviv, mi ero azzardato a dichiarare la mia amicizia e condivisione di vedute, con Gilad Atzmon, un ebreo o ex-ebreo,  come lui dice di se stesso. Per un non-ebreo, estraneo e assai lontano dalla mentalità ebraica, è quasi un obbligo dichiarare di avere almeno qualche amico ebreo (o trovarsene disperatamente uno che possa garantire per lui), per non sentirsi dare dell'antisemita, appena manifesti anche inconsapevolmente una qualche divergenza di vedute, o un minimo accenno critico non già alla politica contingente dello «Stato ebraico di Israele», ad esempio sulla sua politica forestale, che ha estirpato ulivi secolare per trapiantarvi pini forestieri, volendo rendere la Palestina simile alla Svizzera, ma abbia riserve direttamente sulla legittimità dello “Stato ebraico di Israele”, che nasce sulla “Pulizia etnica della Palestina”, come documento un altro ebreo israeliano, Ilan Pappe, pure inviso ai sionisti, ma assai meno di quanto lo sia Atzmon, che ha addirittura individuato la figura dell’«antisionista sionista», ossia dello pseudo sionista che resta intimamente razzista. Da Tel Aviv invece, dove era nato, Gilad Atzmon andò via all'età di 30 anni, ritenendo fosse quella una terra ingiustamente sottratta ai Palestinesi... Questo atteggiamento di timore diffuso di un goym davanti a un ebreo ha radici lontane, che vanno alle leggi istitutive del tribunale di Norimberga e a tutta una legislazione e politica mediatica che continua fino ad oggi e che è un vero e proprio terrorismo ideologico, volto a instillare nelle generazioni che ignare si succedono un vero e proprio permanente senso di colpa e di disprezzo per i propri antenati. Se vogliamo, la politica verso i migranti, ossia l’obbligo incondizionato di accoglierli, risponde a uno stesso disegno di distruzione della identità europea. Il discorso è lungo e non possiamo certamente affrontarlo in una prefazione, ma credo che sia sufficiente per dare una spiegazione non banale al perché addirittura un Gilad Atzmon venga tacciato di “antisemitismo”... Proprio lui! Addirittura lui! La sua vera ed unica colpa è quella di essere uscito, ed aver respinto la narrativa sionista e non essersi lasciato intimidire dal “potere ebraico” che domina inconstrato il mainstream e la politica estera degli Usa e dei suoi vassalli europei, fra cui l'Italia, dove gli articoli del tal Gerstenfeld, cacciatore di antisemiti, vengono tradotti in italiano su una testata di propaganda sionista, da un gay ebreo, trasferitosi in Tel Aviv. Altra osservazione: ridicolo e allucinante al tempo stesso l’operazione volta a far accettare agli Stati una definizione normativa, finalizzata alla sanzione penale, di ciò che si deve intendere per “antisemita” e quindi perseguire con il carcere e l'ostracismo, con l'emarginazione e la morte civile. Un lontano e previsto effetto del piano Morgenthau - guarda caso un ebreo - e della famigerata Direttiva JCS 1067?

AC
GILAD ATZMON
Il quotidiano “Israel National News” contro Gilad Atzmon

«Perfino gli ebrei possono essere antisemiti!» È il titolo di un articolo apparso su Israel National News - un foglio di coloni e ultra ortodossi israeliani – scritto da tale Manfred Gestenfeld, allo scopo di criticare il mio lavoro di una vita. Mi pare inutile aggiungere che esser sottoposto a tali campagne denigratorie, promosse da giornali ultra nazionalisti come questo, sia proprio il genere di pubblicità che ricerco. Vorrei comunque far notare a Manfred Gestenfeld che il titolo da lui scelto per il suo articolo è leggermente fuorviante. Intanto perché gli ebrei non sono semiti e poi,  per quanto mi riguarda, ho smesso di ritenermi ebreo almeno da vent'anni.

In questo suo articolo, cogliamo Gestenfeld nel disperato tentativo di dipingere il sottoscritto vostro affezionato come un antisemita. Ma proviamo ad analizzare una ad una le argomentazioni che adduce a questa sua tesi. Sono sempre stato considerato un fiero oppositore dei negazionisti dell’Olocausto e proprio per questo, non riesco a sopportare coloro che negano quei genocidi perpetrati  proprio in nome della Shoah.  Proprio come quello che sta avendo luogo in Palestina, per esempio (vedi link).

Suppongo che - nella visione di Manfred  Gerstenfeld - il mio supporto alla causa palestinese equivalga ad essere antisemita. Ma se consideriamo il fatto che anche i palestinesi siano semiti*, il  mio appoggio alla loro causa, sembra essere davvero la migliore forma  possibile di filo semitismo. Vorrei, con tutto il dovuto rispetto, prendere in esame le preoccupazioni di Gerstenfeld in merito all’Olocausto e alle teorie che lo negano. Credo che la Storia, intesa sia come ricerca empirica che  come disciplina scientifica, non possa evitare di esimersi anch’essa da un inevitabile processo di revisione. E questo processo riguarda anche l’Olocausto, proprio per non renderlo alieno dalle logiche che presiedono lo studio della Storia e dalla sua stessa veridicità. La Shoah, intesa nella sua corrente accezione, si vede ridotta ad una dottrina dalle venature dogmatiche, come fosse una vera e propria religione. Sostenere che anche la Shoah e la sua storia debbano essere sottoposti a un processo di revisione, non equivale in alcun modo a negarne la veridicità di fondo, ma equivale solamente ad integrare questo specifico paragrafo del passato nel più grande e generale libro della storia della umanità. In questo modo esso diventa una vera lezione etica invece che solo una ennesima, liturgica celebrazione della sofferenza ebraica. Questo cambiamento nella visione che abbiamo dell’Olocausto, sarà in grado di evitare che gli ebrei cadano negli stessi errori commessi lungo il corso della propria storia, errori che ci hanno portato a guardare alla storia del popolo israelita come a un continuo olocausto.

* Sono perfettamente cosciente del fatto che la parola Semita si riferisca per lo più ad un insieme di lingue piuttosto che ad un determinato ceppo etnico.

Goym Must Obey
Gerstenfeld,  il quale scrive su un organo di stampa che rappresenta la voce dei coloni israeliani di destra, lamenta il fatto che nei miei scritti io “attacchi” perfino alcuni ebrei non sionisti.  In un articolo intitolato “I goym devono solo obbedire”, Atzmon accusa gli ebrei non sionisti di pretendere di stabilire cosa “i non ebrei, compresi i palestinesi, debbano o non debbano fare e chi debbano o non debbano stare ad ascoltare”. Ma il linguaggio di Gerstenfeld manca completamente di precisione. Io non sono solito “attaccare” la gente. Semmai è Israele, che ha l’abitudine di attaccare violentemente coloro che considera i suoi nemici. In realtà, non faccio altro che limitarmi a criticare coloro che credo siano in errore.  La mia unica arma non è altro che la penna. In ogni caso, la citazione di cui sopra, è vera, è mia, e io la sostengo in pieno. Credo fermamente che le politiche perseguite dalla lobby ebraica internazionale siano disastrose e qualcosa di estremamente pericoloso, pericoloso soprattutto per gli stessi ebrei.

Sono assolutamente critico verso tutte le forme di politica portate avanti dalla comunità ebraica, che siano di destra o di sinistra, che siano sioniste o “anti”. Sfido tutta la compagine politica ebraica perché vedo che è fortemente orientata dalla e alla propria identità razziale.  Eccepisco apertamente che da una prospettiva “giudeo centrica” sia Israele che la Jewish Voice for Peace, siano né più e né meno che la stessa identica cosa.  Abbiamo a che fare con due esclusivi club ebraici orientati dalla propria identità razziale.  Addirittura - e tutto ciò è davvero imbarazzante - Israele in quanto stato territoriale appare essere meno razzista che la stessa JVP, dato che nella Knesset quantomeno abbiamo che il suo terzo partito più grande, è arabo, invece nella Jewish Voice for Peace, la leadership è esclusivamente composta da ebrei.

Gestenfeld erroneamente scrive, “Atzmon attacca perfino gli ebrei che disapprovano il Sionismo e il Giudaismo”. Ancora una volta il colono di destra ultraortodosso, crede che io abbia “attaccato” Shlomo Sand e Avigail Abarbanel. Ho grande rispetto per Sand e ho dedicato a tutto il suo lavoro un intero paragrafo nel mio libro precedente “L’Errante Chi?” Ho un approccio critico solamente verso alcuni aspetti del lavoro di Sand e di Abarbanel. E allora, mi chiedo, l’approccio intellettuale e critico verso due scrittori ebrei equivale forse ad essere antisemiti? Se lo è, allora non ci resta che credere che gli ebrei siano al di sopra di ogni possibilità di critica. Probabilmente, nella mentalità di qualche sionista rabbioso,  è questa prerogativa di intoccabilità che si intende quando si parla di “popolo eletto”.

Gestenfeld tenta disperatamente di provare a tutti i costi che io sia un antisemita. Ma una cosa che dimentica di fare è quella di portare prove e citazioni a suffragio della sua tesi e di evidenziare dove  e quando io abbia mai espresso odio verso gli ebrei e verso l’identità ebraica. Ma invece di portare prove, cerca l’appoggio della definizione di antisemitismo dataci dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance). Secondo questa interpretazione, “rendere affermazioni mendaci, disumanizzanti, demonizzanti o stereotipate sugli ebrei, o sul potere della loro comunità, come per esempio - ma non solo - il mito del complotto ebraico, o sul potere che gli ebrei hanno nei media, nell’economia e nella finanza, nella politica internazionale e in altri consessi e istituzioni sociali, è un esempio di antisemitismo”.

Utopia, Nostalgia and the Jew
Secondo Gestenfeld, alcune delle mie dichiarazioni ricadrebbero proprio in molte di queste casistiche.Gestenfeld cerca in ogni modo di cogliermi in fallo ma fallisce completamente nel suo intento mistificatorio. “Perché mai gli Ebrei, un popolo gelosissimo del proprio passato, mostrano di temere i ‘bianchi’ che esprimono nostalgia per il loro passato?” (vedi link). In seguito Gestenfeld usa la cortesia di riportare un’altra citazione da un mio scritto: «Gli ebrei progressisti temono la nostalgia della classe lavoratrice americana per una società anteriore a quella odierna dominata dal popolo di Gerusalemme, di un tempo nel quale la politica statunitense non fosse egemonizzata e controllata da persone quali i Saban, i Soros, i Goldman Sachs e altri capitalisti globali che non hanno alcun interesse nelle questioni della economia reale, della produzione materiale di beni che dà lavoro, del manifatturiero o dell’agricoltura».

Ed è proprio qua che Gestenfeld mi cade in fallo.  Finalmente ammette che il mio bersaglio non è certo rappresentato dal popolo ebraico in sé, ma dal cosiddetto progressismo israelita, il quale è individuabile in un preciso, specifico settore politico posto in seno alla comunità ebraica americana.

Posso accettare che Gestenfeld non sia affatto contento del fatto che io punti il dito contro gli oligarchi giudei come Soros, Saban e contro il loro ruolo corrosivo in seno al contesto della politica americana. Forse Gestenfeld dovrebbe piuttosto preoccuparsi che gli organi di stampa ebraici la smettano una volta per tutte di glorificare i miliardari ebrei con titoli del tipo: qui: Ecco a voi i migliori cinque donatori democratici!, e qui,  come sono soliti fare in più e più occasioni.

Gestenfeld, che probabilmente non figura affatto tra i pensatori più sottili e saggi,  non fa altro che ripetersi nel solito errore. La definizione che la IHRA dà di antisemitismo, asserisce che “accusare gli ebrei, in quanto popolo, di essere responsabili per malefatte immaginarie o reali che siano fatte da una singola persona o da un singolo gruppo appartenenti a questa comunità e anche di misfatti commessi da un non ebreo, è considerato antisemitismo”.  Concordo pienamente con la definizione dell’IHRA. La comunità ebraica inglese non dovrebbe essere legata a un crimine commesso da un suo singolo appartenente, un soggetto colpevole di violenze sessuali, un vigliacco. Per cui, a questo punto sarebbe interessante vedere le cose da una opposta prospettiva: restando in tema di scuse, il Board of Deputies of  British Jews [Il Consiglio Nazionale dei delegati della comunità ebraica inglese] deve ancora scusarsi con il paese (il Regno Unito) per il gravissimo comportamento tenuto da Lord Janner, il quale è accusato di probabili molestie e abusi sessuali perpetrati ai danni di alcuni bambini inglesi orfani. E questa vicenda disgustosa, è avvenuta proprio quando lo stesso Lord Janner era il presidente del Consiglio dei membri della comunità ebraica inglese. E quindi proprio per questo, la persona che rappresenta in maniera più istituzionale e pubblica possibile la stessa comunità ebraica del Regno Unito.
Gilad Atmon
– Traduzione italiana di Antonio Palumbo.

domenica 11 dicembre 2016

Gilad Atzmon: «Twitter si unisce alla purga sionista - Un’intervista a Jo Stowell»

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Gilad Atzmon
È impressionante ciò che si apprende sulla limitazione della libertà di parola in Gran Bretagna. Eravamo, o almeno io pensavo così, che in Inghilterra i governi e la gente avesse una maggiore sensibilità sul tema dei diritti fondamentali, fra cui la libertà di pensiero e di espressione. Certe cose potevano e possono succedere da noi, ma non in Inghilterra, sempre citata come modello da seguire per quanto riguarda il riconoscimento della libertà dei cittadini. Ed era per questo che Atzmon, lasciato Israele, dove era nato, scelse all'età di trent’anni l'Inghilterra come sua nuova patria. E così Ilan Pappe, minacciato e perseguitato in Israele a causa delle sue ricerche, è emigrato in Inghilterra. Ma si tratta forse di un mito stratificatosi nel tempo. L’intervista di Atzmon alla sua amica Jo è perciò illuminante. Detto per inciso, credo di avere un account Twitter, ma non ho mai fatto uso e non so bene se mi è utile o mi interessi o faccia al mio caso. Non sapevo inoltre di questa ulteriore associazione, la CST. Sono così numerose che è impossibile farne un elenco e non è pensabile che possano esistere senza un generoso e cospicuo sostegno di uno Stato estero o di sponsor danarosi con risorse finanziarie illimitate a fronte della libera opinione di cittadini privati che - apprendiamo ora - non dispongono più delle normali protezioni che ogni Stato di diritto dovrebbe garantire.
AC

GILAD ATZMON

Un’intervista a Jo Stowell:
Twitter si unisce alla purga sionista
(26.11.2016)
(Fonte)

Jo Stowell
È iniziata su Twitter una campagna volta ad epurare tutti coloro che dimostrino di avere una posizione critica verso Israele. Il Community Security Trust, l’associazione ultra sionista inglese per la difesa della comunità ebraica in UK, ha recentemente dichiarato che da qualche tempo sta collaborando con Twitter per escludere da questa piattaforma virtuale quelli che in maniera impropria vengono etichettati come “antisemiti”. Suppongo che la libertà di esprimere liberamente su Twitter i propri legittimi pensieri contro la politica di Israele o avverso quella della lobby ebraica internazionale, abbia ormai i giorni contati.

Ma questa strategia servirà a rendere più popolari sia la politica di Israele, che quella della lobbing ebraica globale, tra gli osservatori più attenti della politica internazionale? Ne dubito seriamente.

Ogni giorno appendo che un numero sempre più ampio di account Twitter di miei amici vengono soppressi solamente per il fatto di aver ospitato contenuti di critica verso Israele. L’ultimo, in ordine di tempo, di una lista di attivisti che cresce di giorno in giorno, è quello dell’amica Jo Stawell. Jo è una fotografa geniale, un’avversaria disinteressata della lobby ebraica, è seguitissima su Twitter ed è una grande supporter delle lotte in favore della libertà di pensiero e di parola. Proprio stamattina abbiamo fatto due chiacchiere assieme.

Gilad Atzmon
• Gilad Atzmom: Non posso fare a meno di constatare che un ingente numero di antisionisti sia stato letteralmente cacciato fuori da Twitter a calci nel sedere.

– Jo Stowell: È vero. Credo che ormai la libertà di parola nel Regno Unito sia sostanzialmente una pura e semplice illusione. Fin dalla nascita i cittadini inglesi vengono educati a pensare ed agire secondo la narrazione rassicurante del pensiero politico mainstream. Chiunque si discosti minimamente dal tracciato di questo pensiero dominante viene immediatamente accusato di essere un radicale, un razzista, un fascista o un Nazi; un membro dell’estrema destra o della estrema sinistra, un marxista o un comunista , un antisemita, un islamofobo e perfino un pazzo lunatico. Sembra che le persone abbiano una reazione contraria e viscerale, quando qualcuno osa fare qualche domanda sul perché gli israeliti sionisti siano gli unici nel mondo ai quali sia permesso di sostenere una politica rigorosamente nazionalista. La realtà è che sulla politica sionista israeliana e sul potere che essi esercitano in UK, non ti è assolutamente permesso chiedere conto di nulla. E la reazione che Twitter ha avuto nei miei confronti rappresenta una prova inoppugnabile di tutto ciò che sto dicendo. Chiunque sfidi o metta in discussione l’ordine percepito e prestabilito della edulcorata realtà è bannato senza troppi complimenti da Twitter e in qualche caso perfino arrestato o bullizzato e sottoposto a pesanti abusi (incluse le minacce fisiche). Dal mio punto di vista, contro questi abusi la polizia inglese è completamente impotente e per certi aspetti, in ragione della propria inerzia, perfino complice.

• GA: Ci potresti dire qualcosa in merito alla collaborazione tra Twitter e questa associazione ultra sionista, la Community SecurityTrust?

Jo Stowell
– JS: La prima volta che mi son resa conto della collaborazione tra Twitter e il CST è stato quando un trolls anonimo e piuttosto aggressivo, ha preso di mira i miei tweets taggandoli assieme al CST e al dipartimento di polizia di Barnet e quello della Polizia Metropolitana. In seguito, più o meno all’una di notte,  ho ricevuto una telefonata da un individuo della Barnet Police Station (che guarda caso è proprio quella vicina alla sede principale della Comunity Security Trust) il quale mi parlava definendomi insistentemente quale antisemita. Sono rimasta letteralmente shoccata dall’atteggiamento di questo tale il quale si era qualificato in maniera abbastanza approssimativa come un ufficiale tutore della legge. Inoltre, se questo fosse stato davvero un intervento sanzionatorio ufficiale, perché non mi era stato notificato dalla stazione di polizia di competenza del mio quartiere? Questo presunto ufficiale aveva modi altezzosi, spregiativi e poco professionali, e mi ha sbattuto il telefono in faccia proprio mentre cercavo di spiegargli le differenze tra antisemitismo ed antisionismo. È chiaro che costui non fosse affatto un individuo imparziale e col suo atteggiamento sprezzante mostrava di non avere alcuna intenzione di stare a ricercare la verità dei fatti. Qualche giorno dopo, comunque, vennero a farmi visita proprio gli agenti del distretto di polizia di competenza del quartiere nel quale risiedevo, i quali mi notificarono che il Community Security Trust aveva inoltrato delle lagnanze nei miei confronti. Costoro sostenevano che attraverso i miei tweet, io stessi diffondendo odio razziale. Chiesi ai poliziotti di evidenziarmi in quale modo i miei tweet avessero potuto ledere questa associazione, delucidazioni che gli stessi agenti di polizia non mi hanno saputo dare. Ho anche chiesto ai poliziotti di darmi il nome di un loro socio al quale in caso di offese da me non volute potessi in qualche modo chiedere scusa  e però spiegare anche i motivi per i quali io contesti la politica dello stato israeliano. Ma loro mi hanno detto di non avere nessun nome o riferimento da darmi e che se ne lavavano le mani. Perciò, sono arrivata all’amara conclusione che in UK chiunque dovesse pensare di ritenersi offeso per qualsiasi dichiarazione fatta in pubblico o sui social, può andare benissimo dalla CST e dichiarare di essere stato oggetto di odio razziale e lasciare il compito alla stessa CST di minacciare e taggare il presunto untore attraverso una rete di troll anonimi che agiscano in sinergia con le forze di polizia inglesi. La cosa insopportabile è che questo stato di cose impostato sulla delazione arbitraria, sia armato da una organizzazione di anonimi che agisce nell’anonimato. Pensa un po: in UK c’è una organizzazione chiamata CST che ha il potere di soffocare completamente il lecito dibattito politico in merito alle azioni di un determinato governo/stato e di tutti quelli che in qualche modo ne sentano parte a vario titolo, e di azzittire completamente tutti coloro che ne contestino l’operato politico.

Gilad Atzmon
– Traduzione italiana di Antonio Palumbo.
 

martedì 6 dicembre 2016

Gilad Atzmon: «Come la Lobby israeliana domina la politica estera di Francia, Regno Unito e Stati Uniti».

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Devo alla collaborazione di un Lettore a amico fb, Antonio Palumbo, questa pronta traduzione di un recente articolo di Gilad Atzmon e gli altri articoli in programma e che verranno tutti riuniti in una pagina di raccordo, Homepage, che andrà ad integrare il pensiero di Gilad Atzmon espresso in modo organico nel suo libro The Wandering who? che ha avuto anche una traduzione italiana presso Zambon, purtroppo circolata poco. Il tema della influenza sulla politica estera degli Sati Uniti è ben nota grazie al libro di Mearheimer e Walt, tradotto in tutte le lingue, italiano compreso. Quel libro non è stato da allora per nulla “demolito” - come pretendeva un noto corrispondente dagli Usa -, ma è ormai diventato largamente acquisito alla cultura politica. Purtroppo, l'analisi geopolitica si arresta a Usa, Regno Unito e Francia. In Italia non stiamo affatto meglio per la duplice anzi triplice influenza esercitata sui nostri governanti e politici: dalla nostrana comunità ebraica, dagli Usa, dalla Israel lobby americana, direttamente da Israele attraverso i suoi ambasciatori. Addirittura, poco ci è mancato che una parlamentare ebrea con doppia cittadinanza italiana e israeliana, ci ritornasse in Italia come ambasciatore di Israele e continuando a percepire il vitalizio da ex-parlamentare italiana. Anche la recente legge introduttiva del reato di negazionismo è opera della stessa Lobby, che non paga dei risultati ottenuti mira a una equiparazione di antisemitismo e antisionismo e una relativa sanzione. Gilad Atzmon non avrebbe probabilmente in Italia quella stessa libertà di cui gode in Inghilterra, dove la Lobby è pur sempre fortissima. Il testo che segue è una Intervista apparsa in Muslim Press (MP), e ripresa nel suo blog.
AC

Come la Lobby israeliana domina la politica estera di Francia, Regno Unito e Stati Uniti

DI GILAD ATZMON


Naftali Bennett
• Muslim Press. Il ministro dell’educazione israeliano, Naftali Bennet, ha recentemente dichiarato che «l’era dello Stato palestinese è tramontata per sempre». Qual è la sua personale visione in merito?

– Gilan Atzmon: È una idea più che benvenuta. Serve uno stato che si estenda dal fiume alla costa e che vada sotto il nome di Palestina. Non parliamo di un cambio politico ma di fatti concreti.

• MP: Che previsione ci fa sulla soluzione dei due Stati? E in che modo la presidenza Trump può influenzarne la soluzione?

– GAt: Non ho voglia di avventurarmi in profezie futili. La soluzione dei due Stati è morta definitivamente e se leggo correttamente lo scacchiere mediorientale, gli Stati Uniti, non hanno più un ruolo chiave nelle vicende politiche di questa area del mondo. Sono stati sostituiti da Putin, e questa novità potrebbe avere un impatto positivo sugli sviluppi futuri del conflitto arabo-israeliano.

Donald Trump
• MP: Che giudizio ci dà sulle politiche di Trump per il Medio Oriente?

– GA: Non abbiamo idea di quali sia la politica di Trump per il Medio Oriente. Non sappiamo nemmeno se ne abbia una. E credo che questa non sia necessariamente una cosa negativa. Però, come ho già detto poc’anzi, gli Stati Uniti non giocano più un ruolo decisivo nell’area medio-orientale. Per conseguenza, la posizione americana sulla questione non è più rilevante come un tempo. Questo nuovo scenario, può portare ad un effettivo cambiamento.

• MP: Lei crede che la comunità internazionale abbia fallito nella difesa dei diritti dei palestinesi contro i crimini israeliani?

Mahmoud Abbas
– GA: Certamente, sì. Ma la vera domanda è perché. La ragione va ricercata nell’egemonia straripante che la Lobby Ebraica esercita su tutto l’Occidente. La lobby israeliana, egemonizza le politiche estere di Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Perfino il Movimento di Solidarietà alla Palestina (PSM, Palestine Solidariety Movement), dimostra qualche timidezza nel denunciare queste ingerenze. Perché? Perché il movimento di Solidarietà per la Palestina è eterodiretto da istituzioni ebraiche come la JVP (Jewish Voice of Peace) o la JFJFP (Jews for Justice For Palestine). In altre parole la voce degli oppressi è deformata dalla voce e dalle sensibilità degli oppressori.


Fonte: Muslim Press.
• MP: Qual è il ruolo che nel conflitto giocano Mahmoud Abbas e la ANP (Autorità Nazionale Palestinese)? E questo ruolo, lo vede come positivo?

– GA: Non mi intrometto mai nelle dispute politiche interne alla comunità araba o palestinese. Da quello che mi pare di capire, Abbas crede che la vera arma palestinese sia quella demografica. In altri termini, tutto quello che i palestinesi devono fare per poter vincere, è sopravvivere. E questa visione strategica, di per sé, spiega già molte cose.
Gilad Atzmon

° Traduzione italiana di Antonio Palumbo per Civium Libertas.

domenica 4 dicembre 2016

Julius Evola: 1. «Europa una: Forma e presupposti» (Cap. XVI, da "Gli uomini e le rovine", Roma 1953, pp. 231-247)

Ringrazio la Fondazione Evola per avermi concesso di pubblicare in "Civium Libertas" una selezione di testi evoliani. I criteri della scelta e l’ordine di successione sono del tutto casuali, o meglio seguono l’ordine della nostra lettura e rilettura dell’Opera completa di Julius Evola nei testi via via reperiti nelle Biblioteche o in Rete, controllando l'edizione elettronica con quella cartacea. Ritorneremo su ognuna delle nostre “prefazioni" con le quali accompagneremo la nostra selezione ed edizione di testi evoliani per Civium Libertas e per i suoi Lettori. Il testo che qui seguiamo sul cartaceo è quello delle “Edizioni dell’Ascia”, con una prefazione di J.V. Borgese, del 1953, e conservato nella Biblioteca del nostro Istituto.  Esiste una seconda edizione del 1967, presso Volpe, sulla quale si è basata l'ultima edizione delle Mediterranee del 2001.  Per un raffronto dei testi alla prima seguirà la seconda edizione de Gli uomini e le rovine. Il singolo saggio, il XVI, che ha attratto ora la nostra attenzione, ha avuto un'autonoma edizione da parte di Gianfranco de Turris. La bibliografia di Evola si annuncia piuttosto complicata, ma noi ne daremo indicazioni via via che riusciamo a dipanarla. Le illustrazioni grafiche, per alleggerire la pesantezza grafica del testo, sono chiaramente un apporto di chi scrive.

AC
Julius Evola

EUROPA UNA:
FORMA E PRESUPPOSTI
(Testo 1953)

Roma, 1953
Oggi sorgono da varie parti appelli per l’unità europea. Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa, da soggetto della politica mondiale che già era, è divenuta sempre più un oggetto di essa, uno spazio ove si svolge senza scrupoli il giuoco di influenze, di blocchi e di interessi essenzialmente non-europei. Questa condizione essendo stata creata e poi mantenuta dalla disunione e dai contrasti dei popoli occidentali, è naturale che l’idea di una unità europea si faccia oggi viva negli spiriti più responsabili del nostro continente. Però finora son stati soprattutto dei fattori negativi ad alimentare una simile esigenza: è appunto per esservi costretti, per non aver altra scelta di fronte ad un oscuro avvenire, che ci si vorrebbe unire alla meglio, non tanto liberamente e per un impulso che si tragga da qualcosa di positivo e di ancora sussistente. Questa circostanza fa sì che non si veda chiaro quanto alle condizioni reali e alla forma interna di una vera unità europea. A tutt’oggi sembra che non si vada oltre il concetto di vaghe soluzioni federalistiche, le quali non possono avere che un carattere contingente, quello di una associazione di forze prive di ogni vincolo interno e quindi destinata a dissolversi col mutare delle circostanze che l’hanno imposta dall’esterno. Un carattere non contingente potrebbe presentarlo solo una unità che fosse non semplicemente aggregativa, bensì organica; ma cotesta unità, a sua volta, è inconcepibile su base soltanto politica o, ancor peggio, economica, essa esige la forza formatrice dall’interno e dall’alto propria ad una idea, ad una comune cultura e tradizione. Tutto ciò dovrebbe esser l’elemento primario e preesistente, l’unità difensiva, politica o economica, ne dovrebbe essere solo la conseguenza. Ma a voler impostare il problema europeo in questi termini s’incontrano difficoltà gravissime, che non permettono l’indulgere in un facile ottimismo.

1ª ed. testo 1953
Volendo svolgere a tale riguardo qualche considerazione, prenderemo le mosse dalle idee difese da U. Varange in due volumi dal titolo «Imperium» (1). La critica di esse faciliterà un adeguato inquadramento del problema.

(1) Westropa Press, London, 1948. [Ulick Varange è uno pseudonimo che sta per Francis Parker Yockey. Il testo è al momento scaricabile in rete a questo indirizzo - NdR]

Francis Parker Yockey (1946)
Il Varange intenderebbe trattare la quistione dell’unità europea in termini non semplicemente politici, partendo invece da una filosofia generale della storia e della civiltà che si rifà ad Oswald Spengler. Si sa quale sia la concezione spengleriana: non esiste uno sviluppo lineare e progressivo della civiltà al singolare – della civiltà tout court; la storia si frantuma in cicli paralleli, ma pur distinti di civiltà, i quali costituiscono ognuno un organismo a sé stante e che, come tutti gli organismi, hanno identiche fasi di giovinezza, di sviluppo, di senescenza e di tramonto. In particolare, lo Spengler distingue in ogni ciclo un periodo di «civiltà» (Kultur) da uno di «civilizzazione» (Zivilisation). Il primo si svolge alle origini, sta sotto il segno della qualità e conosce forma, differenziazione, tradizioni vive, articolazione in gruppi e nazioni; invece la «civilizzazione» è la fase autunnale e crepuscolare, nella quale, dopo che si è esercitata l’azione disgregatrice del materialismo e del razionalismo, ci si avvia verso il meccanicismo e una grandezza informe, verso il regno della pura quantità. Secondo lo Spengler, tali fasi appaiono fatalmente nel corso di ogni civiltà. Sono biologicamente condizionate.

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Fin qui, lo Spengler. Il Varange lo segue, e lo segue anche nel considerare il mondo europeo come uno di questi corpi-civiltà muniti di vita propria, sviluppanti una loro idea fondamentale specifica, seguenti un loro destino. Inoltre egli lo segue nel constatare che la fase ciclica in cui si trovano attualmente l’Europa e l’Occidente in genere' è ormai quella di ({ civilizzazione ». Ma, a differenza dello Spengler, il quale, a ciò riferendosi, almeno in un primo tempo aveva preconizzato il «tramonto dell’Occidente», egli cerca di capovolgere il negativo nel positivo, quasi di far buon viso a cattiva sorte, e parla di nuove forze che dovranno assumere un imperativo di rinascita ed organizzare nuove grandi unità nel mondo stesso della «civilizzazione». Di là dalle rovine del mondo di ieri e dalla civiltà del XIX secolo la legge stessa dello sviluppo ciclico spingerebbe l’Europa verso un’èra nuova, èra della «politica assoluta», della supernazionalità e dell’autorità, avente 1’«Impero» per simbolo. Riconoscere e realizzare cotesto imperativo «biologico» proprio ad un’epoca di civilizzazione, oppure perire, tale sarebbe l’alternativa per la stessa Europa.

n. 18 set 1917 - m. 16 giu 1960
Per il Varange apparterrebbero idealmente allo ieri non solo la concezione materialista e scientista dell’universo, ma altresì liberalismo e democrazia, comunismo e 0NU, Stati particolaristici e sciovinismi. L’imperativo storico del momento sarebbe di realizzare l’Europa come una unità di nazione-cultura-razza-Stato, presso ad un risorto principio di autorità e a nuove, precise, biologiche discriminazioni fra amico e nemico, fra mondo proprio e mondo alieno, «barbaro». Constatata la parte deleteria da essi avuta nei tempi ultimi, è contro quelli che il Varange chiama fenomeni di distorsione della civiltà (culture-distortion) che bisognerebbe agire radicalmente; essi si verificano quando all’interno di una civiltà o nazione forze irresponsabili o estranee ne indirizzano le energie verso azioni e fini che son privi di relazione con le esigenze reali e vitali dei corrispondenti paesi, favorendo invece il giuoco di forze esterne. Ciò trova precipua applicazione nel caso delle guerre, la vera alternativa non essendo, secondo il Varange, fra guerra e pace, ma fra guerre utili e necessarie per una civiltà, e guerre che questa civiltà disgregano e indeboliscono. Del secondo tipo sono sopratttutto le guerre fra nazioni di una stessa civiltà che assumano quel carattere «totale» che solo è giustificato quando si tratti di combattere contro il «barbaro», contro forze minaccianti l’essenza stessa, fisica e spirituale, di una comune civiltà. È ciò che si è verificato con le due ultime guerre europee, e la conseguenza fatale e ben visibile di esse è stata non la vittoria di di alcune nazioni europee su altre, bensì dell’anti-Europa, di Asia e d’America, sull'Europa in genere.

Così, i ritmi ormai accelerandosi, per l’Occidente si tratta di riconoscere o no l’imperativo biologico pertinente alla fase attuale del suo ciclo, quello di superare il frazionamento stateistico e di far sorgere l'unità della nazione-Stato Europa sbarazzandosi dei traditori, dei parassiti, degli elementi distortori. Spiritualmente, occorrerà disintossicarsi dai residui delle concezioni materialistiche, economicistiche, egualitarie e razionalistiche del XIX secolo. Infine l’unità ritrovata dell’Europa come civiltà o cultura dovrebbe trovar espressione in una unità politica corrispondente, da attuare persino a costo di guerre civili e di lotte contro le potenze intese a mantenere l’Europa sotto il loro controllo. Federazioni, unità doganali e simili non possono costituire delle soluzioni. È da un imperativo interno che dovrebbe sorgere l’unità, imperativo da realizzarsi perfino ove esso apparisse economicamente svantaggioso, il criterio economico non potendo più valere come ultima istanza nell’èra a venire. Come si è detto, secondo il Varange questa èra per l’Europa dovrebbe essere essenzialmente l’èra della «politica assoluta» e dell’Impero supernazionale.

Ci siamo soffermati sulle idee del Varange perché esse presentano una mescolanza caratteristica di opposte esigenze, nella quale si riflette la difficoltà fondamentale del problema da risolvere.

Il Varange ha senz’altro ragione nell’accusare l’insufficienza di ogni soluzione federalistica o semplicemente economica del problema europeo. L’esigenza di superare nazionalismo e sciovinismo, cioè ogni assolutizzazione scismatica di una unità particolare, è parimenti ovvia; del resto, in tal senso spinge ormai la forza stessa delle cose; sì che, in fondo, si tratta solo di scegliere se la riduzione di fatto della precedente, assoluta sovranità di ogni singolo Stato debba continuare ad andare a profitto di potenze non europee, ovvero se essa debba esser voluta in nome di una superiore idea europea. Il punto di riferimento che il Varange propone per l’unità europea è l’idea di Impero. A limitarsi alla formula, noi non potremmo che esser d’accordo. Ma si rende conto, il Varange, dell’effettivo contenuto di essa? Sa egli che cosa davvero significa »Impero»? Non cade egli in un grave equivoco nel concepire che tale idea sia realizzabile in una fase di «civilizzazione», il quadro naturale per una forma siffatta di unità politico-spirituale supernazionale essendo invece – ad usar sempre la terminologia spengleriana – quello, che l'Occidente da tempo non presenta più, di una «cultura»?

Cose appartenenti a piani sostanzialmente distinti vengono, a tal riguardo, mescolate dal Varange, l’equivoco del quale non è diverso da quello in cui incorse a suo tempo lo stesso Mussolini. Mussolini, senza conoscere probabilmente l’opera principale dello Spengler «Untergang des Abendlandes», di lui lesse «Gli anni decisivi» («Jahre der Entscheidung») e fu colpito dalla prognosi, in tal libro contenuta, di un nuovo cesarismo per i tempi che si maturano; per questo volle che l’opera venisse tradotta anche in italiano. Con ciò non si rendeva ben conto del luogo che, secondo lo Spengler, nello sviluppo ciclico delle civiltà spetta a fenomeni politici del genere. È quando il mondo della tradizione frana, quando non esiste più Kultur, ma solo Zivilisation, quando non vigono più i valori della qualità e della differenza e l’elemento informe «massa» prende il sopravvento presso alla materializzazione e alla tecnicizzazione dell’esistenza – è solo allora, nella fase autunnale e crepuscolare di un ciclo, analoga alla senescenza di un organismo, che anche le nazioni scompaiono e sorgono grandi aggregati supernazionali nel segno di un pseudo-cesarismo (noi meglio diremmo: di un «bonapartismo»), di un potere personale centralizzato, in sé informe, privo di ogni crisma superiore. Ma tutto ciò, questo fondersi delle nazioni in un blocco più o meno amorfo di potenza, nel quale il principio politico costituisce l’estrema istanza (e con ragione il Varange parla qui dell’èra della «politica assoluta») e che subordina «totalitariamente» a sé ogni fattore morale e spirituale, dell’Impero nel senso vero, tradizionale non è che una imagine distorta ed invertita. Non si tratta di Impero, bensì al massimo di «imperialismo», di qualcosa che ripete, in grande, i tratti della nazione collettivistica assolutizzata e che per Spengler rappresentava un ultimo guizzo, cui segue la fine – la fine di una civiltà, cui potrà anche seguirne una nuova, però senza un legame di continuità con la precedente (1).

(1) Può rilevarsi che la concezione spengleriana collima, nell’essenziale, con quella stessa del Vico. Il ciclo della civiltà comprende, secondo il Vico, anzitutto la fase sacrale, a cui seguono le età eroiche definite da aristocrazia e oligarchia, e poi un’ultima fase d’imbarbarimento, in cui le istituzioni e le leggi precedenti più non valgono, s’impone il diritto naturale egualitario e il popolo, non trovando altra, via, si assoggetta ad una «monarchia». Tale monarchia vichiana, in siffatto quadro, non ha il senso tradizionale e dinastico, significa «monocrazia», con carattere affine a quello bonapartistico e centralistico delle unità supernazionali spengleriane e, come esse, segna la fine del ciclo. 

Il fatto è che una unità supernazionale dai tratti positivi ed organici non è concepibile in un periodo di « civilizzazione». E le vedute del Varange sono ibride, perchè egli crede che in clima di civilizzazione possa esser ripreso e riaffermato tutto un gruppo di valori, che invece sono propri ad un clima di «civiltà». Una separazione, invece, si impone, e da essa van tratte tutte le debite conseguenze.

Lo schema di un Impero in senso tradizionale ed organico è quello che, per esempio, già presentò l'ecumene europeo medievale. Esso riprende l'unità e la molteplicità e si concreta in un sistema di partecipazioni gerarchiche. In esso non vi è posto per il nazionalismo, in esso vi è posto solo per il concetto naturale della nazionalità. I singoli Stati vi hanno il carattere di unità parziali organiche, gravitanti su di unum quod non est pars (per usare l'espressione dantesca), cioè su di un principio d'unità, di autorità e di sovranità di natura diversa da quello che ciascun particolare Stato ha in proprio e può rivendicare. Ma una tale dignità il principio dell'Impero può averla solo trascendendo la sfera politica in senso stretto, fondandosi e legittimandosi con una idea, con una tradizione, con un potere anche spirituale. Le eventuali limitazioni della sovranità delle singole unità nazionali di fronte ad un « diritto eminente» dell'Impero hanno per condizione univoca siffatta dignità trascendente dell'Impero stesso. Come struttura, l'insieme si presenterà come un «organismo fatto di organismi» o, se si preferisce,

come un federalismo, federalismo organico p~rò, non acefalo, I tratti essenziali dell'Impero nel senso vero sono questi.
Quali sono ora le possibilità, quali le condizioni per la realizzazione di una simile id~a nell'Europa di oggi? Evidentemente, occorrerebbe voler e poter andare assolutamente contro coro rente. Va intanto messa da parte l'idea confusa di una {( Europa nazione », quasi che jJ fine fosse l'amalgamarsi d~lle singole nazioni europee in una nazione unica, in una specie di promiscua sostanza sociale europea cancellando differenze linguistiche, etniche ~ storiche. Dovendo trattarsi di una unità organica, la premessa sarebbe invece l'integrazione e jJ consolidamento di ogni singola .nazione come un tutto gerarchico e organico ben differenziato. La natura della parte ha da rifl~ttere quella del tutto. Una volta costituite gerarchicamente le singole nazioni nella salda forma di unità singole, spezzata che sia la hybris
, nazionalistica (la vichiana {( boria delle nazioni») quasi sempre parallela ad un fatto demagogico e collettivizzante, sarebbe data una direzione virtuale suscettibile a continuarsi di là dalle singole aree nazionali e a condurre verso la superiore unità. Questa, dunque, nOl1 può avere il caratt~re di una {( nazione »; per la sua natura sopraelevata, sarà tale da lasciar il massimo spazio alle nazionalità secondo la loro individualità naturale e storica. E' un ben noto principio della concezione organica che per quanto più l'unità superiore è salda e perf~tta, di tanto più le singole parti son differenziate e godono di un'ampia autonomia. Ogni unità organica ha in proprio un principio di stabilità. Non può però pensarsi ad una stabilità del tutto ove questa non sia anche garantita nelle sue parti. Anch~ da questo punto di vista, il presupposto elementare dell'eventuale unità europea appare essere l'integrazion~ politica delle singole nazioni. L'unità europea sarà sempre precaria ove essa da un lato poggiasse su qualche cosa, come un parlamento internazionale, privo di un'unica, superiore autorità, ~ dall'altro raccogliesse singoli regimi politici di tipo democratico e « rappresentativo », regimi i quali, per esser costantemente e mutevolmente condizionati dal basso, non possono in alcun modo assicurare una continuità di

Capitolo XVI
volontà e d'indirizzo politico. In regime democratico la sovranità dello Stato è cosa effimera, una ~azione non presenta una vera unità, è dal mero numero accaparrato ora dall'uno e ora dall'altro partito che la volontà politica vien da un giorno all'altro determinata e controllata, la base è costituita da q~alcosa di disgregato, di infido e di labile, i caratteri di un «tutto parziale» mancano. Tale situazione all'interno di uno Stato rispecchia quella stessa che esclude ogni unità supernazionale: perchè come il caos dei singoli Stati nazionali'sovrani è sorto dal disconoscimento, da parte di essi, del sqperiore principio dell'impero, del pari il regime anzidetto si basa sulla sovranità e l'autonomia che i singoli individui si sono arrogati e che in fondo essi non riconoscono allo Stato come tale, lo Stato dovendo solo esprimere la risultante di quel che essi vogliono e dettano a mezzo del voto a suffragio universale. Por fine all'un disordine conservando l'altro è un assurdo evidente. Non si tratterebbe certo di imporre un regime-tipo ad ogni naziòne europea; tuttavia, anche se in forme varie, adeguate alle condizioni locali, un principio di carattere organico e gerarchico, anti-individualistico e antidemocratico dovrebpe esser ' fatto adeguatamente valere. Inutile dire che, dato il clima politico attualmente predominante in varie aree europee più o meno influenzate da idee non-europee o di un'Europa disfatta, molti «superamenti» sarebbero necessari per venire ad un riconoscimento del genere e per realizzare questa condizione preliminare abbastanza ovvia.
Da una ulteriore considerazione la necessità di siffatta condizione viene confermata. Una unità organica si realizza attraverso dei vertici, non attraverso le basi; cioè le masse; da un'unione di masse può risultare solo una amalgama, una promiscuità deleteria per i singoli caratteri nazionali. Solo le élites delle singole nazioni euroPee possono intendersi e coordinarsi superando il particolarismo e lo spirito di scisma, facendo valere, con la loro autorità, interessi e motivi più alti, mentre per il resto l'organismo nazio_nale può continuare a svolgere una vita in larga misura autonoma. E' cosÌ che in altri tempi erano i Sovrani, i Capi, a far la grande politica europea ed essi si consideravano quasi come di una stessa famiglia (in parte lo e~ano di fatto, per via degli apparentamenti dinastici) anche quando gravi contrasti sorgevano momentaneamente fra l'uno o l'altro d~i loro popoli. Ciò implica pertanto proprio la differenziazione gerarchica nelle singole nazioni, sinonimo di forma, di ordine, di stabilità, di primato della qualità. Un «centro» dovrebbe esistere, ben saldo, in ogni nazione, e per effetto di una sintonia e di una sinergia di tali c~ntri dovrebbe organizzarsi la superiore unità europea. Una unità che non conduca al disotto ma al disopra di ciò che è nazione, una unità nella quale ogni nazione non risulti confusa e menomata, ma integrata, esige questo.
Nel complesso, dovrebbe esser dunque promosso un duplic~ processo di integrazione: integrazione nazionale, attraverso il riconoscimento di un principio sostanziale di autorità, base per la formazione organica, antindividualistica e corporativa d~lle singole forze politiche e sociali nazionali; ihtegrazione supernazionale, europea, attraverso il riconoscimento di un principio di autorità così sopraelevato rispetto a quello proprio alle singole unità, cioè ai singoli Stati, quanto qu~sto lo è rispetto agli individui compresi in ognuna dI tali unità. Senza l'adempimento di questa doppia condizione si resterà sul piano dell'informe, dell'instabile, del labile. Di Impero, non sarà il caso di parlare, epperò nemm~no di un'Euro.pa organicamente una.
A tale punto si fa però innanzi la difficoltà principale per tutto il problema. La base, che non deve esser semplicement~ politica, ma soprattutto spirituale, richiesta p'~r propiziare uno svq::;.Ppo del genere, da dove si può trarla?
I Di rigore, il fondamento per un blocco supernazionale dovrebbe esser di natura sacra; sacra non in senso generico religioso, ma con rif~rimento ad una autorità spirituale precisa e positiva. Ora, ançhe aprescindere dai processi spinti e generali di secolarizzazione e di laicizzazione della vita attuatisi in Europa e, del resto, caratteristici per ogni fase di « civilizzazione », non ~siste oggi nel nostro continente nulla di simile. Il cattolicesimo è solo la fede di alcune delle nazioni europee -e, ciò a parte, si è visto come in un periodo incomparabilmente più propizio dell'attuale, in quello post-napoleonico, la Santa Alleanza, con. la qual~ si riaffacciò il concetto di una solidarietà tradizio
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Capitolo XVI
naIe e virile delle nazioni europee, fu tale solo di nome, ad essa mancando un vero crisma religioso, una universale, sopra~}evata idea. Se si dovesse invece parlare di un cristianesimo gefterico, ciò significherebbe troppo poco, sarebbe cosa troppo sv-Ìgorita, incorporea ed informe, non esclusivamente europea del resto, non monopolizzabile per la sola civiltà europea: cristiani sono perfino i negri delle due Americhe. In più, non possono non sorgere dubbi circa la conciliabilità fra cristianesimo puro e «metafisica dell'Impero»: ce lo dice già il conflitto medievale fra i due poteri, e qui si può riandare a quanto, in genere, esponemmo a proposito del ghibellinismo (cap. X).
Lasciamo allora q~esto piano, passiamo ad un piano più basso, a quello della tradizione e della cultura. Si parla volentieri di tradizione europea, ma purtroppo ciò si riduce a poco più di i.ma frase. Già da tempo· l'Occidente non sa più che cosa sia «tradizione» nel senso più alto; spirito occidentale e spirito antitradizionale han fatto tutt'uno quasi fin dall'epoca della Rinascenza, non solo, ma per i~ resto del mondo l'europeizzazione e la diffusione dello spirito occidentale hanno equivalso alla diffusione di un fermento di decomposizione antitradizionale. La «tradizione» nel senso integrale, già noto a chi fin qui ci ha seguiti, e che ben si distingue dal tradizionalismo, è una categoria appartenente ad un mondo quasi scomparso, alle epoche nelle quali un'unica forza formatrice si manifestava sia nel costume che ne~ culto, sia nel diritto che nel mito, sia nelle arti che nelle forme politiche ~ insomma, in ogni dominio dell'esistenza. Nessuno sarà così ardito da affermare che oggi in Europa esista una «tradizione» in questo senso, che è il solo che davvero conterebbe; così ardito da affermare, in particolare, che alla parola «Europa» corrisponda oggi la realtà di una tradizione comune mantenentesi una di là dalla differenziazione dei singolj. popoli del nostro continente.
Passando al piano della semplice cultura, non è che si incontri qualcosa di molto più consistente. Ciò che genericamente si designa come «civiltà europea» già da tempo ha cessato di essere qualcosa che per l'un lato ci unisca, e per l'altro ci differenzi davvero da altri comple~si etnico-culturali, perchè tale civiltà ormai la si trova diffusa un po' per tutto il mondo ed è divenuta, in genere, sinonimo di civiltà moderna. Si può parlare, "Oggi, di una differenziata cultura europea, con uno spirito unico che informi di sè le manifestazioni del pensiero delle .singole nazioni europee? Di nuovo, sarebbe azzardato rispondere con l'affermativa, e la ragione principale di ciò l'ha mostrata
C. Steding in un'opera notevole che trattava appunto dell'Impero e della malattia della cultura europea (1). Siffatta ragione risiede in quel che tale autore chiamava la neutralizzazione della cultura attuale: cultura nori più.congeniale ad una comune idea politica, cultura «privata », transitiva epperò tendenzialmente cosmopolita, sbandata, antiarchitettonica, soggettivistica nel settore delle arti e dell'intellettualità, neutra poi, e affatto priva di volto, nei suoi aspetti scientisti e ·positivistici. Metter tutto ciò a carico di una «patologia della civiltà », di un'azione esterna e transeunte di distorsione ad opera di elementi alieni, come vuole il Varange (il che, per Jui, varrebbe non solo per l'Europa, ma perfino per l'America U.S.), significa pensare piuttosto semplicisticamente. In genere, dove si può trovare, oggi, in fase di « civilizzazione », una base culturale tanto differenziata da poter opporre seriamente a noi Europei 1'« alieno », il «barbaro », come si verificò nel caso di precedenti schieramenti imperiali? Molto lontano si dovrebbe andare, per giungere a ·tanto, con un lavoro di disintossicazione e d'integrazione, perchè se noi possiamo giudicare a buon diritto come barbarici e antieuropei aspetti molteplici della civiltà sia nord-americana, sia russo-sovietica, non bisogna perder di vista tutto ciò che nell'una e nell'altra rappresenta lo sviluppo parossistico di tendenze ,e di mali che per primo si affacciarono proprio in Europa. Nel che sta la ragione della scarsa immunità del mondo europeo di fronte ad entrambi quelle barbariche civiltà.
Riassumendo, mentre poco vi è da contare sul fattore religioso, dell'esistenza di una tradizione europea in .senso grande, corale, ecumenico, non paesanistico e folkloristico non si può
t
(1) C. STEDING, Das Reich und die Krankheit der europiiischen Kultur,
~
Hamburg 2, 1937.
16 -li:VOLA
parlare e, in fatto di cultura, ci si trova di fronte a qualcosa di neutro, di sbandato, di individualistico. E' solo nel senso del ({ totalitarismo» livellatore che, se mai, tendenze all'unità politico-culturale assoluta si sono affacciate. In concreto, dove oggi si parla di ({ tradizione europea» si tratta di interpretazioni private e più o meno divergenti di intellettuali e di scrittori alla moda; si è su di un piano di frivolo ed inane dilettantismo, del che ieri i cosidetti ({ Congressi Volta », e oggidì iniziative varie sulla stessa falsariga han dato sufficienti e non certo edificanti • testimonianze. Il pensare che da un piano del genere possa scaturin~ la dynamis, la forza per organizzare in un blocco le disperse energie dei popoli europei, può esser solo giudicato come uno scherzo di cattivo genere.
Da queste ed altre considerazioni si giunge dunqùe ad una unica conclusione: nel complesso, i presupposti per una unità supernazionale dai tratti positivi ed organici non sono presenti nell'Europa attuale. Ciò accade essenzialmente appunto perchè l'Europa si trova in fase di ({ civilizzazione ». -In una tale fase è concepibile al massimo il fondersi e confondersi delle nazioni in un blocco più o meno informe di potenza, o come il ({ mondo tellurico della rivoluzione mondiale» di cui aveva già parlato il Keyserling, o come mondo della ({ politica assoluta}) nel segno di un dispotico imperativo biologico (Varange), o nella specie di uno dei nuovi complessi accentrati nelle mani di coloro che il Burnham ha chiamato i managers, -secondo quel che da più parti è stato già presentito, e che sembra corrispondere proprio alle finalità delle forze segrete del sovvertimento mondiale, perchè in tutti questi casi si tratterebbe di un!unica direzione discendente e regres§iva. Unità in funzione di « tradizione» e di Impero è cosa da ciò molto diversa.
Dovremmo allora chiudere in negativo il nostro bilancio ed accontentarci di un'idea più modesta, federalistica, « sociale» e societaria, senza agitare problemi troppo profondi? Non è detto necessariamente, .perchè una volta constatata l'antitesi, è data la possibilità di orientarsi di conseguenza. Se è assurdo perseguire il nostro ideale più alto nej quadri di una ({ civilizzazione », perchè esso ne risulterebbe fatalmente distorto e quasi invertito, resta da riconoscere nel superamento di quanto ha carattere di {( civilizzazione» il presupposto per ogni iniziativa davvero ri,costruttrice. {( Civilizzazione» equivale più o meno a {( mondo moderno» e, senza farsi illusioni, bisogna riconoscere che del sorgere del {( mondo moderno» nel suo materialismo, il suo economicismo, il suo razionalismo e gli altri fattori involutivi e dissolutori, proprio l'Occidente -diciamo pure l'Europa -è eminentemente responsabile. Per primo dovrebbe dunque aver luogo un
. rinnovamento che incida sul piano spirituale destando nuove forme di sensibilità e d'interesse epperò anche un nuovo stile interno, un nuovo orientamento della vita. Qui bisogna rendersi conto che non si tratta, come insieme a vari altri vuole il Varange, di superare solo la visione del mondo propria al XIX secolo nei 'suòi diversi aspetti e nei suoi residui, perchè questa visione è essa stessa l'effetto di cause più remote -,cosa, che in altra sede abbiamo esaurientemente trattata (1). Del pari, non è nemmeno il caso di riferirsi oltre misura e indiscriminatamente. a ciò che ieri·era stato tentato in Italia e in Germania per la creazione di un ordine nuovo; si trattò di movimenti nei quali eran presenti iendenzialità diverse, talvolta perfino contrastanti, che forse avrebbero potuto definirsi nel senso giusto, positivo, solo se le circostanze avessero reso possibile un adeguato sviluppo, sincopato invece dalla disfatta militare. E soprattutto erano, in essi, poco vive l'esigenza e la consapevolezza di far tabula rasa, ·di far valere idee assolute, cioè libere dalla dialettica e dalla polemica con quelle dominanti nel clima storico e sociale del tempo. ave dal piano dottrinale si p~ssasse a quello pratico, realizzatore, si dovrebbe constatare che, nei riguardi del problema 'europeo, ci si trova -non meno che nei riguardi di quello interno della nostra nazione e della gran parte delle nazioni europee"":'-in mezzo a delle rovine e che v'è solo da chiamare a raccolta gli uomini che siano ancora in piedi fra le rovine per tentare con essi il possibile. Ciò che è richiesto per la rinascita e la difesa dell'Europa non è diverso da ciò che esige un nostro stesso risorgere; anche se in quadri più vasti e con delle varianti,
(1) Essenzialmente, in Rivolta contro il mondo moderno, Milano 2,1951.
i problemi sono quegli stessi che llE~lla parte precedente della presente opera ci siamo sforzati di lumeggiare, ed anche un nuovo fronte europeo non è da elementi diversi, che dovrebbe esser promosso e organizzato, che non sian quelli ai quali, in genere, possono parlare le idee da noi difese. Ancora alcune parole su quest'ultimo punto.
Noi anzitutto escludiamo che qualcosa di serio possa venire dal mobilitare, far riunire, discorrere e collaborare intellettuali, scrittori o accademici delle varie nazioni europee. Dopo quanto si è detto circa la natura di quel che, in genere, oggi vale come «cultura », a tale riguardo non dovrebbe esservi dubbio. Nulla potrebbe realizzarsi in tale àmbito, che manifesti l'aderenza rigorosa e impersonale ad una idea. La « cultura» di oggi è pur sempre un'appendice della civiltà borghese del Terzo Stato, cui è stato altresì proprio. il non ancora scontato mito della cosidetta «aristocrazia del pensiero », che è più o meno quella del parvenu, a base antitradizionale, liberale, laica e umanizzante. Scartare dunque tutto ciò, e tenere gli « intellettuali» in non miglior conto di quel ch~ il comunismo puro -lo faccia. L'autorità propria ai.depositari e ai custodi di un'idea superiore non la riconosciamo affatto agli attuali « esponenti della cultura ».
Quali elementi delle nazioni europee potrebbero allora entrare in iinea di conto pel nostro compito? Di due specie sono, a parer nostro, tali .elementi. Prendendo la civiltà borghese del XIX secolo come punto approssimativo di riferimento, secondo. noi dovrebbero esser arruolati quegli uomini che, spiritualmente,. stanno o ancora al di qua, o or:qJ.ai al di là di essa, il compito ulteriore essendo poi quello di far incontrare-gli uni e gli altri.
Per spiegarsi, il primo gruppo sarebbe costituito da appartenenti' ad antiche famiglie europee che valgano non solo per il nome che portano, ma anche per quel che sono, per la loro personalità. Trovar uomini aventi questa doppia qualità, oggi è certo difficilissimo; tuttavia di eccezioni ne esistono e non di rado si tratta di risvegliare qualcosa che non è ancora andato del tutto perduto nel sangue, ma è solo divenuto latente. Naturalmente, bisognerà curare a che la valorizzazione di simili uomini non dia l'impressione di un conservatorismo in senso cattivo, pgr cui andrebbe ben messo in rilievo quanto si è detto in precedenza su tale soggetto. Ciò che ci aspetteremmo particolarmente da questa parte di una possibile élite è una sensibilità e uno stile innato, qualcosa che senza ricorso a teorie g a principi astratti faccia reagire in modo sicuro, come d'istinto, in aderenza a certi valori fondamentali. Il riferimento qui va a quanto ogni uomo ben nato considerava normale prima delle eversioni e delle prevaricazioni rivoluzionarie, il che vale a dire ai valori del mondo aristocratico che precedette l'èra del Terzo Stato e la so~ cigtà borghese del XIX secolo. Il retaggio corrispondente, in alcuni uomini almeno, per via del sangue e per effetto di una formazione già esercitatasi per secoli, non è forse andato del tutto perduto.
Quanto alla seconda schiera, essa dovrebbg esser reclutata fra le nuove generazioni, e soprattutto fra quegli esponenti di esse che hanno attraversato l'esperienza sia dell'ultima guerra, sia del relativo dopoguerra. Vi è chi, a tal riguardo, ha parlato di una «generazione bruciata »; in effetti spesso si tratta di uomini ai quali non parlano più gli ideali e i miti di ieri, e, naturalmente, ancor meno quelli di oggi; di uomini, che son passati attraverso distruzioni spirituali ancor più che materiali. Di tali uomini in Europa ne esistono un po' dappertutto ed essi presentano tratti uguali quale si sia il fronte sul quale essi si batterono. Nelle nazioni vinte si tratta soprattutto di coloro che seppero battersi anche su posizioni perdute; nelle nazioni vincitrici si tratta di gran parte di coloro che han visto crollare come illusioni e menzogne le idee per le quali furono mandati a combattere, in esse riconoscendo ormai strumenti adoperati senza scrupolo non per abbattgre l'una o l'altra nazione europea, ma per dare un colpò mortale all'Europa stessa come tutto, come civiltà 'e area politica autonoma. Chi è passato attraverso esperienze del genere, si trova sul margine del nihilismo, ad un punto-zero dei valori; ma ove la prova non si sia già risolta in un dichiarato cedimento morale, in pura disgregazione, ove malgrado tutto si sia tenuto fermo, si incontra un tipo che nelle diverse nazioni presenta tratti consimili. Tali tratti sono una speciale serietà, la disposizione ad un eroismo anonimo, antiretorico
Capitolo XVI
e privo di scorie, un'insofferenza per ciò che è condizionato. Per quanto più dura è stata la prova, di tanto più questi tratti prendon risalto e formano un carattere unico.
Pertanto, si tratterebbe di guadagnare alla nuova causa tali elementi, dando ad essi il senso di un nuovo inizio, la certezza che si procede, questa .volta, senza più illusioni nè menzogne, senza prestarsi al giuoco di nessuno, senza offrir presa alle forze della sovversione e dell'Anti-Europa.
-·Dopo di che, l'essenziale sarebbe l'incontro e la reciproca comprensione dell'uno e dell'altro gruppo. Dai superstiti dell'Éuropa tradizionale viva potrebbero venire adeguate influenze orientatrici, mentre gli accennati, speciali elementi delle nuove generazioni potrebbero fornire la dynamis, la forza attiva della rivoluzione conservatrice avente per fine, ora, l'Europa una. Appunto quando fra gli uni e gli altri si stabilisse un contatto diretto ed avvenisse una reciproca integrazione, ciò che è ancora possibile per un risollevamento sarebbe propiziato, fuor dalle frasi politiche e dagli intellettualismi; per un processo che va in profondità le forze che in. Europa non sono ancora definitivamente prostrate andrebbero a poco a poco a inserirsi in una formazione chiusa e compatta.
Per dei risultati tangibili e seri la condizione sarà tuttavia che le élites costituite dagli elementi ora indicati riescano, nelle varie nazioni, a scalzare la classe politica che nel presente periodo d'interregno e di servaggio europeo detiene il potere, ovvero che, senza proprio sostituirsi ad essa, esercitino una precisa influenza sugli elementi dirigenti. Come si è detto e come ognuno può facilmente riconoscere, la difficoltà più grave che l'idea europea incontra sul piano politico risiede nella crisi attuale del principio di autorità -intendiamo autorità nel senso vero e legittimo, quella atta a determinare non solo obbedienza, ma altresì naturale riconoscimento e spontanea adesione. Solo una tale autorità può condurre, all'interno di ogni nazione, a superare individualismo e ({ socialismo» e, nello spazio europeo, a ridurre ~a hybris nazionalistica, i ({ sacri egoismi» e il rigido prif:tèip-io 'déllà"sovratiità statale particolare per vie diverse che non qù.k1i~i :dellan~cessità o di interessi di congiuntura. Se vi è
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qualcosa di specificamente proprio alla migliore tradizione ariooccidentale, romana quanto germanica, questo è lo spontaneo unirsi di uomini liberi orgogliosi di raggrupparsi intorno ad un capo davvero tale. Per una unità europea vera sapremmo solo concepire qualcosa che ripeta in grande -nazioni e Stati al luogo di singoli individui -una tale situazione a suo modo «eroica », invece di aver per modello una specie di parlamento
o un fac-simile di società per azioni. Proprio in considerazione di ciò noi abbiamo indicato come fattore decisivo per il nostro problema il guadagnare prestigio e influenza, nei singoli paesi, di «centri» o élites, nei quali una disposizione eroica purificata abbia parte essenziale; eroismo, che qui in primo luogo deve manifestarsi spiritualmente, come capacità di subordinare ad una idea superiore tutto .quanto ha carattere particolaristico, fisico, naturalistico.
Riassumendo, il fatto che il ritmo degli avvenimenti e fat
-tori molteplici agenti dall'esterno fanno ormai sentire ad ogni spirito responsabile che per l'Europa far blocco è quistione di vita o di morte, questa situazione di' necessità deve a sua volta condurci al riconoscimento di un doppio problema interno, da risolvere per dare ad un eventuale schieramento europeo una base salda e un carattere organico: da un lato, è il problema del ;mperamento graduale, ma effettivo, di quanto ha attinenza specifica con un'epoca di «civilizzazione »; dall'altro, è il problèma di una specie di metafisica o di nuova teologia con cui possa legittimarsi un principio -sia nazionale, sia supernazionaIe -di vera e pura autorità.
Il doppio problema può ricondursi ad un doppio imperativo. Resta da vedere quali e quanti uomini sono oggi ancora in piedi fra tante rovine per intendere ed assumere questo imperativo.

lunedì 28 novembre 2016

Teodoro Klitsche de la Grange: «Sentimento ostile, Zentralgebiet e criterio del politico».

Pagina in lavorazione.

Sono sempre interessanti gli articoli di Teodoro Klitsche de la Grange e spesso sono anche di stringente attualità. Purtroppo, il lavoro di editing  ne fa talora ritardare la pubblicazione. Pertanto, ne diamo subito il testo, eseguendo in tempo reale l’editing e rinviando a questa prefazione ogni osservazione, spunto o riflessione che l’attenta lettura non mancherà certamente di suscitare in noi.

AC
SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET
 E CRITERIO DEL POLITICO
Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto:
  1.  «Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
Carl v. Clausewitz (1780-1831)
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni» .

E poco prima sostiene che «Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare» .

Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.
2.0 Secondo Carl Schmitt “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato” , perché “Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere”. Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema ; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica . La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale “sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici” .
Tuttavia “contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico” ; e prosegue “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”.
Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni  Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento ; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e poi all’economico.
Il centro di riferimento determina di volta in volta il significato dei concetti specifici. Ciò che più rileva “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale” . Così anche per lo Stato e per i raggruppamenti amico-nemico: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico” .
Mutato il centro di riferimento, cambia la concezione dello Stato e il contenuto o la discriminante del politico, che assume altro significato e criterio e può determinare un diverso raggruppamento amico-nemico e così: “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro e si spera di trovare, sul terreno del nuovo centro di riferimento, quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace. In tal modo si afferma la tendenza verso la neutralizzazione e la minimalizzazione” .
Tuttavia neppure l’approdo “neutrale” cui gli europei sono arrivati nel XX secolo e cioè la tecnica può realizzare l’aspirazione all’eliminazione della conflittualità; sia perché “la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”  sia perché “La speranza che dal ceto degli inventori tecnici possa svilupparsi uno strato politico dominante non è finora giunta a compimento” .
3. La correlazione – anche se non sempre necessaria e inderogabile - tra centro di riferimento e scriminante amico/nemico persuade solo in parte.
Ciò in primo luogo perché occorre coordinarla con ciò che Schmitt ha tanto spesso ripetuto, ossia che a determinare il nemico è la situazione concreta.
Per la quale non vi è solo la coppia degli opposti riferentesi al centro di riferimento, ma vi sono altre contrapposizioni, talvolta più importanti e così decisive (o almeno percepite come tali) che determinano situazioni di lotta e ostilità.
Ad esempio nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l’opposizione tra democrazie liberali (con annessi) e stati comunisti ripartiva quasi tutto il mondo sviluppato in due campi l’un contro l’altro armati, organizzati in sistemi d’alleanza (e relative organizzazioni) contrapposte e pronte alla reciproca distruzione; malgrado ciò non impediva né stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.
Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia.
Peraltro le guerre arabo-israeliane non avevano affatto il contenuto e la scriminante ideologica dei campi che, in maggiore o minore misura aiutavano l’uno e l’altro dei contendenti, ma il carattere “tradizionale” di contese per il possesso della terra tra popoli diversi.
Anche le guerre civili non sono (sempre) guerre ideologiche (anche se spesso ciò è capitato negli ultimi due secoli).
Come scriveva Montherlant nel prologo del suo dramma “La guerra civile”, dando la parola a questa “Io sono la guerra civile… Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”. Quell’ “amico contro l’amico” mostra come il drammaturgo vedesse nella dissoluzione del rapporto amicale la causa della guerra civile. Contro questa non vale (sempre) l’aggregazione derivante dalla comunanza di leggi, tradizioni, storia e lingua, che comunque produce coesione; a questa si deve aggiungere la volontà d’esistere insieme e di un futuro comune. Il venir meno della quale induce la fine della sintesi politica, la quale, come scriveva Renan, è un “plebiscito di tutti i giorni”.
Nella realtà politica la costante del dominio e le sue determinanti, in particolare geo-politiche, così ben enunciata da Tucidide nel famoso dialogo tra i Meli e gli ambasciatori ateniesi ; le opposizioni tra popoli abituati a combattere e ad affermare la propria identità rispetto ai vicini (come, spesso, nei Balcani – e non solo); gli interessi degli Stati, come la politica di De Gaulle nei confronti del mondo comunista, rendono non decisiva l’opposizione principale (ed epocale) .
La decisività dell’opposizione va ricondotta all’influenza sull’esistenza della comunità politica, sia in senso assoluto (la distruzione della comunità o dell’istituzione che le da forma), sia relativa (la modificazione radicale del modo d’esistenza della stessa).
Il conflitto politico è così determinato in primo luogo dall’esigenza d’esistenza della comunità: se è percepito un altro gruppo umano come nemico – nel senso d’essere un pericolo (concreto) per l’esistenza della comunità minacciata – le stesse “differenze” religiose, ideologiche, economiche passano in secondo piano. I “valori” e la correlativa “tavola”, per lo più dichiarata, negli Stati moderni, nelle Costituzioni, passano in second’ordine nel momento in cui è in gioco l’esistenza della comunità. Il tutto avviene sia dal lato interno (la decisione sullo stato d’eccezione) che su quello esterno (la decisione sul nemico), in omaggio alla massima salus rei publicae suprema lex. Il nemico è colui che è tale per la salus dell’istituzione statale (e della comunità). È la concreta situazione ed il pericolo per l’esistenza collettiva e il sentimento ostile che ne consegue più che il contrasto sul modo d’esistenza di un popolo a designare il nemico; così appartiene ad ogni comunità la decisione su chi sia tale, e se l’opposizione epocale sia più o meno importante delle altre opposizioni, che hanno il carattere non solo della concretezza, ma anche della particolarità. Come scriveva Freund            “Cadere in errore sul nemico per stordimento ideologico… è esporsi a mettere, presto o tardi, in pericolo la propria esistenza” .
4. Scriveva Gentile che “è il sentimento politico l’humus in cui affonda le sue radici l’albero dello Stato” ; tale affermazione è complementare a quella di Clausewitz sulla tendenza/componente/costante della guerra costituita dal cieco istinto – e con ciò dal sentimento politico – che “corrisponde” al popolo.
Senza sentimento politico non c’è né guerra né Stato vitale. Quella ha così la possibilità di essere condotta e, nel caso, vinta; in questo si risolve nel relativizzare le opposizioni e conflitti, in particolare quello tra governanti e governati nel consenso dei secondi ai primi, in un idem sentire de republica .
Il problema della legittimità del consenso e dell’integrazione, che i giuristi contemporanei spesso risolvono nella legalità, senza considerare che questa si fonda sulla convinzione della legittimità di chi esercita il potere, e non viceversa; onde – scriveva Gentile - non c’è polizia che possa provvedervi se l’ordine sociale non è condiviso .
5. Un’analisi fenomenologica del rapporto amico/nemico deve partire dall’osservazione fattuale che il conflitto è in se insopprimibile sia all’interno che all’esterno della sintesi politica. Una società, così armoniosa da non conoscere conflitti interni è frutto d’utopismo, di quella variante cioè del pensiero utopico volto ad immaginare fantasie impossibili perché opposte al dato fattuale.
Quel che, invece fa parte dell’esperienza (ed è costante) storica è che le sintesi politiche esistono come tali fin quando riescono a relativizzare i contrasti interni, ricomponendoli e decidendoli; conflitti relativizzati dal consenso ad un’autorità superiore riconosciuta (dai governati) a prendere le decisioni (inappellabili) per l’ordine che assicura. Ove questo non avvenga il risultato è che quei conflitti passano da relativi ad assoluti: in cui posta in gioco è l’esistenza e, gradatamente, la forma di governo, il regime della sintesi politica e non più dissidi interni. Ne consegue che tra tutti gli innumerevoli conflitti che possano esistere all’interno della sintesi politica depotenziarne uno, sicuramente presente, è presupposto necessario del rapporto amicale: quello tra governanti e governati. Perché consente di ricomporre tutti gli altri.
Autorità, ordinamento e regole hanno come esigenza fondamentale di dirimere e decidere i conflitti, e quindi la lotta che inevitabilmente ne consegue, limitandola e degradandola a competizione agonale.
Ancora di più, la relativizzazione dei dissidi interni si fonda sul ruolo pacificatore del terzo, interno alla sintesi politica, cioè, in linea di massima, il potere sovrano. In linea di massima perché l’attività del terzo (anche interno) può non essere svolta da un organo dello Stato e, il risultato politico (la composizione del dissidio), comunque conseguito. Ma il ruolo del “terzo” può non essere limitato ai conflitti interni e, soprattutto la sua azione, essere rivolta a suscitare dissensi, non a ricomporli.
6. Si è spesso pensato, nell’era post-atomica e a seguito della debellatio della Germania e del Giappone (il caso dell’Italia è diverso), che la fine della guerra s’identifichi con l’occupazione militare di un paese previamente distrutto dal vincitore, e quindi posto nell’impossibilità materiale di difendersi; i terribili effetti di una guerra nucleare nell’immaginario collettivo hanno fatto il resto.
Nella realtà una guerra finisce quando una delle parti non ha più la volontà di combattere. La guerra è uno scontro di volontà, come scrivevano, tra gli altri, Clausewitz e Gentile. Presuppone quindi che ambo i contendenti abbiano la volontà di farla e proseguirla: se uno dei due si arrende, la guerra cessa.
Giustamente de Maistre notava che una battaglia persa è quella che immaginiamo di avere perso .
La guerra assoluta sta alla guerra reale come la pace (perpetua? universale?) della debellatio ad un trattato (o anche “dettato”) di pace reale. È essenziale piegare la volontà di combattere del nemico e quindi il sentimento di (appartenenza comunitaria ed) ostilità. A tale scopo tutti i mezzi sono buoni: sia la prospettiva di castighi e danni superiori sia l’opposta di benefici, vantaggi o clemenze. L’armistizio con cui si concluse (sul piano militare) la prima guerra mondiale, con la Germania ancora padrona di gran parte dell’Europa centrorientale ne è uno dei casi.
Pressioni economiche (gli effetti del blocco), l’armistizio dell’Austria-Ungheria e le prospettive strategiche di questo e dell’aumento dell’intervento americano contribuiscono a depotenziare la volontà di combattere.
Ma anche nel XX secolo, nell’epoca della guerra tecnica e totale, spesso armate partigiane decise e motivate, hanno sopportato e vinto in condizioni di (abissale) inferiorità materiale, a prezzo di perdite enormemente superiori a quelle dei nemici ipertecnologici. Lo squilibrio materiale era compensato dall’intensità del sentimento ostile e così del morale. I nemici non riuscivano a sopportare gli (assai inferiori) sacrifici, per cui preferivano concludere la pace o comunque rinunciare alla guerra . Il sentimento ostile è, per il più debole, il fattore che può consentire di condurre e vincere la guerra, pur connotata da una notevolissima asimmetria materiale.
È proprio la guerra asimmetrica nelle sue diverse forme a connotare i conflitti contemporanei, a partire dal crollo del comunismo e dalla conseguente rottura del condominio bipolare che aveva caratterizzato la seconda metà del XX secolo.
Del pari l’ostilità tra gruppi umani, che condivide la natura camaleontica del suo prodotto più intenso, la guerra (caratterizzata dall’uso della violenza), prende forme intermedie (per lo più mistificate o del tutto occultate). Influenzate da derivazioni (nel senso di Pareto) pacifiste; queste consistono nel negare ad interventi armati il carattere di guerra, in nome d’intenzioni ireniche e soprattutto perché intraprese al fine di mantenere la pace .
Ma la panoplia dell’ostilità non si limita alle guerre mascherate.
Altre forme ne sono quelle azioni che tendono allo stesso scopo della guerra – piegare la volontà dell’avversario – con mezzi non militari (blocco economico, attacchi informatici, scorribande finanziarie, fino alle invasioni pacifiche); ovvero condotte da soggetti non aventi lo status di legittimi belligeranti (justi hostes), mezzo ben noto anche ai secoli passati. Il connotato comune di tutti questi tipi di atti ostili è che, avendo lo stesso scopo della guerra “classica” mancano di uno (o più) dei requisiti individuati dalla teologia cristiana perché vi fosse una guerra giusta (justum bellum): qui manca la recta intentio, lì l’auctoritas, altrove una justa causa belli. Onde (forse) non possono essere considerate guerre in senso proprio, ma quasi sempre non possono essere ricondotte al concetto di guerra giusta elaborato dai teologi.
Proprio in tali guerre – non guerre assume un rilievo forse maggiore che in quelle classiche l’esigenza di annichilire la volontà di resistere (e di combattere) del nemico; perché l’avversario sa bene, come scriveva de Gaulle, che la forza risiede nel di esso ordine e che rompendo questo si distrugge quello.
7. Nelle forme “atipiche” di guerra che connotano il XXI secolo questo è possibile in vari modi e i mezzi devono essere congrui rispetto agli obiettivi. Decisivo appare comunque provocare la perdita della coesione politica del nemico. I gradi dell’azione possono essere differenti: si va, in crescendo, dalla sostituzione del governo ostile all’abolizione del regime politico  fino alla distruzione della sintesi politica oggetto dell’intervento ostile .
Connotato comune è che il mezzo usato e lo scopo lo rendono più prossimo alla rivoluzione che alla guerra: anche se il fine non è sempre rivoluzionario consiste nella sovversione e il rovesciamento dell’ordine (e così  almeno del governo) ostile. Dato che gli interventi ostili contemporanei hanno – come d’altra parte tante guerre – obiettivi limitati, spesso è sufficiente la sostituzione del governo per realizzarli.
Malgrado il non uso di mezzi militari, ciò lo rende assai più lesivo dei principi del diritto internazionale di quanto lo sia uno justum bellum: suscitare la sovversione (fino alla rivoluzione) negli altri Stati ha, secondo molti costituito un illecito internazionale, spesso vituperato e altrettanto praticato.
8. Il pensiero politico si è interrogato da millenni su chi sia il nemico, e le risposte al quesito sono state le più varie e neppure escludentesi tra loro. Si è ritenuto che ci fossero nemici per natura , o più spesso per divergenze d’interessi, o anche per costumi , per religione (fonte di tanti contrasti). Ancor più su chi sia il nemico giusto .
Come sostenuto da Schmitt (e non solo) il secolo XX ha visto il riconoscimento dello Stato di nemico giusto anche a soggetti politici altri degli Stati (in particolare movimenti rivoluzionari); così una legittimazione delle guerre giuste prevalentemente in base al criterio della justa causa belli.
Sul piano fenomenologico il tutto ha portato non alla riduzione, ma all’accrescimento del ruolo del sentimento ostile: in particolare l’attività bellica svolta da organizzazioni non statali relativamente (poco) istituzionalizzate  ha comportato un aumento del ruolo attivo della popolazione nella guerra, secondo la concezione di Mao-dse-Dong, e così del sentimento politico.
La debole istituzionalizzazione ha reso del pari meno rilevante il ruolo del personale “tecnico” e specialistico. Il comando – e i quadri – dei movimenti partigiani sono solo occasionalmente (e raramente) dei tecnici e dei burocrati militari: per lo più o non posseggono esperienza di guerra o ne hanno poca. Già agli albori del  partigiano moderno, troviamo il cardinale Ruffo, il quale non era un militare, ma un religioso ed amministratore civile. In compenso sapeva benissimo come suscitare ed avvalersi del sentimento ostile antigiacobino delle popolazioni meridionali. Così gran parte dei suoi seguaci, cosa ripetutasi in tutti (o quasi) i movimenti rivoluzionari moderni. Fra Diavolo il capo partigiano faceva il sellaio per poi arruolarsi (qualche tempo) nell’esercito regolare borbonico; Empecinado l’agricoltore.
E, sotto tale profilo, occorre ritornare alla concezione di Schmitt, prima cennata, del ruolo della tecnica e della tecnocrazia, relativamente al sentimento politico, sia che si tratti dell’avversione al nemico che della coesione con l’amico.
La tecnica è in se uno strumento e un mezzo, non un fine.
Anzi il passaggio dalla concezione della tecnica (della prima metà del secolo scorso) di cui scrive Schmitt come “fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana, la fede nell’illimitato «superamento degli ostacoli naturali», nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenza naturale dell’uomo in questo mondo”,  per cui non può dichiararlo “semplicemente una morta mancanza di anima, senza spirito e meccanicistica” ha rafforzato la nulla (o scarsa) idoneità a suscitare “sentimento politico”.
Se la tecnica all’epoca era concepita in una dimensione (e funzione) prometeica, ora è percepita come soddisfazione di bisogni (per lo più privati) di una società di consumatori pantofolai, i quali comunque hanno abdicato a dare un senso all’esistenza collettiva, che non sia quello di produrre e consumare.
Il quale si coniuga assai bene con la profezia di Tocqueville sul dispotismo mite ; mentre secondo il giurista di Plettemberg “Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le «riforme», tutte le nuove élites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà, nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallo status quo”.
9. Ciò nonostante dato che ogni scelta, come è anche quella di servirsi della tecnica (o di tecniche), può suscitare una contrapposizione amico-nemico è il caso di vedere se anche questa (e/o quelle) può costituire fondamento aggregante/discriminante.
In primo luogo bisogna ricordare che il rifiuto di certe (soluzioni) tecniche è, il più delle volte, solo il riflesso di una scelta di valori; nel mondo contemporaneo è evidente per le (nuove) tecniche riconducibili a orientamenti bioetici . La dipendenza di queste da quelli le rende irrilevanti o, tutt’al più, secondarie.
In secondo luogo il rifiuto totale (o quasi) della tecnica, quale risultante/componente di una scienza e di una civiltà altra è stato più volte ripetuto nella storia.
In particolare Toynbee lo ritiene uno dei tipi di comportamento tenuti dalle comunità umane non facenti parte della civiltà (del cristianesimo) occidentale di fronte all’espansione planetaria di questa.
Del rifiuto (opposto all’assimilazione/accettazione) riteneva “campioni” (tra gli altri rifiutanti) il Giappone ante-rivoluzione Meiji e l’Abissinia; dell’accettazione (modernizzazione) considerava le più tipiche figure storiche Pietro il Grande, Mehmet Alì e gli statisti giapponesi dell’epoca Meiji . Ma il rifiuto della tecnica e della tecnologia era la conseguenza/risultanza dal rifiuto dell’intera civiltà occidentale, nei suoi valori come nell’organizzazione sociale (diritto compreso), oltre che della tecnologia, e quindi, in parte, coincide con il primo tipo di scelta.
Anche se è ipotizzabile teoricamente un’opposizione sulla tecnica, questa non appare in concreto, quale determinante reale del conflitto, e neppure può costituire, se non in ruolo ancillare , un fattore decisivo e legittimante del potere. Ogni situazione conflittuale e non conflittuale, di inimicizia o di amicizia; il dissenso o il consenso di valori od interessi è rimessa alla volontà umana, mentre la scelta tecnica (e la validità di questa) non è preferenza di volontà, ma di congruità ed opportunità.
La situazione contemporanea, a seguito del collasso del comunismo (e delle istituzioni-alleanze che ne determinavano il campo) ha fatto cessare l’opposizione borghese/proletariato che ha connotato (quanto meno) il “secolo breve”. Le recenti affermazioni elettorali di movimenti e candidati non riconducibili al vecchio Zentralgebiet, in Europa innanzitutto, e, come appare dall’elezione di Trump, anche negli USA, fanno emergere una nuova opposizione amico/nemico, ideologicamente meno definita, ma, almeno potenzialmente, virulenta. Appare evidente che tale contrapposizione, come mi è capitato di scrivere di recente, è quella tra nazione (identità nazionale) e globalizzazione ; (o internazionalismo “diretto”). Rispetto ai vecchi  “Zentralgebiet”, specialmente quello generante l’opposizione borghesia/proletariato, ha in comune il carattere di essere divisiva sul piano interno non meno che su quello esterno: genera partiti populisti che si contrappongono all’élite interne ed internazionali, rappresentate dai vecchi partiti in decadenza, la cui strategia di sopravvivenza è spesso coerente con l’emergere della nuova opposizione (che rende secondaria e poco rilevante la vecchia): tendono all’arroccamento, al fare blocco tra loro (la vecchia destra e la vecchia sinistra), per impedire la presa del potere alla nuova “coppia” amicus-hostis .
Anche se, spesso, più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tanto o tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.
Teodoro Klitsche de la Grange