venerdì 3 aprile 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Le spine della legalità».

Questo ampio articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth.

LE SPINE DELLA LEGALITÁ

1. L’invocazione alla legalità è una delle più insistenti in Italia negli ultimi anni: a ragione perché le trasgressioni alla legislazione in vigore (spesso da parte di funzionari ed uffici pubblici) sono così diffuse, che non potrebbe essere diversamente. Quando poi si si parla specificamente di corruzione – che dell’illegalità è una delle (principali) componenti - si apre un dibattito che si fatica a contenere.
Ma cos’è la legalità? Specificarne gli aspetti serve a capire quando quell’invocazione è rettamente posta e quando non lo è (o lo è solo in parte). E soprattutto quali siano gli idola della legalità cioè quelle apparenze – per lo più ingannatorie – che ne celano la vera natura e i vari interessi che muovono certi pasdaran della medesima (1).

2. In primo luogo il più frequente topos della legalità è quello risalente a Pindaro, del nomos basileus, ossia del governo di leggi, non di uomini. È una nobile aspirazione, ma è comunque, a prenderla alla lettera, impossibile. Perché ogni governo è di uomini su uomini. E quindi a chi le presta fede incondizionata, è acconcio il giudizio di Gaetano Mosca: che è “una furberia da ipocrita o il sogno di uno sciocco”. Diverso è considerarla come (nobile) aspirazione: una tendenza che deve essere conciliata con una realtà per cui ogni comando è comunque opera di un essere e, quindi, di una volontà umana e che il momento dell’“applicazione” della legge (al caso concreto) è insopprimibile. Anche se una legge è ispirata a ragione ed equità, non è detto che l’applicazione sia conforme alle norme “benintenzionate”. Come scriveva de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (2)  (cui è d’uopo aggiungere che occorre “governare” anche i governanti). Espungere o ridurre al minimo l’arbitrio, l’intenzione, l’errore umano nell’ “applicazione” delle leggi è lodevole, ma impossibile se lo si crede sempre attuabile: cioè universale e senza eccezioni.

3. In secondo luogo c’è la concezione secondo la quale se esiste una norma regolatrice allora si applica “meccanicamente” una regola a cui non pertiene un comando umano (conseguenza analoga e complementare a quella sopra esposta).
Ma in realtà la legge “senza comando” (la pura regola) è illusione. Una norma senza comando, semplicemente, non è una norma giuridica. Scriveva Carnelutti che “il comando è l’elemento indefettibile dell’ordinamento giuridico o, in altre parole, il prodotto semplice o primo del diritto; già fu detto che se l’ordinamento fosse un organismo, il comando ne rappresenterebbe la cellula. Alla formula della imperatività si oppone l’altra della normatività, coniata per significare che non tanto l’ordinamento è formato da comandi quanto da norme giuridiche. Perché il carattere dell’ordinamento giuridico debba ravvisarsi nella imperatività, non nella normatività risulta chiaramente da quanto fu esposto nel primo capo” (3).
E ne spiegava la ragione, criticando la teoria normativistica in modo singolare cioè attribuendole “l’equivoco tra leggi naturali e leggi giuridiche onde s’è creduto che pur le leggi giuridiche esprimano la costanza tra due ordini di fatti: idea ben giusta se si riferisce alle leggi dell’accadere giuridico o leggi del diritto, le quali non sono che leggi naturali al diritto” (4). Ossia che una norma sia in effetti rispettata ed osservata è il risultato di una constatazione empirica a carattere sociologico (qual è la percentuale di condotte osservanti rispetto a quelle trasgressive?). Ma è illusorio che lo sia sempre; infatti Carnelutti prosegue “altro è il dato, che i giuristi rappresentano veramente con il concetto di legge, come risulta dalla comune osservazione che le leggi giuridiche possono e le leggi naturali non possono essere violate: poiché appunto la natura della legge sta in ciò che nulla può l’uomo contro di essa, è proprio la possibilità della violazione che mette in chiaro la differenza e contrappone alla legge naturale il comando o, in altri termini, la legge artificiale”. In ciò riprendeva la concezione di Spinoza (5)  e di Del Vecchio.
Santi Romano d’altra parte faceva rilevare che non è necessaria la norma perché esista un ordinamento giuridico. Scrive infatti che “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola” (6). Il che significa che un ordinamento può esistere senza norme ma non senza un’organizzazione del potere che comandi ed assicuri che i comandi siano osservati.
D’altra parte l’aspetto imperativo della legge e quindi delle norme che essa pone, è prevalente, almeno quantitativamente, su quello regolativo.
Basta ricordare le leggi-provvedimento: ma anche altri tipi di legge sono indebolite nei caratteri di generalità, astrattezza (e durata) che dovrebbero essere connotati della legge in senso ideale (alla Rousseau). Così le c.d. leggi-fotografia, le leggi a “tempo”, le leggi di deroga o di dispensa ad hoc, e così via. Le quali hanno comunque sia il carattere dell’imperatività, sia quello d’essere espressione della volontà del legislatore, sia di essere orientate, almeno molte di esse, più a raggiungere uno scopo, prima che dare una regola  generale, la quale può mancare.

4. Bisogna poi ricordare che la legge ha un legislatore, cioè una volontà che la pone: molte concezioni – e ancor più le convinzioni diffuse (spesso idola) - tendono a far dimenticare tale aspetto.
Ad esempio: una legge voluta da un dittatore come Stalin o Hitler legalmente dev’essere obbedita (se vigente) indipendentemente da chi ne fosse il legislatore. Il tutto ha indubbiamente una giustificazione legale (se non è abrogata, va osservata), e pratica (spesso tali norme hanno una validità ed opportunità “tecniche”, a prescindere dalle qualità morali o politiche di chi le ha volute). Ciò non toglie che ad alcune di quelle leggi sarebbe doveroso disobbedire. Ossia compiere volontariamente un atto di disobbedienza. Ma dall’oblio  (e dalla “messa tra parentesi”) del legislatore (cioè del fattore delle leggi) è occultato (o minimizzato) il fatto che comunque, come sosteneva Trasimaco, la legge è l’utile del potere, perché è la volontà di questo che la pone (7).
Il discorso di Trasimaco si presta peraltro ad un altro aspetto “problematico” della legalità (ma connaturale ad ogni tipo di esercizio del potere): che questo, anche se non tirannico – anche tramite le leggi -  persegue (per lo più e talvolta quasi sempre) il proprio utile, cioè – principalmente – la conservazione del proprio potere.

5. Altra confusione è quella tra legalità come fonte (e regola) dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) e legalità quale decisione dell’interprete (pubblico) su ciò che debba essere applicato come legge e soprattutto su chi decida su ciò.
Per una curiosa proprietà transitiva nell’immaginazione corrente i poteri, le qualità, l’“appetibilità” della legalità passano ai (tanti) funzionari che la interpretano, e così la “volontà generale” diventa (assolutamente) particolare, senza perdere nulla dell’aura mistica che la circonda. Invece, ed in ispecie in uno Stato basato (anche) sul principio di legalità confondere l’una e gli altri contraddice, in primo luogo, a tale principio.
Infatti proprio perché soggette alla legge, amministrazione e giurisdizione non godono neanche indirettamente di poteri  sovrani (che sarebbe il senso massimo sotteso a tale convinzione).
A ben vedere neppure il legislatore ne gode (anche se ha il potere di disporre le leggi che regolano gli altri poteri pubblici), a meno che non gli competa (anche) il potere costituente. In genere ha solo – in uno Stato contemporaneo – la libertà di regolare legislativamente, assai maggiore di quella che può legittimamente praticarsi dalla P.A. o (ancor meno) dal Giudice. La confusione è data dal fatto che nei rapporti con gli utenti alle amministrazioni (ed agli uffici giudiziari) sono attribuiti dalla legge notevoli prerogative e potestà d’imperio che le pongono su un piano più elevato di quello dei singoli cittadini, ma sempre in forza e nei limiti di speciali disposizioni di legge. Orbene proprio il fatto che tali potestà e prerogative sono conferite dalla legge e che perciò le amministrazioni godono di poteri non originari bensì derivati da quella, alla quale sono vincolate, fa escludere nel modo più certo che quella superiorità possa mai considerarsi sovranità (o un quissimile di questa). Infatti al termine sovranità spetta un significato molto preciso che secondo la celeberrima definizione del Bodin, è summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas (e i funzionari sono comunque una “classe” particolare di sudditi).

6. Anche qui si riscontra peraltro un salto logico, corollario della legge di Hume (8), di cui al passo prima citato di Carnelutti: il funzionario (l’applicatore) della legge deve applicare la norma e allora la applica (s’intende correttamente); ma dato che da una proposizione deontica non può trarsi una conclusione di fatto, l’unica certezza che ne deriva è che, invece, la può trasgredire, altrimenti non sarebbero spiegabili né la norma applicanda né i controlli, le sanzioni, le responsabilità  che in tutti gli ordinamenti giuridici, ed in particolare in quelli liberaldemocratici molto sviluppati e penetranti, sono volti ad assicurare che questo non accada, almeno nel maggior numero possibile di casi (9).
Weber a tale proposito descriveva i caratteri del diritto moderno razionale-legale cui aspira la borghesia, e che ha portato – tra l’altro – alla codificazione. La borghesia vuole « un diritto univoco, chiaro, sottratto tanto all’arbitrio amministrativo irrazionale quanto ai perturbamenti irrazionali derivanti da privilegi concreti. Ma una garanzia di diritti indipendenti dall’arbitrio del principe e dei funzionari non risponde assolutamente alle genuine tendenze di sviluppo intrinseche della burocrazia» (10) .
Quindi tra tali aspirazioni e realizzazioni c’è uno iato (e un conflitto). Che gli ideologi – partigiani delle legalità, alcuni volutamente, trascurano.

7. L’altro aspetto trascurato dalla “legalità” è che può diventare un comodo espediente per deresponsabilizzare il funzionario. Il funzionario che “applica” la legge si “copre” con le norme. Come scrive M. Ledeen (per i capi politici) “Il leader che applica con rigore le leggi, d’altro canto, è al sicuro dall’odio popolare per il semplice fatto di «obbedienza al codice». Se il popolo è infelice, il loro malcontento si riverserà primieramente sulle leggi; non è colpa tua. Tu non devi sembrare il responsabile di tutto quello che succede. Devi prenderti il merito per le buone notizie, ma la colpa di quelle cattive ricada su di altri” (11). Per cui tale astuzia è una fruttuosa occasione anche per il funzionario. La legalità, spesso se unita alle garanzie istituzionali del funzionario, riconosciute dallo Stato di diritto, diventa così un confortevole paravento. Prendere decisioni in prima persona (cioè “libere” o latamente discrezionali) e riferibili quindi alle volontà del decisore – che è poi la caratteristica che, secondo Weber, distingue politico (e imprenditore) da un lato – burocrate dall’altro – implica responsabilità e coraggio. Seguire (applicare, interpretare) leggi, circolari, istruzioni è assai più comodo e giustifica con quelli (spesso pretesi) del legislatore, gli errori commessi dal funzionario. Peraltro come scrive Gilles Dumont, alla fine la dottrina del diritto che meglio esprime la “centralità” della norma, cioè il normativismo è quella che si risolve nella pratica (e nell’immaginazione collettiva), nella centralità dell’interprete e della conseguente intangibilità della sua interpretazione. Il che significa trasferire dalla legge all’apparato di applicazione delle leggi, i caratteri (e i valori positivi) di quella. Cioè in una legittimazione succedanea dell’apparato burocratico.
D’altronde sosteneva Carrè de Malberg, la stufenbau, cioè l’ordine “gerarchico” delle norme, non è altro che il riflesso dell’organizzazione gerarchica dello Stato. Ma se invece che un ordinamento/subordinazione tra vari organi, realizzato (anche) attraverso la validità-invalidità degli atti (il Parlamento rispetto agli uffici amministrativi e giudiziari) si dà rilievo decisivo al rapporto tra e con gli atti (il funzionario subordinato alla legge, ma garantito nei confronti dell’organo legislativo) nella realtà concreta a definire cos’è il diritto del caso singolo, regolato con la sentenza o il provvedimento, è l’interprete della norma sovraordinata, cioè il funzionario.

8. Un altro aspetto della legalità, strettamente connesso al primo, è che fare una legge non significa risolvere un problema. Anche se spesso può costituire un buon passo avanti. Ma la convinzione contraria è così (apparentemente) diffusa che la classe politica non appena un caso allarma l’opinione pubblica, si precipita a garantire – e il più delle volte lo fa – che creerà una legge (ad hoc) nuova e naturalmente migliore. Il più delle volte – com’è agevole riscontrare, ad esempio nel caso della corruzione, oggi (come sempre) all’attenzione dell’opinione pubblica – la legge c’era, solo che era (ed è) poco o male applicata. E ciò costituisce un problema non di “lacuna” legislativa, ma, per così dire, di “lacuna” applicativa. Tuttavia se il rimedio alla prima lacuna è ovviamente quella di fare la legge mancante, dare la medesima soluzione nel secondo caso è del tutto inutile, non per altro perché non è quella la causa. Ma ridisciplinare gli uffici, emarginare o allontanare funzionari inetti (e talvolta corrotti) è molto più difficile che cambiare parole, virgole e numeri sulla Gazzetta Ufficiale. Per una classe politica decadente e debole è una tentazione irresistibile quella di  “accontentare” l’opinione pubblica senza scontentare le burocrazie che, come scriveva Miglio, sono componenti dell’aiutantato del potere.

9. L’opinione pubblica tende poi a confondere la legalità con la legittimità; chi ha il potere – ancor più le classi dirigenti deboli e/o decadenti – ha interesse ad alimentare tale confusione.
Nella realtà se è vero che fa parte della concezione moderna della legittimità la credenza nella legge come razionalizzazione del potere – opinione in larga parte condivisibile – è certo che la legalità non può né sostituire né soppiantare la legittimità; ma solo esserne una stampella. Ciò principalmente per la diversità delle cose (e dei due concetti), che si distinguono per più profili:
a) in primo luogo la legittimità è ritenuta generalmente (Weber, Ferrero, Freund) la convinzione dei governati che i governanti abbiano il diritto ad esercitare il potere. Il principio/i sui quali la legittimità si fonda possono esse vari (elezioni, ereditarietà, democrazia diretta o rappresentativa), ma la questione del “principio migliore” è secondaria. Ciò che realmente conta è che il popolo sia convinto che chi esercita il potere sia legittimato a farlo. Scriveva von Seydel che “Il sovrano che si dichiara legittimo tenta l’artificio di Münchhausen, che voleva tirarsi fuori dalla palude afferrandosi al proprio ciuffo”, mentre la legittimità viene dal basso, dal consenso popolare. Solo così si colgono i frutti migliori della legittimità (ordine, consenso, riduzione della paura), attentamente descritti da Guglielmo Ferrero. Invece la legalità concerne più l’apparato di governo che il potere (su cui si fonda). Dirci che un potere è legale – o peggio deve esserlo – ha poco o punto senso per la legittimità del medesimo.
Altrimenti tutti i poteri in carica, frutto di cambiamenti di fatto e spesso rivoluzionari sarebbero illegali – e in effetti lo sono – proprio perché risultati di cambiamenti violenti e comunque contrari alla legalità vigente al momento della presa del potere. Se qualcuno è legale (se la conquista del potere è avvenuta rispettando le procedure vigenti) è bene, ma non è sicuramente necessario né rilevante. Quello che lo rende “legale” è il sistema delle norme, dei procedimenti, delle regole che il potere (una volta) costituito pone osservando delle procedure determinanti (e relativamente stabili). Scriveva von Seydel del diritto (ma è applicabile alla legge) che “Il diritto poi non è altro che l’insieme delle norme con le quali il volere sovrano ordina la convivenza statuale degli uomini”. Ciò non esclude che nell’atto di porre quelle norme vi sia una decisione arbitraria. In conclusione un governo è legale se osserva le norme che esso stesso pone, ma il tutto non lo trasforma in governo legittimo.
b) Da ciò deriva che mentre la legittimità è un “fatto” – ossia è qualcosa che non è giuridificabile, la legalità è perfettamente giuridica. Giudicare se una legge è stata legalmente posta dal Parlamento, con la maggioranza prescritta è possibile e non ha nulla di fondamentalmente diverso dal valutare se una delibera è stata regolarmente decisa da un condominio; mentre giudicare se sia migliore o più opportuno un regime monarchico o democratico è cosa che, ovviamente, sfugge a una valutazione giuridica. É un’opinione politica e/o storica.
c) Anche per questo un tipico rappresentante del positivismo “classico” come von Seydel riteneva con molta conseguenzialità (e con lui altri giuristi) che concetti come dominio, legittimità e (lo stesso) Stato non appartenevano al diritto, ma lo fondavano, ed erano quindi “fatto”.
Citando il famoso dialogo tra Antigone e Creonte sosteneva “Se noi qui sopra abbiamo chiamato lo Stato un fatto, questa designazione non è meno conveniente per il dominio. Anche questo è un fatto, che può essere considerato indipendentemente dalla sua base originaria…il dominio è semplicemente il fatto della forza sopra lo Stato, un fatto, dal quale ha origine primamente il diritto” (12).
In effetti la legalità presuppone l’esistenza di un potere legiferante; potere che garantisce l’ordine sociale attraverso (anche) il diritto. La legalità è (uno) strumento e modo per dare regole per la civile convivenza: ha una natura regolatrice. Mentre la legittimità ha (natura ed) effetto costitutivo del potere stesso: un potere che non sia effimero o retto sulla pura violenza (quando avviene ciò la storia insegna che ha durata limitata), ha bisogno di ottenere una sua legittimità. Anche se è costituito dalla forza è mantenuto da quella. La conseguenza è che un potere che non ha legittimità (cioè è costituito male) ordina peggio, perché la sua legalità è, di riflesso, discutibile e contestata.

10. Lo stesso accade con il concetto di giustizia: quanto mai controverso, ma vale per questo ancora quanto scriveva S. Agostino “Quae sint imperia, sine justitia, nisi magna latrocinia?” (13).
Tenuto conto che è la giustizia – secondo il vescovo d’Ippona - a differenziare gli Stati dalle bande di briganti, il problema consiste in ciò che ne esistono diverse idee, in molti casi irriducibili. Pascal offrì una soluzione radicale al problema “La giustizia è ciò che è stabilito; e così tutte le nostre leggi stabilite saranno di necessità considerate quali giuste senza altro esame, perché sono stabilite” (14).
A parte il fatto che il concetto di “stabilità” implica almeno l’esame legale che il precetto sia stato stabilito formalmente (cioè osservando procedure e competenze). Problema non da poco, specie in un sistema di norme gerarchico e con controllo di costituzionalità, resta il fatto che comunque esistono in ogni comunità diverse opinioni su cosa sia la giustizia e l’ordine sociale che ne consegue.
In realtà una interpretazione “legalitaria” della giustizia presenta più inconvenienti: l’esistenza in primo luogo delle diversità d’opinioni ed interessi e la conseguente necessità di governare scegliendo (privilegiando) determinate opinioni ed interessi (in particolare, direbbe Trasimaco, quelle di chi governa); onde la difficoltà che un ordine siffatto sia considerato giusto dai sacrificati solo perché legale.
Secondariamente una legalità, come spesso viene interpretata, ad esempio quella espressa nell’affermazione della Costituzione italiana come la più bella del mondo, comporta l’inopportunità “senza se e senza ma” di modificarla. Ma l’ordine sociale non è statico, come più volte ha scritto Hauriou: è sempre in movimento e somiglia a quello di un esercito in marcia, che conserva il proprio ordine, pur cambiando di posizione. E queste situazioni, cioè quelle storiche (e politiche) cambiano: una legalità – anche costituzionale – buona per una certa epoca, diviene d’impaccio in tempi diversi. La costituzione italiana, che ebbe il merito di aiutare la ri-composizione politica, sociale ed economica del Paese distrutto dalla guerra, è divenuta, in una situazione completamente cambiata, obsoleta e, in molte parti, d’impaccio.
In terzo luogo nessuna comunità umana è un’isola: come il tempo cambia il contesto in cui s’opera, così muta lo spazio, cioè l’assetto di potere (e d’influenza) delle altre unità politiche (e degli altri soggetti politici “esterni”) (15).
A tale proposito, e a parte quanto l’ “esterno” possa influenzare all’interno di uno Stato il senso e la percezione della giustizia – quanto mai controverso- può essere confrontato il concetto di “guerra giusta” per evidenziare le differenze con quello di “guerra legale” (cioè condotta secondo la normativa internazionale, pattizia  o consuetudinaria). E’ d’immediata evidenza che i due concetti non coincidono: spesso, quella “giusta” è preferibile o preferita a quella “legale”. In genere un ordine internazionale è regolato, e diviene così diritto positivo, in trattati che “fotografano” i rapporti di forza tra le unità politiche in un dato momento storico. E nei trattati la volontà del vincitore conta più (spesso molto di più) di quella del vinto. I trattati ineguali non sono solo quelli ricordati nella storia dell’espansione coloniale – in specie in Estremo Oriente – perché una certa dose d’ineguaglianza, di prevaricazione e quindi d’ingiustizia li connota praticamente tutti.
Violare quei trattati, o muovere guerra per cambiarli è quindi spesso ritenuto giusto, ma indubbiamente si tratta di una violazione di una (determinata) legalità. Questo per l’aspetto oggettivo. Ma rileva anche l’aspetto soggettivo: l’essere justus hostis (uno dei requisiti dello justum bellum). Un tempo era solo lo Stato sovrano: nel secolo passato è stato esteso ai movimenti di resistenza, almeno a quelli che superano una certa “soglia”, i quali legalmente non sono altro che ribelli (16). D’altra parte sono considerate “giuste”, già da Montesquieu, le guerre condotte non per rivendicare diritti, ma per impedire che si alterino rapporti di forza, tali da compromettere l’indipendenza o la libertà politica dello Stato (anche se aggressore) (17).

11. In genere si fa ricorso all’eguaglianza (parità di trattamento) dei soggetti di diritto per determinare il connotato necessario di una legge “giusta”. In effetti tale requisito è di grande importanza, ma è pur sempre un minimo.
Ed occorre considerare due limiti fondamentali allo stesso. Il primo che l’uguaglianza di fronte alla legge nulla dice sulla giustizia del contenuto della legge stessa. Una legge ingiusta non diventa giusta perché generale (applicabile ed applicata a tutti): è semplicemente un’ingiustizia per tutti (18). L’altro che, in una unità politica, occorre sempre tener conto che parte del diritto ha necessariamente il carattere, come scriveva Hauriou, di droit disciplinaire (Thémis) caratterizzato dalla posizione di non eguaglianza (di comando) di un soggetto (quello “pubblico”) rispetto alla “controparte”; e l’altro il droit commun, connotato dall’eguaglianza dei soggetti (19).
Il che consegue all’ineliminabilità del rapporto di comando-obbedienza, presupposto del politico (Freund) e che quindi comunque modifica in senso contrario ad una coerente ed universale posizione di eguaglianza (tra e) dei soggetti, ogni comunità politica.
Peraltro è appena il caso di ricordare quanto sopra già rilevato, che i caratteri di generalità, uguaglianza, parità di trattamento non connotano tutti i provvedimenti legislativi: anche questo è un limite alla legalità “giusta” possibile.
Nel complesso la percezione della legalità nell’opinione pubblica è per le considerazioni esposte – che sono solo parte, anche se ad avviso di chi scrive la più rilevante – è per così dire “edulcorata”. Trascurare il momento applicativo è, peraltro, la ragione – probabilmente la maggiore – per illudere i governanti di caratteri e meriti della legalità che sono tali solo in parte, e dimenticare connotati e limiti esistenti. E che spesso impongono modifiche al sistema (alla legalità vigente) tali da assicurarne risultati più conformi alle aspirazioni generali.

NOTE

(1 )Freund così la definisce anche al fine di distinguerla dalla legittimità “La legalità, invero, è stabilita e garantita dal governo, intendendo questo non solo  quale organo esecutivo nel senso della della teoria della distinzione dei poteri, ma l’istanza generale e suprema che fissa norme, convenzioni e formalità volte a facilitare il commercio tra i membri di una collettività”. Questo perché ha i l monopolio della violenza legittima, anche se ripartita tra diversi organi ed uffici. Essence du politique Paris 1965 pp. 261-262.

(2)Du pape, trad. it., Milano 1995, p., 155.
 
(3) E prosegue “Non si nega, certo, l’esistenza di norme giuridiche, intese come leggi naturali relative al diritto, cioè ricavate, come fu descritto, dall’esperienza delle sanzioni; ma non sono queste le leggi, che servono ad imporre l’etica all’economia, e perciò, ottenendo lo scopo del diritto, ne rappresentano il risultato; il carattere specifico di codesto risultato è, come s’è veduto, non quella costanza di rapporti tra fatto e fatto o tra cosa e cosa, in cui si manifesta l’ordine dell’universo, ma un’azione umana diretta ad avvalorare codesto ordine mediante la combinazione del precetto con la sanzioni, onde risulta il comando”, v. Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 68.

(4) Op. loc. cit.
 
(5) V. Trattato politico, Torino 1957, pp. 204-205.

(6) E prosegue: “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o al altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obbiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”, v. L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, pp. 20-21.

(7) Riportiamo il notissimo passo della Repubblica, I, 338 “ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con le leggi democratiche, la tirannide con le leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia. In ciò dunque consiste, mio ottimo amico, quello che, identico in tutti quanti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza; così ne viene, per chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte”, trad. it. di F. Sartori, Bari 1997, p. 43.

(8) E’ quella notissima esposta ne il Trattato sulla natura umana trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2001 p. 900 ss., in particolare p. 929.

(9)  Il fatto che nel pensiero e nella dottrina politica e giuridica borghese (e non) sia visto con estrema diffidenza il funzionario “applicatore” è stato da chi scrive ricordato in più di uno scritto. Rinviamo, in particolare per le citazioni di politici e giuristi borghesi Funzionarismo, Macerata 2013, pp. 19-28.

(10) V. Wirtschaft und Gesellschaht trad. it. Di Casabianca-Giordano, Milano 1980, p. 161-162 (il corsivo è nostro).

(11) V. Il Principe dei neocons,  Nuove idee Roma 2004 p. 133.

(12) Principi di dottrina generale dello Stato, Torino 1908 p. 1160 (il corsivo è nostro).

(13) De civitate Dei, IV.

(14) Pascal, Pensées, n. 312 (citato da Freund Essence du politique Paris 1965 p. 273.

(15) Questa aggiunta è necessaria dato che “soggetto politico” da tempo non coincide più con lo “Stato sovrano”: movimenti partigiani, multinazionali, sette e quant’altro aspirano, si comportano e conseguono effetti e risultati politici, e in questo senso, sono soggetti politici.

(16) V. sul punto il famoso saggio di Santi Romano Rivoluzione e diritto in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano rist. 1983, p. 220 ss.; v. anche Santi Romano Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 73.

(17)  Un caso tipico, spesso citato, è la mancata reazione  franco-inglese alla ri-militarizzazione della Renania, decisa da Hitler.

(18) E così diviene, come scrive Schmitt anche un “artificio formale” per “eliminare” il problema della tirannide, v. ne Le categorie del Politico, Bologna 1972, p. 236.

(19)  Scrive Hauriou: “Occorre ciononostante distinguere il diritto disciplinare e il diritto comune. Tutte le costituzioni danno vita ad un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza perché la gerarchia e in ciò che, davanti ai Tribunali che lo applicano, non vi sono parti uguali l’una all’altra… I greci chiamavano Thémis questa specie di giustizia organica, che fa corpo con la stessa istituzione. Lo Stato moderno possiede una giustizia disciplinare di questa specie che esercita sui propri funzionari…ma accanto a questa giustizia disciplinare…s’era costituita un’altra giustizia che i Greci chiavano dikè… aveva come propri organi dei Tribunali di arbitri, davanti ai quali le parti erano in condizione di eguaglianza” in Précis de droit consitutionnel, Paris 1929,pp. 97-98.

Teodoro Klitsche de la Grange

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