sabato 31 ottobre 2015

Ancora sul mufti: intervengono gli storici “revisionisti”, quelli veri: un intervento di Carlo Mattogno: «Netanyahu e il Gran Mufti: un dibattito sul nulla».

Carlo Mattogno
Carl Mattogno è un autore “revisionista” che sulle questioni proibite ha scritto «moltissimo»: così Fiamma Nirenstein, senza saper entrare per nulla sul merito del “moltissimo”. Alla Camera si era tenuta una “inchiesta”, patrocinata dalla signora Nirenstein di cui si vocifera che dovrebbe ritornare in Italiana come cittadina israeliana, Ambasciatore in Italia dello «Stato ebraico di Israele». Nei resoconti stenografici qualcuno aveva avanzato l’ovvia richiesta che si dovesse ascoltare anche qualche persona fra quelle contro cui si voleva legiferare. In ogni processo si ascolta sempre l’imputato e gli si consente di potersi difendere, di poter dire la sua. Ma fu obiettato che all’imputato non si deve concedere neppure l’onore di poter parlare per potersi difendere... Il tutto fu una cosa grottesca degna – questa sì – dell’epoca dei processi alle streghe... o forse no, giacché se non erro anche alle donne accusate di stregoneria venivano pur fatti interrogatori, benché sotto tortura, ma con il diritto di poter respingere le accuse e di potersi difendere con qualche probabilità di successo. Invece per la storiografia “revisionista” non è concessa né la replica né il contraddittorio, ma la condanna è pregiudiziale.

Fiamma Nirenstein
Colgo l’occasione per dire ancora una volta che io - professionalmente parlando - non sono uno “storico” che si occupa - professionalmente - delle questioni proibite. Ma in quanto, professionalmente parlando, “filosofo del diritto”, ma anche e soprattutto come “cittadino” ritengo ed esigo che debba esservi per ognuno libertà di pensiero, di espressione, di ricerca, di insegnamento. La Germania, dove dal 1994 sono stati da me stimati oltre 200.000 casi di procedimenti avviati per reati di opinione, non può essere additata come un “modello” positivo da imitare: è se mai una barbarie da respingere. Se è da mettere sotto il segno negativo tutto quanto successe in Germania dal 1933 al 1945, al tempo di Hitler e del nazismo, io - sommessamente - non ritengo che tutto quanto accade oggi sotto il regime della Merkel debba essere classificato con il segno positivo e che debba da noi essere imitato.

Bibi Netanyahu
La questione del revisionismo è in realtà il concentrato di un’operazione politica volta alla demonizzazione integrale della generazione che fu dei nostri padri e dei nostri nonni. Sono altresì del parere che la legittimazione del presente non possa essere fondata sulla delegittimazione del passato: ciò che è legittimo o illegittimo si legittima o delegittima da sé, per forza e natura propria. Un modo certo per delegittimare il presente è proprio quello di fondarlo sulla delegittimazione del passato senza avere titoli propri per pretendere dai cittadini l’obbedienza del rapporto fondamentale di legittimazione che nasce dal rapporto protezione / obbedienza. Un regime che non garantisce ai suoi cittadini l’elementare libertà di pensiero e di espressione è il più tirannico e truffaldino dei regimi...

Norman G. Netanyahu
Non ci vogliamo diffondere ulteriormente se non per dire che l’incauta o arrogante mossa del presidente israeliano Netanyahu ha inverato ciò che un altro ebreo, perseguitato dagli stessi ebrei come lo fu già Benedetto Spinoza, ha detto a chiare lettere: Norman G. Finkelstein, autore del «L’industria dell’Olocausto», dove si dimostra la strumentalizzazione che di un’immane tragedia è stata fatta e continua a farsi. Ora Netanyahu, spinto dal suo «odio» invincibile contro il popolo palestinese, ha superato ogni limite e si è data la zappa sui piedi. Non è cosa che si possa dimenticare e far dimenticare come una passeggera “gaffe”. Diamo però la parola sulla questione tecnica allo storico Carlo Mattogno, riprendendo un suo articolo appena apparso sul sito specialistico “Olodogma”. 

Gilad Atzmon
Si veda anche, su un diverso piano, l’Intervento di Gilad Atzmon: «Fresco di stampa: Netanyahu è un revisionista storico», con annessa rassegna stampa, apparso in questo nostro blog personale. Non si dimentichi che questo autore oltre ad essere musicista è un filosofo cui si deve la più apprfondita trattazione sul problema della “identità ebraica”.  Egli definisce se stesso non un «ebreo che odia se stesso», secondo una categoria concettuale creata dalla propaganda israeliana, per ostracizzare i numerosi ebrei critici verso lo «Stato ebraico di Israele», ma un «ex ebreo», avendo abbandonato Israele, all’età di trent’anni, ritenendo che quella fosse una terra ingiustamente sottratta al popolo palestinese. Divenuto cittadino britannico, vive a Londra come un fedele e leale cittadino britannico, senza riconoscere un’eguale lealtà e fedeltà a quanti mantengono un’ambigua doppia cittadinanza e identità.

Post Scriptum:  Trovo una citazione, non dico bellissima, ché non avrebbe molto senso l’uso di espressioni simili, ma pregnante e pertinente, per rafforzare il senso di quanto ho inteso dire in questa occasionale premessa. La riporto tale e quale, senza dare luogo ad ulteriori considerazioni:
John Rappoport (b. 1938)
«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonché il controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa, dove l’ignoranza è ormai forza» (John Rappoport, The Underground)
La si ritrova in un articolo appena apparso in Come don Chisciotte, al quale rinvio. Il suo Autore mi è a tutt’oggi ignoto, ma trovo assai suggestiva la sua efficace sintesi di una situazione che riconosco pienamente e dove questo “dibattito sul nulla” trova una sua genesi, che non è fondata sul nulla e che ha un ben preciso scopo.



* * *

CARLO MATTOGNO
(30 ottobre 2015)
Fonte.
Netanyahu e il Gran Mufti: un dibattito sul nulla


Ma allora il Gran Mufti istigò o no Hitler a sterminare e a “bruciare” gli Ebrei? Una volta tanto il dibattito dilacera anche la salda compagine ideologica ebraica, con fiere prese di posizione a favore e contro le affermazioni di Netanyahu. Il meno che si possa dire, è che si tratta di affermazioni fondate sul nulla che alimentano un dibattito fondato sul nulla. Vale la pena di dare un’occhiata alle rispettive posizioni, restando nell’ambito mediatico.

Ugo Volli, nell’articolo “I palestinesi c’entrano con la Shoah, ecco perchè. Cartoline da Eurabia” (1) postato da Informazione Corretta, ha presentato un bel florilegio degli argomenti a favore, con una ricca “sitografia”. Prendo in esame quelli che hanno perlomeno una parvenza di serietà.

Un rimando a “The Times of Israel”, 30 ottobre 2015, espone il resoconto in traduzione inglese della conversazione tra Hitler e il Gran Mufti durante il loro incontro del 28 novembre 1941 (2), ma non vi è alcun accenno alla pretesa istigazione allo sterminio.

L’affermazione di Netanyahu menziona due elementi fondamentali: “sterminio” e “cremazione” (ma bisognerebbe dire “abbruciamento”) e vengono esposti appunto due “argomenti” per sostenerli.

Comincio dal secondo. Volli ci assicura che esiste «la documentazione del progetto di Amin Al Husseini di costruire un crematorio nella valle di Dotan in Samaria». Egli rinvia a un articolo apparso su Israel Hayom il 30 ottobre 2015 dal titolo “Husseini’s intention to build a crematorium in the northwest Samarian hills”. Vi si racconta che il giornalista Haviv Kanaan nel 1970 pubblicò un articolo in cui diceva che nel 1968 aveva incontrato un’importante personalità araba, Faiz Bay Idrisi, che gli aveva parlato «dell’intenzione di al-Husseini di costruire un crematorio sulle alture nord-occidentali della Samaria». Quando ciò sarebbe avvenuto, non è dato sapere. Come si vede, Volli ha un’idea molto particolare di che cosa sia una “documentazione”.

Un altro rimando dovrebbe “documentare” che “bruciare” gli Ebrei era appunto l’intenzione del Gran Mufti. Nell’articolo “Historian: The Mufti planned to burn Jews” lo storico dott. Edy Cohen afferma che «c’era un piano da parte del Mufti di bruciare gli Ebrei dei paesi arabi e gli Ebrei in Palestina dopo la vittoria tedesca a El Alamein nel 1943» (3). Prove di questo piano? La pretesa intenzione di costruire un crematorio in Samaria! Dunque l’affermazione stessa costituisce la “documentazione”.

Per quanto riguarda lo sterminio, Volli si appella a Dieter Wisliceny, all’epoca rappresentante di Eichmann in Slovacchia:
«al Tribunale di Norimberga Dieter Wisliceny braccio destro di Eichman dichiara… secondo me “Il Gran Mufti ha giocato un ruolo nella decisione del Governo tedesco di sterminare gli ebrei europei consigliando ripetutamente a Hitler, Ribbentropp e Himmler il loro sterminio, considerandolo un comodo strumento per la soluzione del problema palestinese… egli fu consigliere e socio nell’implementazione del programma di sterminio”».
Questa è la traduzione di una citazione in inglese che appare in molteplici siti e libri, ma la fonte non viene mai indicata. Non si tratta di una dichiarazione resa da Wisliceny nella sua deposizione a Norimberga, che è riportata nel volume IV degli atti processuali (Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Norimberga, 1947, pp. 355-373, udienza del 3 gennaio 1946), poiché il Gran Mufti non vi è neppure nominato. Wisliceny fu sottoposto a numerosi interrogatori e redasse varie dichiarazioni e annotazioni, ma una sola, per quanto è a mia conoscenza, ha per oggetto il Gran Mufti. Si tratta di un manoscritto di quattro pagine, intestato appunto “Betr. Grossmufti von Jerusalem” e datato “26.VII.1946” che fu presentato al processo Eichmann di Gerusalemme come documento T-89; nei relativi atti appare la traduzione in inglese (The Trial of Adolf Eichmann, Gerusalemme, 1992, vol. I, pp. 243-244), ma questo documento non contiene la citazione summenzionata. Wisliceny vi racconta che Eichmann accolse il Gran Mufti nella sua “Kartenzimmer” (stanza delle carte geografiche), dove aveva raccolto i dati statistici relativi alla popolazione ebraica nei vari paesi europei e lo ragguagliò sulla “Soluzione della questione ebraica in Europa”. Il Gran Mufti ne fu molto impressionato e gli disse che aveva già chiesto a Himmler di inviare a Gerusalemme, dopo la vittoria dell’Asse, un suo (di Eichmann) rappresentante come proprio consigliere. E questo è tutto.

Oltre che priva di fonte, la citazione in questione ben difficilmente potrebbe suffragare la tesi di Netanyahu, perché proprio a Norimberga Wisliceny dichiarò che Eichmann gli mostrò il fantomatico ordine di sterminio del Führer, datato aprile 1942 e firmato da Himmler (Trial, vol. IV, pp. 358-359). In un memoriale datato 18 novembre 1946, Wisliceny delineò il processo che dal piano Madagascar aveva portato a questo fatidico ordine, ma non nominò neppure di sfuggita il Gran Mufti (L. Poliakov, J. Wulf, Das Dritte Reich und die Juden, Berlino, 1955, pp. 87-98).

Se bisogna credere a Wisliceny quando, presuntamente, parla male del Gran Mufti, bisogna credergli anche quando giura di aver visto con i propri occhi l’ordine in questione, e giacché questo risaliva a cinque mesi dopo l’incontro Hitler-Gran Mufti, la tesi di Netanyahu diventa a dir poco ardua.

Per quanto riguarda la posizione contraria, il Foglio del 28 ottobre pubblica l’articolo “Netanyahu sbaglia sul ruolo del Mufti nella Shoah, dice lo storico Ingrao”.

Christian Ingrao ammette che «secondo i piani di allora, gli ebrei europei dovevano essere inviati in Russia, in un proconsolato che i nazisti avevano intenzione di creare nel circolo polare artico», ma nel novembre 1941 era già in atto «una logica di estinzione dell’identità ebraica» e una pratica genocidaria.

Qui Ingrao dimentica l’assioma olocaustico del duplice ordine, uno per gli Ebrei sovietici, l’altro, successivo, per gli Ebrei europei, sul quale ritornerò sotto.

«Ingrao non nega tuttavia che l’incontro tra al Husseini e Hitler fu “un momento cerniera”» e lo fa con argomenti strabilianti:
«All’indomani dell’incontro, viene lanciato un invito per una conferenza sulla questione ebraica, che dovrà tenersi a villa Marlier, a Wannsee. Due giorni dopo, un centinaio di persone del programma T4 sono incaricate di attuare il piano che farà nascere i campi di sterminio di Belzec, Sobibór, Treblinka. Le prime uccisioni con il gas iniziano a Chelmo, nel dicembre 1941”», sicché «la cronologia avanzata da Bibi non è completamente incoerente», anche se «bisogna sottolineare che la soluzione finale è stata praticata attraverso una gamma di “strumenti”», tra i quali spiccano «i camion del gas utilizzati a Chelmo nel dicembre 1941» e i campi di Belzec, Sobibór, Treblinka, che furono «pianificati il 18 ottobre 1941».
L’invito ufficiale per la conferenza di Wannsee fu diramato il 29 novembre 1941, il giorno dopo l’incontro tra Hitler e il Gran Mufti. Anche supponendo che il relativo verbale esponga un “piano di sterminio” ebraico, come vuole l’ortodossia olocaustica, ci vuole un bell’acume mentale per mettere i due eventi in correlazione di causa-effetto. È perfino banale osservare che, se l’invito fu mandato il 29 novembre, l’organizzazione della conferenza era stata discussa molto prima del 28 novembre, dunque tra i due eventi non può esserci alcuna relazione.

Secondo la storiografia olocaustica, il campo di Chełmno entrò in attività l’8 dicembre 1941 (ma questa data non è suffragata da alcun documento), e anche la pianificazione dei tre campi orientali il 18 ottobre 1941 si fonda sul nulla storico-documentario. Non è chiaro come questi due presunti eventi, l’uno posteriore, l’altro anteriore all’incontro Hitler-Gran Mufti, possano essere addotti entrambi a conferma del presunto consiglio sterminatore e crematorio. A prendere sul serio le storielle olocaustiche, in 10 giorni Hitler avrebbe messo su un “campo di sterminio” perfettamente funzionante: un bell’esempio di efficienza tedesca!

L’ineffabile Marcello Pezzetti, come sempre, ha perso un’ottima occasione per tacere, risparmiandosi l’ennesima figuraccia. In un articolo intitolato «“Quando ci fu l’incontro fra i due la decisione era già stata presa”. Parla lo storico della Shoah Marcello Pezzetti» (4) egli afferma appunto che il Gran Mufti arrivò troppo tardi, perché «tra l’estate e l’autunno del ’41, quindi molto prima di fine novembre, i nazisti avevano già deciso di eliminare tutta la popolazione ebraica europea, cominciando dalla Russia».

Ecco un altro “specialista” che ignora i rudimenti della storiografia olocaustica. La teoria del duplice ordine, come accennavo, è ancora uno dei capisaldi della relativa letteratura. Semplificando, il primo ordine sarebbe stato impartito agli Einsatzgruppen prima dell’Operazione Barbarossa o subito dopo, ma non più tardi dell’agosto 1941, e concerneva lo sterminio totale degli Ebrei in quanto Ebrei, ma soltanto degli Ebrei sovietici. Non c’è bisogno di dire che non esiste alcuna prova della realtà di quest’ordine, che viene evidentemente desunto ex post facto, vale a dire dal fatto che Einsatzgruppen e altre unità della Polizia e delle SS fucilarono più o meno sistematicamente gli Ebrei sovietici.

Per quanto riguarda il secondo ordine, il fantomatico Führerbefehl, che riguardava in generale gli Ebrei eupopei, tranne ovviamente quelli che vivevano nei territori sovietici, ormai è in auge la congettura di Chistian Gerlach secondo la quale la “decisione” del presunto sterminio fu presa da Hitler dopo il 7 dicembre e prima del 14 dicembre 1941. La precisione è ammirevole. Peccato che la congettura si fondi, ancora una volta, sul nulla storico-documentario, anzi è il risultato di uno stravolgimento sistematico di fatti e documenti, come ho dimostrato ad abundantiam nello studio I “campi di sterminio” dell’ “Azione Reinhardt” (5), un opuscoletto di 1137 pagine con 3730 note (si veda il capitolo V, “Il Führerbefehl e la presunta politica nazionalsocialista di sterminio ebraico”, pp. 106-304, in particolare le pp. 183-198). Dai documenti risulta infatti che la “decisione del Führer” riguardava l’espulsione degli Ebrei dall’Europa, non il loro sterminio; essa fu annunciata da Heydrich alla conferenza di Wannsee in questi termini:
«Frattanto il Reichsführer-SS e capo della Polizia tedesca in considerazione dei pericoli di una emigrazione durante la guerra e in considerazione delle possibilità dell’Est, ha proibito l’emigrazione degli Ebrei. All’emigrazione, come ulteriore possibilità di soluzione, previa autorizzazione del Führer, è ormai subentrata l’evacuazione degli Ebrei all’Est (die Evakuierung der Juden nach dem Osten) (NG-2586-G, p. 5).
La politica di emigrazione, perseguita fino ad allora dal governo del Reich accanto a quella di espulsione-evacuazione, cessò il 23 ottobre 1941, con la promulgazione dell’ordine di Himmler che vietava «l’emigrazione di Ebrei» (die Auswanderung von Juden) (T-394), quando, secondo Pezzetti, era già stato impartito l’ordine di sterminio.

Resta da spiegare per quale ragione, se gli Ebrei sovietici dovevano essere sterminati in quanto Ebrei, e non, ad esempio, in quanto portatori o sostenitori del bolscevismo, furono necessari due ordini distinti e a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro.

Concludendo, il primo ordine del Führer si fonda sul nulla, il secondo si fonda sul nulla, conseguentemente qualunque dibattito su questo tema si fonda sul nulla.

Qui siamo in piena favolistica, in pieno opinionismo, dove uno storico si sveglia la mattina e “reinterpreta” documenti affatto innocui interpretati prima di lui per decenni da intere generazioni di storici in modo completamente diverso e crea una nuova “verità” storica.

Qui non ci sono documenti, ci sono soltanto “interpretazioni”, ossia mere congetture, molte maliziose, ma alcune anche spassose.
Carlo Mattogno
NOTE

1 http://www.israelhayom.com/site/newsletter_article.php?id=29171.
2 Full official record: What the mufti said to Hitler: http://www.timesofisrael.com/full-official-record-what-the-mufti-said-to-hitler/.
3 http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/202436#.VjMjfxx0VoX.
4 http://www.iltempo.it/esteri/2015/10/22/quando-ci-fu-l-incontro-fra-i-due-la-decisione-era-gia-stata-presa-1.1470865.
5 http://olodogma.com/wordpress/wp-content/uploads/2013/11/CAMPI-REINHARDT_ms2.pdf.

venerdì 30 ottobre 2015

Letture: Homepage.

LETTURE
Homepage

Si tratta di “schede di lettura” redatte via via che si leggono libri di interesse attuale o remoto quanto eterogenei ed in apparenza del tutto scollegati gli uni dagli altri, o anche strettamente connessi. In pratica sono “appunti” che in epoca pre-internet sarebbero rimasti confinati in quaderni privati, ma che ora possono essere tranquillamente condivisi. È però importante che chi nella rete si imbatte in queste pagine, sappia di cosa si tratta, come sono redatte, del loro carattere di “provvisorietà permanente”. A questa serie se ne affianca un’altra che ricalcava il vecchio metodo della “recensione”, che continueremo a fare ma un diverso approccio di giudizio.

1. Gadi Luzzatto VOGHERA, Antisemitismo a sinistra, Einaudi 2007.
2. Furio COLOMBO, La fine di Israele, Il Saggiatore 2007.
3. Manlio DINUCCI, L’arte della guerra. Annali della strategia Usa/Nato (1990-2015), Zambon 2015.
4. A.B. MARIANTONI, F. OBERSON: Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book, 1991.
5. Robert FISK, Cronache Mediorientali, Il Saggiatore 2005.
6. Benny MORRIS, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001,  Rizzoli BUR 2005.
7. Benedetto SPINOZA, Trattato teologico-politico (1670),  Ed. it. Einaudi 1980.
8. Andrei S. MARKOVITS, La nazione più odiata,  Einaudi 2007.
9. E. BARTOLOMEI, D. CARMINATI, A. TRADARDI: «Gaza e l’industria israeliana della violenza», DeriveApprodi 2015.
10. Noam CHOMSKY, Ilan PAPPÉ: «Palestina e Israele: che fare?» A cura di Frank Barat, Fazi 2015.
11. Ernesto MARZANO: «Israele, il killer che piange», Aracne 2015.
12. Emanuele CASTRUCCI: Le radici antropologiche del “politico”. Lezioni di antropologia politica, Rubettino 2015.
13. Alessandro PIRRONE, Uno vale uno. La partecipazione come strumento di democrazia, Dissensi 2014.
14. Faris YAHIA, Relazioni pericolose. Il movimento sionista e la Germania nazista, La Città del Sole 2009.
15. Renzo DE FELICE, Mussolini e il Fascismo, Einaudi 1965 ss.
16. Bohdan NAHAYLO, Victor SWOBODA: Disunione Sovietica, Rizzoli 1991.
17. Henry KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, Euroclub (Sugarco) 1980.
18. Henry KISSINGER, Ordine Mondiale, Mondadori 2015.
19. Henry KISSINGER, L’arte della diplomazia, Sperling 2004.
20. Naomi KLEIN, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli 2015.
21. Armand MATTELART, Storia dell’Utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, Einaudi 2003.
22. Alain MÉNARGUES, Le mur de Sharon, Presses de la Renaissance 2004.
23. Henry KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, Garzanti 1973.
24. Ernst NOLTE: Martin Heidegger tra politica e storia, Laterza 1994.
25. Martin HEIDEGGER, Quaderni neri 1931/1938, Bompiani 2011.
26. Alan HART, Sionismo. Il vero nemico degli Ebrei. Vol. 1°: Il falso Messia, Zambon 2015.
27. Vincenzo VINCIGUERRA, Storia cronologica del conflitto mediorientale. Editore: www.archivioguerrapolitica.org, 2015.
28. Nathan WEINSTOCK, Storia del sionismo. Massari editore, 2006.
29. Hohn J. MEARSHEIMER e Stephen M. WALT: La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori, 2007.
30. W. E. Binkley, I partiti politici americani, Nistri-Lischi, 1961.
31. Robert FISK, Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra, il Saggiatore, 2010.
32. Shlomo SAND: L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010.
33. Mario MONCADA DI MONFORTE: Israele, uno Stato razzista, Armando Editore, 2010.
34. Yakov M. RABKIN: Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, 2005.
35. Gilad ATZMON: L’errante chi? - Un’inquietante introspezione nella psicologia ebraica, Zambon, 2012.
36. Ziyad CLOT: Non ci sarà uno stato palestinese. Diario si un negoziatore in Palestina. A cura di Diana Carminati e Alfredo Tradardi, Zambon, 2011.
37. Aleksandr SOLGENITSIN: Due secoli insieme. Vol. 1° Ebrei e Russi prima della rivoluzione; Vol. 2° Ebrei e Russi durante il periodo sovietico. Controcorrente, 2007.
38. a) Paolo BECCHI: Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos Edizioni, 2016); b) Arthur KOESTLER, Buio a mezzogiorno (Oscar Mondadori, rist. 2015).
39. Juliet MICHELET, Storia della rivoluzione francese. In quattro volumi (Rizzoli, 1981).
40. Alberto DI MAJO, Grillo for President. Che cos’è, da dove viene e cosa vuole veramente diventare il Movimento Cinque Stelle (E.I.R., 2012).
41. Mauro CARBONARO, Grillo vale uno. Il libro nero del Movimento Cinque Stelle (Iacobelli, 2013).
42. Vari: a) Maria Elisabetta Lanzone, «Il Movimento Cinque Stelle. Il popolo di Grillo dal web al Parlamento» (Edizioni Epoké, 2015); b) Valerio Lo Monaco: «Movimento Cinque Stelle: Dopo Grillo. E dopo Casaleggio, i nodi ancora da sciogliere, i volti che possono riuscirci» (Maxangelo edizioni, Aprile 2016); c) Davide Barillari: «Verso un governo 5 stelle. Il sogno diventa realtà» (Dissensi, maggio 2016).
43. Valerio Cutonilli, Rosario Priore: «I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia italiana» (Chiare Lettere, agosto 2016)
44. Federico Pizzarotti: «Una rivoluzione normale» (Mondadori, settembre 2016).
45. Sergio Cesaratto: «Sei Lezioni di economia» (Imprimatur, settembre 2016).
46. Ettore Maria Mazzola: «La città sostenibile è possibile» (Gangemi, febbraio 2010).
47. Gianfranco de Turris: «Julius Evola. Un filosofo in guerra: 1943-1945» (Mursia, 2016, 1ª ed.).
48. Paolo SENSINI: «ISIS. Mandanti, registi e attori del “terrorismo” internazionale» (Arianna Editrice, 2016).
49. Fabio LO BONO: «Popolo in fuga. Sicilia terra d'accoglienza. L’esodo degli italiani del confine orientale a Termini Imerese» (Lo Bono, febbraio 2016)

Letture: 8. Andrei S. MARKOVITS, La nazione più odiata, Einaudi 2007

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Si parlava giusto di “odio” nella precedente scheda di lettura ed ecco che salta fuori dai miei scaffali un libro del quale mi ero totalmente dimenticata e sul quale non sono in grado di anticipare nulla. Posso solo ricopiare l’ultima pagina di copertina che riassume secondo chi l’ha redatta il contenuto e il senso del libro: «L’ostilità nei confronti dell’America sta crescendo in tutto il mondo e particolarmente in Europa, dove le politiche di George W. Bush hanno scatenato un’ondata di insofferenza senza precedenti», con il resto che si può leggere qui accanto nell’immagine accanto riportata cliccandoci sopra per ottenerne l’ingrandimento e sulla quale cerco di fare qualche prima riflessione, aspettandomi che sia interessante e istruttiva la lettura sequenziale del libro. Innanzitutto vorrei dire che non conosco molti cittadini statunitensi, ma con tutti quelli che ho conosciuto ho sempre avuto un cordialissimo rapporto senza nessuna difficoltà nei rapporti umani. Addirittura, ho scoperto dopo molti anni che un mio compagno d’infanzia era addirittura diventato cittadino americano. Mi sorprese soltanto quando mi disse di non essere mai andato a votare, negli USA, giudicando la cosa perfettamente inutile per la sua condizione. Avrei dovuto approfondire, ma ne è mancata l’occasione. E non è il solo a pensarla così fra quanti ne ho conosciuto di italiani diventati americani. Ma ripeto: non ho approfondito e spero che questo libro mi aiuti in tal senso. So anche che ci sono autori italiani che hanno studiato l’«anti-americanismo» e forse saranno oggetto di successive schede di lettura. Altra e diversa considerazione che mi sento di fare riguarda i nostri governanti, italiani ed europei, di cui non saprei se provino “odio” per gli americani, quel di cui sono certo è del loro “servilismo” verso gli americani e se mai dell’«odio» che provano verso il proprio popolo. Forse ciò si spiegano con il fatto che si sentano insediati al potere, al governo degli Stati europei, non dai popoli europei, ma dai vincitori, anzi i «Liberatori», della seconda guerra mondiale. E non è senza significato il viaggio che ognuno di essi fa negli USA a inizio investitura. L’unico che forse aveva avuto qualche conato di indipendenza verso gli USA, cioè Aldo Moro, sembrerebbe che sia stato ucciso proprio dagli americani, a sentire Tarpley in un recente convegno internazionale per l’uscita dalla Nato. Quanto poi a Bush non potrò mai dimenticare come fu fatta subito dimissionare una ministra tedesca della giustizia, per aver detto che con la sua “guerra preventiva” all’Iraq – oltretutto sulla base di menzogne – non era cosa diversa da ciò che si imputava ad Hitler, di cui una delle due colpe principali era proprio quella di aver scatenato la seconda guerra mondiale. Della seconda colpa Hitler è stato in questi giorni scagionato da Benjamin Netanyahu, ma è cosa di cui ancora pochi si rendono conto, rubricando le consapevoli dichiarazioni a banali gaffes. Ciò premesso, non resto che leggere il libro che avevo comprato per l’evidente suggestione della quarta di copertina e per altri elementi che risultano dagli indici, ma del quale mi ero proprio dimenticato. Chissa quante altre sorprese mi riserva ancora la mia biblioteca privata.

Andrei S. Markovits
Subito appare dalla prime pagine, piuttosto inutili e noiose, che l’autore è un “ebreo” – per sua ammissione – e usa come intercambiabili i termini antiamericanismo, antisemitismo,  antisionismo. Ed era forse questa la ragione per la quale avevo dimenticato questo libro. Non so se sia una mia grossa perdita, ma non ho mai avuto rapporti con il mondo accademico americano, o meglio forse sì, ma si trattava di un amico che mi aveva detto di essere stato professore e che si fosse presto stufato di esserlo ed aveva voluto cambiare mestiere, pur svolgendo sempre un’attività intellettuale. Da noi la cosa è per la verità piuttosto insolita, specialmente se come docente si ha una posizione strutturata. Ma questo è un altro discorso... L’idea che questo avvio del libro mi suggerisce è di far seguire un’altra scheda di lettura, subito dopo questa. Penso al libro di Mearsheimer e Walt che ricordo di aver comprato il primo giorno che uscì nelle librerie italiane. Da allora l’ho citato molte volte, ma è forse il caso di rileggerlo alla luce delle cose successe dopo. Intanto, mi armerò di pazienza per leggere tutto il libro di Markovits, annotando sole le cose essenziali ovvero ciò che maggiormente mi impressionerà. Cercherò di non farmi condizionare dalle impressione che ricevo da queste prime pagine e che non è buona. È uno di quei libri che non dà il piacere della lettura... Per capirlo basta in genere la prima pagina.

La lettura è difficoltosa fin dal suo esordio perché l’autore è rimasto al tempo, o vive in luoghi, dove i concetti di “sinistra” o di “destra” sono ancora termini definitori. Il libro fatalmente - se continua su questo piano - ne risulta fatalmente inficiato e inutile. «Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese» non riesce ad andare oltre nella sua generosità dall’aver sempre «caldeggiato la creazione di uno stato palestinese sovrano», sfuggendogli completamente la problematica della legittimità della “pulizia etnica” e della fondazione su di esso dello «Stato ebraico di Israele»... No comment! Se dovessi dare credito all’Autore secondo cui l’«avversione per l’America sta crescendo» in Europa [2007], dovrei rammaricarmi che non è cresciuta abbastanza, se non siamo ancora riusciti a liberarci dalla Nato e stiamo per subire lo stadio terminale della colonizzazione americana, cioè il Trattato transatlantico sul commercio, stipulato con la massima segretezza e che i cittadini europei si troveranno come un cappio al collo.

Sto andando avanti nella lettura, un poco a fatica, molte pagine mi sembrano inutili e oziose, da saltare un poco con gli occhi senza perdere la visione dell’insieme... I capitoli più interessanti mi sembrano quelli annunciati alla fine, dove voglio arrivare per gradi. L’Autore insiste su un concetto più o meno scientificamente definitorio di “antimericanismo” che egli associa spesso ad “antisemitismo” ed anti-israelismo come fossero la stessa cosa o almeno termini intercambiabili. Basterebbe qui opporre il contenuto e la tesi di ben altro libro, sopra citato, di Mearsheimer e Walt, i quali sostengono che gli americani, gli USA, si stanno facendo “odiare” nel mondo - non solo dagli Europei - per l’irrazionalità della sua politica estera che contrasta con gli interessi del popolo americano, evidentemente non tutto composto da “ebrei” filo-israeliani.  Altra cosa strana, che non saprei come descrivere, è una sorta di colpevolizzazione degli Europei per il fatto di essere “antiamericani”. Se i rapporto USA-Europa possono essere di natura politica, geopolitica, militare, economica..., l’Autore antropomorfizza il tutto riducendolo a rapporti interpersonali. Ho già detto sopra, per quanto mi riguarda e per quei pochi rapporti che ho con gli americani statunitensi, di non aver mai avuto nessun rapporto di carattere personale, anzi come questi siano stati pressoché sempre improntati alla massima cordialità. Questo non mi impedisce di formarmi nel tempo personali opinioni sulla politica americana e sulla sua storia, dove per me campeggia innanzitutto il genocidio degli indiani d’America e delle civiltà precolombiani, che io considero una perdita gravissima per tutta l’umanità, ogni volta che un suo popolo scompare dalla faccia della terra e dalla scena della storia... Ma andiamo avanti nella lettura con pazienza e senza anticipare giudizi definitivi sul libro e sul suo autore.

Incredibile! Assurdo! Può darsi che io legga male, e potrò sempre correggere. Ma intanto devo annotare il passo per non dimenticarlo. A pagina 54 ss. si sta parlando della teoria della “degenerazione” di Buffon. Di cosa si tratta? Sarebbe il suolo americano e il contatto con gli indigeni da parte dei coloni che produce nei coloni, e dunque nei “nuovi” americani tutta quella “negatività” che va a costituire l’«anti-americanismo», vero o presunto, degli Europei... Sullo sfondo vi è il razzismo e il genocidio di cui ad essere sempre state vittima sono i poveri indigeni, massacrati nei secoli proprio dai coloni, non certo dagli Europei che mai misero piede sull’America, nuova o vecchia che fosse. Sono piani ben diversi: da una parte vi può ben essere una letteratura strampalata che era del tutto ignara di luoghi e genti lontana; dall’altra parte vi sono le concrete responsabilità di chi in quelle terre, come “coloni”, vi ha messo piede impadronendosi di terre non sue e uccidendo senza scrupolo alcuni quanti esseri umani incontrava sulla sua strada. Sono cose terribili che nessun codice penale, nessun tribunale internazionale potrà mai giudicare. Sono i fatti della storia, di cui l’uomo diventa consapevole post factum, dopo aver consumato i suoi crimini, incominciando quindi a provarne pentimento, quasi come il coccodrillo, di cui si dice che piange per effetto dei processi digestivi. Ripeto: può ben darsi che nella fretta di andare avanti e terminare quanto prima il libro io legga male. Ma se così fosse, se ho ben inteso, è davvero un brutto esempio di distorsione morale del giudizio.

Siamo andati avanti nella lettura, ma non avevamo matita o tastiera a portata di mano, per annotare alcune apparenti incongruenze. Occhio alla cronologia, generale e particolare. Pag. 77: «Sebbene il modello di base dell’antiamericanismo si sia formato in Germania e nel resto dell’Europa molto tempo prima degli anni Venti...». E dunque parliamo di cose antiche, non moderne! Più avanti si parla di tedeschi post-Olocausto, che per reazione rimproverano agli americani il genocidio degli indiani d’America... di cui non si capisce bene se ci sia o non ci sia stato, quello degli Indiani, ma poi si dice che sì c’è stato, ma ne sono corresponsabili sempre gli stessi tedeschi... Insomma, un poco di pasticci, dove il leit-motiv resta l’esistenza di un profondo antiamericanismo non solo degli europei del continente, ma anche degli inglesi (Dickens, Kipling). Se così è, così dovrebbe essere e rilevarne il fatto, ma all’Autore sembra che interessi soprattutto l’attribuzione delle colpa per il fatto che è lui a rilevare. Insomma, cosa vorrebbe? Una bomba atomica americana che distrugga tutto il continente europeo?... La tesi di fondo, incongruenze a parte, non è ben chiara, o lo è ma è confuso, e si tratta di un astio verso gli europei che non si decidono ad amare ciò che è sorto in America dopo il genocidio degli originari abitanti... In ogni civiltà, le radici e le tradizioni sono importanti, ma quali radici e quali tradizioni, che ci appartengano, possono trovarsi nelle Americhe?

(segue)

Letture: 7. Benedetto SPINOZA, Trattato teologico-politico (1670), Ed. it. Einaudi 1980

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Questa “lettura” andrebbe da me posta in un altro dei miei blog, dedicato specificamente alla Filosofia e ai classici filosofici, e quindi trattata con una metodologia diversa da quella riservata ai libri di “attualità” come in questa serie. La ragione per la quale viene inserita qui è per il frequente, anzi quotidiano “discorso sull’odio” con il quale si reprimono oppositori politici o dissidenti. I regimi al potere, magari i più “odiosi” ed ipocriti, hanno trasformato in un titolo di reato il semplice sentimento dell’«odio»: siamo alla barbarie giuridica. Il diritto, ed in ispecie il diritto penale, può e deve punire azioni antigiuridiche e lesive di diritti sostanziali altrui, come l’incolumità fisica o anche la sfera patrimoniale. L’omicidio, il furto, la violenza sessuale, i danneggiamenti, la truffa, ecc., sono cose generalmente punite in tutti i sistemi giuridici. È insensato invece pretendere di penetrare nella mente dei singoli e punirne i pensieri e i sentimenti, quali che essi siano. Ma è tipico della tirannide della nostra civilizzata Europa la pretesa di punire un insieme di fattispecie riconducibili all’«odio». Nella filosofia di Spinoza si trova una considerazione tutta filosofica della sfera dei sentimenti e della sfera dell’essere. In particolare Spinoza si occupa anche dell’«odio» e dice pure chi di questo “odio” ne ha fatto una vera e propria religione, un culto. Non voglio anticipare alcuni brani che mi sono già noti, ma voglio arrivarci per gradi in una lettura sequenziale.

Dalla Prefazione del Curatore trovo alcune indicazioni utili alle lettura che intendo porre in evidenza sequenziale. Giustamente osserva il curatore che sono “vari” i discorsi introduttivi “possibili” di un testo che è al tempo stesso di “critica biblica”, di “filosofia della religione” e di “filosofia politica”, secondo una partizione accademica che è propria dell’organizzazione universitaria del lavoro intellettuale, sempre più specialistico, ma che non era la preoccupazione di quegli autori che noi oggi chiamiamo Classici. È per noi interessante la conclusione che con «l’abbattimento del pregiudizio teologico» si sia giunti all’accertamento della «subordinazione del potere religioso al potere politico». Se ciò significa quello che ci sembra di aver capito, è un buon viatico per la lettura del testo che abbiamo in mente, con la quale tralasceremo tutte quelle parti che non rientrano nella nostra tesi ed isoleremo invece quelle parti che la confermano senza naturalmente ignorare quelle altre parti che potrebbero smentirla. E con ciò non ci sembra di aver altro da dire sulla Prefazione del Curatore del volume E.G.B. (Emilia Giancotti Boscherini). Altra cosa dalla "Prefazione” (due pagine) è l’«Introduzione» (di pagine XI-XXXVI) sempre della stessa E.G.B., che andremo a leggere attentamente per l’aspetto che ci interessa.

(segue)

giovedì 29 ottobre 2015

Letture: 6. Benny MORRIS, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli BUR 2005.

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È la storia raccontata da parte sionista. I miei detrattori non potranno certo accusarmi del fatto che io non legga e studi i loro libri. Anzi direi che come metodo prediligo i libri e le tesi contrapposte a quelli che potrebbero essere i miei naturali orientamenti. Vado perfino ai loro convegni e seminari, se ciò non riesce pericoloso per la mia incolumità. Non ci vado né per provocare né per animosità, ma perché credo che il principio del contraddittorio, onesto e non prevenuto, sia il solo metodo con cui ci si può avvicinare a ciò che si ritiene “vero” o “falso”, “giusto” e ingiusto”. Il libro è di 940 pagine e dopo averne iniziato la lettura, giaceva da tempo in uno scaffale. Lo riprendo per il piano di letture che ho già descritto in precedenti introduzioni. Una prima osservazione sul sottotitolo: il termine “conflitto”. Il termine è stato criticato da un collega di Morris, pure lui annoverato fra i “nuovi storici” israeliani. Mi riferisco a Ilan Pappe che in un seminario tenutosi a Roma, e che avrebbe dovuto svolgersi alla Sapienza, ebbe a dire che respingeva il concetto insito nella parola “conflitto” perché esso rinviava a una “dualità”, che è invece assente nella intenzionalità, nella programmazione, nella disparità di forze e armamenti, della invasione della Palestina, nella programmazione concettuale della “pulizia etnica”. Si ha “conflitto” con un “nemico”, al quale si dichiara “guerra” per l’insorgere di un “casus belli” e con il quale alla fine si potrà concludere una “pace”, sancita da un “trattato”, riconosciuto da ambo le parti. Niente di tutto ciò è mai esistito “arabo-sionista”, dove almeno è importante che si usi il termine “sionista” anziché “israeliano” o “ebraico” o “giudaico”. Addirittura per i sionisti i palestinesi semplicemente non esistevano, essendo la Palestina un territorio senza popolo, che aspettava giusto un popolo per abitarlo, cioè quello “ebraico” guadagnato al “sionismo”. Ricordo qui en passant una citazione tratta da un libro di Ghada Karmi, cui verrà dedicata apposita scheda. Si narra di un gruppo di rabbini che avevano inviato in Palestina un loro delegato, agli inizi del secolo scorso, per valutare la fattibilità del progetto sionista di popolamento della Palestina. Il delegato trovando non un territorio deserto e disabitato, ma al contrario pienamente popolato, mandò un telegramma a Vienna dove si diceva che la sposa, cioè la Palestina, era sì bella, ma “sposata a un altro uomo”, cioè i palestinesi. La tesi della terra disabitata circolava moto negli USA in un libro di cui non ricordo il nome, ma di cui ha fatto giustizia Norman G. Finkelstein. La tesi però continua a circolare e ha una sua estremizzazione nella pretesa che i palestinesi “non” esistano e non siano mai esistiti in quanto non sarebbero un “popolo”... Assurdità di cui ci occuperemo in altre specifiche letture. Intanto, ai fini della protezione dei “diritti umani” osserviamo che in nessun caso si ha il diritto di massacre donne, uomini, bambini, qualunque sia il modo in cui siano sociologicamente strutturati.

Non ci piace l’esordio: «Il conflitto tra arabi e sionisti dura ormai da oltre un secolo [meno male che lo riconosce pure lui, NdR], Quasi dal primo momento, è stato trattato con manifesta da commentatori e storici di entrambi gli schieramenti, oltre che dagli osservatori stranieri» (p. 9). La migliore replica è data da Ilan Pappe quando respinge la “dualità” implicita nella nozione di “conflitto” secolare fra arabi e sionisti. Vi è solo l’aggressione unilaterale e secolare da parte del sionismo. La richiesta fatta a chi legge di essere “neutrale”, “obiettivo”, significa innanzitutto chiedergli a priore di accettare una interpretazione storica impostata sulla “dualità” del conflitto anziché sulla “unilateralità” dell’aggressione, della pulizia etnica, del genocidio. Le prospettive cambiano come il giorno e la notte. Qui non si tratta di “partigianeria” ma di accettare o meno la tragedia storica di un lungo “genocidio”, quello del popolo palestinese, che inizia nel 1882 quando i primi sionisti mettono piede in Palestina, avendo chiaro in testa ciò a cui puntavano, e continua ancora oggi nel 2016. Il libro comunque con le sue 800 pagine è inferiore, non solo per pagine, ai tre volumi di Alan Hart, con i quali confronteremo le tesi di Benny Morris, forse il principale storico dichiaratamente sionista, della stessa generazione di Ilan Pappe: insieme vengono annoverati fra i “nuovi storici” israeliani, ma sono alquanto diversi l’uno dall’altro. Sulla critica al “dualismo” mi accorgo di averne prima accennato... Ho già spiegato alla noia le caratteristiche di questa scrittura in progress, del tutto diversa dalla scrittura tipografica... Quando e se riterrò concluso questo post (articolo, voce, saggio... con lo si vuol chiamare, per non usare l’inglesismo “post”), mi riservo una revisione formale complessiva.

Intanto, osservo che è alquanto fastidioso doversi alzare dal divano per venire qui alla tastiera e annotare ogni volta ciò che mi urta nel proseguire la lettura del libro. Non lo farò sempre, sperando di ricordare poi nella scrittura le obiezioni al testo sorte in corso di lettura. Dico ora che Morris già inganna nel momento in cui traccia richiami storici ai tempi biblici. La storia che qui unicamente ci deve interessare è quella dal 1882 in poi, cioè da quando sorge la pretesa sionista di scacciare dalla loro terre quelle popolazioni della regione che allora si chiamava Palestina (per la denominazione Israele occorre aspettare il 1948) ed era parte integrante dell’Impero Ottomano, che per quanto possa ora giudicare trattava e governava meglio quella terra e con più giustizia che non durante il Mandato britannico o la diretta occupazione israeliana, dal 1948 in poi.

No!... Proprio non mi vuol lasciare riposare Morris, sul mio divano, a fare la siesta leggendo di solito un libro... Qui Morris sarebbe proprio da bocciare all’esame di storia, quando scrive o lascia intendere, sappiamo perché, scrive che: «Il periodo dell’indipendenza ebraica ebbe fine con l’invasione romana e la repressione di due ribellioni...» (p. 14). Non è così e Morris opera una deliberata falsificazione. Gli rispondo a mente con un brano di Ilan Pappe, suo collega, un brano che trascriverò di seguito integralmente quando con un poco di lavoro ne avrà ritrovato la pagina. Per ora cito a mente. Anche Pappe, in altro libro diverso da quello sua più noto sulla “Pulizia etnica della Palestina nel 1948”, ricostruisce per sommi capi la storia della Palestina antica del millenni prima di Cristo, facendo l’elenco delle potenze che sulla Palestina hanno esercitato quello che noi oggi chiamiamo la “sovranità”... Assiri, babilonesi, egiziani... In questa successione di Imperi il periodo in cui la Palestina o Giudea come a seconda dei tempi la si debba chiamare ebbe una sua propria e autonoma sovranità territoriale si riduce a poche decenni, forse una cinquantina d’anni. Il brano di Pappe era molto efficace ed era evidente che si trattava di una risposta polemica alla mitologia storica che collega la storia odierna della potenza coloniale occupante, lo Stato di Israele, ancora sostenuto dall’Impero americano, alla storia antica del popolo biblico... Una bufala storica della quale ha fatto giustizia un altro ebreo israeliano, Shlomo Sand. La questione però è trattata dalla propaganda, Hasbarà, sostenuta con ogni mezzo dai media, dalla politica, dagli eserciti degli agit-prop, ed il massimo di cui ci si può appagare e accontentare è di restare immuni da questa propaganda...

Nell’ultimo quarto  del XIX secono «acquisti di  terreni degli effendi da parte dei sionisti» (p. 16) è già parte della storia della pulizia etnica che nel 1948 semplicemente getterà la maschera che aveva nel 1882. Non si tratta di uno sfratto dalla casa in cui per una vita si è abitata in affitto, come a Roma sanno molte famiglie di sfrattati. È qualcosa di ben diverso e di ben più grave... che la propaganda è ben lungi dal far capire. La strategia narrativa di Morris è ben chiara fin dalle prime pagine. Se dovessi qui metterne ad annotare ogni sua pagina ne verrebbe un libro di più pagine di quante Morris non ne abbia scritte: non ho il tempo né un finanziatore e soprattutto non ne ho la voglia. Cerhcerò quindi di arrivare alle fine del libro, come programmato, astenendomi il più possibile da commenti analitici. Un giudizio complessivo e riassuntivo verrà dato in corso di lettura.

Una rapida annotazione per porre all’attenzione che i pogrom in Russia sono successivi alla data del 13 marzo 1881, quando fu assassinato lo Zar e ne fu data la colpa agli ebrei... Uno solo degli attentatori pare fosse ebrei... ma non è questo il punto. Una delle ragioni fondative della dottrina politica del sionismo è stata l’esistenza dei pogrom e del relativo antisemitismo... Ma qui dobbiamo aprire un’altra scheda di lettura: i due volumi di Solgenitsin, Due secoli insieme... Li abbiamo già letti, ma sarà il caso di rileggerli, per avere una polifonia di voci fra loro collegate...Più tardi svolgerà analoga e più potente funzione l’«Olocausto»... Un’obiezione metodologica che si potrebbe fare è la seguente: un conto è il problema dell’equiparazione dei diritti e dei doveri, o della condivisione di una stessa identità politica (senza riserve, senza se e senza ma) all’interno di una stessa unità politica, dentro uno stesso concetto di popolo (anche distinto in diverse nazionalità); altro conto è che una minoranza, anche discriminata, si metta in testa di essere un “popolo” a sé stante, e vada a fare “piazza pulita” di un altro popolo, per occuparne il territorio... Utile la lettura di Bernard Lazare, da noi già letto e di cui appronteremo altra scheda di lettura ed analisi. In ultimo, sono poi da porre questioni di teologia politica e le relazioni nel tempo fra i tre monoteismo evolutosi dall’originario giudaismo (il più primitivo e antisociale, a suo volta importato dall’Egitto), dal cristianesimo (che tenta l’universalismo improntato all’amore del prossimo, senza “elezione” ed “esclusione”) fino all’Islam (che conosciamo poco ma che attinge dagli altri due, forse prendendo il meglio e correggendone i difetti). Non per nulla, oggi, il giudaismo si limita a poche migliaia di aderenti, se si considera autentico in quanto esclusivamente religioso il giudaismo dei Neturei Karta e spurio il giudaismo di Stato (pochi milioni) dell’ebraismo israeliano e relative appendici nella «Diaspora».

La narrazione di Morris è chiaramente di partigiana, ossia di parte sionista. Chi ha già una sufficiente conoscenza del tema non ha difficoltà a comprendere il “filo”, le tesi, le coperture, le apologie...  diciamo il gioco narrativo, non propriamente limpido e pulito. Ma questo non significativa che la lettura non sia istruttiva e che possano perfino apprendersi cose che si ignoravano. Ad esempio, ben sapevo che i primi coloni sionisti, nel 1882, erano denominati “Biluim”, ma non sapevo che dalle ambasciate turche all’estero era sorvegliati fin dalla loro partenza, dai luoghi di provenienza prima di sbarcare il Palestina, dove il loro ingresso era... illegale! Trascrivo il brano che segue:
«Le autorità ottomane sorvegliavano attentamente le attività dei sionisti sia nell'impero sia in Europa, in special modo in Russia. Il 28 aprile 1882, quando i primi biluim non erano ancora salpati da Odessa per la Terra d'Israele, il console generale turco fece affiggere un avviso in cui si dichiarava che nessuno di loro sarebbe stato autorizzato a rimanere in Palestina. Lo stesso giorno in cui il primo gruppo di 14 biluim s'imbarcò per Giaffa a Costantinopoli, cioè il 29 giugno 1882, il governatore della capitale ebbe l'ordine di impedire a qualsiasi ebreo russo, rumeno e bulgaro di sbarcare a Giaffa o Haifa. L’anno seguente gli fu ordinato di fermare la vendita di terre imperiali agli ebrei, anche se cittadini ottomani».
Dunque, non solo non erano graditi agli ebrei autoctoni, cosa che già sapevo, avendolo letto qua e là, ma erano addirittura una sorta di clandestini, di illegali. Fantastico! Non è stato un venirsene alla chetichella, di nascosto, senza dare nell’occhio, ma il disegno sionista era perfettamente chiaro fin dall’inizio alle autorità politiche, che non necessariamente erano mossi dai timori timori per il fatto che detti coloni provenissero dall’Impero zarista, “arcinemico della Turchia”, o potessero essere essere “agenti reali o potenziali dell’infiltrazione ed espansione straniera”. Queste sono soltanto congetture alla Morris, ma il fatto in sé prescinde dalla stessa esistenza dell’Impero ottomano e sarà la causa permanente, la maggior causa, del conflitto mediorientale, come possiamo apprendere da altra “scheda di lettura”, il libro di Mariantoni, “Gli occhi bendati sul Golfo”, alla quale si rinvia. Anche nel libro di Morris compare la celebre risposta del Sultano, con la quale si rifiutano i miliardi degli ebrei che pensavano di comprarsi la Palestina con in soldi, ma per Morris il Sultano diede la famosa, dignitosissima risposta, attraverso un soggetto terzo, per non cadere in tentazione davanti all’offerta dei soldi! Incredibile! Fantastico! Se queste sono le prime pagine della Narrazione di Morris, è facile prevedere cosa ancora possa aspettarsi il Lettore. Ma andremo avanti! La sola difficoltà, fastidiosa, è venire ogni volta qui alla tastiera, per rilevare la perla appena letta... Cercheremo di leggere di corsa senza fermarci troppo, come Dante nel suo viaggio infernale.

Che tipo, questo Morris! Per non dire di peggio...  Se la sciala mentre narra la pratica diffusa della corruzione, da parte ebraica, per eludere tutti i divieti e i controlli. Perfino la famosa visita di Herzl presso il sultano - apprendiamo, ma non lo sapevamo - era avvenuta grazie a una bustarella... Ed in effetti che il Sultano potesse degnare di una visita il signor Herzl, ci sembrava un poco strano... Ma se è così, e Morris dice che così è, allora dovrebbe accorgersi che anche che una certa lettura - che non citiamo per titoli - parlano della pratica della “corruzione”, beninteso sono delle falsità, ma la la falsità in cosa consisterebbe? Quando parlano di pratica ebraica della corruzione? Esiste o non esiste una simile prassi balsamica? Qui, Morris dice che esiste ed è alle origini della storia gloriosa del sionismo. Ho citato spesso, a memoria, una tabella demografica che per l’anno 1861 mi dava una percentuale del 3,5 % per misurare la consistenza della popolazione ebraica autoctona presente in Palestina quell’anno, a fronte del 5 % da arabi palestinesi e del 90 % di popolazione palestinese musulmana. Nella stessa tabella demografico - cito a memoria - ricordo come per l’anno 1915 risulta un incremento del 3,5 % a circa un raddoppio della popolazione ebraica, come dice Morris per gli anni dal 1882 al 1914. Ma nella Tabella non è però scritto che è un raddoppio, illegale, dovuto a una pratica diffusa della corruzione. Morris lo dice, a me sembra, con quella caratteristica che sembra peculiare del carattere ebraico: lo chutzpah, la cui migliore definizione penso sia quella data da un’ex spia del Mossad, in un libro, intitolato Attraverso l’inganno, di cui faremo apposita scheda di lettura, appena lo ritroveremo. Si può ben dire che Benny Morris esca fuori dalla tradizione di un Tacito, che narrando rivelava pur sempre un senso dell’etica, pur nella spietata oggettività della narrazione, ed introduca un nuovo genere storiografico: la narrazione chutzpah!

(segue)

martedì 27 ottobre 2015

Letture: 5. Robert FISK, Cronache Mediorientali, Il Saggiatore 2005.

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È un bel libro di 1180 pagine che ho letto tutte una prima volta e che voglio rileggere insieme ad altro librone, per lo più sulle guerre in Libano, e che adesso voglio rileggere entrambi in distinte e successive schede di lettura. Purtroppo, non ritrovo al momento il secondo volume, disperso negli scaffali, anche a doppia fila, della mia biblioteca... Non viene fuori... Lo rileggerò dopo le “Cronache”, dove non si parla del Libano, perché se ne parla in quello che vado ricercando... Del resto le “Cronache” possono essere intese come introduttive al volume sulle guerre libanesi... Non ripeto le avvertenze generali date nelle precedenti schede. È importante però che ritrovi il secondo volume di Fisk, per poi procedere in un vasto programma di letture e riletture, annotate via via che avanzo nella lettura. Le Cronache Mediorientali hanno un importante sottotitolo da prendere molto sul serio: «Il grande inviato di guerra inglese racconta cent’anni di invasioni, tragedie e tradimenti». In effetti, per uscire dalla gabbie dell’ideologia è necessario per il Medio Oriente ripercorrere almeno un secolo di storia, da quando ciò le potenze “occidentali” si misero d’accordo per spartirsi le spoglie dell’Ottomano, che era “multietnico” e che si estendeva su tre continenti: Europa, Asia, Africa. Lo stesso carattere multietnico aveva l’Impero austro-ungarico. Dovremmo ricordarci di questo fatto elementare oggi che tutti inneggiano alle società “multietniche”, o meglio al melting pot. In un convegno al quale ho partecipate di recente un Relatore ha sostenuto la tesi inconsueta secondo cui il vero inizio della prima guerra mondiale dovrebbe collocarsi nel 1911 con l’invasione italiana, o meglio giolittiana, per la conquista della Libia, lo «scatolone di sabbia» che stranamente rivelò i suoi tesori, quando l’Italia non poteva più trarne profitto. Anche qui, negli anfratti dei “revisionismo storico”, circolano voci che molto mi hanno impressionato, ma di cui sono stato avvertito non esiste documentazione e per questo non è serio parlarne. Rileggeremo dunque, in ampio arco di tempo, i grossi volumi di Robert Fisk - raccolte di articoli –, accanto ad altri di orientamento opposto, ma da leggere in quanto ampiamente documentati. Rinvio la redazione di ulteriori schede (ne sono previste almeno un centinaio) in attesa del ritrovamento de “Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra”, che tratta della prima aggressione israeliana del 1982 e di quella del 2006. Per non essere tacciato di parzialità dai miei accaniti nemici mi occuperò pure delle opere di Benny Morris, il sionista, i cui volumi sono pure nei mei scaffali. Per le letture di carattere filosofico invece rinvio ad altri miei blog specificamente dedicati alla riflessione filosofiche. In questi casi, non potrò permettermi di parlare a tu per tu con i Sommi Filosofi, ma dovrò prestare molta attenzione alla filologia dei testi.

(segue)

Letture: 4. A.B. MARIANTONI, F. OBERSON: Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book, 1991.

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Dell’amico Alberto Mariantoni non sentivo il bisogno di leggere gli scritti, perché ne sentivo quasi quotidianamente la viva voce, lui abitando in Svizzera e io in Italia. Molte delle cose che mi raccontava assumono ora contorni indefiniti nella mia memoria e non mi arrischio a riferirne. La nostra conoscenza risale all’ultima fase della sua vita, quando - con disgusto - aveva smesso di svolgere la sua professione giornalistica e viveva della sua pensione, che poteva spendere solo in Svizzera, non in Italia, dove avrebbe desiderato ritornare. L’operazione Zambon fatta per Dinucci io vorrei qui tentarla per l’amico Mariantoni che non aveva più neppure la copia d’archivio dei numerosi articoli che aveva scritto per i giornali svizzeri. Avevo già intrapreso questa operazione editoriale, dedicando a lui in questo blog un’apposita homepage, che adesso riprendo e spero di completare con l’aiuto dei suoi numerosi amici, che non si conoscono fra di loro ma periodicamente si riuniscono e incontrano per conservarne insieme la memoria. Intanto, mi si impone in questa rubrica la rilettura attenta, anche con ampi estratti, di un volume che scrisse nel 1991 insieme a F. Oberson, dal titolo profetico: «Gli occhi bendati sul Golfo». Ricopio la fascetta editoriale, riassuntiva del contenuto: «Uno scambi di informazioni tra un politologo specialista del mondo arabo e un saggista svizzero. Il quadro medio-orientale risulta una catena di frodi e imposture». Il libro è stato da me preso in prestito in una biblioteca che lo aveva in catalogo. All’Autore non ne era rimasta copia e credo sia introvabile. Questa scheda di lettura viene divisa in due parti. Nella Prima annoterò le mie riflessione estemporanee in corso di lettura, nella Seconda riporterò per esteso ampie sezioni del libro, ormai introvabile. È anche una forma di omaggio alla memoria dell’amico ormai passato a miglior vita.

Parte Prima
Annotazioni sul testo


Intanto chi era Alberto, oltre ad essere un amico, improvvisamente venuto a mancare il 23 ottobre 2012? Nel 1991, all’ultima pagina degli “occhi bendati” così si legge: «È nato a Rieti nel 1947. Di nazionalità italiana, attualmente risiede in Svizzera, dove ha conseguito la laurea di giornalismo e diversi diplomi universitari in scienze politiche e sociali. Politologo e giornalista di grande esperienza e molto noto a livello internazionale, è collaboratore dei maggiori quotidiani e periodici europei e di molte emittenti radiotelevisive italiane, francesi e svizzere. È specialista di politica estera e di relazioni internazionali; con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell'Africa centrale e occidentale. Ha al suo attivo decine di inchieste e di reportages su zone di guerra e di conflitti politici soprattutto in area mediorientale. È inoltre autore di oltre centocinquanta interviste ai protagonisti politici dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale».

Di questa sua attività giornalistica, che ora ci appare come un lascito prezioso, andremo a fare ricerca e raccolta. Gli “Occhi bendati” si aprono pure con una citazione, ben diversa da quella con cui Furio Colombo inizia il suo libretto su Israele. È tratta da Michel Sabbah, Patriarca Latino di Gerusalemme ed apparve sul Quotidiano Al-Faji il 24 dicembre 1990:
Michel Sabbah
«Il cuore del problema è in
Terra santa, a Gerusalemme.
Fino a quando la città santa sarà
un terreno di scontro, il Medioriente
resterà un vulcano che potrà esplodere
in qualunque momento».
Citazione quanto mai attuale: non stiamo assistendo proprio in questi giorni all’ennesima eruzione del vulcano? La partita che si sta giocando è malamente riportata dai nostri media, le cui cronache sono praticamente dettate dal governo israeliano, che già almeno dal 1982 aveva iniziato la sua “Hasbara”, volta a controllare all’estero la narrativa su Israele. Chi vuol vedere ciò che accade sa ormai che deve togliersi dagli occhi la “benda” quotidianamente servita dal mainstream. Personalmente, ho trovata assai istruttiva la pronta e adirata reazione israeliana alla proposta francese presso il Consiglio di Sicurezza di un controllo internazionale dei Luoghi Santi, che era una vecchissima richiesta del Vaticano, contemplata perfino nella famosa risoluzione sulla “spartizione”, se non erro. Ancora una volta vi è stato il rifiuto degli USA, che malgrado apparenti divergenze continua a fornire tutta la sua protezione para-mafiosa al governo di Israele. Dubito che la geopolitica del Medioriente potrà mutare di molto finché non si spezza il legame Usrael.

Andiamo ora al libro di pagine 226, finito di stampare nell’ottobre del 1991. Dalla Premessa sullo “scopo dell’opera” estraiamo questo brano: «La guerra del Golfo, in ordine di tempo, è stato l’ultimo episodio di una serie di tragedie che per più di quarant’anni hanno sconvolto e messo a soqquadro il Medioriente. Mai guerra fu così tanto reclamizzata e, simultaneamente, così poco spiegata ed approfondita. Siamo veramente sicuri che le forze alleate difendevano il diritto internazionale? Quale ruolo hanno giocato gli interessi economici e petroliferi dell’Occidente? Difficile, per il semplice spettatore, districare l’ingarbugliata matassa di quel conflitto e focalizzare le vere ragioni di quell' ennesimo dramma… ».  La data chiave di partenza è il 1948. «Secondo Mariantoni, la creazione artificiale dello Stato di Israele - che egli definisce il «big bang» iniziale - è all’origine, direttamente o indirettamente, di tutti i cataclismi e le reazioni a catena che hanno sconvolto questa parte del mondo... [questo studio] svela pure il vero volto di Israele, rompendo con le menzogne fino ad ora erette a livello di dogma».

Alberto B. Mariantoni
E qui voglio narrare un aneddoto che costituisce una delle mie consuete conversazioni telefoniche con Alberto. Non me le sono annotate o registrate, ma ricordo perfettamente il fatto in sé esemplificative. Mi aveva spiegato una delle tecniche di corruzione che venivano applicate verso i giornalisti. Si offriva ad Alberto una somma di denaro se soltanto accettava di consegnare a non so chi il testo del suo articolo prima che andasse in edicola. Sorpreso, Alberto chiedeva: “ma non potete aspettare qualche mezz’ora, per leggerlo direttamente appena uscito?”. Mi spiegò che era una tecnica di corruzione alla quale lui non si piegò mai, mentre altri suoi colleghi accettarono l’offerta e mi disse anche un nome, che io ho però dimenticato e non mi sono allora annotato: non era comunque un nome a me noto, ma io non sono mai stato una grande lettore di giornali. Ovviamente, se lui avesse accettato, sarebbe stato sempre ricattabile, per aver accettato del denaro. Infine, gettata la maschera, sapendo che lui non avrebbe mai mutato il suo pensiero e le sue opinioni, gli si offriva del denaro alla semplice condizione che lui non si occupasse più di determinate questioni.

Dell’esistenza di una siffatta “censura” si trova conferma verso la fine di questo ulteriore brano della Premessa editoriale: «L’ obiettivo principale di quest’opera è dimostrare che il quadro mediorientale non è altro che una catena di frodi, di menzogne e di imposture. In una parola: un cumulo di mistificazioni criminali! L’inviato speciale lascia il posto all’analista politico per svelare i complessi meccanismi che hanno permesso alle grandi potenze, Stati Uniti in testa, di esercitare le loro influenze e le loro pressioni su quella regione del mondo. Oberson pone tutte le domande possibili dello spettatore impegnato e Mariantoni, senza reticenze o timori, risponde e dimostra i meccanismi di una guerra programmata, smascherando l’informazione condizionata dalla censura e vagliando senza remore le vere poste in gioco in quel conflitto» (p. 8). Si noti il passaggio da “inviato speciale” – che arrivava sul luogo sempre prima degli altri – ad “analista politico”. Ricordo le discussioni che avevo con lui sulla massima giornalistica dei “fatti separati dalle opinioni”, cosa che ovviamente non significa essere privi di opinioni e della capacità di pensare, come spesso traspare oggi dai racconti di numerosi giornalisti che popolano i media.

È utile riportare la parte restante della Premessa editoriale perché è una buona sintesi del contenuto del libro, che andremo poi ad analizzare in dettaglio: «La constatazione finale di quest’opera è abbastanza amara. Oggi più che mai, il nuovo ordine mondiale sembra essere un “assetto internazionale” ad esclusivo uso e consumo degli Stati Uniti. La tragedia curda, la “pax siriana” nel Libano, i “giochi di prestigio” israelo-americani sulla questione palestinese, la fame in Iraq, non sono soltanto le conseguenze del dopoguerra del Golfo, ma le prime avvisaglie di una situazione che contribuirà inevitabilmente a partorire altri drammi ed altre tragedie. Saddam Hussein l’aveva predetto. Con il suo discorso del 12 agosto del 1990, aveva proposto di legare la soluzione dei molteplici problemi del Medioriente alla sua invasione/annessione del Kuwait. Sarebbe stato veramente immorale negoziare con il boia di Bagdad per tentare di mettere la parola fine allo stato d’illegalità continua e costante che regna nel Medioriente da più di quarant”anni?». La Premessa è datata Roma-Ginevra agosto 1991. Non si era ancora avuta la seconda guerra del Golfo e la definitiva distruzione dell’Iraq con la caduta di Saddam. Blair non aveva ancora consumato le sue bugie e le sue tardive scuse senza pentimento. Per i media sono dei “boia”, dei “macellai”, dei “dittatori” tutti quelli che non si chiamano Blair o Bush o Comesivuole purché nostri padroni al potere...

Un piccolo particolare sui nostri uomini di governo... giusto per averne un confronto comparativo con i “tiranni” di cui guai a parlar bene o a mantenersi neutri nelle decretazione mediatica di condanna e demonizzazione... Ho visto ier sera un film sulla vicenda Ambrosoli / Sindona, che termina con l’assassinio di Ambrosoli ordinata da Sindona, le cui frodi finanziarie erano state svelate da Ambrosoli... Nella fiction compaiono personaggi storici come Andreotti e il suo Evangelisti, che nel film appare grande amico e complice di Sindona... Dell’Andreotti storico io ricordo una frase virgolettata riportata dall’Espresso che allora io leggevo ogni settimana... Ero studente o da poco laureato e ricordo che Andreotti Presidente del Consiglio in quegli anni non sapevo dare migliore consiglio a noi giovani in cerca di lavoro che di «fare fagotto» ed andarsene all’estero per cercare lavoro. Non era gentile e affabile l’Uomo... lo Statista, certamente fra i maggiori che la storia italiana del dopoguerra ha partorito... Quella citazione fa il paio con altra, documentaria, riportata nella fiction: non è l’attore, ma proprio lo spezzone di una intervista concessa da Andreotti, che sull’uomo Ambrosoli che nel film appare come un “martire” per il “Paese”, altro di meglio non trova da dire che: «se l’era andata a cercare» la fine che aveva fatto. Da una parte Saddam, oppure Geddafi, o ancora sulla scena, Assad; dall’altra i nostri statisti, grandissimi come Andreotti, o da ridere come l’attuale Matteo Renzi, le cui frottole quotidiane scassano il telecomando. E dunque? Vale la regola hobbesiana del rapporto protezione / obbedienza, per la quale l’unico criterio certo di legittimità di un Capo di governo è non la forma istituzionale (parlamento, monarchia, direttorio, gabinetto, ecc.) con la quale esercita il suo potere, ma la capacità effettiva di fornire protezione (e benessere) al suo popolo. Per Geddafi la differenza fra come stavano i libici sotto di lui e come stanno adesso è di assoluta evidenza. Caduto Saddam, l’Iraq “liberato” e passato nelle mani degli americano conta finora due milioni di morti civili e distruzioni immani quali in nessun modo si potranno mai attribuire al “boia di Bagdad”. Si ricordi, del resto, che in Hobbes il Leviatano è una “mostro feroce”, il più feroce di tutti, ma non è la sua “ferocia” che ne fa venir meno la “legittimità”, bensì il venir meno della funzione per la quale il Leviatano esiste, e cioè la “protezione” che deve fornire ai sudditi davanti a chi attenta alla loro vita: due milioni di morti civili fatti nel solo Iraq dalla “ingerenza umanitaria” degli USA senza considerare le distruzioni infinite! Saddam - “boia di Bagdad - di certo non poteva avere nessun interesse a uccidere tutto il suo popolo e a distruggere tutto il suo paese, o a venderlo come fanno i governanti nostrani.

Siamo nell’estate del 1991, quando nel libro-intervista il saggista svizzero Oberson chiede al politolo-giornalista Mariantoni, che da vent’anni gira in lungo e largo la situazione del mondo arabo, come egli potrebbe riassumere la situazione generale del mondo arabo. Mariantoni, assai pessimista, offre questo quadro generale, riferito - non si dimentichi - alla prima metà del 1991:

«Dalla Mauritania all’Afghanistan, infatti, il «quadro» è piuttosto deludente ed inquietante. Si tratta di una regione dove, da più di quarant’anni, regna l’arbitrio e l’ingiustizia, e nella quale i diritti più elementari dell’uomo sono sistematicamente scherniti e calpestati. Una regione dove la minaccia di guerra è costante e latente, e dove il pericolo di scontri politici e sociali è all’ordine del giorno. Per meglio rendersene conto, però, è necessario fare una rapida e succinta carrellata sui diversi paesi di questa regione.

La Mauritania è governata da una dittatura militare. Le lascio immaginare il «clima» nel quale vivono gli abitanti di questo paese ... tanto sul piano delle libertà civili che su quello della vita di tutti i giorni. L’economia è moribonda. La tratta degli schiavi è tutt’ora praticata nelle regioni più interne del paese, nonostante l’interdizione ufficiale del governo. Senza contare la guerra che potrebbe scoppiare da un momento all’altro con il vicino Senegal.
Hassan II (1929-1999)

Nel Marocco, il nostro «amico» Hassan II è sempre contornato dalla stessa oligarchia feudo-finanziaria. La metà del territorio marocchino è praticamente proprietà privata di una sola persona: Sua Maestà il Re. La pretesa libertà di stampa e d’opinione, così come il multipartitismo, sono «marcati» a vista dalla polizia del regime. La guerra contro il popolo Sahraui ha svuotato le casse dello Stato senza risolvere il conflitto. La gioventù è frustrata e delusa, «scalpita» per mancanza di sbocchi concreti all’interno della società e le sue rivolte sono sistematicamente represse nel sangue. L’economia agonizza. E questo nonostante le entrate in monete forti provenienti dall’emigrazione e dal turismo.

Chadli Bedjedid (1929-2012)
Dopo ventisei anni di potere assoluto in Algeria, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) è in piena crisi. Dal 1988 non fa che subire il rigetto politico, economico e sociale della maggioranza della popolazione. Per evitare al paese una rivoluzione islamica degli adepti del FIS (Fronte islamico della salvezza), il Presidente Chadli Bedjedid ha autorizzato il multipartitismo ed il ritorno in Algeria di alcuni leaders storici, fin lì in esilio, come Ait Ahmed ed Ahmed Ben Bella. Più di quaranta partiti recentemente organizzati si contendono ormai le spoglie dell’ex granaio della Francia coloniale. I militari, restati fedeli al ricordo del regime di Boumedienne, potrebbero essere tentati - dopo la proclamazione della legge marziale (revocata poi il 29 settembre 1991) e l’arresto dei principali leaders del FIS, rispettivamente nel giugno e nel luglio 1991 - di «mettere d’accordo» tutta questa gente, fomentando, magari, un colpo di Stato.

Ben Alì (n. 1936)
Nonostante l’eliminazione politica del “Combattente supremo” (l’anziano Habib Burguiba) nel 1987, la Tunisia ed il regime del Presidente Ben Ali continuano a degenerare. Eppure una promessa di liberalismo politico, mai mantenuta, aveva fatto posto alle «tempeste di sabbia» generate da Burguiba negli ultimi anni del suo «regno». Poi, quasi immediatamente, Ben Ali si è ricordato che era stato allievo della scuola militare francese di Saint Cyr, che era stato responsabile della polizia tunisina e ministro degli Interni. Il suo regime si è quindi strutturato sull’immagine di un sistema poliziesco ed inquisitore. Inutile meravigliarsi dell’assenza di libertà di stampa e d’opinione, nonché della mancanza di elementari garanzie legali e costituzionali. La società tunisina è in effervescenza: i conflitti sociali aumentano d'intensità, la repressione s’intensifica e le prigioni sono piene. In clandestinità, i fondamentalisti del gruppo Anhada spiano qualsiasi occasione per prendere il potere. L’esplosione generale può prodursi in qualsiasi momento, senza preavviso.

Ufficialmente libera ed ammmistrata dalla Glamahmya (un sistema di democrazia diretta), la Libia è governata da una dittatura politico-militare uscita dal colpo di Stato dello settembre 1969. Dopo un breve e florido periodo, l’economia libica è divenuta inevitabilmente dipendente dall’iniziativa pubblica e dalla sola risorsa energetica del paese, il petrolio. Tra tutti i paesi del Maghreb, la Libia è la più prospera, ma l’uomo della strada non sembra affatto trarre profitto dalla ricchezza del paese. La libertà d’opinione non esiste che per coloro che appoggiano il regime gheddafiano. Per gli altri, è la repressione. li sospetto e la paura regnano a tutti i livelli. Gli interessi privati di certi dirigenti si frammischiano senza vergogna con quelli dello Stato. Il clientelismo e la corruzione imperano. L’imitazione pedissequa e l’omertà sono di rigore. La violenza gratuita e l’arbitrario sono una costante. Tutto ciò, naturalmente, all’insaputa del «Leader» della rivoluzione che vive trincerato nella regione della Sirte, tra i ghedafeda, i membri della sua tribù natale. Ufficialmente Gheddafi dice di essere un vero nazionalista arabo, al di sopra della «mischia» e molto attaccato all’indipendenza ed al benessere del suo popolo. In realtà, non è che un «neuropatico depressivo», per giunta manipolato, nel corso degli ultimi anni, da una banda d’affaristi senza scrupoli appartenenti alla sua stessa famiglia o al suo seguito.

In Egitto, le cose non vanno affatto meglio. E questo nonostante l’immagine di marca apparentemente bonaria ed il suo allineamento sulla politica occidentale in occasione del conflitto del Golfo. Il regime egiziano resta una dittatura politico militare sostenuta e manipolata da un «iceberg» d’affaristi e di speculatori autoctoni legati alla finanza internazionale ed alla politica di Washington. L’uomo di paglia dell’Egitto, il Presidente Mubarak, è soprannominato «la vache qui rit» ... Per quest’ex generale d’aviazione non è affatto una disquisizione accademica dire che «vola» molto, molto basso! Il potere, in Egitto, è monopolizzato dal NPD, il Partito nazionale democratico, che ha ridotto il Parlamento al ruolo di semplice comparsa. Dieci anni dopo l’assassinio di Sadat nel 1981, le «leggi speciali» decretate all’epoca sono state prorogate «sine die» il 18 maggio 1991... Questa eccezionalità della legislazione permette al Rais egiziano di far arrestare i «pericolosi rivoluzionari» ed i «terroristi islamici». In realtà, la maggior parte di questi prigionieri non sono che dei semplici cittadini, esasperati e scontenti del regime. L’amico americano, il Presidente George Bush, ha dato una boccata d’ossigeno al suo omologo egiziano, annullando i debiti militari del paese che erano calcolati in miliardi di dollari, per «servizio reso», in concomitanza con la guerra del Golfo! Quest’intervento finanziario non è che un momentaneo palliativo all’inevitabile disastro economico che grava sul paese, ma permette a Mubarak di evitare la rivolta popolare che potrebbe prodursi in Egitto come nel 1977.

Il centro-nord del Sudan, a maggioranza musulmana, è controllato da una giunta militare. Il sud, cristiano-animista, è in piena rivolta. Alla guerra civile che continua ad insanguinare il paese dall’epoca di Nimeiry, s’aggiungono la malnutrizione dovuta al sottosviluppo ed all’arretratezza agricola ed industriale, e le epidemie per mancanza d’infrastrutture sanitarie. Questo paese è uno dei più disastrati della Terra, sia sul piano materiale che morale.

Saremmo tentati di credere che il solo paese «occidentale» della regione che stia sotto una buona «stella» sia Israele. Tuttavia, dall’epoca della sua fondazione nel 1948, lo Stato ebraico vive in una situazione di guerra permanente con i suoi vicini arabi. Il «clima» sviluppatosi con l’Intifada nei Territori occupati rende la situazione più esplosiva che mai dal 1987. La reazione dei Palestinesi si spiega attraverso i soprusi - vessazioni, espulsioni, arresti, confisca delle terre, distruzioni d’abitazioni e massacri d’ogni genere - che quest’ultimi hanno subito in Cisgiordania e Gaza, nel Golan ed a Gerusalemmeest, nel corso degli ultimi ventiquattro anni. All’interno dello Stato propriamente detto - ufficialmente democratico - il sistema politico israeliano è apertamente discriminante. Pratica una distinzione sistematica tra i cittadini nazionali ebrei ed i cittadini arabi autoctoni (con passaporto israeliano) o installati nel paese prima della guerra dei Sei giorni nel 1967 (16% della popolazione). La discriminazione è esercitata a tutti i livelli: politico, religioso, amministrativo, finanziario, sociale, educativo, culturale. Per non citare che un esempio, il 92% delle terre del paese appartengono allo Stato che le affitta esclusivamente ai soli israeliani di religione ebraica. Il rifiuto sistematico dei dirigenti israeliani di partecipare ad una Conferenza di pace con i Palestinesi, dimostra chiaramente che il clima di guerra perdurerà ancora per molto tempo in questa regione.

Analizziamo il Libano dopo quindici anni di guerra “civile”: centomila morti, trecentomila feriti, un milione di sfollati, due milioni di esiliati, cinquanta miliardi di dollari di distruzioni. Oggi, il Libano ha ufficialmente ritrovato la “pace”, mi correggo, “la pax siriana”! Quarantamila soldati siriani continuano ad occupare 1'85% del territorio libanese, mentre il restante 15% è sempre controllato dagli israeliani e dai loro alleati libanesi del sud del paese. I «mukabarat» (agenti della polizia politica e dei servizi segreti) di Damasco sono presenti dappertutto: persino negli uffici e negli appartamenti privati del “Presidente” libanese Elias Hraui e dei membri del “governo” del primo ministro Omar Karamé. Il governo fantoccio di Beirut obbedisce a bacchetta al Presidente siriano Hafez el-Assad, con la benedizione del re Fahd d’Arabia Saudita e dei suoi amici della Lega Araba. Il Parlamento libanese è completamente illegale. È stato eletto nel 1972 - dunque prima dell’inizio della guerra scoppiata nel 1975 - dal 12% della popolazione e continua, nonostante tutto, a rimanere in carica, usurpando sfacciatamente un mandato elettorale che avrebbe dovuto finire nel 1976! Dopo la morte o le dimissioni di 40 deputati, i parlamentari mancanti sono stati nominati d’ufficio da Damasco ... Inutile sottolineare che la libertà di stampa e d’opinione, come il rispetto dei diritti dell’uomo, appartengono ormai ad un vago ricordo del passato. Dopo gli accordi di Taef nel 1989, l’eliminazione del generale Aoun nel 1990 e la firma dell’accordo siro-libanese del maggio 1991, il Libano ha perduto la sua libertà e la sua indipendenza, divenendo, così, un semplice protettorato siriano; con l’avallo, naturalmente, degli Stati Uniti e delle Potenze occidentali. A quando l’annessione pura e semplice dell’ex Libano al «Bilad Esh-Sham», la Grande Siria?

In Siria, la setta religiosa dei «Nusayris» o «Alauiti» rappresenta meno del 12% della popolazione, ma questo non impedisce affatto ai suoi adepti di monopolizzare la totalità del potere di questo paese. A sua volta, questa setta è manipolata dalla «mafia» familiare del Presidente Hafez el-Assad, divenuto «maestro» nell’arte di opprimere i suoi concittadini attraverso gli arresti indiscriminati, le torture, le esecuzioni sommarie o la sparizione pura e semplice. La Siria non è altro che un gigantesco campo di concentramento, dove la libertà, la democrazia e la giustizia sono state definitivamente bandite dal vocabolario comune. È una specie di universo orwelliano dove ognuno spia e sospetta chiunque ma questo, naturalmente, non sembra affatto che, in questo momento (come già avvenuto in passato con il regime di Saddam), giudica questo regime estremamente valido ed indispensabile alla strategia statunitense nella regione mediorientale. Prima dell’ultimo conflitto del Golfo, la Siria non era altro che la copia conforme del suo vicino, l’Iraq. Quest’ultimo, in più, conosce, oggi, le terribili conseguenze del dopoguerra: circa 150.000 morti, distruzioni incalcolabili, due milioni di Curdi rifugiati nei «no men's land» garantiti dall'ONU, migliaia di sciiti irakeni massacrati dalla repressione brutale dell’esercito di Bagdad o in fuga verso il vicino Iran. E malgrado ciò, Saddam Hussein ed il «clan» degli al-Takriti sono sempre al potere.


In Arabia Saudita e nell’insieme delle petromonarchie del Golfo, il potere è sempre tenuto da un pugno di privilegiati che scambiano sistematicamente le casse dei loro Stati per un portafoglio personale. In questi Stati, amministrati da subdole e feroci dittature, a torto ritenute di «diritto divino», i re, gli emiri, gli sceicchi, nonché le loro famiglie, hanno tutti i diritti: compreso quello di vita e di morte sui loro sudditi; il resto della popolazione, nessun diritto. Senza contare lo stato di semi-schiavitù nel quale vivono i lavoratori stranieri ...


La Giordania, popolata per oltre il 60% da Palestinesi, sta scivolando verso 1’integralismo islamico. L’economia è in pieno sfacelo. La famiglia regnante (Hashemita) teme più che mai che la soluzione del problema palestinese passi attraverso la creazione di uno Stato sul suo territorio. 


I due Yemen, recentemente unificati, sono alla mercè dei gruppi fondamentalisti ed islamisti («islamista» = colui che utilizza l’Islam esclusivamente come un’ideologia politico-religiosa e rivoluzionaria per la conquista del potere; da non confondere con «islamologo» = colui cioè che studia ed approfondisce i problemi di questa religione). Folle ogni giorno più numerose reclamano 1’applicazione della Sharia (la legislazione musulmana) ed il recupero politico di tre province del nord del paese, annesse militarmente dall’Arabia Saudita negli anni ‘30.

L’Iran di Rafsandjani (il nuovo «Shah») vive in piena dittatura politica. Le promesse della rivoluzione del 1979 non sono più che un ricordo. il clientelismo del potere favorisce una minoranza di privilegiati, a discapito delle masse sempre più numerose di «mustazafin» (diseredati). I vecchi metodi repressivi, già utilizzati dalla famigerata Savak dell’epoca dello Shah, sono ritornati di moda; e 1’integralismo religioso (da non confondere con l’islamismo rivoluzionario predicato da Khomeini) adottato dagli attuali responsabili del regime di Teheran, sembra non avere più nulla da invidiare all’arretratezza culturale e politica del wahhabismo saudita.


All’estremo limite di questa regione, infine, resta l’Afghanistan. Dimenticato dall’opinione pubblica e «messo in soffitta» dai governi dei paesi occidentali, questo paese continua ad essere martoriato dalla guerra civile. I sovietici hanno lasciato ufficialmente Kabul, ma il loro «supervisore» personale, l’attuale Presidente comunista Nagibullah, resta più che mai al potere. I milioni di rifugiati afghani dovranno ancora attendere, prima di poter rientrare nel loro paese» (pp. 11-17). 
Non si dimentichi che questo quadro risale alla prima metà del 1991 ed era ciò che allora appariva ad Alberto Mariantoni, la cui prima visita nei luoghi da lui descritti risaliva al 1969. Mi dispiace davvero di non aver annotato le cose che mi raccontava della sua passata esperienza. In particolare, ne voglio qui ricordare una, abbastanza divertente, ma con tutte le cautele già espresse, di mancata annotazione. Mi raccontava Alberto di non aver mai ricevuto in tutta la sua carriera una sola querela per diffamazione, essendo lui sempre molto attento a ciò che scriveva ed a poterlo documentare in caso di repliche e smentite. Vi fu un solo caso in cui ricevette una querela e fu quando ebbe a intervistare il presidente di uno Stato, credo il Libano. E disse per bocca del Presidente intervistato che certe persone erano dei ladri o delle spie. Trattandosi della parola del Presidente di uno Stato, sarebbe stato mancanza di tatto fare la registrazione dell’intervista. Si fidò... Poi le persone “diffamate” gli mossero querela e lui si sarebbe trovato a mal partito, se il Presidente non avesse confermato ciò che lui aveva scritto, fidandosi. Non solo il Presidente confermò mandando una lettera al Giudice, ma disse che sarebbe venuto personalmente a testimoniare, confermando ciò che aveva detto ad Alberto Mariantoni. Era davvero divertito, ed io con lui, quando mi raccontava Alberto come gli avvocati della controparte scapparono via immediatamente dall’aula, appena fu letta la lettera del Presidente...

Non si dimentichi inoltre come Alberto Mariantoni ritornò a fare il giornalista proprio dalle pagine virtuali di questo blog, quando scrisse battendo sul tempo gli altri il suo mirabile articolo sulla Libia, facendo vedere come in realtà ad essere attaccata non era ma Libia, ma l’Italia! E ricordo che nelle conversazioni di quel periodo il suo giudizio su Gheddafi era diverso da quello del 1991. Pur mantenendo riserve di giudizio, Alberto era del parere che il “dittatore” avesse fatto sempre il bene del suo Paese e che non vi era nessuna alternativa migliore a Gheddafi stesso:  la storia di questi ultimi anni, con la Libia che precipita sempre più in basso, conferma pienamente l’esattezza di quel giudizio. Lo stesso si può dire di tutti i paesi dove le potenze occidentali intervengono per stabilire la “democrazia”, i “diritti umani” e quant’altro: la situazione che creano si rivela di gran lunga peggiore della precedente! E ciò dimostra l’ipocrisia delle potenze occidentali e la vera natura delle loro intenzioni, ossia quella che adesso si chiama la “strategia del caos” permanente e la depredazione delle risorse petrolifere, oltre che il mantenimento dello «Stato ebraico di Israele» come frontiera dell’Occidente: “la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”, come recitava un sito sionista...

Procedendo nella lettura, essendo ormai il libro introvabile, mi rendo conto che alcune parte siano decisamente da ripubblicare. Pertanto divido questa scheda in due parti. La Prima dove svolgo le mie riflessioni, con citazioni o estratti commentati. La seconda tutta di Estratti. Incomincio con il Secondo Capitolo, che è poi quello centrale che dà senso a tutto il libro ed è ancora di grande attualità.

Parte Seconda
UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO

1. La creazione dello Stato dIsraele.

Proclamazione dello Stato d’Israele
Il 14 maggio 1948, esempio unico nella storia dell’umanità, uno Stato sovrano veniva proclamato nel Medioriente, grazie ad una decisione extra-nazionale: lo Stato d’Israele. Quella decisione era il risultato di un voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ottenuto il 29 novembre del 1947, attraverso il metodo della maggioranza dei due terzi dei votanti ed in particolare con 33 voti a favore, 13 contro, e 10 astensioni. Dunque, con un solo voto di scarto. Questo voto, a sua volta, faceva seguito ad un’altra presa di posizione internazionale: quella della Commissione speciale delle Nazioni Unite per la Palestina. Commissione che si era pronunciata il 31 luglio 1947 (con 25 sì, 13 no, e 17 astensioni), a favore di una spartizione di quel territorio in due Stati indipendenti con unione economica: l’uno ebreo e l’altro arabo, ed una zona internazionale (la città di Gerusalemme) su diretto controllo dell’ONU.

La proclamazione dello Stato d’Israele, il voto dell’ONU e le prese di posizione internazionali prendevano spunto da un certo numero di argomenti:


1. La Dichiarazione Balfour. In altre parole, la famosa lettera inviata a Lord Lionel de Rothschild, il 2 novembre del 1917, da Arthur J. Balfour, l’allora segretario di Stato agli Esteri della corona d’Inghilterra. In quella lettera, approvata dal Gabinetto di Sua Maestà, il Ministro britannico aveva in particolare dichiarato che il suo governo considerava «con simpatia l’edificazione in Palestina d’un “centro nazionale” per il popolo ebreo» e che avrebbe fatto «tutto il possibile per  facilitare quell’obiettivo». Una promessa condizionata dal paragrafo seguente: «Essendo ben inteso che niente dovrà limitare i diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, o portare pregiudizio ai diritti ed alla situazione politica che gli Ebrei godono negli altri Paesi». Prese di posizione analoghe erano state rese note dalla Francia, sia nel giugno del 1917 (in particolare dal segretario generale del ministero degli Esteri, Jules Cambon) che nel febbraio del 1918, dal Ministro degli Esteri Stéphen Pichon.

2. Un certo numero di prese di posizione da parte delle Potenze Alleate che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, avevano espresso il loro sostegno nei confronti della Dichiarazione Balfour, in occasione della Conferenza di San Remo del 1922 e della Convenzione anglo-americana del 1924.


3. I risultati della Conferenza sionista mondiale del 1945 a Londra e le raccapriccianti rivelazioni concernenti la politica di sterminio degli Ebrei, praticata in Europa dal Terzo Reich, dal 1942 al 1945. Le cifre ufficiali parlavano in quell’epoca dell’eliminazione di circa il 73 % della popolazione israelita europea.


4. Le tesi sioniste, secondo le quali «il ritorno degli Ebrei in Terra Santa era, in definitiva, un atto di giustizia nei confronti di un popolo che era stato estirpato dalla Palestina due mila anni prima, ed era stato perseguitato ovunque nel mondo, a causa della sua particolarità etnica e religiosa». Questo ritorno, secondo la stessa tesi, sarebbe avvenuto senza creare problemi, in quanto la Palestina, era «una terra senza popolo» che poteva senz’altro ospitare «un popolo senza terra». Il contesto nel quale la proclamazione dello Stato ebraico verrà effettuata corrisponde alla fine del Mandato britannico sulla Palestina. L’amministrazione di questo territorio - affidato dalla Società delle Nazioni alla Gran Bretagna il 16 settembre del 1922 dopo la disintegrazione dell’Impero Ottomano - doveva cessare, infatti, il 15 maggio del 1948 a mezzanotte, come previsto da una decisione del Foreign Office del 13 maggio precedente. A questo bisogna aggiungere le posizioni politiche arabe. Senza rifare tutta la storia della controversia tra arabi e britannici, e tra arabi e coloni ebrei, diciamo, per riassumere, che la maggior parte dei Palestinesi e degli Stati arabi della regione, dal 1921 si erano accanitamente opposti sia alla creazione di un «foyer» ebreo in Palestina che all’idea di dividere quella terra con gli emigrati israeliti provenienti dall’Europa. L’opposizione araba a questi progetti si era tradotta nei fatti, con lo scoppio di sanguinose insurrezioni in Palestina nel 1922, nel 1928, nel 1929, nel 1933, nel 1936 e nel 1937. Senza contare lo stato di tensione continua che si era manifestato in Palestina e nei diversi Paesi arabi della regione, in concomitanza con gli alterni avvenimenti provocati dalla seconda guerra mondiale. Nonostante quest’opposizione, ed a qualche ora dalla fine del Mandato britannico sulla Palestina, David Ben Gurion (presidente del Comitato esecutivo dell’Agenzia ebraica mondiale), in presenza del Consiglio nazionale ebreo (un organismo rappresentante, simultaneamente, le organizzazioni sioniste del mondo e la comunità israelita palestinese), proclamerà, a Tel-Aviv, lo Stato d’Israele. «Alea iacta erat»: il dato era tratto ... Quest’avvenimento è
ciò che io definisco il «big bang» iniziale della situazione mediorientale.


a. Il «big bang» iniziale. 


- Non pensa che sia un po’ semplicistico, se non «tendenzioso», voler per forza attribuire alla creazione dello Stato d’Israele, la totalità dei fatti e misfatti che sono avvenuti nel Medioriente negli ultimi quarantatré anni?


- Capisco la sua incredulità ed il suo sbalordimento. Salvo rare eccezioni, chiunque, in Occidente, reagirebbe come Lei.


Visto dall’Occidente, infatti, è evidente che il problema che sto cercando di spiegare sia completamente assurdo. Lo Stato d’Israele - per noi occidentali - risponde ai crismi della legalità: è uno Stato sovrano e, per giunta, creato a partire da un accordo ed una decisione internazionali.


Visto dal Medioriente, invece, lo stesso avvenimento non ha affatto assunto le stesse caratteristiche percettive. In particolare nel 1948! Tenga conto che per la totalità delle popolazioni e degli Stati arabi, la creazione dello Stato d’Israele fu considerata, in quell’epoca, semplicemente un crimine.


- Perché un crimine?


- Poiché rimetteva completamente in discussione l’integrità territoriale del «Dar el-Islam» (il Paese dei musulmani); un’integrità che ai loro occhi esisteva dal 637 d.C. (epoca della conquista musulmana della Palestina) e che era stata interrotta, soltanto per qualche anno, durante la breve parentesi delle Crociate.


- Questa loro reazione non era contraddittoria? Gli ebrei, che io sappia, nel mondo arabo, non avevano mai subito, fino ad allora, delle persecuzioni simili ai «pogrom» ... tanto meno, dei tentativi di sterminio!


- È giusto. Ma è qui che si situa un altro problema di interpretazione del fenomeno dell’emigrazione ebrea in Palestina.


All’interno del «Dar el-Islam», gli ebrei autoctoni, sebbene in minoranza, non erano mai stati effettivamente «maltrattati»; anche se, a causa della «Dhimma» musulmana (l’accordo di «protezione» religiosa), venivano considerati (come nel caso delle minoranze cristiane) cittadini di seconda classe ed erano costretti a subire un certo numero di soprusi politici ed economici.


Nel caso del «centro ebreo» preconizzato da Balfour o dello Stato d’Israele proclamato da Ben Gurion, non si trattava più di israeliti autoctoni, ma di europei giudaizzati. Agli occhi degli Arabi, addirittura di semplici europei! Ed era naturale che quelle popolazioni considerassero la massa d’emigrati ebrei europei che stava dilagando sulla Palestina dall’inizio del secolo, come un fatto coloniale.


Potrei aggiungere che la percezione degli Arabi a proposito della decisione dell'ONU di autorizzare la creazione dello Stato d’Israele, non attenuava per niente la loro intransigenza nei confronti degli israeliti europei. Al contrario, l’irrigidiva ancora di più. E questo per il semplice motivo che quella decisione era stata presa da un organismo occidentale.


La maggior parte degli Stati arabi, allora indipendenti, avevano aderito all’ONU, ma questo non faceva loro dimenticare che, visto dal Medioriente, quest’ultimo appariva un «carrozzone» occidentale, inventato dalle potenze Alleate per meglio perpetuare, nel tempo, i rapporti di forza che erano scaturiti tra le Nazioni alla fine della seconda guerra mondiale.


- «Carrozzone» o no, l’ONU aveva votato la spartizione della Palestina in due Stati: uno Ebreo e l’altro Arabo. Perché gli Arabi rifiutarono quella decisione?


- Se domani si formasse un’organizzazione che si ispira alle gesta del Duca di Borgogna - magari riconosciuta dall’ONU - gli abitanti del Giura svizzero sarebbero disposti, secondo Lei, a spartire il loro territorio con quella gente?


- Credo di no, ma il caso degli Ebrei è diverso: erano scampati all’Olocausto, allo sterminio nazista, e permettere loro di rifarsi una vita era il minimo dei gesti umanitari che la comunità internazionale potesse compiere nei loro riguardi!

- Certo, ma che aveva risposto il re Abdallah di Transgiordania (l’attuale regno di Giordania) , a quanti cercavano di convincerlo con gli stessi argomenti? «Gli Ebrei - dirà - hanno subito dei torti da parte dei Tedeschi? Ebbene, sono i Tedeschi che debbono pagare quei torti, attraverso la cessione di una parcella del loro territorio nazionale».


b. Il problema israeliano.


- Visto che quella soluzione era irrealizzabile, che bisognava fare del popolo ebreo?


- lo non parlerei affatto di popolo ... In che cosa, infatti, la particolarità di appartenere ad una religione - nel caso specifico al giudaesimo - darebbe ai suoi adepti il diritto di definirsi «popolo»? Ha mai sentito parlare di popolo cristiano, di popolo animista o buddista? Di popolo scintoista, zoroastriano, induista ecc.?


- Vorrebbe dire che il popolo ebreo non esiste?


- In ogni caso non nel senso che viene propagandato dai sionisti o dagli attuali responsabili dello Stato d’Israele. Quest’ultimi, infatti, hanno piuttosto la tendenza a fare una certa «confusione» tra la nozione di popolo, definita da Oppenheim (un popolo è un aggregato d’individui dei due sessi che abitano in comunità, indipendentemente dal fatto di appartenere a razze e credenze differenti, o avere un colore diverso), e quella di «razza», considerata come un «popolo eletto» ...


Per me, invece, gli Ebrei non sono altro che degli israeliti. Della gente, cioè, che crede o si riconosce, in generale, nella religione o nella cultura giudaica; quantunque non si possa affermare che ci sia una sola interpretazione di quella religione o una manifestazione monolitica di quella cultura tra coloro che tendono ad ostentare la loro ebraicità. Non dimentichi, inoltre, che si può essere israeliti - come nel caso di quanti che si dichiarano atei - anche senza doversi necessariamente riferire alle idee del giudaesimo religioso o alla cultura che ne deriva.



Lo stesso dicasi dei cittadini che appartengono allo Stato d’Israele. Anche in questo caso, sono convinto che si tratti di israeliti, israeliti che posseggono la particolarità di aver deciso di vivere insieme, in comunità. Questo è un loro diritto. Come è nel diritto di qualsiasi «setta» religiosa di riunirsi e vivere in comunità, per esempio, nell’ambito di un «hashram». Ma non vedo come, però, una qualunque comunità religiosa o culturale possa trasformarsi in «popolo-razza» o autodefinirsi «comunità di individui a parte», aventi, per giunta, «una storia e dei caratteri etnici, morfologici e linguistici comuni» ... come affermano i sionisti in generale; arrogandosi il diritto, poi, come nel caso degli Israeliani, di rivendicare una terra che sarebbe appartenuta, all’incirca duemila anni fa, a dei loro ipotetici antenati, gli Ebrei della storia.

È come se una comunità culturale spagnola o iugoslava che s’ispira alla civiltà etrusca, pretendesse rivendicare il possesso della Toscana o dell’Umbria, quando è incontestabile che queste due regioni sono integrate, da più di duemila anni, alla storia ed alle tradizioni politiche e culturali dell’Italia.


- Per quale motivo, allora, i sionisti e gli Israeliani parlerebberodi «popolo-razza»?


- È semplice: grazie all’assurdo comportamento avuto dagli Europei, nel corso dei secoli, nei confronti degli israeliti. Non dimentichiamoci, infatti, che è relegando i Giudei nei ghetti che si è dato spazio e credibilità alla nozione di «popolo ebreo»! Era logico, quindi, che i sionisti ne prendessero spunto, facendone «un’idea-forza» per la loro battaglia d’emancipazione.


Analizziamo, ora, il contesto nel quale la nozione di «popolo-razza» ha assunto la dimensione che oggi conosciamo.


Per giustificare ideologicamente il «ritorno» delle comunità israelite nella «terra degli avi», gli intellettuali dell’Organizzazione sionista mondiale, nel XIX secolo, pensarono bene di sfruttare l’ambiguità che esisteva in Europa tra «ebrei=adepti di una religione a parte» ed «ebrei=razza a parte», per inventare di sana pianta un legame «biologico» ed «antropologico» con gli Ebrei della storia o «Bené Israel» (i figli di Israele).


Secondo numerosi studiosi di questo campo, i discendenti di Abramo sono stati, volta a volta, storicamente identificati sia negli «Heriu-scià» (quelli che vivono sulle sabbie), sia negli «Amu» o «Iuntiu» (un popolo nomade conosciuto dagli antichi egizi), sia negli «Ivrin» (quelli che passano), sia negli

 




(Segue)