giovedì 30 aprile 2015

Testo del discorso del Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran alla Conferenza Asia-Africa svoltasi a Jakarta.

Riceviamo con richiesta di pubblicazione, anche sul nostro blog, e divulgazione il testo che segue. Lo facciamo volentieri e ci riserviamo un nostro eventuale ulteriore commento e analisi, come sono pure sempre possibili i commenti dei Lettori, assolutamente liberi purché nei limiti della vigente legalità. L’Iran è un paese che da oltre un secolo non ha mai mosso guerra a nessuno: si è sempre soltanto dovuto difendere da aggressioni altrui. L’immagine che dell’Islam viene data dai media suona falsa ed è strumentalizzata da chi promuove la guerra come mezzo ordinario della politica, da chi aizza i popoli gli uni contro gli altri e poi pretende di punire per legge il sentimento dell’odio. L’apporto dell’Islam e della civiltà islamica in un periodo in cui l’Europa era caratterizzata da «secoli bui» è ancora largamente misconosciuta. Se si vogliono cercare le “radici” della cultura europea non si può escludere l’Islam, che ci ha restituito i legami con la civiltà classica greca e romana. Per davvero: «L’Islam è la religione della logica e della scienza», come è detto più sotto nel testo. Ed a noi resta ancora da riconoscere e far conoscere di quanto siamo debitori all’Islam. Siamo ancora freschi della lettura di un libro scritto da un “islamico” italiano: il giornalista Pietrangelo Buttafuoco, il cui “Feroce Saladino” replica ai tanti luoghi comuni che popolano le pagine dei giornali, individuando «la novità militare dell’Iran» quale «unica sovranità in grado di muovere guerra all’ISIS», in difesa “del principio di Civiltà contro il Terrore” (Khamanai). Il “mondo antico” – da cui prese avvio la nostra Civiltà – costituiva una mirabile unità geopolitica, la cui attualità risulta ben evidente a chi ha interesse alla pace e alla convivenza pacifica dei popoli. Il Mediterraneo univa tre continenti che ora si trovano in guerra non per volontà di vive sulle sue sponde, ma per calcoli politici e interessi economici di potenze estranee non solo alla geografia del mondo antico, ma anche alla sua civiltà e ai suoi valori. Anche l’Impero Ottomano univa tre continente, prima che famelici appetiti coloniali accendessero i fuochi di una guerra che ormai dura da più di Cento Anni. Ben venga la pace e gli uomini di buona volontà non si stanchino mai di cercarla.

CIVIUM LIBERTAS

Testo del discorso del 
Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran
                alla Conferenza Asia-Africa svoltasi a Jakarta.


Nel nome di Dio
Lode ad Allah Signore dei mondi,
saluto di Dio sul Nostro Profeta Mohammad e la sua famiglia

     Io e la mia delegazione siamo molto lieti di poter essere qui presenti tra sapienti religiosi, autorità istituzionali, intellettuali e accademici di un paese amico come l’Indonesia.

     L’Indonesia ha una posizione particolare nel mondo dell’Islam. È il paese islamico più popoloso ed è un simbolo di convivenza pacifica tra altre religioni e di fratellanza fra gli uomini.

     Oggi il fatto che voi - autorità religiose, accademici e intellettuali - e i governi islamici possiate analizzare la situazione internazionale e individuare gli affari più importanti per il mondo dell’Islam, ha una importanza notevole.

     Stabilire una scala dei problemi più importanti del mondo dell’Islam è il nostro primo dovere. Come dice il nostro Profeta, “Dobbiamo prestare maggiore attenzione alle problematiche del mondo dell’Islam”.

     In una società islamica noi dobbiamo considerare tutti i musulmani uguali come i denti di un pettine, e dobbiamo inoltre saper distinguere i problemi importanti da quelli meno importanti sia per quanto riguarda gli affari culturali che quelli religiosi. La base, il principio è l’Islam, e solo dopo vi sono la scuola sciita, hanafita, malikita e hanbalita, in quanto quest’ultime sono tutti correnti che sorgono da un’unica fonte che è l’Islam.

     Se un pericolo minaccia la fonte, allora le correnti sono a rischio di estinzione, per cui prima di pensare alle correnti dobbiamo pensare alla fonte dell’Islam, alla Rivelazione, al Tawhid, al Sacro Corano, alla Profezia e al principio generale della fede.

     Oggi il mondo dell’Islam soffre per la scissione causata dai nemici, da ignoranti e da persone che hanno dimenticato i principi dell’Islam. Vorrei citare una frase del fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran, l’Imam Khomeini, che dice: “ogni sciita che si mette contro un sunnita non è uno sciita, e ogni sunnita che si mette contro uno sciita non è un sunnita. Il mondo d’oggi è quello dell’unità dell’Islam”.

     Il problema più importante d’oggi per noi musulmani è la vita degli uomini, non solo quella dei musulmani, ma di tutti gli uomini. Non dobbiamo permettere l’uccisione di persone innocenti: uccidere un uomo vuol dire uccidere tutta l’umanità. In quale fede potete trovare una affermazione così bella per cui la vita di un essere umano vale come tutta l’umanità!

     Il nostro Profeta (saluto di Dio su di lui e la sua famiglia) dice:

“Il grido dell’oppresso per noi è importante, ed è nostro dovere aiutare chiunque ci chieda aiuto, a prescindere che sia musulmano o meno”.

     Se un uomo innocente, a prescindere dalla sua fede e religione - sia egli sciita, sunnita, ebreo, cristiano o buddista - viene ucciso, ciò è da condannare fermamente, in quanto dal punto di vista dei diritti i credenti delle diverse religioni sono uguali. Noi siamo dispiaciuti per l’uccisione di un essere umano innocente a prescindere dalla sua fede e dalla sua razza - può essere arabo, persiano, indonesiano, dell’est o dell’ovest del mondo, dell’Islam o di un’altra religione, africano o asiatico - in quanto la vita e la sicurezza degli esseri umani per noi è il fattore più importante, e la loro salvaguardia deve costituire un dovere per i governi, i sapienti religiosi e gli intellettuali.

     Noi musulmani dobbiamo essere in prima linea per difendere la vita e sicurezza degli uomini. Come possiamo sopportare che degli innocenti in Yemen, Iraq, Siria, Libia o in altre parte del mondo dell’Islam o addirittura nel cuore dell’Europa e dell’America vengano uccisi? L’uccisione di ogni innocente ci provoca dolore e tristezza. Conoscete quel racconto bellissimo che parla dell’aggressione subita da una donna non musulmana e del saccheggio dei suoi gioielli? L’Imam Alì (saluto di Dio su di lui) disse:

     “Non si può biasimare la morte causata dal dolore provocato dal venire a sapere che una persona innocente è stata vittima di aggressione e molestie”. L’Imam Alì, seguace fedele del Profeta, considera la tristezza e il dolore derivanti anche solo dall’udire la notizia di una violenza subita da una persona innocente tanto gravi da causare addirittura la morte, una morte causata dal dispiacere e dal dolore.

     Nel mondo d’oggi la nostra priorità è garantire la vita e la sicurezza degli uomini in tutto il mondo. Questo non è un compito che si limita solo al mondo dell’Islam. Noi musulmani abbiamo il dovere religioso di salvaguardare la vita degli esseri umani; noi riconosciamo il valore del diritto alla vita, per cui se viene uccisa una persona innocente noi non possiamo che condannare duramente tale atto, a prescindere dalla nazionalità e dalla fede della vittima.

     Il secondo fattore più importante nel mondo d’oggi è la nostra dignità, la dignità del mondo dell’Islam e dei musulmani. Tutti i musulmani e coloro che percorrono il sentiero tracciato dal Profeta dell’Islam devono salvaguardare la propria dignità. Purtroppo nel mondo dell’Islam vi sono delle persone che calpestano la dignità dei musulmani e si servono del nome del jihad e della religione per colpire il volto dell’Islam e il suo Messaggero, danneggiando gravemente la religione divina e la dignità di tutti i musulmani. Essi diffondono l’ìslamofobia nel mondo facendo sorgere diversi dubbi nei giovani riguardo all’Islam e ai suoi divini insegnamenti, e siamo noi che dobbiamo assumerci la responsabilità di questo tragico fenomeno.

     Oggi restare indifferenti davanti a questi attacchi sferrati all’identità e alla realtà dell’Islam vuol dire compiere un peccato. Dobbiamo sentire il dovere di reagire. In questa situazione i governi islamici, il popolo musulmano, le autorità religiose, gli intellettuali e gli accademici hanno una responsabilità enorme. Dobbiamo servirci a tal fine di tutta la nostra forza culturale, scientifica e intellettuale.

     Noi musulmani abbiamo vissuto per secoli insieme a seguaci di altre fedi, in una convivenza pacifica e proficua per tutti. La presenza di luoghi di culto di religioni diverse dall’Islam a fianco di quelli islamici in Iraq e in altri paesi islamici, luoghi di culto che risalgono ai primi tempi dell’Islam oppure addirittura antecedenti alla sua diffusione, sono una testimonianza e una conferma di quanto affermiamo, ma purtroppo molti di questi luoghi di culto sono stati distrutti da queste persone malvagie nel nome dell’Islam e con la scusa del “Jihad”.

     Qual è il primo versetto del Sacro Corano che parla del Jihad? Il sacro Corano mette in rilievo il jihad dicendo che si tratta solo di un atto difensivo, da attuare nel momento in cui i musulmani diventano oppressi. Quindi il Jihad nell’Islam significa solo “difendere gli oppressi”, significa difendere i templi, le chiese e le sinagoghe, i luoghi di cultura, di scienza e civiltà. L’Islam è la religione che difende tutti. Il jihad nell’islam vuol dire difendere tutti.

     A quegli orientalisti, islamisti o sedicenti intellettuali che hanno dichiarato, in modo falso e forse in malafede, che l’Islam è la religione della violenza, io chiedo: l’Islam in Indonesia è forse entrato con la forza? Nell’est dell’Asia, l’Islam è entrato attraverso l’aggressione e l’occupazione?

     L’Islam è la religione della logica e della scienza, non è la religione della violenza. L’Islam non si impone mai a nessuno. Un versetto del Corano dice: “Non c’è costrizione nella religione”, per cui l’Islam non coincide con la violenza. La religione vuol dire credo, dottrina. Possiamo forse imporre il credo e la dottrina nelle menti e nei cuori degli uomini con la spada?

     “Le frontiere dell’Islam sono frontiere di sangue”: questa è una falsa dichiarazione. Le frontiere dell’Islam sono le frontiere della logica, della ricerca, della scienza e sana passione.

     Il nostro Profeta era il messaggero di sana passione ed io domando a voi autorità religiose: pensate che il comportamento del nostro Profeta con i fedeli di altre religioni quando entrò a Medina per fondare il governo islamico cambiò rispetto agli ultimi anni della sua vita, quando era al potere? Nella città di Medina non vivevano fedeli di altre religioni? Il Profeta (S) non ha espulso nessuna da Medina, né ebrei né cristiani, pur sapendo che tra di essi vi erano alcuni suoi nemici. L’Islam ci ha donato una religione che sostiene la convivenza, la tolleranza e la cooperazione con gli altri.

     Ci sono delle persone che nei loro libri hanno dichiarato in modo falso che l’Islam è la religione di violenza, ed oggi proprio loro hanno creato dei gruppi terroristici per fornire delle conferme a questa loro illazione.

     L’Islam non è la religione della violenza, e oggi non dobbiamo restare indifferenti nei confronti di queste persone che hanno colpito l’immagine dell’Islam, del Sacro Corano e del Profeta in modo così grave.

     Dobbiamo avere una voce unica e dobbiamo gridare contro la violenza e l’estremismo in modo unito.

     L’Islam è la religione dell’equilibrio, della logica e della scienza. Dobbiamo presentare l’Islam vero al mondo.

     Oggi questo compito è diventato il nostro dovere improrogabile. L’Islam è la religione contro ogni disordine e caos.

     Quando il Profeta (S) inviò Ali Ibn Abi Taleb e Moaz nello Yemen, ha raccomandato loro di comportarsi con la gente in modo tale che non si allontanassero all’Islam, di non essere duri con la gente, in quanto l’Islam è la religione che semplifica le cose, e non quella che le complica, e noi dobbiamo presentare questa religione al mondo intero. L’unità nel mondo dell’Islam oggi è il nostro dovere più importante.

     Il terzo fattore più importante per il mondo dell’Islam è lo sviluppo e il progresso. L’Islam è la religione della scienza, della civiltà, della purezza interiore ed esteriore. Il Profeta (S) invitava sempre il suo popolo a curare l’aspetto e l’igiene personale.         L’Islam invita i suoi fedeli ad avere massima cura sia per l’igiene personale che la purificazione prettamente interiore, e chiede loro di imparare e coltivare le scienze e vivere in una convivenza pacifica. La nostra religione è dunque la religione dell’etica e della convivenza con gli altri, che ci chiede di imparare e coltivare le scienze. Noi musulmani dobbiamo quindi approfondire lo studio e progredire dal punto di vista scientifico ed economico: se non lo facciamo, non potremo liberarci dai complotti dei nostri nemici. E per far ciò dobbiamo aiutarci a vicenda.

     L’Iran ha pagato un caro prezzo per il suo sviluppo scientifico. Gli occidentali ci hanno imposto le sanzioni solo a causa del nostro sviluppo scientifico, perché volevano che alcune tecnologie rimanessero solo nelle loro mani. Sono dispiaciuti solo perché hanno visto che non esiste più l’esclusiva nella tecnologia, e sono stati testimoni della fine del loro dominio economico, scientifico e militare.

     Dobbiamo mettere fine al dominio di questi poteri: la scienza appartiene a tutti. Nei tempi in cui la scienza e le università appartenevano a noi musulmani, ci hanno insegnato che insegnare la scienza ad altri era la “Zakat” della scienza. L’Occidente ha imparato tanto dal mondo dell’Islam e noi abbiamo messo la nostra scienza a loro disposizione senza pretendere nulla, e oggi loro vogliono ostacolare il nostro percorso di sviluppo. Noi riteniamo che lo sviluppo scientifico e la tecnologia appartengano a tutti, anche ai musulmani. Dobbiamo restare uniti per raggiungere il nostro obbiettivo con l’aiuto di pensatori, scienziati, accademici e studiosi, e in tal modo potremo avere un altro mondo davanti a noi.

     Abbiamo una grande responsabilità nei confronti dei nostri figli. Non dobbiamo permettere che i dubbi sull’Islam e la grande eredità del nostro Profeta penetrino nelle menti dei nostri giovani, non dobbiamo permettere a nessuno di dividerci servendosi di settarismi, mistificazioni, violenze e aggressioni. La nostra religione è priva di ogni violenza gratuita e ingiustificata, la nostra religione è la religione della sana passione, della fratellanza e dell’uguaglianza, per cui dobbiamo sempre rispettare la moderazione e l’equilibrio nei nostri comportamenti.

     Il nostro messaggio deve essere decisivo, chiaro e inequivocabile, deve avere salde argomentazioni e una logica inoppugnabile. Questo è il nostro compito.

     Gli intellettuali e gli scienziati, in Iran, in Indonesia e in altri paesi islamici, devono unirsi davanti agli attacchi, culturali e non, che subisce il mondo dell’Islam.

     L’Islam in Iran e in Indonesia è l’Islam della moderazione e dell’equilibrio. In Iran gli sciiti e i sunniti convivono insieme in modo pacifico. Venite in Iran, e potrete vedere luoghi di culto risalenti ai secoli e millenni passati, e il nostro parlamento in cui gli sciiti, i sunniti, i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani hanno la loro rappresentanza, uniti tutti insieme per il bene comune!

     Questa è la logica dell’Islam e del suo Profeta (S). Noi grazie all’Islam, al Sacro Corano e alla condotta del Profeta (S), abbiamo imparato l’unità e la fratellanza. Per noi la sicurezza dei musulmani nel mondo islamico è un dovere.

     L’Iran sostiene gli sciiti del Libano e sostiene anche i sunniti di Gaza: per noi i sunniti di Gaza e gli sciiti del Libano, gli sciiti in Iraq e i sunniti in Iraq o Siria, ed anche i cristiani in Iraq e Libano, sono tutti uguali nel momento in cui sono vittime di violenze e ingiustizie. Noi vogliamo difendere gli oppressi.

     Oggi è il giorno in cui dobbiamo restare uniti, e con l’aiuto di Dio aiutarci a vicenda, come dice il Sacro Corano: “Aiutate la fede presentata da Dio, e Dio vi aiuterà”.


martedì 14 aprile 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Violenza e difesa» - Parte Prima

Questo articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth. Per andare alla Parte Seconda si clicchi qui.


VIOLENZA E DIFESA

(I)

1. Dopo l’omicidio plurimo di Milano, dove taluno ha visto l’effetto delle campagne di de-legittimazione della magistratura, talaltro la mera azione di uno squilibrato (anche perché una sola delle vittime era magistrato), si è aperto (o ri-aperto) un dibattito più che una riflessione (anche perché diversi interventi denotano di essere punto o poco riflessivi sulla violenza e sul farsi giustizia da soli) con tutti i consueti corollari (disciplina delle armi e così via).
C’è financo qualcuno che ha voluto connettere la violenza al liberismo accomunati dall’essere entrambi esaltatori del privato rispetto al pubblico. Tesi che fa sorridere, non solo a leggere i classici del liberismo, ma più ancora l’evanescenza dei “punti di contatto”.
Il dibattito è antico: perché, se vogliamo (ampliandone la portata) parte dal famoso dialogo tra Antigone e Creonte, dove la figlia di Edipo, tuttavia astenendosi da ogni violenza, contesta il diritto, rivendicato da Creonte, quale sovrano di Tebe di dare alla città leggi non conformi a quelle tradizionali d’origine divina. Prosegue poi – tra l’altro – nelle pagine dei teologi cristiani (in particolare, ma non solo, sulla quaestio del tirannicidio), arriva in una celebre opera letteraria come Michel Kolhahaas di Kleist e, passando per la dottrina giuridica (e le codificazioni) arriva fino ai giorni nostri e ad internet.
In realtà nella storia umana la violenza come mezzo di realizzazione- esecuzione di una pretesa legittima (non è il caso di Milano) non è stata prevalentemente riservata al potere pubblico, ma distribuita tra quello pubblico e non pubblico. Facendo molta attenzione a tale distinzione (semplificata), perché spesso nel “privato” si deve leggere il diritto di istituzioni subordinate a quella egemone, avrebbe scritto Santi Romano (tribù, gruppi gentilizi, signori feudali) ad esercitarlo. Quindi riservato a taluni e non pertinente a tutti.
Con l’avvento dello Stato moderno il monopolio della violenza legittima appartiene allo Stato. Il quale comunque ha dovuto lasciare qualche “valvola di sfogo”, anche perché non può garantire la sicurezza totale: per avere la quale ad ogni cittadino dovrebbe affiancare un carabiniere. Quindi come tutti gli ordinamenti, ha riconosciuto il diritto (l’esimente) di legittima difesa (art. 52 del codice penale).
Già Cicerone diceva al riguardo nell’orazione Pro-Milone che la legittima difesa è un diritto (dell’individuo) perché “ratio doctis et necessitas barbaris et mos gentibus et feris natura ipsa praescripsit, ut omnem semper vim quacumque ope possent a corpore, a capite, a vita sua propulsarent, non potestis hoc facinus improbum iudicare, quin simul iudicetis omnibus qui in latrones inciderint, aut illorum telis aut vestris sententiis esse pereundum” (1). Tuttavia la razionale argomentazione (e la splendida prosa) di Cicerone non è condivisa da parecchi.
In una trasmissione televisiva di qualche giorno orsono un rappresentante del PD, dibattendo con Salvini, confondeva la legittima difesa con la “giustizia fai da te”; confusione bizzarra perché in un caso si tratta di difendere, nell’immediato, beni propri, nell’altro di “realizzare” propri diritti. Con la prima si difendono i propri (irrinunciabili) diritti alla vita e all’incolumità: con l’altra pretese le più varie e diverse (anche meramente patrimoniali).
Da ciò – e da altro – derivano una serie di confusioni ed equivocazioni – spesso volute – che è il caso di evidenziare.

2. La prima è che dove c’è la violenza non c’è il diritto e altri idola simili. Nella realtà questo sarebbe condivisibile se gli uomini fossero tutti buoni, pacifici ed ossequienti alle leggi. Ma dato che non è così, di guisa che la (principale) ragione per la costituzione di un potere pubblico è proprio la innata tendenza degli uomini a trasgredire le leggi, violare i diritti altrui e prevaricare il prossimo, l’argomento è irreale, oltre che contraddittorio perché vale anche per lo Stato, principale produttore del diritto e monopolista della violenza legittima. In una società dove tutti gli uomini fossero angeli, e gli uomini fossero governati dagli angeli - è scritto nel “Federalista” - non ci sarebbe necessità né di governi, né di controlli sui governi. Ma siccome non è così bisogna istituire l’uno e gli altri. All’inverso di quanto credono i fautori della contrapposizione criticata la forza è necessaria al diritto e non opposta a questo. Se viene usata contro il diritto, allora – che il trasgressore sia privato che un pubblico ufficiale – occorre reprimerla (contrapponendole una forza superiore).

3. La seconda tesi, per così dire, ultra-hobbesiana, è che il monopolio della forza del Leviatano è positivo perché impedisce il dilagare della violenza privata, esiziale alla coesione e all’ordine sociale (bellum omnium contra omnes). Solo che il filosofo di Malmesbury non risulta che l’avesse mai esteso alla legittima difesa: il comandamento cristiano è “non uccidere” non “non difenderti”. Tale tesi ha, rispetto alla precedente, il vantaggio di un presupposto realistico, ma costituisce comunque una fiduciosa esagerazione della capacità ordinatrice del sovrano.

4. L’altra convinzione diffusa è quella che prescrive di non far ricorso alla violenza (in nessun caso). A prescindere dalla (pretesa) derivazione evangelica, sottolineata da Max Weber, è sicuro che il tutto è contrario alla funzione (principale) del diritto, che è (uno) strumento per garantire (la regolazione de) l’ordine sociale. E che si regge sulla distinzione tra lecito e illecito. Se a una violazione del diritto non si reagisce – diverso è il problema di chi e come reagisce – si ottempera al precetto di non violenza ma si collabora alla dissoluzione dell’ordine sociale e della distinzione  tra condotta lecita e illecita. Si può replicare – come anticipato -  che il problema non è di non reagire, ma di chi è abilitato a farlo. Vero: ma proprio perciò, e ricollegandoci alla prima tesi criticata, il divieto non è affatto assoluto e generale, anzi, la regola è che, in una società ordinata, si deve reagire (come scriveva Jhering nel “Kampf um’s Recht”); e ciò talvolta compete ad uffici pubblici, tal altra alla parte lesa (con i mezzi ordinari). Ma in casi eccezionali si ha facoltà di contrapporre la violenza alla violenza (vim vi repellere licet).

5. Un’altra tesi che si associa alle esposte è che il ricorso alla violenza del pluriomicida di Milano sarebbe l’altro aspetto della violenza nelle relazioni “internazionali” (intendendo con ciò anche quella dei movimenti non statali come movimenti partigiani, califfato e così via).
Tuttavia tale violenza “internazionale” ha un carattere pubblico che manca al pluriomicida di Milano, che ha ucciso per motivi strettamente personali e privati (dichiarazione di fallimento e conseguente giudizio penale). È inutile ripetere tutta la problematica sulla violenza (fino alla guerra) praticata da soggetti non statali, particolarmente approfondita nel XX secolo da giuristi come Carl Schmitt e Santi Romano. Resta il fatto che se Ali la-pointe, fosse andato a parlamentare per l’indipendenza (invece che mettere bombe), ad Algeri governerebbe ancora Jacques Soustelle. E peraltro non è affatto sicuro che la condanna della violenza in conflitti pubblici (guerre di liberazione, resistenze contro governi tirannici, occupazioni militari straniere) sia largamente condivisa dall’opinione pubblica, come, in genere, quella per liti private.

6. L’altra tesi è che ad alimentare la violenza internazionale sia il “virus della violenza nella forma del fanatismo religioso” (v. Guido Rossi sul Sole 24 ore del 12 aprile 2015): ciò è in larga misura vero, da quando, per l’appunto e a seguito del crollo del comunismo, a ritornare in auge, quale motivo di guerra, è la religione. In ciò l’articolo citato va d’accordo con quanto sostiene il personaggio di Rediger nell’ultimo romanzo di Houllebecq. Ma non è vero che anche in assenza di religione come principale motivo di guerra – come accaduto in gran parte del secolo passato e del precedente – i conflitti, estremamente barbari e spietati, siano mancati. Anzi proprio le ideologie pragmaticamente atee - come il comunismo – o intrinsecamente irreligiose, come il nazismo, ne hanno provocato i più sanguinari.

7. In definitiva occorre ricordare, tra i molti, quanto sosteneva Proudhon, che la guerra (ossia la violenza del gruppo politico) “domina, regge con la religione, l’universalità dei rapporti sociali. Tutto nella storia della umanità, la suppone. Nulla si spiega senza di lei; nulla esiste senza di lei: chi sa la guerra, sa il tutto del genere umano”. Cui occorre aggiungere la (consueta) lezione di Hobbes che la conflittualità, se non è politica e organizzata, è comunque così connaturata alla natura umana, che deflagra nella forma di guerra civile, fino a quella privata. Come scriveva Montherlant, questa (la civile) è la vera guerra, quella “del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”.

NOTE 

(1)  … dalla ragione per i saggi, dalla necessità per i barbari, dal costume per tutti i popoli e dalla natura stessa per le bestie, è stato prescritto che ognuno debba sempre respingere con ogni mezzo qualsiasi violenza che lo minacci nel corpo, nel capo, nella vita; voi non potreste giudicare ingiusta questa difesa senza giudicare, nello stesso tempo, che chiunque sia incappato nei briganti debba soccombere o per le loro armi o per le vostre sentenze” (Pro-Milone XI).

Teodoro Klitsche de la Grange

venerdì 3 aprile 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Le spine della legalità».

Questo ampio articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth.

LE SPINE DELLA LEGALITÁ

1. L’invocazione alla legalità è una delle più insistenti in Italia negli ultimi anni: a ragione perché le trasgressioni alla legislazione in vigore (spesso da parte di funzionari ed uffici pubblici) sono così diffuse, che non potrebbe essere diversamente. Quando poi si si parla specificamente di corruzione – che dell’illegalità è una delle (principali) componenti - si apre un dibattito che si fatica a contenere.
Ma cos’è la legalità? Specificarne gli aspetti serve a capire quando quell’invocazione è rettamente posta e quando non lo è (o lo è solo in parte). E soprattutto quali siano gli idola della legalità cioè quelle apparenze – per lo più ingannatorie – che ne celano la vera natura e i vari interessi che muovono certi pasdaran della medesima (1).

2. In primo luogo il più frequente topos della legalità è quello risalente a Pindaro, del nomos basileus, ossia del governo di leggi, non di uomini. È una nobile aspirazione, ma è comunque, a prenderla alla lettera, impossibile. Perché ogni governo è di uomini su uomini. E quindi a chi le presta fede incondizionata, è acconcio il giudizio di Gaetano Mosca: che è “una furberia da ipocrita o il sogno di uno sciocco”. Diverso è considerarla come (nobile) aspirazione: una tendenza che deve essere conciliata con una realtà per cui ogni comando è comunque opera di un essere e, quindi, di una volontà umana e che il momento dell’“applicazione” della legge (al caso concreto) è insopprimibile. Anche se una legge è ispirata a ragione ed equità, non è detto che l’applicazione sia conforme alle norme “benintenzionate”. Come scriveva de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (2)  (cui è d’uopo aggiungere che occorre “governare” anche i governanti). Espungere o ridurre al minimo l’arbitrio, l’intenzione, l’errore umano nell’ “applicazione” delle leggi è lodevole, ma impossibile se lo si crede sempre attuabile: cioè universale e senza eccezioni.

3. In secondo luogo c’è la concezione secondo la quale se esiste una norma regolatrice allora si applica “meccanicamente” una regola a cui non pertiene un comando umano (conseguenza analoga e complementare a quella sopra esposta).
Ma in realtà la legge “senza comando” (la pura regola) è illusione. Una norma senza comando, semplicemente, non è una norma giuridica. Scriveva Carnelutti che “il comando è l’elemento indefettibile dell’ordinamento giuridico o, in altre parole, il prodotto semplice o primo del diritto; già fu detto che se l’ordinamento fosse un organismo, il comando ne rappresenterebbe la cellula. Alla formula della imperatività si oppone l’altra della normatività, coniata per significare che non tanto l’ordinamento è formato da comandi quanto da norme giuridiche. Perché il carattere dell’ordinamento giuridico debba ravvisarsi nella imperatività, non nella normatività risulta chiaramente da quanto fu esposto nel primo capo” (3).
E ne spiegava la ragione, criticando la teoria normativistica in modo singolare cioè attribuendole “l’equivoco tra leggi naturali e leggi giuridiche onde s’è creduto che pur le leggi giuridiche esprimano la costanza tra due ordini di fatti: idea ben giusta se si riferisce alle leggi dell’accadere giuridico o leggi del diritto, le quali non sono che leggi naturali al diritto” (4). Ossia che una norma sia in effetti rispettata ed osservata è il risultato di una constatazione empirica a carattere sociologico (qual è la percentuale di condotte osservanti rispetto a quelle trasgressive?). Ma è illusorio che lo sia sempre; infatti Carnelutti prosegue “altro è il dato, che i giuristi rappresentano veramente con il concetto di legge, come risulta dalla comune osservazione che le leggi giuridiche possono e le leggi naturali non possono essere violate: poiché appunto la natura della legge sta in ciò che nulla può l’uomo contro di essa, è proprio la possibilità della violazione che mette in chiaro la differenza e contrappone alla legge naturale il comando o, in altri termini, la legge artificiale”. In ciò riprendeva la concezione di Spinoza (5)  e di Del Vecchio.
Santi Romano d’altra parte faceva rilevare che non è necessaria la norma perché esista un ordinamento giuridico. Scrive infatti che “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola” (6). Il che significa che un ordinamento può esistere senza norme ma non senza un’organizzazione del potere che comandi ed assicuri che i comandi siano osservati.
D’altra parte l’aspetto imperativo della legge e quindi delle norme che essa pone, è prevalente, almeno quantitativamente, su quello regolativo.
Basta ricordare le leggi-provvedimento: ma anche altri tipi di legge sono indebolite nei caratteri di generalità, astrattezza (e durata) che dovrebbero essere connotati della legge in senso ideale (alla Rousseau). Così le c.d. leggi-fotografia, le leggi a “tempo”, le leggi di deroga o di dispensa ad hoc, e così via. Le quali hanno comunque sia il carattere dell’imperatività, sia quello d’essere espressione della volontà del legislatore, sia di essere orientate, almeno molte di esse, più a raggiungere uno scopo, prima che dare una regola  generale, la quale può mancare.

4. Bisogna poi ricordare che la legge ha un legislatore, cioè una volontà che la pone: molte concezioni – e ancor più le convinzioni diffuse (spesso idola) - tendono a far dimenticare tale aspetto.
Ad esempio: una legge voluta da un dittatore come Stalin o Hitler legalmente dev’essere obbedita (se vigente) indipendentemente da chi ne fosse il legislatore. Il tutto ha indubbiamente una giustificazione legale (se non è abrogata, va osservata), e pratica (spesso tali norme hanno una validità ed opportunità “tecniche”, a prescindere dalle qualità morali o politiche di chi le ha volute). Ciò non toglie che ad alcune di quelle leggi sarebbe doveroso disobbedire. Ossia compiere volontariamente un atto di disobbedienza. Ma dall’oblio  (e dalla “messa tra parentesi”) del legislatore (cioè del fattore delle leggi) è occultato (o minimizzato) il fatto che comunque, come sosteneva Trasimaco, la legge è l’utile del potere, perché è la volontà di questo che la pone (7).
Il discorso di Trasimaco si presta peraltro ad un altro aspetto “problematico” della legalità (ma connaturale ad ogni tipo di esercizio del potere): che questo, anche se non tirannico – anche tramite le leggi -  persegue (per lo più e talvolta quasi sempre) il proprio utile, cioè – principalmente – la conservazione del proprio potere.

5. Altra confusione è quella tra legalità come fonte (e regola) dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) e legalità quale decisione dell’interprete (pubblico) su ciò che debba essere applicato come legge e soprattutto su chi decida su ciò.
Per una curiosa proprietà transitiva nell’immaginazione corrente i poteri, le qualità, l’“appetibilità” della legalità passano ai (tanti) funzionari che la interpretano, e così la “volontà generale” diventa (assolutamente) particolare, senza perdere nulla dell’aura mistica che la circonda. Invece, ed in ispecie in uno Stato basato (anche) sul principio di legalità confondere l’una e gli altri contraddice, in primo luogo, a tale principio.
Infatti proprio perché soggette alla legge, amministrazione e giurisdizione non godono neanche indirettamente di poteri  sovrani (che sarebbe il senso massimo sotteso a tale convinzione).
A ben vedere neppure il legislatore ne gode (anche se ha il potere di disporre le leggi che regolano gli altri poteri pubblici), a meno che non gli competa (anche) il potere costituente. In genere ha solo – in uno Stato contemporaneo – la libertà di regolare legislativamente, assai maggiore di quella che può legittimamente praticarsi dalla P.A. o (ancor meno) dal Giudice. La confusione è data dal fatto che nei rapporti con gli utenti alle amministrazioni (ed agli uffici giudiziari) sono attribuiti dalla legge notevoli prerogative e potestà d’imperio che le pongono su un piano più elevato di quello dei singoli cittadini, ma sempre in forza e nei limiti di speciali disposizioni di legge. Orbene proprio il fatto che tali potestà e prerogative sono conferite dalla legge e che perciò le amministrazioni godono di poteri non originari bensì derivati da quella, alla quale sono vincolate, fa escludere nel modo più certo che quella superiorità possa mai considerarsi sovranità (o un quissimile di questa). Infatti al termine sovranità spetta un significato molto preciso che secondo la celeberrima definizione del Bodin, è summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas (e i funzionari sono comunque una “classe” particolare di sudditi).

6. Anche qui si riscontra peraltro un salto logico, corollario della legge di Hume (8), di cui al passo prima citato di Carnelutti: il funzionario (l’applicatore) della legge deve applicare la norma e allora la applica (s’intende correttamente); ma dato che da una proposizione deontica non può trarsi una conclusione di fatto, l’unica certezza che ne deriva è che, invece, la può trasgredire, altrimenti non sarebbero spiegabili né la norma applicanda né i controlli, le sanzioni, le responsabilità  che in tutti gli ordinamenti giuridici, ed in particolare in quelli liberaldemocratici molto sviluppati e penetranti, sono volti ad assicurare che questo non accada, almeno nel maggior numero possibile di casi (9).
Weber a tale proposito descriveva i caratteri del diritto moderno razionale-legale cui aspira la borghesia, e che ha portato – tra l’altro – alla codificazione. La borghesia vuole « un diritto univoco, chiaro, sottratto tanto all’arbitrio amministrativo irrazionale quanto ai perturbamenti irrazionali derivanti da privilegi concreti. Ma una garanzia di diritti indipendenti dall’arbitrio del principe e dei funzionari non risponde assolutamente alle genuine tendenze di sviluppo intrinseche della burocrazia» (10) .
Quindi tra tali aspirazioni e realizzazioni c’è uno iato (e un conflitto). Che gli ideologi – partigiani delle legalità, alcuni volutamente, trascurano.

7. L’altro aspetto trascurato dalla “legalità” è che può diventare un comodo espediente per deresponsabilizzare il funzionario. Il funzionario che “applica” la legge si “copre” con le norme. Come scrive M. Ledeen (per i capi politici) “Il leader che applica con rigore le leggi, d’altro canto, è al sicuro dall’odio popolare per il semplice fatto di «obbedienza al codice». Se il popolo è infelice, il loro malcontento si riverserà primieramente sulle leggi; non è colpa tua. Tu non devi sembrare il responsabile di tutto quello che succede. Devi prenderti il merito per le buone notizie, ma la colpa di quelle cattive ricada su di altri” (11). Per cui tale astuzia è una fruttuosa occasione anche per il funzionario. La legalità, spesso se unita alle garanzie istituzionali del funzionario, riconosciute dallo Stato di diritto, diventa così un confortevole paravento. Prendere decisioni in prima persona (cioè “libere” o latamente discrezionali) e riferibili quindi alle volontà del decisore – che è poi la caratteristica che, secondo Weber, distingue politico (e imprenditore) da un lato – burocrate dall’altro – implica responsabilità e coraggio. Seguire (applicare, interpretare) leggi, circolari, istruzioni è assai più comodo e giustifica con quelli (spesso pretesi) del legislatore, gli errori commessi dal funzionario. Peraltro come scrive Gilles Dumont, alla fine la dottrina del diritto che meglio esprime la “centralità” della norma, cioè il normativismo è quella che si risolve nella pratica (e nell’immaginazione collettiva), nella centralità dell’interprete e della conseguente intangibilità della sua interpretazione. Il che significa trasferire dalla legge all’apparato di applicazione delle leggi, i caratteri (e i valori positivi) di quella. Cioè in una legittimazione succedanea dell’apparato burocratico.
D’altronde sosteneva Carrè de Malberg, la stufenbau, cioè l’ordine “gerarchico” delle norme, non è altro che il riflesso dell’organizzazione gerarchica dello Stato. Ma se invece che un ordinamento/subordinazione tra vari organi, realizzato (anche) attraverso la validità-invalidità degli atti (il Parlamento rispetto agli uffici amministrativi e giudiziari) si dà rilievo decisivo al rapporto tra e con gli atti (il funzionario subordinato alla legge, ma garantito nei confronti dell’organo legislativo) nella realtà concreta a definire cos’è il diritto del caso singolo, regolato con la sentenza o il provvedimento, è l’interprete della norma sovraordinata, cioè il funzionario.

8. Un altro aspetto della legalità, strettamente connesso al primo, è che fare una legge non significa risolvere un problema. Anche se spesso può costituire un buon passo avanti. Ma la convinzione contraria è così (apparentemente) diffusa che la classe politica non appena un caso allarma l’opinione pubblica, si precipita a garantire – e il più delle volte lo fa – che creerà una legge (ad hoc) nuova e naturalmente migliore. Il più delle volte – com’è agevole riscontrare, ad esempio nel caso della corruzione, oggi (come sempre) all’attenzione dell’opinione pubblica – la legge c’era, solo che era (ed è) poco o male applicata. E ciò costituisce un problema non di “lacuna” legislativa, ma, per così dire, di “lacuna” applicativa. Tuttavia se il rimedio alla prima lacuna è ovviamente quella di fare la legge mancante, dare la medesima soluzione nel secondo caso è del tutto inutile, non per altro perché non è quella la causa. Ma ridisciplinare gli uffici, emarginare o allontanare funzionari inetti (e talvolta corrotti) è molto più difficile che cambiare parole, virgole e numeri sulla Gazzetta Ufficiale. Per una classe politica decadente e debole è una tentazione irresistibile quella di  “accontentare” l’opinione pubblica senza scontentare le burocrazie che, come scriveva Miglio, sono componenti dell’aiutantato del potere.

9. L’opinione pubblica tende poi a confondere la legalità con la legittimità; chi ha il potere – ancor più le classi dirigenti deboli e/o decadenti – ha interesse ad alimentare tale confusione.
Nella realtà se è vero che fa parte della concezione moderna della legittimità la credenza nella legge come razionalizzazione del potere – opinione in larga parte condivisibile – è certo che la legalità non può né sostituire né soppiantare la legittimità; ma solo esserne una stampella. Ciò principalmente per la diversità delle cose (e dei due concetti), che si distinguono per più profili:
a) in primo luogo la legittimità è ritenuta generalmente (Weber, Ferrero, Freund) la convinzione dei governati che i governanti abbiano il diritto ad esercitare il potere. Il principio/i sui quali la legittimità si fonda possono esse vari (elezioni, ereditarietà, democrazia diretta o rappresentativa), ma la questione del “principio migliore” è secondaria. Ciò che realmente conta è che il popolo sia convinto che chi esercita il potere sia legittimato a farlo. Scriveva von Seydel che “Il sovrano che si dichiara legittimo tenta l’artificio di Münchhausen, che voleva tirarsi fuori dalla palude afferrandosi al proprio ciuffo”, mentre la legittimità viene dal basso, dal consenso popolare. Solo così si colgono i frutti migliori della legittimità (ordine, consenso, riduzione della paura), attentamente descritti da Guglielmo Ferrero. Invece la legalità concerne più l’apparato di governo che il potere (su cui si fonda). Dirci che un potere è legale – o peggio deve esserlo – ha poco o punto senso per la legittimità del medesimo.
Altrimenti tutti i poteri in carica, frutto di cambiamenti di fatto e spesso rivoluzionari sarebbero illegali – e in effetti lo sono – proprio perché risultati di cambiamenti violenti e comunque contrari alla legalità vigente al momento della presa del potere. Se qualcuno è legale (se la conquista del potere è avvenuta rispettando le procedure vigenti) è bene, ma non è sicuramente necessario né rilevante. Quello che lo rende “legale” è il sistema delle norme, dei procedimenti, delle regole che il potere (una volta) costituito pone osservando delle procedure determinanti (e relativamente stabili). Scriveva von Seydel del diritto (ma è applicabile alla legge) che “Il diritto poi non è altro che l’insieme delle norme con le quali il volere sovrano ordina la convivenza statuale degli uomini”. Ciò non esclude che nell’atto di porre quelle norme vi sia una decisione arbitraria. In conclusione un governo è legale se osserva le norme che esso stesso pone, ma il tutto non lo trasforma in governo legittimo.
b) Da ciò deriva che mentre la legittimità è un “fatto” – ossia è qualcosa che non è giuridificabile, la legalità è perfettamente giuridica. Giudicare se una legge è stata legalmente posta dal Parlamento, con la maggioranza prescritta è possibile e non ha nulla di fondamentalmente diverso dal valutare se una delibera è stata regolarmente decisa da un condominio; mentre giudicare se sia migliore o più opportuno un regime monarchico o democratico è cosa che, ovviamente, sfugge a una valutazione giuridica. É un’opinione politica e/o storica.
c) Anche per questo un tipico rappresentante del positivismo “classico” come von Seydel riteneva con molta conseguenzialità (e con lui altri giuristi) che concetti come dominio, legittimità e (lo stesso) Stato non appartenevano al diritto, ma lo fondavano, ed erano quindi “fatto”.
Citando il famoso dialogo tra Antigone e Creonte sosteneva “Se noi qui sopra abbiamo chiamato lo Stato un fatto, questa designazione non è meno conveniente per il dominio. Anche questo è un fatto, che può essere considerato indipendentemente dalla sua base originaria…il dominio è semplicemente il fatto della forza sopra lo Stato, un fatto, dal quale ha origine primamente il diritto” (12).
In effetti la legalità presuppone l’esistenza di un potere legiferante; potere che garantisce l’ordine sociale attraverso (anche) il diritto. La legalità è (uno) strumento e modo per dare regole per la civile convivenza: ha una natura regolatrice. Mentre la legittimità ha (natura ed) effetto costitutivo del potere stesso: un potere che non sia effimero o retto sulla pura violenza (quando avviene ciò la storia insegna che ha durata limitata), ha bisogno di ottenere una sua legittimità. Anche se è costituito dalla forza è mantenuto da quella. La conseguenza è che un potere che non ha legittimità (cioè è costituito male) ordina peggio, perché la sua legalità è, di riflesso, discutibile e contestata.

10. Lo stesso accade con il concetto di giustizia: quanto mai controverso, ma vale per questo ancora quanto scriveva S. Agostino “Quae sint imperia, sine justitia, nisi magna latrocinia?” (13).
Tenuto conto che è la giustizia – secondo il vescovo d’Ippona - a differenziare gli Stati dalle bande di briganti, il problema consiste in ciò che ne esistono diverse idee, in molti casi irriducibili. Pascal offrì una soluzione radicale al problema “La giustizia è ciò che è stabilito; e così tutte le nostre leggi stabilite saranno di necessità considerate quali giuste senza altro esame, perché sono stabilite” (14).
A parte il fatto che il concetto di “stabilità” implica almeno l’esame legale che il precetto sia stato stabilito formalmente (cioè osservando procedure e competenze). Problema non da poco, specie in un sistema di norme gerarchico e con controllo di costituzionalità, resta il fatto che comunque esistono in ogni comunità diverse opinioni su cosa sia la giustizia e l’ordine sociale che ne consegue.
In realtà una interpretazione “legalitaria” della giustizia presenta più inconvenienti: l’esistenza in primo luogo delle diversità d’opinioni ed interessi e la conseguente necessità di governare scegliendo (privilegiando) determinate opinioni ed interessi (in particolare, direbbe Trasimaco, quelle di chi governa); onde la difficoltà che un ordine siffatto sia considerato giusto dai sacrificati solo perché legale.
Secondariamente una legalità, come spesso viene interpretata, ad esempio quella espressa nell’affermazione della Costituzione italiana come la più bella del mondo, comporta l’inopportunità “senza se e senza ma” di modificarla. Ma l’ordine sociale non è statico, come più volte ha scritto Hauriou: è sempre in movimento e somiglia a quello di un esercito in marcia, che conserva il proprio ordine, pur cambiando di posizione. E queste situazioni, cioè quelle storiche (e politiche) cambiano: una legalità – anche costituzionale – buona per una certa epoca, diviene d’impaccio in tempi diversi. La costituzione italiana, che ebbe il merito di aiutare la ri-composizione politica, sociale ed economica del Paese distrutto dalla guerra, è divenuta, in una situazione completamente cambiata, obsoleta e, in molte parti, d’impaccio.
In terzo luogo nessuna comunità umana è un’isola: come il tempo cambia il contesto in cui s’opera, così muta lo spazio, cioè l’assetto di potere (e d’influenza) delle altre unità politiche (e degli altri soggetti politici “esterni”) (15).
A tale proposito, e a parte quanto l’ “esterno” possa influenzare all’interno di uno Stato il senso e la percezione della giustizia – quanto mai controverso- può essere confrontato il concetto di “guerra giusta” per evidenziare le differenze con quello di “guerra legale” (cioè condotta secondo la normativa internazionale, pattizia  o consuetudinaria). E’ d’immediata evidenza che i due concetti non coincidono: spesso, quella “giusta” è preferibile o preferita a quella “legale”. In genere un ordine internazionale è regolato, e diviene così diritto positivo, in trattati che “fotografano” i rapporti di forza tra le unità politiche in un dato momento storico. E nei trattati la volontà del vincitore conta più (spesso molto di più) di quella del vinto. I trattati ineguali non sono solo quelli ricordati nella storia dell’espansione coloniale – in specie in Estremo Oriente – perché una certa dose d’ineguaglianza, di prevaricazione e quindi d’ingiustizia li connota praticamente tutti.
Violare quei trattati, o muovere guerra per cambiarli è quindi spesso ritenuto giusto, ma indubbiamente si tratta di una violazione di una (determinata) legalità. Questo per l’aspetto oggettivo. Ma rileva anche l’aspetto soggettivo: l’essere justus hostis (uno dei requisiti dello justum bellum). Un tempo era solo lo Stato sovrano: nel secolo passato è stato esteso ai movimenti di resistenza, almeno a quelli che superano una certa “soglia”, i quali legalmente non sono altro che ribelli (16). D’altra parte sono considerate “giuste”, già da Montesquieu, le guerre condotte non per rivendicare diritti, ma per impedire che si alterino rapporti di forza, tali da compromettere l’indipendenza o la libertà politica dello Stato (anche se aggressore) (17).

11. In genere si fa ricorso all’eguaglianza (parità di trattamento) dei soggetti di diritto per determinare il connotato necessario di una legge “giusta”. In effetti tale requisito è di grande importanza, ma è pur sempre un minimo.
Ed occorre considerare due limiti fondamentali allo stesso. Il primo che l’uguaglianza di fronte alla legge nulla dice sulla giustizia del contenuto della legge stessa. Una legge ingiusta non diventa giusta perché generale (applicabile ed applicata a tutti): è semplicemente un’ingiustizia per tutti (18). L’altro che, in una unità politica, occorre sempre tener conto che parte del diritto ha necessariamente il carattere, come scriveva Hauriou, di droit disciplinaire (Thémis) caratterizzato dalla posizione di non eguaglianza (di comando) di un soggetto (quello “pubblico”) rispetto alla “controparte”; e l’altro il droit commun, connotato dall’eguaglianza dei soggetti (19).
Il che consegue all’ineliminabilità del rapporto di comando-obbedienza, presupposto del politico (Freund) e che quindi comunque modifica in senso contrario ad una coerente ed universale posizione di eguaglianza (tra e) dei soggetti, ogni comunità politica.
Peraltro è appena il caso di ricordare quanto sopra già rilevato, che i caratteri di generalità, uguaglianza, parità di trattamento non connotano tutti i provvedimenti legislativi: anche questo è un limite alla legalità “giusta” possibile.
Nel complesso la percezione della legalità nell’opinione pubblica è per le considerazioni esposte – che sono solo parte, anche se ad avviso di chi scrive la più rilevante – è per così dire “edulcorata”. Trascurare il momento applicativo è, peraltro, la ragione – probabilmente la maggiore – per illudere i governanti di caratteri e meriti della legalità che sono tali solo in parte, e dimenticare connotati e limiti esistenti. E che spesso impongono modifiche al sistema (alla legalità vigente) tali da assicurarne risultati più conformi alle aspirazioni generali.

NOTE

(1 )Freund così la definisce anche al fine di distinguerla dalla legittimità “La legalità, invero, è stabilita e garantita dal governo, intendendo questo non solo  quale organo esecutivo nel senso della della teoria della distinzione dei poteri, ma l’istanza generale e suprema che fissa norme, convenzioni e formalità volte a facilitare il commercio tra i membri di una collettività”. Questo perché ha i l monopolio della violenza legittima, anche se ripartita tra diversi organi ed uffici. Essence du politique Paris 1965 pp. 261-262.

(2)Du pape, trad. it., Milano 1995, p., 155.
 
(3) E prosegue “Non si nega, certo, l’esistenza di norme giuridiche, intese come leggi naturali relative al diritto, cioè ricavate, come fu descritto, dall’esperienza delle sanzioni; ma non sono queste le leggi, che servono ad imporre l’etica all’economia, e perciò, ottenendo lo scopo del diritto, ne rappresentano il risultato; il carattere specifico di codesto risultato è, come s’è veduto, non quella costanza di rapporti tra fatto e fatto o tra cosa e cosa, in cui si manifesta l’ordine dell’universo, ma un’azione umana diretta ad avvalorare codesto ordine mediante la combinazione del precetto con la sanzioni, onde risulta il comando”, v. Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 68.

(4) Op. loc. cit.
 
(5) V. Trattato politico, Torino 1957, pp. 204-205.

(6) E prosegue: “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o al altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obbiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”, v. L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, pp. 20-21.

(7) Riportiamo il notissimo passo della Repubblica, I, 338 “ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con le leggi democratiche, la tirannide con le leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia. In ciò dunque consiste, mio ottimo amico, quello che, identico in tutti quanti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza; così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte”, trad. it. di F. Sartori, Bari 1997, p. 43.

(8) E’ quella notissima esposta ne il Trattato sulla natura umana trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2001 p. 900 ss., in particolare p. 929.

(9)  Il fatto che nel pensiero e nella dottrina politica e giuridica borghese (e non) sia visto con estrema diffidenza il funzionario “applicatore” è stato da chi scrive ricordato in più di uno scritto. Rinviamo, in particolare per le citazioni di politici e giuristi borghesi Funzionarismo, Macerata 2013, pp. 19-28.

(10) V. Wirtschaft und Gesellschaht trad. it. Di Casabianca-Giordano, Milano 1980, p. 161-162 (il corsivo è nostro).

(11) V. Il Principe dei neocons,  Nuove idee Roma 2004 p. 133.

(12) Principi di dottrina generale dello Stato, Torino 1908 p. 1160 (il corsivo è nostro).

(13) De civitate Dei, IV.

(14) Pascal, Pensées, n. 312 (citato da Freund Essence du politique Paris 1965 p. 273.

(15) Questa aggiunta è necessaria dato che “soggetto politico” da tempo non coincide più con lo “Stato sovrano”: movimenti partigiani, multinazionali, sette e quant’altro aspirano, si comportano e conseguono effetti e risultati politici, e in questo senso, sono soggetti politici.

(16) V. sul punto il famoso saggio di Santi Romano Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano rist. 1983, p. 220 ss.; v. anche Santi Romano Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 73.

(17)  Un caso tipico, spesso citato, è la mancata reazione  franco-inglese alla ri-militarizzazione della Renania, decisa da Hitler.

(18) E così diviene, come scrive Schmitt anche un “artificio formale” per “eliminare” il problema della tirannide, v. ne Le categorie del Politico, Bologna 1972, p. 236.

(19)  Scrive Hauriou: “Occorre ciononostante distinguere il diritto disciplinare e il diritto comune. Tutte le costituzioni danno vita ad un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza perché la gerarchia e in ciò che, davanti ai Tribunali che lo applicano, non vi sono parti uguali l’una all’altra… I greci chiamavano Thémis questa specie di giustizia organica, che fa corpo con la stessa istituzione. Lo Stato moderno possiede una giustizia disciplinare di questa specie che esercita sui propri funzionari…ma accanto a questa giustizia disciplinare…s’era costituita un’altra giustizia che i Greci chiavano dikè… aveva come propri organi dei Tribunali di arbitri, davanti ai quali le parti erano in condizione di eguaglianza” in Précis de droit consitutionnel, Paris 1929,pp. 97-98.

Teodoro Klitsche de la Grange