martedì 27 ottobre 2015

Letture: 3. Manlio DINUCCI, L’arte della guerra. Annali della strategia Usa/Nato (1990-2015), Zambon 2015.

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È un libro che ho comprato giusto ieri al “Convegno internazionale” per l’uscita dalla Nato. Vi erano esposti diversi libri, ma mi sono limitato (siamo in tempi di crisi economica) a comprarne solo uno, che si presta ad un programma di studi orientato a rivisitare e pensare gli eventi di storia contemporanea a ciclo ancora aperto. Mentre considero definitivamente trascorsa la seconda guerra mondiale, nel 1945, seguita dal consolidamento dell’occupazione e del dominio anglosassone sull’«Occidente», denominazione geopolitica dell’Impero americano, mi sembra che il ciclo storico attuale possa farsi iniziare dalla rivoluzione iraniana del 1979. Cercherò pertanto di ripercorrere il periodo storico corrente con l’aiuto di letture adeguate. Per il “libro” di Dinucci è intanto da dire che non è un “libro” vero e proprio, cioè concepito unitariamente in una fase continuativa di lavoro redazionale, ma è la raccolta – necessariamente frammentaria – degli articoli che l’Autore è andato via via scrivendo su “il Manifesto”. L’editore Zambon ha fiutato l’affare, raccogliendoli in un volume, che data la sua natura, noi leggeremo pure in modo frammentario, affiancandola ad altra lettura di un libro introvabile, di Alberto Mariantoni, giornalista di guerra negli stessi anni narrati da Dinucci. Seguirà altra scheda di lettura sugli “Occhi bendati sul Golfo”, e di seguito altre schede di lettura, o meglio rilettura di libri, resoconti giornalisti, di un altro grande giornalista: Robert Fisk. La nuova rubrica “Lettura” è intesa come diversa dalla precedente rubrica di “recensioni”, che ha pure un suo senso in quanto giudizio critico-valutativo sul libro stesso. Per le “Letture” non si intende dare alcun giudizio sul libro, ma solo trarre elementi di informazione e spunti di riflessione, anche polemica verso i dati o i giudizi contenuti nel libro. Per sua natura la scheda di lettura non sarà mai conclusa, ma avrà sempre un “segue” che potrà avere il suo seguito anche dopo parecchio tempo.

Evidenza: isole Bubiyan e Warba
La raccolta inizia con un utile articolo su quale fosse la situazione del Kuwait, fattore scatenante della prima guerra del Golfo, appunto contro l’Iraq, che per otto anni era stato spinto dagli USA a una rovinosa guerra contro l’Iran, divenuto nemico numero uno degli Usa, dopo il rovesciamento dello Scià nel 1979. Viste le cose da lontano, nello spazio e nel tempo, pare incredibile come uno Stato – i cui capi dovrebbero avere quello che si chiama “senso dello Stato” – si siano lasciati trascinare, manovrare in una guerra rovinosa per sé ed utile a chi, appena terminata la guerra con l’Iran, getta la maschera e passa all’attacco. Forse neppure Machiavelli avrebbe immaginato un simile cinismo, una simile mancanza di scrupoli. A noi, cosiddetta opinione pubblica, ci hanno servito la difesa dello stato di diritto, la reazione contro l’illegittima aggressione di uno Stato confinante, il Kuwait, in pratica una “pompa di benzina”, quando vediamo oggi tutti con quale e quanta mancanza di scrupoli, gli Usa aggrediscono come e quando vogliono chi vogliono. La questione della causa scatenante la guerra è un poco oziosa e macchinosa. Basta sapere che le pretese di Saddam verso il Kuwait non erano infondate e potevano essere una giusta “ricompensa” per aver servito gli interessi Usa per otto anni, conducendo una rovinosa e dispendiosa guerra contro l’Iran, che di certo non aveva mosso guerra all’Iraq. La strategia del caos faceva le sue prime vittime. Che i confini degli Stati del Medioriente siano stati disegnati dalle potenze coloniali con il massimo arbitrio è cosa nota, ma forse il caso più vistoso è proprio quello dell’Iraq cui non si volle dare adeguata e ragionevole sbocco sul mare.

Saddam Hussein
Entra in scena anche la Turchia, che taglia all’Iraq le risorse idriche dell’Eufrate. Saddam «accusava la Turchia, Paese della Nato e stretto alleato degli Stati Uniti, di voler bloccare lo sviluppo economico eracheno a vantaggio di Israele» (p. 25). Altri mutamenti di scenari geopolitici mostravano come Saddam avesse fatto la figura del fesso, dopo essere stato spolpato. Ma ciò che oggi suona più curioso, sa di beffa, è vedere come gli Emirati che oggi sono i principali finanziatori della guerra dell’Isis contro la Siria, ma anche contro tutti i loro nemici, ben si guardassero dal condonare i crediti concessi all’Iraq per la rovinosa guerra condotta contro l’Iran, con il quale lentamente andavano tutti riallacciando le loro relazioni diplomatiche, mentre l’Egitto - messo al bando per aver firmato gli accordi di Camp David e la pace con Israele - veniva fatto rientrare nella Lega Araba: Saddam Hussein era «uscito dalla guerra contro l’Iran con un grosso quanto costoso apparato militare e con un debito estero di oltre 70 miliardi di dollari, 40 dei quali dovuti a Kuwait, Arabia Saudita e altri Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo» (p. 25). Altro che leadership irachena nel Golfo. Era stato un fesso...

...o forse no. Senza assolutamente voler fare un “riassunto” del volume di Dinucci, mi limito ad osservazioni a margine della lettura sequenziale che avanza per sessioni distribuite anche in largo margine di tempo. Intanto, alcuni dati. Intanto lui fissa il “mondo arabo” con le dimensioni di quattordici milioni di mq e una popolazione di oltre 170 milioni di abitanti. Veramente, io avevo altri dati circa una possibile unità del mondo arabo: oltre 300 milioni di persone, una stessa lingua, una stessa religione, ossia grandi fattori unificanti dei quali l’Occidente ha sempre temuto, operando che a l’unità mai e poi mai potesse essere. Ma un altro dato che viene alla mia attenzione è l’anno 1979, ossia nello stesso anno in Iraq Saddam Hussein assume il potere, dopo che nel 1958 era già stato mandato all’aria il vecchio assetto istituzionale messo su dagli Inglesi, mentre in Iran trionfa la rivoluzione islamica con la cacciata dello Scià. In un certo senso sia l’ascesa al potere di Saddam sia la rivoluzione iraniana erano per il Medio Oriente un fatto “progressivo”, se così si può dire. Avrebbero avuto tutto l’interesse - mi sembra - a relazioni pacifiche e collaborative, di reciproco riconoscimento. Ed invece sono state subito messe in guerra l’uno contro l’altro, l’Iraq nella parte dell”aggressore e l’Iran costretto a difendersi per salvare la sua rivoluzione e la sua indipendenza. Se l’Occidente qui può vantare un ruolo non è certo quello del portare di pace e democrazia, ma quello di seminatore di discordie e un incitatore alla guerra fratricida. Quella unità collaborativa che mancò nel 1979 fra gli stati centrali del Medio Oriente (Iraq, Iran, Siria, Libano e forse Giordania), sembra che sia stia adesso configurando nella comune lotta al “terrorismo ISIS”, armato, sostenuto e finanziato da Usrael, Arabia Saudita e compari del Golfo, Turchia. I processi storico-geopolitici si svolgono in un arco di tempo più ampio della durata della vita fisica dei singoli individui e sfuggono alla loro attenzione e memoria. Bisogna per questo ricostruirli ogni volta, facendo tutti gli sforzi possibili di riflessione sui dati disponibili e sui fatti più o meno accertati.

Gheddafi, oppressore dei libici?
A fronte degli stati nazionalisti, rivoluzionari o dittatoriali, che dir si voglia, abbiamo stati “monarchici” che hanno però poco a che fare con la dignità dell’istituto monarchico di matrice europea, dove era pur sempre presente il seno dello Stato. La stortura di voler proporre al mondo intero il modello dello stato borghese di diritto, fondato su una tripartizioni di poteri dalla discutibile efficacia e natura democratico-popolare, è analoga alla improprietà linguistica con cui si parla di “monarchie” del Golfo. Si tratta, come nel caso del Kuwait, di “kapò” messi al potere dalle vecchie potenze coloniali. Sono gruppi di famiglie che si sono impadronite della ricchezza pubblica dei popoli, una ricchezza che è nascosta nell’acquisto di titoli del debito pubblico di stati esteri, immobili e quanto altro possa tesaurizzare i profitti delle risorse petrolifere. Non è una ricchezza che torna a benefici dei popoli... Geddafi aveva fatto dei libici il popolo più prospero dell’Africa. Adesso con l’importazione della “democrazia”, grazie ai nostri governi fantoccio, la Libia in pochi anni è precipitata ai livelli più bassi della sua storia.

Non sono un esperto di cose e tecniche militari e mai riuscirò ad esserlo. Dalla descrizione dettagliata che Dinucci fa dell’inizio della Prima Guerra del Golfo mi appare tuttavia una tale sproporzione delle forze in campo schierate contro il solo Iraq, già uscito stremato dalla guerra decennale contro l’Iran, da indurmi a credere che si trattasse di una esercitazione reale per l’uso di armi e schieramenti già disposti nel tempo. È come se si aspettasse da tempo l’occasione per sperimentare un dispositivo già predisposto. Siamo negli anni Novanta. Leggo ora appena adesso una qualificata intervista che conferma questa mia impressione tutta profana. Ne riporto integralmente il testo tratto dal sito di Claudio Messora Byoblu:
Le guerre USA? Pianificate. Tutte. 14 anni fa.

Pubblicato 5 novembre 2015 - 18.01 - Da Claudio Messora
Wesley Clark

“Iraq, Afghanistan, LIbia, Siria: tutto pianificato a tavolino 14 anni fa”.

Wesley Clark è un generale in pensione delle forze Usa, laureato ad Oxford in filosofia, politica ed economia. In 34 anni di carriera ha ricevuto medaglie alla libertà e all’onore, vari cavalierati e ha comandato l’operazione Allied Force della Nato in Kosovo, tra il 1997 e il 2000. Di certo non si può definire un complottista da strapazzo. Intervistato da Democracy Now, ha rilasciato la dichiarazione che potete ascoltare nel video.

Una decina di giorni dopo l’11 settembre sono andato al pentagono, dove ho incontrato il Ministro della Difesa Rumsfeld e il suo vice, Wolfowitz. Sono sceso a salutare alcune delle persone nei vertici delle forze armate che avevano lavorato per me, e uno dei generali mi ha chiamato e mi ha detto: “Signore, venga dentro che le vorrei parlare un secondo“.

Io gli ho detto: “Lei ha troppo da fare“. Ma lui insiste: “No, no, no… Abbiamo preso la decisione di andare in guerra contro l’Iraq“. Era circa il 20 settembre [ndr: 2001].

Allora io gli ho detto: “Andiamo in guerra contro l’Iraq? Perché?“. E lui dice: “Non lo so!“. E aggiunge: “Immagino che non sappiano cos’altro fare!“.

Così, io gli chiedo: “Hanno trovato informazioni che collegano Saddam con Al-Qaeda?“. E lui: “No, no, non c’è niente di nuovo su quel fronte. Semplicemente, hanno deciso di andare in guerra contro l’Iraq“. Poi dice: “Immagino che non sappiamo bene cosa fare con i terroristi, ma abbiamo un buon esercito e possiamo tirar giù governi“. E ancora: “Credo che se l’unico strumento che hai è un martello, allora ogni problema deve assomigliare a un chiodo“.

Sono tornato ad incontrarlo, qualche settimana dopo. A quel punto stavamo bombardando l’Afghanistan. Gli chiedo: “Stiamo sempre per andare in guerra contro l’Iraq?“. E lui risponde: “Ancora peggio di così!“. Prende un foglio dalla scrivania e dice: “Questo è appena arrivato da sopra, cioè dal Ministro della Difesa, oggi. Questo memorandum spiega come faremo fuori 7 nazioni in 5 anni. Prima l’Iraq, poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e infine l’Iran!“.

Ho chiesto: “E’ un documento classificato?“. Risposta: “Sì, signore“. Così dico: “Beh, allora non mostrarmelo“.

L’ho rivisto un anno fa e gli ho chiesto: “Ti ricordi quello che mi hai mostrato?“. E lui risponde: “Signore, non le ho mostrato quel memorandum. Non gliel’ho mai mostrato!“.

È una logica di conquista, volta al dominio del mondo, facendo uso di tutti gli strumenti possibili ed immaginabili, incluso e non ultimo l’inganno, la menzogna, il controllo dei media e della cosiddetta opinione pubblica. È utile leggere e ripercorrere il passato alla luce di questa intervista fatta venir fuori forse troppo a cuor leggero. Probabilmente, ciò vuol dire che ormai non si tratta di segreti di Stato da custodire gelosamente e pericolosamente, ma di cose che tutti sanno e si possono perciò dire.

Mentre proseguiamo la lettura sequenziale, nelle pagine che seguono e di cui non daremo il riassunto, è descritto in modo chiaro come dall’inizio degli anni Novanta gli Stati Uniti rivendicino in modo sempre più aperto e sfacciato la pretesa al dominio del pianeta. A ciò corrisponde una neolingua per cui i dominati, a ogni livello, vengono costretti a pensare come assolutamente legittima e normale una simile pretesa. Il fenomeno che subito dopo ne è seguito vien detto “globalizzazione” e alimenta fiumi di inchiostro per definirne la natura. A venticinque anni di distanza si può trarre un bilancio di quella strategia che è tuttora perseguita. Il mondo non è per nulla più sicuro e la dubbia Utopia di uno Stato Mondiale non significa la fine di ogni guerra, ma se mai un inasprimento inaudito del sistema dell’oppressione. Credere di poter ridurre ad una forzata unificazione sotto i “nostri valori” la pluralità delle culture e delle civiltà appare quanto mai folle, ma questa follia potremo descriverla adeguatamente solo in ulteriori cicli di letture, che ci facciano analiticamente comprendere i singoli tasselli di un puzzle. Fra questo ciclo di letture dovremo individuare singoli libri che ci facciano comprendere le ragioni profonde del crollo del sistema sovietico, ovvero del cosiddetto comunismo. Ma è anche necessario comprendere le cause del crollo dell’egemonia europea nel corso della prima metà del XX Secolo, fra prima e seconda guerra mondiale. Ahimé, è un’area proibita dove se vogliamo esprimerci pubblicamente, dovremo usare la massima cautela e circospezione, usando perfino un linguaggio iniziatico.
(Segue)

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