venerdì 26 novembre 2010

Noam Chomsky: «Discorso alla Conferenza di Istanbul sulla Libertà di Parola» (20 ottobre 2010)


Ho ricevuto questa mattina, nella mia posta, un gradito annuncio, che per non riassumere riporto integralmente, pensando in tal modo di contribuire a far conoscere una lodevole iniziativa per una informazione di gran lunga migliore e libera, in un mondo oppresso dai mainstream. Eccone il testo cui seguiranno altre mie parole di augurio e di commento:
«Buongiorno,

questa e-mail è stata inviata al Vostro sito solo a scopo informativo.
Vi abbiamo contattato perché siamo sul punto di riaprire il sito ZNETITALY (originariamente registrato come ZNET-IT).
È possibile che in passato abbiate avuto modo di reperire uno o più articoli di politica internazionale da ZNET o che il Vostro spazio in qualche modo segua un percorso comune a quello enunciato in molti dei pezzi che traduciamo.
Gli articoli in questione sono stati scritti da autori quali: Chomsky, Hass, Albert, Pilger, Roy, Fisk, Cockburn, Goodman (e moltissimi altri)
I pezzi sono stati originariamente pubblicati sul sito ZNET/ZCOMMUNICATION


Con l'autorizzazione dello stesso sito le traduzioni vengono messe a disposizione per un più vasto pubblico.
Le tematiche affrontate dagli articoli investono ambiti di diverso genere, mantenendo ferma comunque l'impronta del sito originale: i lati nascosti della globalizzazione e dell'impero, la tragedia della guerra permanente, l'importanza dell'economia partecipativa, latinoamerica, i diritti dei lavoratori nel mondo, il medio oriente ed altro ancora.
La riapertura della sezione italiana avviene dopo diversi anni offline .
E’ inoltre in atto un processo di recupero ed archiviazione del materiale precedentemente pubblicato.
Allo stato attuale, escludendo la pagina degli "articoli ultimo mese", in continuo aggiornamento, il sito è mantenuto attivo nella sua forma più semplice.
Contiamo però di entrare a pieno regime all'incirca in un mese.
Considerata l'attualità di alcune tematiche affrontate dagli scrittori citati, abbiamo pensato dunque di avvisarVi.
Vi invitiamo a farci una visita su http://www.znetitaly.org.
La funzione feed/rss non è ancora attiva.
La newsletter (con cadenza settimanale) al contrario, è stata appena attivata.
Segnalerà la presenza di nuove traduzioni e/o articoli ed eventuali attivazioni di nuove sezioni (soprattutto in questa prima fase di avvio)

Cordialmente,

Collettivo znetitaly».
Non ricordo della precedente edizione italiana di ZNET, ma ne condivido in pieno il programma. Di Noam Chomsky, dal quale dissento per alcune analisi sulla Palestina e sul Medio Oriente, trovandomi più vicino a Gilad Atzmon su questi temi, ma di cui ho letto e vado leggendo sempre con interesse tutti i libri e gli articoli, che trovo per me più agevoli se disponbili in traduzioni italiane. Di Chomsky trovo in rete già editi parecchi articoli ed altri annunciati. In particolare, concordo con un giudizio proprio di Chomsky, dove egli avverte il Lettore circa l’importanza dello studio della realtà americana, cioè statunitense. Essendo questa la maggiore potenza del mondo – più nel male che nel bene –, non si può prescindere dalla conoscenza di eventi che colà traggono origine. Quindi mi appare quanto mai opportuna questa iniziativa di una ZNET italiana, che agisce da valido contrasto ad operazioni di segno contrario, che qui non intendo neppure nominare.

L’utilizzo delle traduzioni che si trovano in ZNET è dato come liberamente disponibile. Vi attingeremo nei nostri blogs, in particoloare “Civium Libertas” e “Geopolitica”, ogni volta che esse appaiono utili e pertinenti integrazioni ai temi da noi già sviluppati. Daremo ovviamente sempre la fonte e ci riserviamo un nostro editing ed un nostro commento a mo’ di valore aggiunto, benché minimo.

E diamo subito avvio al nostro programma con la riproduzione integrale di una conferenza di Noam Chomsky dello scorso 20 ottobre 2010, ad un anno esatto da una vicenda che mi aveva coinvolto personalmente e che mutatis mutandis è egualmente descritta da Chomsky. Ma di ciò più avanti.

CIVIUM LIBERTAS

* * *

Esattamente un anno fa, il giorno dopo il 22 ottobre 2009, quando mi vidi sbattuto qual classico “mostro” in prima pagina dal quotidiano “La Repubblica”, scrissi una lettera di smentita ex legge sulla stampa. Per tre volte di seguito invii il mio testo, ma senza esito. Telefonando e insistendo a che ottemperassero al dettato di legge, ebbi l’impressione che si facessero beffe di me ed incaricai quindi il mio legale di scrivere lui una lettera formale, nel più rigido rispetto della giurisprudenza consolidata sia per il tenore della lettera sia per il numero di caratteri di cui si poteva chiedere la pubblicazione. Ma nemmeno questa lettera formale trovò pubblicazione! Per inciso, non è per nulla ozioso ricordare ai miei nuovi lettori che al procedimento disciplinare causato dall’articolo di “Repubblica” fui assolto con formula piena per inesistenza del fatto e del diritto. Ne è quindi seguita una causa contro il giornalista di “Repubblica” e contro il suo direttore. La causa è in corso e dati i tempi della giustizia civile italiana mi dovrò rassegnare a qualche decennio di frequentazioni delle aule dei Tribunali, finora disertate dalla mia controparte. Ciò doverosamente premesso e reiterato, accenno a un dubbio che mi era sorto circa la redazione della mia lettera, dove appunto distinguevo anche io fra libertà di espressione e libertà di pensiero, sostenendo che la libertà di stampa era chiaramente solo del quotidiano, mentre era mia la libertà di pensiero. Era una distinzione che mi sembrava di capitale importanza e che forse poteva avere causato il diniego di “Repubblica”. Le sue implicazioni non erano per nulla chiare nel dibattito politico, dove si parla in pratica della sola libertà dei giornali e dei giornalisti – in pratica una libertà di continua diffamazione e manipolazione – e si ignora e conculca la libertà di pensiero dei cittadini, magari analfabeti totali o con scarsa abilità ad esprimersi. Ma ecco che trovo subito in Chomsky, in apertura, questa basilare distinzione fra libertà di pensiero e libertà di espressione. E gli lascio la parola, aggiungendo qualche illustrazione al testo, per renderne più agevole la grafica. Ricordo ancora di Chomsky la recente adesione alla petizione per l’abolizione della legge Gayssot in Francia. Il suo impegno per la libertà di parola e di pensiero non è per nulla affatto episodico e marginale. Da filosofo egli sa bene quanto queste libertà siano il fondamento oltre che del pensiero umano anche di ogni forma possibile e immaginabile di democrazia. In uno spazio necessario di libertà succede assai spesso che gli uomini si trovino in disaccordo di vedute, ma le divergenze non possono essere certamente appianate sopprimendo la libertà di pensiero, come avviene con le tecniche della manipolazione mediatica o ministeriale-scolastica. Si badi bene: un siffatto “assassinio” della libertà di pensiero è ancora più grave, infinitamente più grave della soppressione o limitazione della mera libertà di espressione, potendo l’uomo sapiente scegliere il “silenzio” come forma più alta del suo pensiero, quando il parlare non è consentito o i tempi ed i luoghi non sono maturi o degni del pensiero.

Antonio Caracciolo


Noam Chomsky

Discorso alla Conferenza di Istanbul sulla Libertà di Parola
(20 ottobre 2010)


Il titolo di una delle nostre precedenti sessioni era Cogito, “Penso”. Può essere utile per ricordare che anche più fondamentale della libera espressione è il diritto di pensare. E che esso non è stato privo di sfide. Proprio qui, ad esempio. Suppongo che il caso più famoso sia quello di Ismail Besikci che ha sopportato molti anni di prigione con l’accusa di aver commesso “crimini del pensiero”. E, anche peggio, per aver osato mettere in parole i suoi pensieri nella sua documentazione dei crimini contro i curdi in Siria, Iran, Iraq e infine in Turchia, offesa, quest’ultima, imperdonabile.

Sono certo che conoscete i fatti meglio di me e dunque non li riassumo. Se quest’uomo coraggioso e onorevole avesse sofferto questa esperienza traumatica in Russia, o in Iran dopo il rovesciamento dello Scià, o in qualche altro stato nemico, sarebbe conosciuto e onorato a livello internazionale e l’indignazione contro la brutalità dei suoi aguzzini non avrebbe limiti. Ma non in questo caso. Un motivo consiste nel fatto tra i suoi crimini vi è quello di aver rifiutato un premio di 10.000 dollari del Fondo per la Libera Espressione U.S.A. per protesta contro l’appoggio di Washington alla repressione turca. Le persone rispettabili capiscono che questo è un argomento che “non sta bene” menzionare, per prendere in prestito dalla introduzione non pubblicata di Orwell alla Fattoria degli Animali che ho citato ieri. Certamente non stava bene menzionare il fatto che Clinton stava fornendo il 90% degli armamenti mentre il terrorismo di stato turco nel Sud-Est raggiungeva livelli sconvolgenti negli anni ’90, con il flusso che aumentava con l’aumentare delle atrocità toccando il suo picco nel 1997 quando gli Stati Uniti hanno inviato più armi in Turchia che non nell’intero periodo della Guerra Fredda e sino all’inizio dell’insurrezione. In particolare non starebbe bene menzionare il fatto che nello stesso anno, il 1997, la politica estera di Clinton entrò nella “fase nobile” con un’”aureola di santità” secondo un famoso corrispondente del New York Times che ha offerto così il suo contributo a un coro di autoincensamento degli intellettuali occidentali che davvero può essere privo di paralleli nella storia. Questo episodio disgraziato è stato un contributo postbellico da parte delle classi intellettuali dell’Occidente inteso a dare giustificazione all’espansione della NATO e a fornire qualche nuovo pretesto per l’intervento dopo il collasso della tradizionale pretesa dell’arrivo dei russi. In virtù del mandato ri-dichiarato, gli autodesignatisi “stati illuminati”, diretti dai loro nobili condottieri di Washington, devono ora scartare la male indirizzata “vecchia struttura anti-interventista” istituita dopo la seconda guerra mondiale. Devono essere pronti ad agire quando ritengono che la causa sia giusta e non dovrebbero essere “intimiditi dalla paura di distruggere qualche patetico tempio immaginario della legge venerato dalle prescrizioni anti-interventisti sancite dalla Carta delle Nazioni Unite”.

Sto citando un eminente professore liberale della prestigiosa Fletcher School of Diplomacy che, tuttavia, è stato solo uno in un grandioso coro che comprende molte delle più famose e riverite figure del Pantheon occidentale. Chiaramente, una simile missione non può essere contaminata dai meri fatti, tra i quali il massiccio sostegno di Clinton alle terribili atrocità turche non è stato neppur lontanamente il più orrendo.

Ma non è rimasto privo di contrasto neppure il pensiero inaccettabile privo del crimine aggiuntivo dell’essere stato espresso. Le torture dell’Inquisizione della chiesa cattolica, i giudizi di Dio della common law inglese e strumenti simili dell’Europa medioevale e della prima modernità erano stati inventati per scoprire e punire i pensieri inespressi, le eresie nascoste. E per certi aspetti ciò rimane vero anche per la tortura contemporanea, comprese le pratiche degli stati illuminati: di certo le torture che hanno avuto luogo a Guantanamo, Bagram e in altre basi USA e nei paesi scelti da Bush e Obama per le ‘consegne’ (‘rendition’ nell’originale – n.d.t.) – ovvero torture – con le consolatorie affermazioni che gli stati torturatori a cui le persone venivano consegnate avevano fornito assicurazioni che i prigionieri sarebbero stati trattati con la massima umanità. La pretesa ufficiale è che le procedure di interrogatorio duro – le torture, a essere sinceri – sono uno sforzo per ottenere informazioni, cioè pensieri che risiedono nella mente delle persone, anche se inespressi. Può valer la pena di notare che gli inquisitori più rispettati e di maggior successo, come Matthew Alexander, considerano queste procedure con disprezzo, imputando loro l’incapacità di ricavare informazioni utili e, di fatto, di creare dei terroristi; essi raccomandano che gli Stati Uniti adottino le pratiche molto più efficaci utilizzate da società più civilizzate, come l’Indonesia.

Ma i capi degli stati illuminati preferiscono la tortura per scoprire i delitti di pensiero. A Guantanamo, si è appreso, le torture peggiori sono state pretese dai più elevati livelli del governo, da Dick Cheney e Donald Rumsfeld, nella loro fanatica ricerca di prove che collegassero Saddam Hussein e Osama bin Laden e fornissero così qualche straccio di giustificazione per la loro invasione criminale dell’Iraq.

Lo stesso vale per azioni meno brutali da parte degli stati, quali il significativo aumento delle intercettazioni in gran parte del mondo. Ciò comprende anche una intensa campagna nei diversi anni scorsi nelle province orientali della Turchia in particolare dirette contro il Partito della Società Democratica (DTP), partito che è “considerato la rappresentanza legale di curdi nel processo per la soluzione della questione curda”, secondo le parole di Emin Aktar, il capo della Diyarbarkir Bar Association (associazione di assistenza legale per i diritti delle donne – n.d.t.). Le informazioni raccolte sono state la base per l’ondata di arresti e di gravi incriminazioni contro gli attivisti non violenti del partito poco dopo che questo aveva conseguito una sbalorditiva vittoria alle elezioni municipali del marzo 2009. Tali azioni hanno “distrutto la speranza in una soluzione pacifica” a questo lungo e amaro conflitto, come ha commentato Aktar.

Una conseguenza è stato il processo, in programma per la prossima settimana, di 151 degli attivisti che sono stati imprigionati, alcuni per lunghi periodi. Tra di essi vi è Muharrem Erbey, vicepresidente dell’Associazione per i Diritti Umani in Turchia, che è stato detenuto per quasi un anno sotto l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terrorista”, accusato di delitti quali l’aver parlato degli abusi contro la popolazione curda sul canale governativo statunitense Voice of America. Secondo il testo dell’incriminazione ufficiale, descrivendo gli abusi ben documentati ha mirato a “mettere il nostro paese in una posizione difficile nei contesti internazionali affermando che lo stato ignora il supposto maltrattamento del popolo curdo nelle province occidentali da parte della polizia e dei soldati”, un segreto che è arduo definire ben protetto. Le accuse comprendono anche il lavoro che Erbey ha portato avanti con l’ambasciata olandese e con il Centro Internazionale Olof Palme in Svezia. E’ anche accusato di aver cercato di trovare dei medici per curare persone ferite durante le dimostrazioni. Dovrà presentarsi al processo anche Osman Baydemir, rieletto a larga maggioranza sindaco di Diyarbakir nelle elezioni che sembra abbiamo scatenato l’attuale ondata di repressione che alcuni analisti considerano una vendetta per la vittoria elettorale del DKP, conclusione che sembra sin troppo plausibile. Baydemir rischia 33 anni di prigione per discorsi e azioni simboliche. La sentenza potrebbe anche essere considerata mite in confronto, ad esempio, a quella contro Vedat Kursun, ex redattore dell’unico quotidiano turco in lingua curda, al quale sono stati comminati 166 anni di prigione per “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”. Persino questo può essere considerato come segno della clemenza dei tribunali; un pubblico ministero dell’Alta Corte di Giustizia di Diyarbakir ha chiesto una sentenza di 525 anni di prigione sulla base di un’accusa di “sostegno e favoreggiamento” a un’organizzazione criminale e “glorificazione di crimini e criminali”. Il suo successore, come redattore, è stato condannato a 21 anni per delitti simili (Kurdish HR Report Legal Review, KHRP 2010 17 KHRP LR). Di speciale significato, per me personalmente e per il mio collega al MIT John Tirman, direttore del Centro di Studi Internazionali al MIT, sono i molti processi al proprietario della casa editrice Aram, Fatih Tas, per “insulto all’identità turca” avendo pubblicato traduzioni di nostra documentazione del massiccio sostegno USA ai crimini turchi contro i curdi, crimini che sono certo di non aver necessità di riassumere qui: 21 casi in giudizio a tutto luglio 2006, secondo le informazioni più recenti di cui dispongo.

Le intercettazioni e altre forme di sorveglianza non sono ovviamente limitate alla Turchia. Esse sono prevalenti nell’Occidente illuminato. Molti dei limiti imposti anni fa negli Stati Uniti sono stati rimossi dai presidenti Bush e Obama nonostante i tribunali abbiano reso vani alcuni dei loro sforzi, più recentemente il tentativo del Dipartimento della Giustizia di Obama di giustificare le intercettazioni illegali appellandosi alla necessità di proteggere “segreti di stato”, in questo caso di proteggere i crimini dalla rivelazione i crimini dell’amministrazione Bush. In questo e in altri casi Obama si spinge addirittura più in là di Bush nella violazione di diritti civili attraverso mezzi illegali, secondo le giuste accuse di molti libertari.

Nelle mie note di apertura e di nuovo nella sessione Quo Vadis ho citato il fatto che i diritti si conquistano con la lotta, non sono doni dall’alto, e devono essere difesi nello stesso modo. Come ha avvertito l’artefice della Costituzione USA, James Madison, la barriera di una pergamena non offre protezione contro la tirannia. Le parole sulla carta non sono sufficienti, come ci informa, in modo molto eloquente, la storia. Ho anche suggerito che gli Stati Uniti e la Turchia servono da buoni esempi. Forse può essere utile approfondire questi commenti.

Osservare che le parole non bastano e che anche quando i diritti sono conquistati sulla carta debbono essere difesi con vigilanza, si applica non solo alla libertà di parola ma anche più un generale. Si potrebbe pensare, ad esempio, che i diritti fondamentali degli americani siano garantiti dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione americana, deliberato nel 1868 con l’obiettivo principale di garantire diritti agli schiavi liberati anche se mai utilizzato a tal fine. La formulazione è davvero chiara. Afferma che nessuna azione dello stato può “privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un giusto processo legale, né negare ad alcuna persona nella propria giurisdizione la pari protezione da parte delle leggi.” Chiaro e inequivocabile, ma inaccettabile. I potenti e i privilegiati immediatamente considerarono il suo ambito troppo contenuto e troppo ampio. Il problema consisteva nel fatto che l’espressione “qualsiasi persona” poteva essere interpretato come riferito a ogni persona e questo è inaccettabile. Il tema rimane ancor oggi vivissimo.

I tribunali hanno deciso tanto tempo fa di estendere il concetto di “persona” ad includervi finzioni giuridiche collettive create e sostenute dal potere statale: le ‘corporation’ che ora dominano l’economia e la società e, sempre più, il sistema politico. Nel gennaio scorso i nominati da Bush alla Corte Suprema hanno rovesciato un secolo di precedenti e hanno acutamente ampliato il diritto delle ‘corporation’ di comprare le elezioni. Le motivazioni del verdetto si basano sull’idea che il denaro è espressione e le ‘corporation’ sono persone e dunque privarle del diritto di comprare le elezioni significherebbe privare queste persone fittizie dei loro diritti costituzionali alla libertà di espressione. Questi diritti ampliati di tirannie private sostenute dallo stato sono esercitati molto efficacemente nelle campagne per il congresso che sono in corso proprio ora in uno sforzo concertato di garantirsi che del Congresso si appropri un’ala estrema dei rappresentanti del mondo degli affari.

L’espressione “qualsiasi persona” nella Costituzione viene considerata non solo troppo contenuta ma anche troppo ampia. Presa alla lettera essa include anche stranieri privi di documenti; chiaramente delle persone, potrebbero pensare gli ingenui. Per rimediare a questo difetto della Costituzione i tribunali hanno limitato la nozione di persone al fine di salvaguardare il dominio dei diritti da queste creature di aspetto e forma umana. Non essendo persone, grazie alla saggezza della legge, non sono persone e dunque non godono dei diritti delle persone. Tutto ciò sta avendo oggi effetti molto più gravi nell’ondata di isteria contro gli immigrati che sta spazzando il mondo occidentale, uno sviluppo molto sinistro con conseguenze dolorose per coloro che, per giurisprudenza, sono esclusi dalla categoria delle persone.

Gli stessi principi si applicano al primo emendamento alla Costituzione USA che, a una lettura superficiale, sembra proteggere la libertà di espressione. Fino al ventesimo secolo, la protezione della libertà di espressione è stata raramente concessa dai tribunali. Dopo la prima guerra mondiale ci sono state alcune famose espressioni di sostegno alla libertà di espressione da parte di giudici della Corte Suprema, ma esse erano in disaccordo con le sentenze dei tribunali e si trattava di dissensi molto deboli. Persistevano violazioni gravi, coperte dai tribunali; tra esse il tristemente noto Smith Act, che bandiva l’insegnamento, la difesa, o le associazioni che, a giudizio delle corti, potevano incoraggiare il rovesciamento del governo, non diversamente dal tipo di ragionamento che il governo turco sta impiegando oggi nelle sue azioni repressive.

E’ stato solo 50 anni fa che la Corte Suprema ha cominciato ad arrivare a decisioni che hanno portato gli Stati Uniti oltre la soglia della protezione seria della libertà di espressione, in realtà ad un livello al di là di ogni altro nel mondo, per quanto a mia conoscenza. Dal 1959 al 1974 la Corte Suprema si è occupata di un numero di casi riguardanti la libertà di espressione superiore a quello della sua intera storia precedente, un riflesso della nuova attenzione ai diritti umani fondamentali. Il contesto era quello della crescita del movimento per i diritti civili. La prima vittoria maggiore della libertà di espressione si ebbe nel 1964 quando la Corte stroncò la legge emanata nel 1798 che stabiliva che la critica del governo è un delitto, la dottrina della diffamazione sediziosa. Va notato che tale dottrina rimane in vigore in altri paesi occidentali, comprese la Gran Bretagna e il Canada, nei quali è stata invocata di recente. La sentenza della Corte Suprema del 1964 ha fissato uno standard molto elevato per l’accusa di diffamazione. Ha rovesciato una causa per diffamazione intentata contro il New York Times per aver diffamato lo stato dell’Alabama pubblicando un’inserzione di Martin Luther King e di altri leader dei diritti civili che additava la brutalità dei funzionari legali razzisti. Di nuovo, la cosa dovrebbe risultare familiare qui.

Sotto l’impatto dell’attivismo degli anni ’60 la Corte è successivamente arrivata a uno standard persino più elevato, uno standard che credo sia unico nel mondo. Questa sentenza del 1969 bandisce solo le parole che incitino a una azione delittuosa imminente. Così, se tu ed io intendiamo rapinare un negozio e tu hai un’arma e io dico “spara”, questo non è protetto dalla legge. Ma a parte una circostanza simile, la libertà di parola è protetta. La dottrina è controversa ma, almeno secondo la mia opinione, stabilisce uno standard appropriato. Adottare uno standard simile sarebbe un segno di vero illuminismo.

In un’analisi della “storia e realtà della libertà di parola negli Stati Uniti” lo storico legale David Kairys sottolinea che “nessun diritto alla libertà di parola, nella legge o nella prassi, esisteva prima delle trasformazioni della legge” tra le due grandi guerre del ventesimo secolo. “Prima di allora, si poteva parlare in pubblico solo a discrezione delle autorità locali e a volte federali che spesso proibivano ciò che esse, la classe dirigente economica o altri segmenti potenti della comunità non volevano sentire.” Egli enfatizza come punto importante che “i periodi di protezione stringente e di ampliamento dei diritti e delle libertà civili corrispondono ai periodi in cui i movimenti di massa che rappresentavano una sfida credibile all’ordine esistente hanno preteso tali diritti” incluso il diritto alla libera espressione. I maggiori agenti della difesa dei diritti civili sono stati la sinistra, i sindacati e altri movimenti popolari, energicamente negli anni ’60.

Più in generale, per citare lo scrittore anarchico Rudolf Rocker in un classico studio di ottanta anni fa “i diritti politici non hanno origine nei parlamenti; sono, piuttosto, imposti ad essi dall’esterno. E anche la loro conversione in legge non è stata, per lunghi periodi, garanzia della loro sicurezza. Non esistono perché sono stati messi giù legalmente su un pezzo di carta, ma solo quando sono diventati il costume interiorizzato di un popolo e quando ogni tentativo di pregiudicarli incontra la resistenza violenta della popolazione.” Una versione più forte e dura del principio di Madison.

In conformità con questi principi il livello più elevato di protezione della libertà di espressione negli Stati Uniti è stato ottenuto al picco dell’attivismo, quarant’anni fa. Con il declinare dell’attivismo i tribunali hanno cominciato a incrinare queste protezioni. L’attacco più estremo alla libertà di espressione si è avuto appena l’anno scorso, sotto Obama, con il caso che Judith Chomsky ha trattato ieri: Holder contro Humanitarian Law Project. A sostegno dell’amministrazione Obama i giudici di estrema destra della Corte hanno assicurato al governo diritti di repressione che ci riportano in dietro di parecchi decenni. Le decisioni criminalizzano le espressioni, o qualsiasi altra azione, che il governo affermi possano offrire sostegno e incoraggiamento a organizzazioni sulla lista governativa dei terroristi, una dottrina legale decisamente familiare qui. Secondo gli standard lassi su cui Obama ha insistito, persino l’ex presidente Jimmy Carter potrebbe essere incriminato. Certamente possiamo esserlo Judith ed io, insieme con molti altri. Sono rimasto piuttosto sorpreso dal fatto che la difesa non abbia neppur chiesto alla Corte di considerare le forti sentenze degli anni ’60, che apparentemente sono oggi considerate troppo estreme. Il caso è passato quasi sotto silenzio se si eccettuano alcuni sostenitori delle libertà civili che lo hanno condannato.

Ma anche tali critiche sono state, nella maggior parte, troppo limitate. Raramente hanno contestato la validità della stessa lista. La lista è proclamata dal governo, virtualmente senza un’analisi indipendente o qualsiasi necessità di argomenti a sostegno. Come ci si può attendere in circostanze simili, la lista è molto arbitraria e riflette esigenze politiche contingenti. Solo per considerare un caso, nel 1982 l’amministrazione Reagan decise di fornire un appoggio diretto all’invasione dell’Iran da parte di Saddam Hussein. Per farlo dovette rimuovere l’Iraq dalla lista degli stati sostenitori del terrorismo. Ne seguì la visita a Bagdad di Donald Rumsfeld per mettere a punto aiuti di cui aveva disperatamente bisogno il tiranno sanguinario che, come sapete, andò avanti con l’uso di armi di distruzione di massa, macellando centinaia di migliaia di iraniani per poi volgere le armi contro i curdi iracheni con conseguenze letali, sempre con il sostegno di Washington; l’amministrazione Reagan mise al bando le proteste e cercò persino di attribuire i crimini all’Iran. Infine, gli Stati Uniti entrarono in guerra direttamente costringendo l’Iran alla capitolazione. Ciò non mise fine alla corrispondenza amorosa con Saddam. Nel 1989 il presidente George Bush Numero 1, non solo ampliò gli aiuti ma invitò anche negli Stati Uniti ingegneri nucleari iracheni per un addestramento avanzato nello sviluppo di armamenti nucleari. Nell’aprile del 1990 Bush inviò un’alta delegazione senatoriale in Iraq, capeggiata dal senatore Robert Dole, il candidato presidente repubblicano sei anni dopo. La loro missione consisteva nel portare i caldi saluti del presidente al suo buon amico Saddam e ad assicurargli che poteva ignorare i commenti critici di alcuni giornalisti statunitensi che non potevano essere messi a tacere a causa delle fastidiose protezioni della libertà di espressione. Alcuni mesi dopo Saddam fece il suo primo errore, disobbedendo agli ordini, o forse fraintendendoli, e invase il Kuwait. Immediatamente egli fece l’estrema transizione da amico e alleato favorito a novello Hitler. Non è necessario andare oltre questo punto nel racconto.

Quando Saddam fu processato e condannato sotto l’occupazione militare USA, i suoi peggiori crimini furono ignorati completamente, forse perché si sarebbero spalancati troppi armadi di scheletri. Fu accusato di coinvolgimento indiretto in uccisioni che sono decisamente minori considerati i suoi standard, che avvennero nel 1982, l’anno in cui Washington lo adottò come amico preferito, cancellandolo dalla lista dei terroristi.

Quando Saddam fu rimosso dalla lista nel 1982, restò un buco da riempire. L’amministrazione Reagan aggiunse Cuba alla lista, forse a riconoscimento del fatto del fatto che le operazioni terroristiche su larga scala che l’amministrazione Kennedy aveva lanciato contro Cuba stavano toccando un nuovo picco comprendente l’abbattimento di un aereo di linea cubano con l’uccisione di 76 persone. Chi perpetrò l’attentato vive oggi felicemente in Florida, insieme con altri leader terroristi.

Tutto questo viene garbatamente soppresso, nell’Occidente in generale, dai media e dai commentatori per quanto io posso appurare, confermando il giudizio di Orwell sulla soppressione delle idee impopolari attraverso la subordinazione volontaria al potere.

Tale “ignoranza intenzionale”, come viene chiamata a volte, è consuetudine, una cosa che ci porta direttamente al significato pratico della libertà di espressione. I crimini del proprio stato sono tipicamente soppressi o ignorati, mentre quelli dei nemici suscitano grandi manifestazioni di angoscia e di stupore circa il fatto che gli esseri umani possano essere così malvagi. Ciò sembra essere quasi un principio universale della storia intellettuale, anche se vi sono alcune eccezioni. La Turchia è forse l’eccezione recente più straordinaria, come ho detto ieri. La patologia è rampante nelle libere democrazie occidentali, come è stato documentato fino alla nausea. E il fardello morale è chiaramente più elevato quando non vi è virtualmente alcuna punizione per chi dica la verità, certamente nulla di simile a ciò che affrontano le persone oneste in società molto più repressive.

Fornire esempi è fuorviante, perché il modello è pressoché uniforme. Ma ne fornirò uno solo per illustrare la prassi standard. Per molti anni, l’economista e critico dei media Edward Herman, ha studiato la copertura dei media riguardo a quelle che egli chiama vittime “meritevoli” o “immeritevoli”, le prime essendo quelle causate dalla violenza dei nemici e le seconde quelle causate dalla nostra, e perciò immeritevoli di attenzione. Come egli e altri hanno dimostrato a un livello di affidabilità che raramente si trova al di fuori delle scienze esatte, le vittime meritevoli suscitano un’enorme copertura e una grande manifestazione di angoscia e la loro sofferenza è utilizzata come giustificazione per l’aumento del ricorso alla violenza da parte nostra. Quelle immeritevoli, per contro, non vengono notate e finiscono tranquillamente dimenticate. Ismail Besikci è uno degli innumerevoli esempi di vittime immeritevoli. Il dissidente ceco Vaclav Havel è una vittima meritevole, famoso quasi al limite della reverenza per la sua coraggiosa difesa della libertà di espressione sotto il regime comunista per la quale soffrì diversi anni di prigione. Tra le molte vittime immeritevoli della stessa epoca ci sono sei intellettuali latino-americani, preti gesuiti, le cui teste furono fatte saltare da un battaglione di elite, in El Salvador, fresco di un rinnovato addestramento alla scuola speciale di guerra John F. Kennedy. Gli assassinii furono autorizzati dall’alto comando che era in contatti molto stretti con l’ambasciata USA. I fatti furono dapprima negati dall’ambasciata e poi rapidamente dimenticati. Con una certa giustizia, si potrebbe dire, perché questo fu solo un breve capitolo delle sanguinose guerre terroristiche di Reagan negli anni ’80.

In uno studio che sta per essere pubblicato Herman continua questo lavoro fornendo esempi simili a questi due recenti: Neda Agha-Soltan, di 27 anni, uccisa da un’arma da fuoco mentre partecipava a una manifestazione pacifica in strada a Teheran, nel giugno scorso e Isis Obed Murillo, di 19 anni, anch’essa uccisa da un’arma da fuoco mentre partecipava a una dimostrazione pacifica in Honduras, poco tempo dopo. Agha-Soltan è stata vittima di uno stato nemico. Si è meritata 736 articoli sui giornali e 231 servizi in televisione, alla radio e su altre fonti. Murrillo è stata vittima di un governo installato da un colpo di stato militare e riconosciuto dall’amministrazione Obama, ma da pochi altri. Si è meritata 8 articoli di giornale e un servizio di altro tipo. Il rapporto 100 a 1 non per nulla insolito.

A ulteriore sostegno della distinzione tra vittime meritevoli e immeritevoli, la denuncia della prassi standard, per quanto massiccia e per quanto grottesca, è praticamente priva di impatto. E’ relegata alla categoria delle cose che “non sta bene dire”, e nemmeno pensare. Simili misure di soppressione volontaria operano con una efficacia davvero impressionante. Esse gettano una chiara luce su quanta strada dobbiamo percorrere, negli stati autodefinitisi illuminati, per una vera realizzazione del diritto alla libertà di pensiero e di espressione. Anche in questi stati, che hanno realmente registrato considerevoli progressi nel corso degli scorsi secoli, c’è bisogno di molto di più che non le leggi formali e le sentenze delle corti. Quella di cui c’è bisogno è una cultura della libertà e dell’indipendenza intellettuale, una cultura di una democrazia funzionante.

Si potrebbe pensare che ciò non sia un problema nei paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti dove i leader politici e i commentatori proclamano appassionatamente la dedizione di Washington ad estendere a tutto il mondo la benedizione della democrazia. Messa così, la storia quadra. Ma, di nuovo, è utile ricordare i moniti di Orwell. La storia ha una qualche validità? La politica USA è stata davvero guidata dalla dedizione all’avanzamento di una cultura democratica nella quale la libertà di espressione e gli altri diritti possano prosperare?

La materia è stata oggetto di seri approfondimenti da parte di studiosi. Lo studio accademico più esteso è quello di Thomas Carothers, ex capo del Progetto per la Democrazia e la Legge del Fondo Carnegie per la Pace Internazionale (nell’originale, rispettivamente, Law and Democracy Project e Carnegie Endowment for International Peace – n.d.t.). Carothers si definisce un neo-reganiano e fortissimo sostenitore della promozione della democrazia. Ha servito presso il Dipartimento di Stato di Reagan, lavorando alla promozione della democrazia. Egli considera questi programmi “sinceri” anche se “un fallimento” e un fallimento sistematico. Egli spiega che dove l’influenza USA è stata minore, nel cono meridionale dell’America Latina, il progresso verso la democrazia è stato maggiore, a dispetto dei tentativi di Reagan di impedirlo abbracciando i dittatori di destra. Dove l’influenza USA è stata più forte, nel regioni vicine, il progresso è stato minore. La ragione, spiega Carothers, sta nel fatto che Washington ha cercato di conservare “l’ordine fondamentale di quelle che, almeno storicamente, sono società decisamente non democratiche” e di evitare “il cambiamento a base popolare in America Latina, con tutte le sue implicazioni di turbamento dell’ordine politico ed economico e il suo indirizzamento a sinistra”. Perciò gli USA tollererebbero solo “forme limitate di cambiamento, calate dall’alto, che non rischino di turbare le strutture tradizionali del potere con le quali gli Stati Uniti sono stati a lungo alleati.”

In studi più ampi, Carother dimostra che le conclusioni sono generalizzate. Gli Stati Uniti sostengono coerentemente la democrazia quando fare ciò è conforme a obiettivi economici e strategici, tipicamente in domini nemici; e gli Stati Uniti si oppongono coerentemente alla democrazia quanto essa entrerebbe in conflitti con tali interessi principali, tipicamente all’interno dei propri domini, nei quali l’opposizione può essere estremamente brutale. Carothers considera questa come una sorta di strana patologia: i leader sono “schizofrenici”. Altri commentatori si basano su ciò per dimostrare che i leader agiscono incoerentemente, seguendo un doppio metro. Un altro modo di descrivere i fatti consiste nel ritenere che essi si comportino molto coerentemente, adottando il singolo metro della protezione del potere e del privilegio. Ma una simile conclusione supera confini legittimi.

Tutto questo dovrebbe risultare decisamente familiare in Turchia. Ricorderete, senza dubbio, che quando gli Stati Uniti progettarono di invadere l’Iraq cercarono di mobilitare il sostegno presso i propri alleati. Alcuni aderirono, altri rifiutarono. Ciò portò Donald Rumsfeld a enunciare la sua famosa distinzione tra la “vecchia Europa”, i cattivi, e la “Nuova Europa”, la speranza per la democrazia. La vecchia Europa comprendeva la Germania e la Francia, dove i governi mostrarono il loro disprezzo per la democrazia adottando la posizione della gran maggioranza della propria popolazione. Washington ne fu così esasperata che alla mensa del Senato le patatine fritte non furono più chiamate (secondo l’uso corrente – n.d.t.) “patatine francesi” bensì “patatine della libertà”. I rappresentanti più luminosi della Nuova Europa furono l’italiano Berlusconi e lo spagnolo Aznar che dimostrarono il loro amore per la democrazia ignorando una maggioranza ancor più vasta dei propri popoli. Berlusconi fu invitato alla Casa Bianca e Aznar fu invitato a partecipare al summit in cui Bush e Blair dichiararono la guerra. All’epoca godeva del sostegno del 2% della popolazione.

L’esempio più drammatico fu la Turchia, dove il governo adottò la posizione del 95% della popolazione e respinse le pretese di Washington. La Turchia fu aspramente condannata dalla stampa nazionale per mancanza di “credenziali democratiche”. Colin Powel, il moderato ufficiale dell’amministrazione Bush, annunciò dure punizioni per questo atto di disobbedienza. Paul Wolfowitz prese la posizione più estrema. Denunciò l’esercito turco per non aver costretto il governo a eseguire gli ordini di Washington e pretese che i capi militari si scusassero e dicessero “Abbiamo commesso un errore” e ignorassero così l’opinione pubblica virtualmente unanime. “Vediamo come possiamo essere di aiuto all’America quanto più possibile” avrebbero dovuto dire, dimostrando così di aver capito la democrazia. Il più eminente commentatore liberale del Washington Post, ex redattore dell’International Herald Tribune, dichiarò che Wolfowitz era “l’idealista in capo” dell’amministrazione Bush, il cui unico difetto era di essere “troppo idealista, la sua passione per i nobili obiettivi della guerra in Iraq superare la prudenza e il pragmatismo che normalmente guida i pianificatori delle guerre”. Il resto della stampa di elite in USA e Gran Bretagna si abbandonò a un analogo scampanio dichiarando che la sua “passione è il progresso della democrazia”, che “la promozione della democrazia è stata uno dei temi più coerenti della sua carriera”. Essi hanno evitato scrupolosamente di analizzare la sua carriera che è caratterizzata da un brutale disprezzo per la democrazia così come ha rivelato nel caso della deviazione democratica della Turchia.

Bush e Blair sono entrati in guerra per Saddam non aveva posto fine ai suoi inesistenti programmi di sviluppo della armi di distruzione di massa. E’ stata quella la “questione base” che entrambi i leader hanno energicamente reiterato. Quando la “questione base” ha trovato risposta nel modo sbagliato, i sistemi di propaganda statale hanno istantaneamente ideato una nuova ragione: lo scopo consisteva nel promuovere la democrazia. Con rarissime eccezioni i media e le accademie adottarono istantaneamente la nuova Linea del Partito, acclamando Bush per la sua dedizione reaganiana alla democrazia. L’entusiasmo non fu, tuttavia, del tutto uniforme. In Iraq l’ 1% della popolazione accettò tale affermazione, il 5% ritenne che gli USA intendessero aiutare gli iracheni e la maggior parte del resto pensò quello che era indicibilmente ovvio: che gli USA invadevano per motivi strategici ed economici, come alla fine è stato riconosciuto, sommessamente ma con chiarezza, dopo anni di violenze e di distruzioni.

Da eventi come questi apprendiamo nuovamente che il compito di conseguire un’autentica libertà di espressione rimane molto difficile, nonostante molti risultati. Ho parlato degli USA e della Turchia ma limitarsi ad essi è fuorviante. Nell’Europa libera e democratica ci sono molte serie barriere alla libertà di espressione. Per illustrare la cosa con un esempio recente, ho avuto alcuni mesi fa un’intervista in Inghilterra con il New Statesman, un vecchio e rispettato giornale della sinistra. Mi è stato chiesto cosa pensavo del fatto che Obama avesse vinto il premio Nobel per la pace. Ho risposto che non era stata la scelta peggiore: il premio era stato dato a veri criminali di guerra, come Henry Kissinger. I redattori mi hanno informato che il riferimento a Kissinger doveva essere cancellato per timore delle pesanti leggi inglesi sulla diffamazione che sono uno scandalo internazionale. Negli Stati Uniti se tu mi accusi di diffamarti devi dimostrare la mia intenzione maligna. In Gran Bretagna l’onere è invertito: sono io a dover provare di non avere intenzioni maligne, compito praticamente impossibile. Mi sono rifiutato di ritirare la dichiarazione e ho suggerito, invece, di aggiungere alcune delle ovvie prove, ad esempio gli ordini di Kissinger ai militari USA che esigevano “un massiccio bombardamento della Cambogia, di qualsiasi cosa che voli o che si muova”. Sarebbe difficile trovare negli archivi una chiamata al genocidio comparabile. Gli ordini furono eseguiti. La Cambogia rurale fu sottoposta a bombardamenti superiori a quelli dell’intero teatro del Pacifico durante la seconda guerra mondiale con conseguenze che non conosciamo perché noi non indaghiamo i nostri propri crimini, anche se una conseguenza è nota: il bombardamento ha trasformato i Khmer Rossi da forza marginale a un’enorme armata di contadini infuriati rivolti a ottenere vendetta. Aggiungere tale prova non è stato sufficiente per i redattori e, su parere del loro legale, la dichiarazione è stata cancellata. Questo non è assolutamente il caso peggiore. Le disgraziate leggi inglesi sono state anche usate per mettere fuori dal mercato un piccolo giornale per aver osato contestare le affermazioni dei media maggiori. Mancando delle risorse per confrontarsi con il potere di una grande ‘corporation’, il piccolo giornale ha capitolato. Il tutto ha avuto luogo con l’applauso della stampa liberale di sinistra.

La Francia è molto peggiore. Ha leggi sui libri che garantiscono efficacemente allo stato il diritto di determinare la Verità Storica e di punire deviazioni da essa, leggi che Stalin e Goebbels avrebbero ammirato. Tali leggi sono utilizzate regolarmente anche se selettivamente. Sono utilizzate principalmente, con atteggiamenti molto cinici, per punire chi metta in discussione l’Olocausto nazista. Il termine ‘cinici’ è del tutto appropriato. Proprio nello stesso tempo le classi intellettuali rimangono zitte sulla partecipazione della stessa Francia a eccidi mostruosi che chiameremmo certamente genocidi se fossero perpetrati da nemici. In realtà siamo testimoni del cinismo proprio in questo momento. Molto peggio che negare l’Olocausto sarebbe punirne le vittime, esattamente quello che la Francia sta ora facendo, espellendo illegalmente i Rom – gli zingari – verso la miseria in Romania. Anch’essi furono vittime dell’Olocausto, in larga misura allo stesso modo degli ebrei. Anche questo passa senza commenti.

Ho solo scremato la superficie. Sfortunatamente è sin troppo facile continuare. La lezione è dura e chiara. Dovunque nel mondo ci sono impedimenti seri alla libertà di espressione e spesso conducono a punizioni severe. E anche dove sono state conseguite vittorie sostanziali grazie alla lotta popolare, sono necessarie costante vigilanza e dedizione per difenderle. Oltre a ciò, siamo ben lontani dall’aver raggiunto lo stadio di una genuina cultura democratica in cui pensiero e parola siano veramente liberi. Questo rimane un compito fondamentale per il futuro, un compito dalle implicazioni enormi.

Noam Chomsky

giovedì 25 novembre 2010

Osservatorio sulla libertà di pensiero negata. Parte Prima: Gli Stati. Cap. XII - Lituania.

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È di poche ore la notizia di un caso che si verifica questa volta in Lituania. La notizia ci compete ed è di nostro interesse in quanto “Comitato europeo per la difesa della libertà di pensiero”. Ecco la notizia Adnkronos, che ci servirà da base per ulteriori indagini sulla situazione lituana:
«SETTE AMBASCIATORI PROTESTA GOVERNO LITUANIA – Gli ambasciatori di sette paesi europei hanno scritto una lettera di protesta al presidente e al governo lituano dopo la pubblicazione di un articolo negazionista da parte di un alto funzionario. Il contenuto della lettera è stato reso pubblico oggi, provocando le dimissioni di Petra Stankeras, funzionaria del ministero degli Interni e studiosa di storia. La Stankeras ha pubblicato sul settimanale Veidas un articolo in cui descrive il genocidio degli ebrei come «una leggenda» e definisce «una farsa legale» i processi Norimberga contro i gerarchi nazisti. «È incredibile che una pubblicazione conosciuta come Veidas consenta di pubblicare simili false affermazioni e che non vi sia stata nessuna condanna pubbblica o ufficiale», si legge nella lettera inviata dagli ambasciatori di Gran Bretagna, Estonia, Francia, Finlandia, Olanda, Norvegia e Svezia. L’intera vicenda crea imbarazzo al governo lituano, dopo che ieri rappresentanti del Consiglio d’Europa per i diritti umani (Ecri) hanno espresso preoccupazione per l’atteggiamento discriminatorio di alcuni parlamentari lituani su questioni come razzismo e omofobia. La Lituania è stata uno dei paesi più colpiti dal genocidio degli ebrei perpetrato dai nazisti. Solo 4mila ebrei su 150mila sopravvisero al massacro. Fra gli eccidi di massa va ricordato quello di Paneriai, dove furono uccisi 70mila ebrei al momento della distruzione del ghetto di Vilnius». (Fonte adnkronos)
Esiste una forte tendenza – sostenuta apertamente da Israele e dalle comunità ebraiche della “dispersione”, come usa dire il linguaggio sionista, – affinché tutte le legislazioni europee si uniformino nella repressione penale di mere opinioni, ritenute politicamente scomode per Israele. Infatti, lo Stato “ebraico e sionista” ha potuto costruire nel tempo la sua base di consenso internazionale su due fattori: a) Il “cristiano sionismo”, ossia una pura superstizione religiosa che tollera, giustifica e perfino promuove i peggiori crimini israeliani, ritenendo che il ripopolamento ebraico di Israele – non importa a quale prezzo ed in che modo – favorirà la seconda Venuta del Cristo e quindi la conversione degli stessi Ebrei, che plaudono a tanta demenza. b) Il “senso di colpa” indotta in Europa da narrazioni storiche che non possono e non devono essere minimamente criticate, per non veder crollare tutta una formazione politico-culturale impartita ed imposta dal dopoguerra ad oggi. Ma sempre più frequentemente, da un capo all’altro dell’Europa, si levano voci che vengono prontamente represse e messe alla “gogna”. Seguiremo qui, per gli aspetti giuridici che riguardano l’esercizio della libertà di espressione, quanto riusciremo a raccogliere sul caso lituano. Con l’occasione andremo anche raccogliendo i riferimenti normativi vigenti in Lituania.

Sommario: 1. Il rimbalzo della notizia. – 2. Qualche dettaglio in più sul nuovo caso. – 3. I magnifici sette. – 4. Una “inquisizione talmudica”. - 5. Una citazione di traverso. – 6. «Un villano lituano». –

1. Il rimbalzo della notizia. – La notizia viene subito ripresa dall’European Jewish Press, che titola “Lithuanian historian quits after Holocaust article”. La fame, la “gogna” e la morte civile sembra sia la pena ordinaria a chi in fondo non ha scritto che un articolo. Ho dato la stima di 200.000 casi nella sola Germania, ma mi mancano del tutto dati per gli altri paesi, come ad esempio la Lituania. Saranno milioni di persone coinvolte? Non abbiamo diritto di sapere i numeri? Contemporanea a questa notizia è l’altra dell’arresto dell’ennesimo criminale nazista, che ha ora 91 anni. Detratti 65 anni trascorsi dalla fine della guerra, doveva avere 23 anni all’epoca dei “crimini di guerra”. Perfino nel sito ebraico emerge in tutta la sua ambiguità l’espressione “negazione dell’Olocausto». Infatti, la direttrice della rivista in cui è apparso l’articolo di Petras Stankeras che la sua rivista non ha “negato” e mai lo farà. L’articolo riguardava soltanto... il numero delle vittime, che non sarebbe di 6.000.000 tondi. Ma la direttrice non sa evidentemente che in molte legislazioni liberticide è proprio questo il reato! Le vittime devono essere non meno di sei milioni. Non costituisce reato aumentarne il numero, ma non lo si può ridurre. Altrimenti si incorre nel reato di “riduzionismo”. È allucinante, ma è proprio così.

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2. Qualche dettaglio in più sul nuovo caso. – La grande stampa internazionale non sembra abbia molta voglia di accanirsi sulla storica lituana, come invece ha fatto in altri casi recenti, da quello del vescovo Williamson al viaggio di Irving ad Auschwitz, per non parlare dei casi italiani. A questo riguardo osservo come anche qui ricorre il famigerato termine “leggenda”, che era stato alla base della montatura contro chi scrive nell’ottobre 2009. Forse i giornali nostrani non se la sentono di tirare ora in ballo anche una leggenda “lituana”, dopo aver toppato su quella “romana”, montando un falso degno dei romanzi di Umberto Eco. Nel sua prorompente faziosità il CICAD tuttavia rompe una sorta di consegna dei toni bassi e riprende tal quale la notizia della Croix, senza purtroppo aggiungere dati propri. Si ricavano alcune notizie in parte note: 1) le dimissioni dal suo ufficio dello storico lituano. Non si capisce però se siano state spontanee, perché magari l’interessato aveva meglio di cui occuparsi o se sia stato un licenziato larvato. La distinzione è molto importante. 2) Il ruolo degli ambasciatori era già noto, ma è una clamorosa ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano e quel che peggio sulle opinioni di cittadini di uno stato a loro straniero. 3) La critica di Petras Stankera si rivolgeva all’intero impianto del tribunale di Norimberga, il quale «a fourni una base légale a la legende des six milions de Juifs soi-disant assassinée». Da questa frase così citata, fuori dal suo conteto di tutto l’articolo che non sapremmo leggere in lituano, sembrerebbe che il dato dei «sei milioni» sia un mero dato giudiziario, cioè una presunzione legale, e non il risultato di una conoscenza storica. Si spiega in effetti così l’immediata condanna di quanti sostengono, magari con studi accurati, un diverso dato quantitativo. Se è così, si tratta di una assoluta barbarie, non dissimile da un parlamento che decidesse un ritorno al sistema tolemaico. 4) Dalla semplice contestazione del dato quantitativo se ne desume la “negazione dell’Olocausto”, secondo la posizione espressa dai magnifici sette ambasciatori: il fatto equivarrebbe «à une négation de l’Holocauste et mérite une condamnation ferme». Evviva gli ambasciatori! Grandi e chiarissimi cultori di storia e di diritto. Sarebbe il caso di conoscerne i nomi, se i motori di ricerca ce li danno. 5) Di nome che compare nella Newsletter del CICAD vi è quello di Efraim Zuroff, del Centro Simon Wiesental, sempre presente nei nostri sogni, ma con base a Gerusalemme. Questi «a estimé que M. Stankeras devrai être poursuivi conformément à la loi anti-négationniste en vigueur en Lituanie». Sappiamo dunque che anche qui ve ne è una, ben nota al Centro Wiesenthal di Gerusalemme. Nel prosieguo della nostra ricerca tenteremo non già di conoscere il testo normativo ed in cosa si differenzi da quello esistente in altri paesi, ma quale sia stata la sua genesi, quali i gruppi che l’hanno reclamata, quante volte è stata applicata e quali soggetti sono stati colpi. Su quali possono essere stati i promotori non pare difficile indovinarlo. Più difficile venire a sapere quali siano stati gli strumenti di persuasione e le persone che si son date da fare, all’interno e all’estero.

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3. I magnifici sette. – Gli ambasciatori che hanno prodotto il “caso” sono, in ordine alfabetico quelli di: 1) Gran Bretagna; 2) Estonia; 3) Finlandia; 4) Francia; 5) Norvegia; 6) Svezia e 7) Paesi Bassi. Collocheremo in questo paragrafo ogni altra notizia su ciò che ha determinato i sette ambasciatori, che forse hanno agito di concerto, magari su impulso di uno solo e parrebbe strano senza aver sentito i rispettivi governi, che però si sarebbero presi la responsabilità di ingerenza interna nella vita di un piccolo paese come la Lituania. Un atto di prepotenza? Avrebbero fatto lo stesso se lo storico fosse un cinese ed il governo quello della Repubblica Popolare Cinese o anche la Russia?

4. Una “inquisizione talmudica”. – Per saperne qualcosa sul merito – se non è pure questo proibito – occorre andare su un blog, cliccando sul titolo del paragrafo. Vi si trova riportato un articolo di Michael Hoffman (segue).

5. Una citazione di traverso. – Siamo venuti a sapere grazie al “Guardian” di un ulteriore incremento di 1000 unità di elementi a sostegno dell’immagine di Israele, particolarmente all’estero, da dove trae la sua linfa vitale. Quello dei media è un settore delicatissimo e assai curato. Se confrontiamo il “Williamson” e quello che riguarda chi scrive, sarebbe stato imbarazzante dare rilievo sulla stampa italiana ad una “leggenda” lituana. Coloro che sanno e decidono hanno ben pensato che era meglio non parlare del caso lituano, o del caso delle migliaia di “sopravvissuti” nati in buona parte del 1945, ma regolari percettori di indennità, che la Germania è ben lieto di pagare a mo’ di moderne riparazioni di guerra, poco importa quanto fondate e come motivate. Basta pagare ed essere lasciati in pace. Se a farne le spese sono centinaia di migliaia di cittadini che hanno la forza delle loro opinioni, poco importa: è un costo sociale calcolato e sostenibile. Nell’articolo sul “Corriere” compare in via incidentale il nome di Petras, lo storico lituano, che aveva criticato il computo del numero delle vittime e l’impianto stesso del Tribunale di Norimberga. È meglio non dibattere ciò che può allargare la sfera del dubbio, o per lo meno far porre inquietanti interrogativi sulle garanzie della libertà di pensiero e di ricerca. Il pubblico italiano non sa però chi sia Petras Stankeras e perchè mai ben sette ambasciatori abbiano fatto pressioni su un piccolo stato come la Lituania. Che poi sia stato dimissionato è cosa che suscita ulteriore apprensione, ma non per l’articolista del Corsera.

6. «Un villano lituano». – In italiano fa anche rima. Cliccando sul link si accede al sito del CRIF, che naturalmente non poteva ignorare il caso. Alla repressione si unisce l’offesa personale, gratuita, a dimostrazione ulteriore, se ve ne era bisogno, della superiore moralità che animi questi accaniti difensori dei “diritti dell’uomo”, dove chiaramente nella nozione di uomo non entra il “villano lituano”, e ancor meno il suo diritto di pensiero. La nostra epoca ha stravolto gli ordinari parametri del linguaggio per cui una cosa significa l’opposto della sua più immediata ed evidente percezione. La vittima diventa il carnefice e viceversa. Non ci resta che rilevare il fatto nella speranza che si tratti di nient’altro che di un’appropriazione dei mezzi della comunicazione e che invece la retta coscienza, ispirata dal lume della ragione naturale – come si diceva nel vecchio linguaggio scolastico – sappia riconoscere le cose per quel che sono e malgrado la forza e l’intensità della propaganda. Purtroppo, mancano nell’articolo che il CRIF riprende da una delle innumerevoli testate di area, la Jeropean Jewish Press, mancano i dati tecnico-giuridici del “caso”. Non sono un tecnico delle immagini, ma la svastica che vedo nello foto mi dà il senso visivo di una sovrapposizione. Viene sempre ripetuta la frase incriminata: «Selon Petras Stankeras, le procès de Nuremberg ’a fourni una base légale à la legénde de six million de Juifs soi-disant assassinés» Appunto: “selon…”. Petras Stankeras, si legge, è uno storico ed ha questa opinione. Il crimine è nell’avere un’opinione? Non mi soffermo oltre. L’ingerenza dei sette ambasciatori pone problemi sull’automia sovrana di un piccolo stato come la Lituania. Dei sette ambasciatori occorrebbe poi sapere se hanno agito per espressa delega dei loro governi ed in questo caso sarebbe grave l’ingerenza in affari interno di uno stato sovrano, se è sovrano, oppure se questi ambasciatori non sono membri di una delle numerose associazioni di amicizia X-Israele, dove si nasconde abitalmente la Israel lobby nei singoli paesi. A tanta diplomatica insensatezza e mancanza di senso dello stato e del diritto non vi è nulla da opporre. Si deve solo prendere atto che nell’anno 2010 succedono di queste cose, che potevano comprendersi benchè non giustificarsi all’epoca della caccia alle streghe e loro messa al rogo. Altre considerazioni sono qui inibite, ma non troviamo argomentazioni nuove a sostegno di una condotta repressiva, a nostro avviso, in grave contrasto con i diritti dell’uomo, qui costituiti dal diritto umano di una persona di nome Petras Stankeras, per giunta storico e dunque persona informata, di avere sue opinione, che possono solo essere contraddette ma non represse penalmente. Manca il riferimento normativo di diritto interno lituano, per il quale Stankeras dovesse venire costretto alle dimissioni. Ed è sconcertante che essi siano venute in conseguenza di una ingerenza esterna. Sarebbe importante, ai meri fini dell’analisi, la conoscenza dei sette ambasciatori e del loro curriculum culturale-politico. Credo che si scoprirebbero dati eloquenti, ma non vi è da aspettarsi che la stampa mainstream abbia interesse a questi approfondimenti e quindi solo in qualche blog lituano si potrà risposta a questi interrogativi. È da aggiungere, per essere esaustivi, che l‘argomentazione giornalistica è del tutto estranea alla questione storiografica: siccome Giulio Cesare è stato assassinato, è fatto divieto di qualsiasi ricerca storica sull’evento che resta dunque un fatto assunto per dogma. Ci interesse infine seguire la sorte umana di Stankeras, ma la tecnica repressiva consolidata è la sparizione dopo il colpo: un nuovo desaparecido si aggiunge ad una lista infinita. Vorremmo anche sentire la sua voce e le sue ragioni, ma gli è stato tolto il diritto di parola e di replica. Gli è concessa la sola facoltà di professarsi copevole.

(segue)

lunedì 22 novembre 2010

Carlo Mattogno: «Pierre Vidal-Naquet e “Gli Assassini della Memoria”».

Testo in editing:
vers. 1.1 del 22.11.10

Solo qui qualche parola di una mia Prefazione dal testo provvisorio, per non frapporre altro indugio ad un nuovo testo di Carlo Mattogno, dove è ripresa aggiornata una critica allo storico francese Pierre Vidal-Naquet, autore di un libello dal titolo “Assassini della Memoria”, utilizzato alcuni anni fa in una delle consuete campagne per tentare di introdurre anche in Italia la legislazione liberticida già esistente in Germania, in Francia e il altri paesi. Se non è chiaro come si possa “assassinare” “la” Memoria e chi sia l’autore di un simile reato e quale la vittima, è invece ben chiaro cosa significhino 200.000 persone penalmente perseguite nella sola Germania dal 1994 ad oggi e quali immensi interessi economici e geopolitici vi siano dietro. Sono dati per i quali desidero una smentita, essendo il risultato di una mia stima complessiva basata su dati parziali. Mi mancano invece del tutto i dati per la Francia, dove è in corso una Petizione per l’abolizione della legge Gayssot. L’unico assassinio che qui mi sembra certo è quella della libertà di pensiero, di espressione, di ricerca. Come filosofo del diritto non ho competenza specifica per entrare nel merito delle questioni storiografiche trattate dagli storici che si occupano della spinosa materia dei campi di concentramento, ma ho certamente titolo e come filosofo e come cittadino per affermare il principio della libertà di pensiero come fondamento di ogni sapere e di ogni autentica democrazia, dove non solo la libertà di pensiero deve essere garantiti a tutti, incominciando dai più deboli, ma insieme alla libertà di pensiero anche il rispetto delle opinioni di ognuno in campo scientifico, filosofico, storico, letterario, artistico, siano esse condivisibili o meno. Diremmo anzi che maggiore debba essere il rispetto quanto minore possa essere la condivisibilità. Nel procedere all’editing del testo di Mattogno, che ci richiede un tempo tecnico diverso dal mero copia e incolla, ci riserviamo – come abbiamo detto – di ritornare su questa Prefazione e di rinviare ad altro distinto post le nostre considerazioni, di carattere filosofico, sul libro di Pierre Vidal-Naquet e sulla sua recezione italiana.

Antonio Caracciolo





CARLO MATTOGNO

PIERRE VIDAL-NAQUET E “GLI ASSASSINI DELLA MEMORIA

Sommario: Presentazione. – 1. Il «professionista della verità». – 2. Chi sono i revisionisti. –

Sommario1 Lettura orizzontale

Presentazione

Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), prestigioso storico dell’antichità classica sconsideratamente prestato alla storia dell’Olocausto, si può ritenere a buon diritto il creatore del “negazionismo” – questa grottesca parodia del revisionismo storico.

Sebbene si atteggiasse a maestro, egli era in realtà un dilettante della storia contemporanea, una specie di passivo e umbratile replicante di Georges Wellers, dal quale traeva la sua linfa vitale metodologico-argomentativa. Alla morte di questi, avvenuta nel 1991, egli annaspò penosamente come un pesce fuor d’acqua olocaustica e, dopo un insulso saggio datato 1992, i suoi ardori polemici si spensero definitivamente. In campo olocaustico, egli è ricordato esclusivamente per un libro apparso nel 1987: Gli assassini della memoria (Editori Riuniti. Roma, 1993) (1).

E sebbene fosse un dilettante della storia contemporanea, Vidal-Naquet trovò nondimeno – soprattutto in Italia – entusiastici proseliti della porta che, ripetendo all’indefinito il verbo del maestro, fino al saccheggio spudorato (2), screditarono nella cultura ufficiale il revisionismo, accreditando al suo posto il farsesco “negazionismo”.

In considerazione del livello pietoso dell’ “antinegazionismo” nostrano, che non riesce ad andare oltre Vidal-Naquet, non è forse inutile riproporre, con gli opportuni aggiornamenti, questo scritto, già apparso nel 1996 nella mia opera Olocausto: dilettanti allo sbaraglio. Pierre Vidal-Naquet, Georges Wellers, Deborah Lipstadt, Till Bastian, Florent Brayard et alii contro il revisionismo storico (Edizioni di Ar).

Anche perché nel 2005 è apparsa una riedizione del libro di Vidal-Naquet (3) che ha dato nuova baldanza ai suddetti proseliti (4). Di essa mi occuperò alla fine di questo studio.

NOTE

(1) Cito l’opera di Vidal Naquet in questa traduzione indicando soltanto le pagine tra parentesi tonda. L’edizione originale (
Les assassins de la mémoire. La Découverte) è uscita nel 1987. Lo scritto Un Eichmann di carta, che costituisce il primo saggio del libro, era già apparso nell’opera Les Juifs, la mémoire et le présent. PCM/ petite collection Maspero, Parigi, 1981 (trad. it.: Gli Ebrei, la memoria e il presente, Editori Riuniti, Roma, 1985) col titolo Un Eichmann de papier. Anatomie d’un mensonge. Vidal-Naquet scrisse anche un articolo intitolato «Tesi sul revisionismo», pubblicato in italiano nel 1983 (Rivista di storia contemporanea, Fascicolo 1, gennaio 1983, pp. 3-24), in cui anticipava qualcuno dei temi sviluppati successivamente. Si tratta della relazione da lui presentata al Colloque de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales che si tenne a Parigi nel 1982 e che fu pubblicato nei relativi atti. L’Allemagne nazie et le génocide juif. Gallimard-Le Seuil, 1985, pp. 496-516. - Torna al testo.
(2) Ho esposto un caso esemplare di questo saccheggio inverecondo nel libro L’ “irritante questione” delle camere a gas ovvero da Cappuccetto Rosso ad... Auschwitz. Risposta a Valentina Pisanty, in: http://civiumlibertas.blogspot.com/2007/11/slomo-in-grande-emozione-con-veltroni-e.html PDF in: http://vho.org/aaargh/fran/livres7/CMCappuccetto.pdf. - Torna al testo.
(3) L’edizione italiana è uscita nel 2008 col titolo
Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah. Viella libreria editrice, Roma. - Torna al testo.
(4) Valga per tutti la seguente dichiarazione di Carlo Ginzburg: «Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet,
Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo. Più efficace Vidal-Naquet di una sentenza».«La verità non è di Stato. Intervista a Carlo Ginzburg di Simonetta Fiori», in: La Repubblica, 21 ottobre 2010. - Torna al testo.

Top Presentazione 1.2

Il «professionista della verità» (5)

Prima di accingersi allo «smantellamento» delle «menzogne» di Faurisson (p. 63) e di tutto il revisionismo, «ad analizzare i loro testi come si fa l’anatomia di un falso» (p. X), Vidal-Naquet previene l’ovvia domanda che si pone qualunque lettore conosca la sua fama di ellenista; egli spiega dunque che, prima di intraprendere l’impresa, ha esitato a lungo: «Storico dell’antichità, che ci facevo in un periodo che non era “il mio”?» (p. 3). Ma questo argomento non lo preoccupava molto:
«Avendo sempre combattuto la superspecializzazione delle corporazioni storiche, avendo sempre lottato per una storia libera da lacci e lacciuoli, avevo l’occasione, per nulla nuova, di mettere in pratica le mie teorie. Per di più l’argomento non è così difficile da precludere ogni rapida indagine informativa» (p. 3). [Corsivo mio].
Parole sacrosante. Se ci si pone sul piano superficiale di una «rapida indagine informativa», qualcosa di simile ad una sbrigativa inchiesta giornalistica, nessun argomento risulta difficile; nella fattispecie, se invece di studiare i documenti nel loro testo originale e integrale e nel loro contesto storico si leggono i libri e gli articoli che ne riportano solo qualche stralcio; se sul valore e sul significato di tali documenti ci si affida ciecamente al giudizio altrui, allora non c’è dubbio, lo studio dell’argomento «non è così difficile». L’accusa di dilettantismo che muovo a Vidal-Naquet è più che giustificata. Nell’impianto delle note del suo libro – redatto con pomposa ostentazione di erudizione pedantesca – non appare un solo riferimento a un documento originale: tutte le conoscenze di Vidal-Naquet derivano dagli scritti e sono filtrate dai giudizi di altri autori, primo fra tutti Georges Wellers, al quale non si poteva certo rimproverare l’ignoranza dei documenti originali (anche se la sua capacità di interpretarli correttamente era oltremodo dubbia) (6); il suo impianto argomentativo è invece tratto in massima parte dall’articolo di Nadine Fresco Les redresseurs de morts (7), uno dei primi saggi contro il revisionismo in cui era già fissato quasi tutto l’arsenale degli argomenti capziosi adottati dai propagandisti successivi, articolo che egli, da buon discepolo, giudica «un’eccellente analisi dei metodi della storia revisionista»! (p. 143, nota 31).

Ma qui sorge un’altra domanda alla quale Vidal-Naquet non fornisce risposta: visto che, contro il revisionismo, si era già pronunciato uno specialista dell’olocausto, Wellers appunto, che necessità c’era della fiera presa di posizione di un dilettante, semplice compilatore di idee altrui?

Sceso in campo, Vidal-Naquet rivendica subito la sua rigorosa dirittura morale in ambito storiografico:
«Sono cresciuto con un’alta, alcuni diranno forse con una megalomaniaca, concezione del lavoro dello storico» (p. 55).
«Che i fatti siano accertati con il massimo di precisione possibile, che lo storico abbia cura di purgare la sua opera di ogni elemento inventato, leggendario, mitico, è il minimo dei requisiti ed è un compito evidentemente senza fine» (p. 102).
In virtù di questi sani princìpi, la sua trattazione del revisionismo sarà svolta sine ira et studio:
«Ma a questa accusa globale non intendo rispondere mettendomi sul piano dell’affettività. Qui non si tratta di sentimenti ma di storia» (p. X).
Ma se poi egli dà molto spazio ai sentimenti, pochissimo alla storia, e si abbandona ad espressioni non propriamente scevre di affettività (8) – ciò non è altro che il prorompere della virtuosa indignazione di colui che sa:
«Noi che, dal 1945, sappiamo, siamo tenuti a dimostrare, a essere eloquenti, a usare le armi della retorica, a entrare nel mondo di quella che i greci chiamavano la peithô, la persuasione, di cui essi avevano fatto una dea che non è la nostra» (p. 21).
Contrapponendosi con la sua possente statura morale a Faurisson, che «non cerca il vero ma il falso» (pp. 67-68), Vidal-Naquet persegue nobilmente il vero e rifugge con orrore dal falso.

Nobili intenti, nobili parole: ma i fatti?

Cominciamo da ciò che lo storico francese dice di me:
«Il revisionismo italiano si è sviluppato in seguito intorno a due personaggi: un discepolo di Rassinier, Cesare Saletta, autore in particolare di un opuscolo intitolato Il caso Rassinier, 1981, e di altri due diretti contro il sottoscritto, L’onestà polemica del signor Vidal-Naquet e In margine ad una recensione, 1985 e 1986; e un fascista dichiarato, Carlo Mattogno, le cui opere principali sono state pubblicate da La Sentinella d’Italia. I due autori sviluppano gli stessi temi; ed è un testo dello scrittore fascista che La Vieille Taupe ha deciso di pubblicare nel n.1 delle Annales d’histoire révisionniste (primavera 1987): Le mythe de l’extermination des Juifs. Introduction historico-bibliographique à l’historiographie révisionniste, pp. 15-107» (p. 158).
«Fascista dichiarato»: dichiarato da chi? Da Vidal-Naquet, ovviamente. Per le persone che conservano ancora un minimo di onestà intellettuale non è difficile subodorare la menzogna: il nostro ellenista, che riempie i suoi scritti olocaustici di riferimenti bibliografici insulsi quanto fastidiosi, che in massima parte non hanno alcuna relazione, neppure lontana, con il revisionismo, per documentare – in modo megalomaniaco, è il caso di dirlo – anche le sue affermazioni più irrilevanti, riguardo a questa grave accusa, formulata essa stessa in nota, tace: nessuna citazione, nessun riferimento che documenti la sua affermazione. Dov’è finito il dovere dello storico «di purgare la sua opera di ogni elemento inventato, leggendario, mitico»?

Nell’edizione del 2008 della sua opera Vidal-Naquet mi onora di qualche altra menzione.

A p. 227 sono semplicemente nominato insieme ad alcuni altri revisionisti; due pagine dopo egli afferma che in Italia «sono all’opera personaggi quali Carlo Mattogno e Cesare Saletta che coprono il campo aperto che sta tra il fascismo e l’ultrasinistra»; infine a p. 232 egli si limita ad affermare:
«Confesso di ignorare la professione di Carlo Mattogno che rappresenta l’Italia in questa piccola, spregevole banda».
A parte queste scarne parole, arroganti e menzognere, dov’è lo «smantellamento» dei miei scritti?

Sulla questione ritornerò successivamente.

Qui è il caso di narrare un piccolo aneddoto. Nel marzo del 1990, quando mi recai in Francia in occasione di un invito da parte di Jean-Claude Pressac, fui per qualche giorno ospite a Parigi di Michel Sergent, che aveva fondato una Association pour la défense de la libre recherche historique, il cui scopo era di conciliare revisionismo e storiografia olocaustica. In questa prospettiva, Sergent volle farmi incontrare con Vidal-Naquet, che conosceva bene essendo stato in gioventù suo compagno di scuola. Non avendo io nulla in contrario, ci recammo nei pressi della sua abitazione e lo scorgemmo a distanza tra la folla. Sergent mi chiese di aspettare in disparte mentre si recava da lui per esporgli la proposta. Appena iniziato il colloquio, Vidal-Naquet si volse verso di me con aria spaventata e corse via. Una reazione decisamente spropositata. Cattiva coscienza? Oppure semplice attuazione del suo principio che bisogna (s)parlare del revisionismo ma non con i revisionisti?

NOTE

(5) Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, op. cit., p. 11. - Torna al testo.
(6 Vedi al riguardo
Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., cap. II, “Georges Wellers”, pp. 91-144. - Torna al testo.
(7) Nadine Fresco, «Les redresseurs de morts. Chambres à gaz: la bonne nouvelle. Comment on révise l'histoire», in: Les Temps Modernes, annata 35, n. 407, giugno 1980, pp. 2150-2211. - Torna al testo.
(8) Vedi sotto, paragrafo 2. Faurisson elenca diligentemente le oltre quaranta espressioni ingiuriose proferite da Vidal-Naquet contro di lui.
Réponse à Pierre-Vidal-Naquet. La Vieille Taupe, Parigi, 1982, pp. 15-16. - Torna al testo.

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Chi sono i revisionisti?

A questa domanda Vidal-Naquet risponde con il linguaggio spassionato del puro ricercatore della verità che non si lascia turbare dall’affettività: i revisionisti sono «una setta minuscola ma tenace» che
«consacra tutti i suoi sforzi e usa ogni mezzo (volantini, storielle, fumetti, studi sedicenti scientifici e critici, riviste specializzate) al fine di distruggere, non la verità, che è indistruttibile, ma la presa di coscienza della verità» (p. IX);
essi sono dei «falsari» (p. 31) in preda a «deliri ideologici» (p. 53), e in loro «la parte dell’antisemitismo, dell’odio patologico per gli ebrei, è enorme» (pp. 20-21). I revisionisti costituiscono una «piccola banda abietta» che si accanisce a negare la realtà delle camere a gas omicide (9) o, come si è visto sopra, una «piccola, spregevole banda».

Con la profondità di pensiero che compete ad uno storico del suo calibro, e con la sua notoria obiettività, Vidal-Naquet schizza lapidariamente le origini della «setta» faurissoniana :
«Un adepto del metodo paranoico ipercritico, per plagiare un’espressione di Dalì, si sforza di dimostrare che le camere a gas hitleriane non sono mai esistite. Il tentativo è assurdo, ma poiché avviene a proposito di altre assurdità, una piccola setta si raccoglie intorno al professore in vena di delirio e di pubblicità. Questa setta raggruppa, come altre, qualche pazzoide, qualche pervertito e qualche flagellante, oltre alla consueta percentuale di creduloni e di imbecilli che fanno capo a organismi del genere» (p. 74).
Si osserverà che di questa «consueta percentuale di creduloni e di imbecilli», secondo la logica di Vidal-Naquet, faceva parte anche la Corte di Appello di Parigi la quale, il 26 aprile 1983, «ha riconosciuto la serietà del lavoro di Faurisson», e lo ha condannato «solo per aver agito dolosamente col riassumere in slogan le sue tesi» (p. 133).

La sentenza di questa Corte smentiva clamorosamente l’intero impianto argomentativo di Vidal-Naquet:
«Considerato che, attenendosi provvisoriamente al problema storico che il sig. Faurisson ha voluto sollevare su questi punti precisi, bisogna constatare che le accuse di leggerezza formulate contro di lui mancano di pertinenza e non sono sufficientemente stabilite; che in effetti il procedimento logico del sig. Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, con un’argomentazione [che egli ritiene (10)] di natura scientifica che l’esistenza delle camere a gas, come sono descritte abitualmente dal 1945, cozza contro un’impossibilità assoluta che basterebbe da sola a invalidare tutte le testimonianze esistenti o almeno a renderle sospette; che anche se non spetta alla corte pronunciarsi sulla legittimità di un tale metodo e sul valore degli argomenti esposti dal sig. Faurisson, non è comunque permesso affermare, riguardo alla natura degli studi ai quali si è dedicato, che abbia escluso le testimonianze per leggerezza o negligenza o abbia scelto deliberatamente di ignorarle; che inoltre nessuno allo stato attuale può convincerlo di menzogna quando enumera i molteplici documenti che afferma di aver studiato e le istituzioni presso le quali avrebbe fatto ricerche per più di quattordici anni; che il valore delle conclusioni sostenute dal sig. Faurisson è di competenza soltanto del giudizio degli esperti, degli storici e del pubblico».
A Faurisson veniva imputato soltanto di aver approfittato
«del suo lavoro critico per tentare di giustificare sotto la sua copertura, ma superando largamente il suo oggetto, asserzioni d’ordine generale che non presentano più alcun carattere scientifico e rientrano nella polemica pura»
e di essere
«uscito deliberatamente dal dominio della ricerca storica e [di avere] superato un limite che nulla, nei suoi lavori anteriori, autorizzava»,
riassumendo il suo pensiero in forma di slogan e cercando «di attenuare il carattere criminale della deportazione» (11), che era un’ovvia conseguenza della contestazione delle camere a gas omicide.

Torniamo a Vidal-Naquet. Il revisionismo, per il nostro integerrimo storico, è semplice «impostura» (p. 5); esso porta «alla follia e alla menzogna» (p. 94), è una «perfidia» che consiste «nell’apparire ciò che non è, un tentativo di scrivere e di pensare la storia» (p. 108), anzi, di più, il bieco tentativo «di sostituire l’insopportabile verità con la rassicurante menzogna» (p. 18), o addirittura «un tentativo di sterminio sulla carta che si sostituisce allo sterminio effettivo (12)» (p. 24).

Per questo motivo Faurisson è «un Eichmann di carta» (13) (p. 3, 55, 74); non appena ha potuto esprimersi su Le Monde, si è visto «immediatamente confutato», in modo tanto radicale che Vidal-Naquet ha sentito il bisogno di riconfutarlo; animato da una «delirante passione antisemita» (p. 114), Faurisson «ha al suo centro l’impostura» (p. 54), è «alla ricerca, non come si vorrebbe, della verità, ma del falso» (p. 24), «non cerca il vero ma il falso» (pp. 67-68), è «un falsario» e il suo libro Mèmoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz (14) «non è né più né meno menzognero e disonesto dei precedenti» (p. 63).

Per sua sfortuna, Faurisson è incappato in un fiero paladino della verità che ha demolito «i meccanismi delle sue menzogne e dei suoi falsi» (p. 74) e ha operato lo «smantellamento» delle sue «menzogne» (p. 63): Pierre Vidal-Naquet.

Si rileverà che, se uno scrittore revisionista è animato da «una delirante passione antisemita», da «odio patologico per gli ebrei», le sue affermazioni valgono meno di nulla; se invece uno scrittore olocaustico è animato da una delirante passione antirevisionistica e da un odio patologico per i revisionisti, le sue affermazioni sono sacrosanta verità. Nobile esempio di doppia morale.

NOTE

(9) «La piccola banda abietta che si accanisce ancora oggi a negare la realtà del crimine di genocidio prendendosela con ciò che fu, durante la seconda guerra mondiale, il suo strumento privilegiato – la camera a gas – ha scelto bene il suo obiettivo, perché fu effettivamente uno strumento dello sterminio». Pierre Vidal-Naquet, «Les degrés dans le crime», in:
Le Monde, 16 giugno 1987, p. 2. - Torna al testo.
(10) Parole aggiunte a penna nel testo della sentenza. - Torna al testo.
(11) Corte d'Appello di Parigi, 1ª camera, sezione A. Sentenza del 26 aprile 1983, in: R. Faurisson,
Écrits révisionnistes (1974-1998). Edizione privata fuori commercio, 1999, vol. I, pp. 387-388. - Torna al testo.
(12) Affermazione alquanto sciocca; eventualmente avrebbe dovuto imputare ai revisionisti un tentativo di resurrectio mortuorum, di voler far rivivere i morti. - Torna al testo.
(13) Faurisson rispose definendo Vidal-Naquet uno «storico di carta». Réponse à Pierre Vidal-Naquet. La Vieille Taupe, Parigi, 1982, p. 19. - Torna al testo.
(14) La Vieille Taupe, Parigi, 1980. - Torna al testo.






(segue)

domenica 21 novembre 2010

Il volo che rende liberi ed il pregiudizio che inchioda al suolo



Passato l’ultimo “stormo” di mediatici degli “idola” baconiani, forse, il fatto, di cui andiamo ad occuparci, merita una qualche riflessione, che cercheremo di sviluppare nel più breve spazio. Nello sforzo disperato di richiamare l’attenzione dei più – come se ciò fosse risolutivo – i titolari di un campo di volo non hanno trovato di meglio che scalfire il “Tabù principe” della nostra epoca. Se insegnanti e studenti contestano al governo di fare “olocausto” della scuola, i mediatici non si chiedono quali siano i problemi della scuola, ma suscitano clamore… Producono “shock”, in quanto è stata usata, sacrilegamente, la parola «Olocausto»! Se invece si fosse pubblicamente bestemmiato il nome di Cristo o di Allah, la cosa non avrebbe fatto notizia e, come al solito, sarebbe passata del tutto inosservata. È per questo che i responsabili del campo di volo di Treviso sono voluti andare sul sicuro e collaudato – imprimendo su una plastica effimera – la scritta «Fliegen macht frei» (il “volo” rende liberi), ad imitazione parafrastica di quella che tutti conoscono, per averla vista (magari in TV) sul cancello di Auschwitz, dove si riporta (ma i più, nemmeno lo sanno!), sarcasticamente o meno, una frase di Martin Lutero, risalente a quattro secoli prima.

Una sola volta sono salito su un piccolo aereo. Facevo compagnia ad un mio amico che andava a scuola di volo, sedendo accanto all’istruttore. Io ero dietro ed osservavo il mondo dall’alto. Effettivamente, volando si ricavava una sensazione di libertà, ignota forse ai piccoli esseri che, dall’alto, apparivano come “inchiodati” al suolo. E – potremmo qui dire – “imbullonati”, o tenuti saldamente immobilizzari, ai loro pregiudizi. Si sa che quando si tocca un pregiudizio, si ode subito sbraitare, protestare… E si sente già il crepitio della legna, che arde alla base del rogo. È successo, per chissà quante migliaia di anime. Ci fosse qualcuno, almeno, in grado di darcene la conta esatta! Sappiamo tutti di Giordano Bruno, di qualche altro, ma non fu certo il solo. Non abbiamo statistiche e contabilità precise e inoppugnabili. Magari, in quei casi, si vorrebbe che il numero venisse limitato a poche unità. E così si fa forse credere e conviene far insegnare. In altre parole, mai dire come le cose sono effettivamente state, ma sempre e soltanto come conviene che si debba sapere. È questa la differenza fra la propaganda di regime ed una scuola basata sull’autonomia critica e la capacità di libero giudizio da parte di docenti e discenti.

Non credo che al titolare del campo di volo si possa imputare alcun reato. E neppure le sue dichiarazioni si prestano al linciaggio. Si parla di una “ordinanza” di rimozione della scritta, ma essendo questa di materiale effimero, sarà probabilmente scomparsa prima che l’«ordinanza» giunga con tutte le sue firme, i suoi bolli ed il suo ridicolo. Il presidente dell’Aeroclub di Treviso deve aver saggiamente previsto tutte le implicazioni e le reazioni, ma ha raggiunto il suo scopo: ottenere attenzione, o come si dice “visibilità”: qualità somma, amministrata dai mediatici, che ne hanno il Potere. Già! Ma non è che in questo Paese sull’orlo dello sfacelo non vi sia chi non abbia il suo problema da far valere. Se gli italiani sono 60 milioni, tolte le ristrette aree del privilegio e del potere stesso, ognuno di noi dovrebbe salire sul Colosseo o mettersi nudo al mercato. In tanti soffrono e muiono in silenzio, in Italia e nel mondo.

Ma veniamo al “Simbolo”, al “Tabù”. Perché mai la sua semplice evocazione dovrebbe intimorirci e cancellare, in quanto incomparabile, ogni altra umana sofferenza, presente passata e futura? Chi ha interesse a tenere psicologicamente accesi i fuochi del “rogo”? Per quale recondita ragione, di tutto si può parlare, indagare, porsi domande, ma di Questo non si può, eccetto che da parte di “sacerdoti” e mediatici omologati o espressamente autorizzati? Il tutto, naturalmente, per sentire la stessa cosa, la stessa campana, la stessa unica e martellante narrazione… E mo dimando: son poche 200.000 persone penalmente perseguite in Germania, dal 1994 ad oggi, ree di aver esclusivamente scalfito o sfiorato il “Tabù” e delle quali non ci vengono forniti né i numeri ufficiali né i nomi? Veri e propri desaparecidos dell’Unione Europea, presunto faro della civiltà dei “diritti umani” (violati…) e della “democrazia da esportazione”. I mediatici, un giorno sì e l’altro pure, ci rompono quotidianamente i timpani con le adultere iraniane o con la foto di un solo soldatino, catturato in zona di operazioni, mentre scientemente tendono a distogliere l’attenzione da ben altri ed assai più gravi casi,che potrebbero essere facilmente spiegati e contrapposti.

Eh, sì! Ha ragione il responsabile della scuola trevisana di volo. Per essere liberi di mente, bisogna volare e sollevarsi sopra gli “idola”, sopra le fandonie e le manipolazioni mediatiche con le quali quotidianamente ci avviluppano. Se vogliamo attingere la conoscenza, non dobbiamo cercarla nei giornali, anche se in mezzo al letame quotidiano possiamo perfino estrarre delle perle, vere o metaforiche. Perché, dunque? Una risposta penso di poterla trarre dalla lettura di un libro, di cui, solo da qualche giorno, ho avuto conoscenza: sia del testo che della sua autrice. Ne parlo in altro post, al quale volevo dedicarmi, senza lasciarlo incompiuto, lasciandomi ora distrarre. Qui, in questo contesto, mi permetto di riportarne solo alcune pagine fra quelle che ho finora lette. Già di per sé, sconvolgenti.

A titolo di risarcimento per il “Tabù” la sola Germania sta pagando a Israele – che non avrebbe neppure titolo giuridico a chiedere per conto degli internati sopravvissuti ai campi di prigionia tedeschi – una vera e propria fortuna, su cui, sembra, si basi, in larga parte, il benessere di ogni cittadino israeliano optimo iure, che – come sappiamo – è tale solo che si dichiari “ebreo” disposto ad emigrare in Israele, dove è accolto, chiavi in mano, con tutto ciò che è negato agli “indigeni”. Si discuteva qualche giorno fa se fosse proprio parlare di regime di “apartheid”, per Israele. In realtà, è improprio nel senso che quello israeliano è molto più grave dell’apartheid sudafricano, dove la popolazione di colore era pur sempre necessaria come base di sfruttamento. Invece, il Israele il destino degli indigeni autoctoni è il loro annullamento civile: in tutti i sensi del termine. Ma una simile negazione dell’altrui esistenza e dignità umana ha bisogno di miti fondativi su cui basarsi. La produzione del senso colpa, nel mondo intero e nella Germania in particolare, è un fondamento necessario che deve essere sempre ben oleato e mantenuto attuale. ed all’ordine del giorno. Efficace è questa pagina della palestinese in esilio Ghada Karmi, in rappresentanza di un popolo di profughi:
«…Questo aiuto [quello dei francesi che fornirono ad Israele quell’atomica, le cui 200 testate, dicono, sono puntate sulle nostre teste, nel caso intendessimo liberarci dai tabù pietosamente imposti] fu poi affiancato dal sostegno della Germania, come riparazione
[i tedeschi a pagare “riparazioni” sono ormai abituati dai tempi di Versailles]
per i crimini commessi contro gli ebrei nella Seconda guerra mondiale.
[E quelli commessi contro milioni di tedeschi nei Sudeti e altrove erano “giusta” vendetta e punizione? In pratica, ogni donna tedesca che fosse a tiro poteva essere impunemente stuprata e, se così piaceva, anche uccisa. Quanto per dare una citazione, si legga il capitolo iniziale dell’Arcipelago Gulag, ma vi sarebbe di che scrivere, se la ricerca storica fosse libera e non di comodo. Cito il breve passo di Solgenitsin che ho ritrovato per l’occasione: «…Da tre settimane ormai la guerra si svolgeva in Germania e tutti lo sapevano benissimo: se le ragazze erano tedesche sipotevano violentare e fucilare dopo, e sarebbe stato un merito bellico; se erano polacche o le nostre russe oppresse, nulla impediva di inseguirle nude per l’orto e dargli pacche sulle cosce, scherzo allegro, non più». Ma avevo anche un’altra fonte, tedesca, che darò ancora qui di seguito, quando l’avrò ritrovata, da un libro, in due volumi, che danno la cronaca, giorno dopo giorno, della Germania dal maggio 1945 a tutto il 1949… Ma non ce ne è più bisogno. Un mio fedele e collaborativo Lettore mi dice che addirittura sono usciti sull’argomento libri in italiano e me ne manda i riferimenti: J. Robert Lilly, Stupri di guerra. Le violenze commesse dai soldati americani in G. Bretagna, Francia e Germania 1942-1945, Mursia Editore, Milano, 2004; Marco Picone Chiodo, E malediranno l’ora in cui partorirono. L’odissea tedesca fra il 1944 ed il 1949, Ed. Mursia 1987. Non leggo, in genere, libri dal contenuto scabroso, ma farò un’eccezione per questi due libri, allo scopo di raccogliere dati ed episodi su quanto erano timorati di dio ed animati di buoni propositi i nostri Liberatori in combutta con chi faceva loro “dono” delle nostre donne, nonne, madri, sorelle, figlie, mogli… ]
I risarcimenti tedeschi, iniziati nel 1953,
[è già passato oltre mezzo secolo! La scoperta della megatruffa dei falsi sopravvissuti, nati allegramente dopo il 1945, non ha prodotto nessuna reazione significativa: i contributi di guerra, le riparazioni, continuano ad essere erogate, come prima e per un tempo infinito.],
hanno fornito allo Stato ebraico
[si noti: “ebraico”, come dire su fondamento “razziale”, ossia esattamente il principale titolo di colpa e imputazione fatta allo stato nazista. Da noi, di recente, un “eccelso sionista” se ne è venuto fuori con l’ennesimo libro sulle leggi razziali del fascismo. In Israele la legislazione razziale è una pratica quotidiana, ma nessuno dei mediatici si sogna di fare associazione di idee]
un ottavo delle sue entrate globali e hanno costituito un terzo dei suoi investimenti. In quattordici anni la Germania Federale ha dato a Israele 3,45 miliardi di marchi come “risarcimento globale”, 2,4 miliardi dei quali sotto forma di beni e servizi. Dal 1978 la cifra è salita a 22 miliardi di marchi con ulteriori 10,47 miliardi previsti per il 2000. Tutto questo oltre ai 130 milioni di dollari annualmente distribuiti in forma di risarcimento, a titolo individuale, a 500.000 ebrei israeliani, con effetti molti positivi sull’economia del paese.
[Digressione e parentesi: un mio amico, italiano, residente in Svizzera, è titolare di una dignitosa pensione svizzera di invalidità. Il clima umido svizzero è micidiale per la sua patologia. Avrebbe bisogno, per assolute ragioni mediche, di cambiar clima, ma... se spende la sua dignitosa pensione fuori dalla Svizzera, gli viene ridotta drasticamente e non gli è più sufficiente per vivere, fuori dalla Svizzera... Se gli ebrei tedeschi, internati nei campi di concentramento tedeschi, avessero speso le loro “indennità” dentro la Germania, o almeno in Europa, il denaro sarebbe entrato in circolo in una stessa economia. Invece, in Israele – che neppure esisteva all’epoca dei fatti – servono per un verso a benificio dei titolari, ma per l’altro a detrimento della popolazione indigena, discriminata in regime di apartheid, e a detrimento anche del restante mondo arabo confinante, come ben illustra Ghada Karmi, in altre pagine del libro.]
Dal 1957, il 20% dei risarcimenti tedeschi furono effettuati con rifornimenti di armi e con l’implementazione dell’industria bellica israeliana e fino agli anni Sessanta la Germania Federale è stata un canale segreto per il passaggio di armi dagli Stati Uniti a Israele. I tedeschi hanno costruito la flotta commerciale israeliana e sempre i tedeschi hanno fornito il 50% degli investimenti per le ferrovie; nel 1966 i soli risarcimenti tedeschi costituirono il 4% del Pil di Israele. In diciannove anni i risarcimenti tedeschi hanno costituito un quarto delle importazioni di Israele e il 16% dei suoi investimenti. Questi pagamenti allo Stato e agli ebrei che lì vivono è da allora continuato. L’incondizionato sostegno tedesco a Israele si è concretizzato nel 2005 con la fornitura di sottomarini lanciamissili, senza alcuna preoccupazione per la minaccia costituita per il mondo arabo… (ivi, p. 27-28).
Insomma, un vero e proprio “Paese di Bengodi”. Perché mai si dovrebbe volere la fine da tanto benessere, se appena cominciassero a sgretolarsi i “miti fondativi” dello Stato “ebraico e democratico” di Israele? Lasciamo rispondere ancora Ghada Karmi, che sa le cose di prima mano e sulla propria pelle, essendo di quella generazione che già da bambina , nel 1948, fu espulsa dalla Palestina ed, in pratica, è una “rifugiata”, benché cresciuta a Londra, anziché in un “campo profughi”. Ecco cosa dice: nel paragrafo sul “significato di Israele per gli ebrei israeliani”:
«… Gli ebrei d’Israele, con l’eccezione di una piccola minoranza di antisionisti, etichettati con disprezzo come “ebrei che odiano se stessi”, temono naturalmente la fine del sionismo. Per loro, la dissoluzione di uno Stato etnico, caratterizzato da un trattamento preferenziale per gli ebrei, nonostante il 20% della minoranza araba e gli immigrati sovietici non ebrei, non è un’opzione accettabile. Le ragioni non sono misteriose. La cittadinanza israeliana conferisce alla maggioranza di loro benefici e vantaggi economici di un gruppo privilegiato, predisposto psicologicamente a sentirsi superiore ai “nativi” non ebrei, cosa comune a tutte le comunità di colonizzatori. Nel caso di Israele questi privilegi sono stati aumentati in modo significativo dai finanziamenti americani, 5.700 dollari a persona dal 1973, più di 3 miliardi all’anno, e dal sostegno dell’ebraismo mondiale. Non ultimi tra questi sono i coloni non religiosi “negli insediamenti di lavoratori pendolari” in Cisgiordania, insediamenti che attirano molti giovani, che altrimenti non avrebbero lo stesso livello di vita in Israele o altrove, con vari incentivi, case a basso prezzo, esenzzioni fiscali e posti di lavoro in Israele. In molti degli insediamenti che ho visto, le case sono ben disposte, con strade pulite e alberate, costruite sulle colline, spesso con panorami bellissimi. Dove queste persone avrebbero potuto sognare di essere alloggiate in modo tanto confortevole e pittoresco? Anche gli insediamenti costruiti sulle alture del Golan in Siria hanno dato prosperità a quegli ebrei che le hanno coltivate dal 1967. La famiglia israeliana media gode di un reddito considerevole rispetto aai suoi vicini arabi, anche se la situazione economica ha subito qualche momento di crisi a seguito dell’Intifada del 2000 con livelli di povertà in Israele più elevati che in altri tempi. Questi israeliani respingerebbero con forza qualsiasi minaccia di cambiamento di questa situazione di privilegio» (ivi, 71-72).
E non per nulla, gli agenti nostrani della Hasbarà parlano con iattanza di “miracolo economico” permanente in Israele, mentre tutto il mondo restante è attanagliato dalla crisi: sono “intelligenti” e ci hanno sempre saputo fare. Si potrebbe obiettare: “Ma hanno sofferto…”. Vogliamo mettere le sofferenze inaudite dei “campi di concentramento” tedeschi con questi piccoli risarcimenti morali di cui sopra? Già! Ma ecco cosa leggo, sempre in Ghada Karmi. Pur avendo letto ormai tanti libri sulla questione palestinese, questo piccolo grande fatto non lo conoscevo. Perfino Ghada vi dedica poche righe. Salto pagine che invito a leggere direttamente dal libro e riporto solo questa mezza pagina, necessaria al nostro discorso:
«…Per illustrare la situazione basta un esempio. Una caratteristica della nakba, della quale si è parlato poco, furono i campi di di lavoro forzato istituiti dal nuovo Stato israeliano durante la guerra del ’48-49. Secondo la Croce Rossa Internazionale furoni istituiti cinque campi per la popolazione maschile tra i 10 e i 60 anni che ospitarono oltre 5.000 palestinesi catturati nel corso della guerra. Gli uomini lavoravano per costruire gli insediamenti israeliani e per trasferire le pietre delle case arabe distrutte, necessarie per la costruzione di nuove abitazioni per gli ebrei. I prigionieri rimasero nei campi dai due ai cinque anni, la maggior parte fu rilasciata nel 1955.
[Sopra, nella parte già citata, leggiamo che i “risarcimenti” tedeschi erano già incominciati ad affluire dal 1953, e durano ancora oggi!]
Molte delle guardie dei campi erano ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania nazista, a volte anche ex prigionieri dei campi tedeschi. Nessuno dei prigionieri palestinesi parlò di questa esperienza e questa storia è emersa solo successivamente. Fu come se nessuno riuscisse a esprimere in parole l’enormità delle sofferenze causate dall’esperienza della perdita, dell’insicurezza e dello sradicamento. La gente che doveva far fronte alla sopravvivenza quotidiana non poteva guardare al passato» (op. cit., 33).
Capite?! Questi... chiedono ed ottengono risarcimenti infiniti per essere stati vittime sofferenti nei campi di concentramenti tedeschi, ma poi, a nemmeno tre anni dalla chiusura di Auschwitz, si installano in Palestina e vanno ad aprire analoghi e forse peggiori campi di concentramento, dove tengono rinchiusi fino al 1955, cioè per sette anni (!), quelle stesse persone cui avevano tolto la casa. Il tutto, costringendole a prendere le pietre delle loro case demolite, per costruire quelle dei loro aguzzini. Io non credo che i nazisti, di cui abbiamo solo narrazioni di parte, potessero o abbiano mai concepito una simile nequizie. Ci voleva una “mente sionista”, per arrivare a tanto?

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A questo punto, essendoci dilungati oltre il tempo previsto, chiudiamo questa nostra riflessione estemporanea, fornendo una spiegazione, spero plausibile, del perché si sollevano tanti clamori ogni volta che appena si scalfisce, si sfiora il “Tabù”, che non lo ripeterò mai abbastanza – smentitemi! Perbacco! Sarò il primo ad esserne felice! – ha gettato in galera e consegnato alla gogna mediatica fino ed oltre 200.000 persone, soltanto colpevoli di essersi posti delle domande su “materia proibita” ed averne tentato risposte, che possono, certo, essere contraddette e confutate, ma non sbattendo in galera chi le sostiene.

Ed ha perciò ragione il direttore dell’Aeroclub di Treviso: il “volo” rende liberi dai pregiudizi e dalle menzogne. Guardando dall’alto, con il necessario distacco dal fango terrestre, si riescono a vedere le cose che i “Signori dei Media”, ed i loro Politici di riferimento ci tengono nascosti. Con le cifre di immense ricchezze che abbiamo sopra date, non è difficile immaginare che a mo’ di investimento una loro parte venga destinata all’Hasbarà, alla promozione, al mantenimento ed al consolidamento del Tabù. Pasolini diceva: “so tutto, ma non posso dimostrare nulla” (ossia, in senso tecnico-processuale). Ma a noi serve una verità processuale? Ne abbiamo bisogno? Ed ancora Noam Chomsky, in un suo libro, non frecente, che ho da poco finito di leggere, “Capire il potere”, cita spesso questo ritornello, attribuito alla “Lobby Innominabile” (ed ufficialmente “inesistente”): “ (… ) meglio investire in un politico, anziché spendere per un carro armato”. Si intende, uno di quei politici, la cui funzione ed esistenza ormai notiamo anche in Italia.

Sono quelli che si indignano ed alzano la voce e ti dicono che vorrebbero “guardarti negli occhi”, salvo poi – appena il giorno dopo – doversi loro coprire il volto per la vergogna di ciò che hanno appena fatto e di cui per una volta sono stati scoperti. Leggendo la storia della dissoluzione dell’Impero ottomano si nota la costante della corruzione dei ceti feudali da parte del governo inglese: ti offro il governo e l’oppressione della tua gente, del popolo che dovresti rappresentare e tutelare, ed in cambi mi presti obbedienza. Un vero e proprio “contratto diabolico” o “faustiano” che è ancora la regola e la prassi della politica, dei nostri politici. L’Impero britannico è tramontato, ma ad esso sono succeduti, con la stessa concezione del potere e del suo mantenimento, gli USA, con Israele – la cui politica nel senso qui indicato è bene illustrata da Ghada. E perfino i nostri politici, che stanno dando il “calcio dell’asino” a Berlusconi (sic!), per offrirsi al padrone con maggiore e più incondizionato spirito di servizio, cioè di quella “cupidigia di servilismo” che Vittorio Emanuele Orlando aveva già individuato oltre mezzo secolo fa. O vinti, guai a voi, se osate toccare il “Tabù” che vi abbiamo imposto!