giovedì 29 dicembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Più Dike timidamente"

Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.

A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.

Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.

Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).

L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).

Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.

Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.

C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si  vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).

Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).

È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello  all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.

Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.

C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.

L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

 

giovedì 15 dicembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "L'eurotartufo"

 

Sospende la sorpresa per quanto accade all’Europarlamento, alcuni dei membri del quale sono accusati - e trovati dagli inquirenti letteralmente con le mani nel sacco – per aver caldeggiato, dietro compenso – il campionato di calcio nel Qatar. Sorprende non solo perché tanti dimenticano quanto scritto da Max Weber che, in genere i governanti non vivono solo per la politica, ma anche di politica (con quel che ne può conseguire sotto il profilo penale); ma anche perché a leggere Sallustio gli stessi mezzi erano adoperati da  Giugurta per influire sulla decisione del Senato e dei magistrati romani. Racconta Sallustio che più sulle capacità e potenza militare del pur valoroso re numida, i romani dovettero guardarsi dalla sua perizia di corruttore, attraverso la quale riusciva a conseguire ciò che voleva e a evitare le conseguenze delle proprie azioni, alterando i processi decisionali della repubblica egemone. Così un potentato medio-piccolo come quello di Giugurta resistette per oltre sei anni alla potenza di Roma. Per cui orientare le decisioni politiche della potenza superiore è, da almeno venti secoli, una risorsa da utilizzare proficuamente dai potentati minori.

Ma quel che maggiormente colpisce è che, nelle istituzioni europee usano i buoni propositi (diritti umani, migranti) per occultare le cattive azioni (le tangenti), come abitualmente e prevalentemente dalla sinistra italiana (e non solo).

Anche questo è un vecchio espediente. Ne diede una straordinaria rappresentazione Moliére nel Tartufo, quasi quattro secoli fa. Nella commedia c’è in primo luogo, ma poco notato, un aspetto politico evidenziato da Moliére stesso: il quale nella prefazione scrive “L’ipocrita, è per lo Stato, un pericolo più grave di tutti gli altri”: per lo Stato quindi, ancor più (o alla pari) che per la religione. Nel primo “placet” rivolto al Re perché revocasse la proibizione di rappresentare in pubblico la commedia, ribadiva che “l’ipocrisia è sicuramente uno dei vizi più diffusi, dei più scomodi e dei più pericolosi”. Onde è un servizio descrivere “gli ipocriti…che vogliono far cadere in trappola gli uomini con un falso zelo ed una sofisticata carità”. In effetti i connotati di Tartufo sono i più pericolosi per lo Stato. Gli ipocriti pubblici nascondono progetti ed intenzioni inutili al pubblico interesse, e talvolta delittuose, finalizzate ai propri interessi privati e personali, con il richiamo a opinioni ed interessi condivisi e generali. I diritti umani, la pace, l’assistenza ai migranti sono le buone intenzioni usate per nascondere interessi concreti.

Al riguardo nella commedia Dorine (cioè la cameriera) commenta i discorsi edificanti di Tartufo così: “come sa bene con modi traditori, farsi un bel mantello con tutto ciò che è venerato”.

Il bello è che Tartufo lo giustifica anche. Nel dialogo con Elmire, la moglie del di esso benefattore, che vuole sedurre ma la quale gli fa notare che quanto desidera è contrario alla legge divina, argomenta “Se non è che il cielo che viene opposto ai miei desideri…, con lui si possono trovare degli accomodamenti… col rettificare la malvagità dell’azione con la purezza della nostra intenzione”. Così l’intenzione buona “purifica” l’azione cattiva. È un’assoluzione preventiva.

La quale svuota la stessa azione politica, che è (soprattutto) una fase in virtù di risultati, e solo in seconda battuta un predicare del bene. Così il criterio principale per giudicare se un’azione è politicamente proficua o meno, non è verificare se corrisponde a buoni propositi, largamente condivisi, ma se ottiene risultati positivi.

D’altra parte è evidente che col richiamo continuo e prevalente alle buone intenzioni oltre che assolversi dalle cattive opere, i politici tendono ad assomigliare ai sacerdoti. Hobbes (tra i tanti) sosteneva che funzione dei quali è predicare il bene (la parola di Cristo, oggi, per lo più, quella più facilmente condivisa) e non di comandare (e costringere).

E fin qui nulla di male. Ma se il bene predicato si converte in cattive azioni, la santità che dovrebbe produrre si converte in una via comoda per l’arricchimento a spese di chi paga. Cioè dei contribuenti, i quali contribuiscono, a differenza di chi spontaneamente dona il proprio per le buone cause, per il comando di chi predica. Volontario nel primo caso, frutto di coazione nell’altro.


martedì 6 dicembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Colpa di Letta?"

 

È diventato un esercizio normale già da alcuni mesi prima delle elezioni politiche, prendersela con il segretario Letta, per il loro prevedibilissimo esito, disastroso per il PD, puntualmente verificatosi.

Intendiamoci: Letta ci ha messo del suo. Dalla proposta di aumento dell’imposta di successione per la “dote” ai giovani, al campo largo, che invece era, come prevedibile, stretto, ecc. ecc. Tuttavia farne carico al segretario appare viziato da un errore di valutazione sul quale è opportuno spendere qualche riga.

Partiamo da una considerazione: vi sono due modi estremi e opposti di valutare gli eventi storici: il primo è farne una conseguenza di fattori non individuali né dipendenti da scelte soggettive. Un esempio classico è la filosofia della Storia di Hegel per il quale questa è l’attuazione del piano della provvidenza. Lo spirito del mondo genera la storia; il ruolo dell’azione umana è così secondario, i protagonisti hanno successo in quanto attuano il piano della provvidenza. In questo senso il pensiero di Hegel è il tipo ideale della concezione “determinista”. L’altro è rapportare gli eventi a cause per lo più consistenti in attività (e passioni) umane. Così è stato interpretato come causa principale della caduta dell’Impero romano d’occidente il contrasto tra Ezio e Bonifacio e la conseguente perdita dell’Africa romana. In termini mediani, come nel pensiero di Machiavelli, si può pensare che se da una parte c’è l’influenza della fortuna, (quindi non riconducibile a una volontà di coloro che la subiscono) dall’altra c’è la virtù con la quale si limitano e s’indirizzano (almeno in parte) gli eventi causati dalla fortuna. E proprio quando la fortuna è avversa, occorre che i governanti siano più dotati di virtù.

A servirsi di tali strumenti interpretativi la tesi della scarsa fortuna del PD come dipendente dalla “colpa” di Letta non regge o regge come concausa limitata: un po’ perché tutti i suoi recenti predecessori quali Segretari hanno fatto altrettanti buchi nell’acqua; un po’ perché anche da questo, è confortata l’opinione opposta che sia la proposta politica del PD (ed i relativi mezzi) ad essere inadeguati e contrari alla “corrente” della storia contemporanea.

Come mi è capitato di scrivere più volte, con il crollo del comunismo è venuta meno la contrapposizione borghesia/proletariato con i relativi sentimenti politici.

La cui conseguenza è stata l’eclissarsi del senso politico (cioè dell’opposizione amico-nemico) e della funzione politica delle conseguenti istituzioni anche economiche e sociali. Come i partiti comunisti i quali o scompaiono e/o si mimetizzano o cambiano radicalmente (come quello cinese); od anche di istituzioni come la NATO e il Patto di Varsavia (logicamente sciolto) delle quali si capisce che ci stiano a fare: sicuramente a comunismo imploso non hanno la funzione di prima.

Tuttavia il sentimento politico cioè in primo luogo la percezione del nemico (anche come differenza etica) è elemento necessario non solo della guerra (Clausewitz) ma anche della politica (Schmitt). Senza di quello la politica (e il rapporto tra vertice e base) perde di tensione. Ed è progressivamente sostituito da un’altra contrapposizione amico-nemico: quella vecchia viene neutralizzata e ne diminuisce così la capacità di suscitare opposizioni decisive e primarie; tutt’al più conserva quella di suscitare conflitti relativi e secondari. E chi lo interpreta ne subisce la sorte: dal ruolo di protagonista decade a quello di comparsa.

La risposta del PD (e antecedenti) a questa cesura storica è stata quella di cambiare nome (anzi nomi): escamotage poco remunerativo perché da una parte i dirigenti erano gli stessi (quindi poco credibili) dall’altra elementi della vecchia opposizione erano conservati – soprattutto i più utili a tenersi il potere.

Dato però che un nemico era necessario e così delle idee da sventolare in sostituzione delle vecchie, o almeno di alcune (l’antifascismo ha resistito alla rottamazione) il nemico è diventato chi si oppone all’ideologia gender, alla famiglia nouvelle vague, chi è convinto delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, ecc. ecc. Rispetto al vecchio nemico, cioè l’imperialismo capitalistico, il minimo che si possa dire è che è un po’ poco: più che mettere paura, spesso fa ridere. Ovvero, come l’antifascismo – e l’anticomunismo – è depotenziato in se.

Tale situazione dipende dalla storia e gli uomini, in particolare i dirigenti italiani di sinistra, l’hanno subita e non causata. In relazione alla quale poco si può fare. Anche se il PD fosse stato guidato non da Fassino, Letta o Bersani ma da Cavour o da Bismarck (o come scriveva Hegel da Cesare o da Napoleone) l’esito difficilmente sarebbe stato diverso. Perché, come sostiene il filosofo, carattere distintivo degli individui cosmico-storici è di attuare lo spirito del mondo: è questo a renderli differenti dagli altri e capaci di padroneggiare i cambiamenti.


giovedì 24 novembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Interesse nazionale. Cos'è?"

1. Qualche tempo fa mi capitò di scrivere che le dichiarazioni della Meloni davano uno spazio – poco consueto in Italia – al perseguimento dell’interesse nazionale come bussola dell’azione politica e di governo.

Il che è un problema classico della teoria, segnatamente di quella moderna dello Stato, ove non ci si rifaccia a forme di legittimazione teocratiche, carismatiche o tradizionalistiche del potere pubblico: trovare un fondamento razionale ed immanente per l’associazione politica, le potestà di governo e la sovranità. Tale ricerca è conseguenza diretta della laicizzazione del pensiero politico; un attento osservatore come de Bonald, l’attribuiva a una concezione atea del mondo e della società, perché privato questo e quella di una presenza o di una istituzione divina, non rimane che fondarne l’assetto sugli interessi umani.

2. Il pensiero della dottrina moderna dello Stato è così chiaramente orientato fin dall’inizio e almeno nei suoi esponenti più seguiti a dare (e darsi) una dimostrazione della necessità del dominio politico in base a presupposti realistici. In tale contesto emergono le spiegazioni in termini utilitaristici dell’assetto dei poteri pubblici e della modellazione degli stessi in vista del raggiungimento dei fini della comunità politica, denominati di volta in volta “bene comune” “pubblico bene”, “interesse generale”, “interesse pubblico”, al fine di sottolinearne, talvolta polemicamente, la strumentalità rispetto  alle utilità degli associati; e di pari passo, della considerazione correlativa degli interessi (particolari) degli esercenti (e non) le potestà pubbliche, di cui si mostra la conflittualità, effettiva o potenziale, col primo.

Spinoza distingueva, con una intuizione destinata a notevole fortuna (e comune ad altri pensatori), la (classica) differenza dei tre tipi di potere a seconda dell’interesse tutelato. Il padre ha un potere sui figli per fare il loro interesse; il padrone perché i servi procurino l’utilità propria; l’autorità pubblica per provvedere l’interesse dei sudditi, non uti singoli ma uti cives..

J. Locke teorizzava lo Stato limitato dall’intangibilità di alcuni diritti fondamentali; è stato considerato con minore attenzione che il filosofo inglese, funzionalizzando l’esercizio delle potestà pubbliche all’interesse generale, individuava un limite interno, anche nell’area delle stesse prerogative sovrane, che è base non secondaria della strutturazione dello Stato costituzionale moderno; e con pari chiarezza Locke avvertiva la situazione di potenziale ed effettivo contrasto tra pubblico bene e fini privati dei governanti.

Scriveva Rousseau che la volonté générale è corretta solo quando si applica su oggetti d’interesse comune; laddove vengono in considerazione oggetti ed interessi particolari, di cui spesso sono portatrici le fazioni, la volontà generale viene meno, e il parere predominante, anche se di una fazione maggioritaria, è tuttavia opinione e volontà particolare.

Anche gli autori di “The Federalist” si pongono lo stesso problema. Nel saggio n.10 Madison si interrogava su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse generale su quelli particolari.

Alla fine del XVIII secolo si consolida l’idea di ridurre al diritto (e col diritto) l’obbligazione politica. Le potestà pubbliche, anche quelle ritenute peculiari del sovrano, sono concepite come non solo limitate dal diritto, ma anche organizzate per mezzo di norme giuridiche di guisa da assicurare il conseguimento degli scopi della società (politica e) civile.

Così nel “costituzionalizzare” il perseguimento dell’interesse generale: nella dichiarazione dei diritti dell’89 si afferma che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” ed all’art. 12 “la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino rende necessaria  una forza pubblica; questa è dunque istituita per il vantaggio di tutti, e non per l’utilità di coloro ai quali è affidata”. Con ciò era anche evidenziato e vietato l’uso ai fini d’interessi privati della funzione pubblica.

Assai scettico sull’attitudine di governanti e funzionari a perseguire l’interesse generale era anche Romagnosi il quale sosteneva che «di costituzione c’è bisogno laddove non si pensi che gli amministratori siano “naturalmente illuminati” e fedeli all’ordine”. E, dato che è principio di ragione che “l’interesse dell’amministrato deve essere assolutamente procurato dall’amministratore”, ma “egli è pure principio di fatto, che l’amministratore libero da ogni freno si presume prevalersi sempre del suo potere per far servire la cosa dei suoi amministrati all’interesse proprio”, lo scopo della garanzia costituzionale è “impedire che la volontà dell’uomo corrompa la volontà del monarca”»[1]. Anche negli elitisti italiani il problema del conflitto tra interessi privati dei governanti è oggetto di analisi basate sulla considerazione dell’antinomia degli interessi delle èlite politiche rispetto a quelli del corpo sociale[2].

La convinzione, maturata particolarmente  nel XVIII secolo, che ogni potere di governo dovesse essere esercitato allo scopo di attingere il bene comune ne comportava la generale funzionalizzazione. Ove invece si fosse concepito, secondo il modello tradizionale e pre-borghese, i poteri pubblici (prevalentemente) come diritti attribuiti in forza di investitura divina, consuetudine od atto insindacabile a determinate persone, ceti o comunità territoriali e tramandati secondo il principio ereditario od acquisiti per appartenenza a ceti e comunità (e talvolta negoziabili), in misura inferiore si sarebbe potuta sviluppare l’idea delle potestà “nazionalizzate”[3].

Carl Schmitt ritiene principi fondamentali dello Stato di diritto quello di divisione (cioè la tutela, anche del potere pubblico, dei diritti fondamentali ) e quello di distinzione dei poteri (concetto diversamente connotato, e denominato). Ma c’è almeno un terzo principio essenziale: quello, sopra cennato, della funzionalizzazione dei poteri “nazionalizzati” all’interesse “pubblico”. Di per sé è tipico di una forma di potere razionale-legale, in cui si pretende (tra l’altro) la giustificazione dell’esercizio della potestà nella sua conformità ad una norma, e (quindi) ad un valore ovvero ad uno scopo (ovviamente la descrizione weberiana del tipo legale-razionale di potere è enormemente più complessa, e vi rinviamo completamente); e, onde acquisire evidenza utilitaristica e, sotto un certo profilo, legittimità, deve corrispondere agli interessi di tutti i consociati. All’importanza di tale principio si potrebbe replicare che anche ad altre forme di organizzazione politica non manca l’elemento teleologico di funzionalizzazione dei poteri pubblici all’interesse di tutti. Invero in altri ordinamenti politici mancano o sono incompleti o episodici, norme ed istituti presupponenti una tensione dialettica tra interessi generali e non, tra classe di governo e governati, che sono tipici dell’attuazione completa del medesimo, com’è (o come dovrebbe essere) nello Stato borghese. Concludendo tale sintetico excursus di dottrine politica e giuridica, il dovere di perseguire l’interesse generale è carattere di ogni istituzione politica; ma nello Stato borghese si connota per una estesa e articolata realizzazione in istituti, organi e norme.

3. L’immanenza di tale principio ad ogni forma d’istituzione politica è stata sempre espressa in termini indefiniti. La stessa formula romana che salus rei publicae suprema lex sicuramente ci dice che la salvezza dello Stato prevale sull’osservanza del diritto, ma non indica in nessun modo cosa debba fare chi governa: tutt’al più nelle applicazioni, ossia nei testi costituzionali, designa chi possa deciderlo. Santi Romano, nel solco di una tradizione plurisecolare riteneva la necessità fonte di diritto superiore alla legge: che è un altro modo di esprimere lo stesso concetto in termini moderni e più “tecnici”.

Tale genericità ha contribuito a far sì che qualunque politico (e altro) vesta gli interessi privati propri e del di esso seguito dei solenni panni dell’interesse generale. Così qualche settimana fa un settimanale di centrosinistra ha ritenuto d’interesse nazionale, gradatamente: a) l’emancipazione delle donne; b) l’allargamento dei diritti; c) l’equità (espressione che senza l’ausilio della dottrina giuridica, è non meno vaga di quella d’interesse nazionale): d) una nuova giustizia sociale ed economica (v. equità); e) un’idea ecosostenibile d’innovazione; f) il rispetto dei trattati internazionali finalizzati alla tutela dei diritti umani. Inoltre l’interesse nazionale (alias generale) deve tener conto di quello del pianeta. A margine si legge che la famiglia tradizionale, difesa dalla Meloni è “cominciata con la discriminazione della maggior parte (??) delle “famiglie” fatte da diverse forme di unione”. A parte vaghezza ed affermazioni apodittiche è difficile da credere (e a prescindere dal dettato costituzionale) che la maggior parte delle famiglie non sia costituito dalle unioni tra uomo e donna, ma da quelle tra uomo e uomo, donna e donna (e altro).

Ciò malgrado è interessante approfondire comunque se il concetto suddetto, così importante, e richiamato in diversi termini da più norme della nostra Costituzione, possa essere – almeno in una certa misura – determinato di guisa da escludere che almeno certi obiettivi possano essere d’interesse generale, e di converso, che altri sicuramente lo sono.

4. In primo luogo nazionale o generale che sia, l’interesse deve riguardare aspirazioni, situazioni, oggetti che siano comuni agli appartenenti alle comunità; se riguardano piccoli gruppi o minoranze non lo sono.

Possono diventarlo però se tutelare determinati interessi delle minoranze serva a mantenere l’unità politica e la concordia sociale. Cioè sono d’interesse nazionale indiretto. Altri lo sono in modo diretto: così quello (disciplinato dalla Costituzione vigente) di conservazione della sintesi politica, e di conseguenza del dovere di difesa della patria (art. 52).

In secondo luogo l’interesse generale appare delimitato dalla qualità di cives dei soggetti del medesimo. Generale così indica i cittadini, per il bene dei quali devono essere esercitate le potestà pubbliche e che sono (ma non solo loro) soggetti alle leggi: ha carattere essenzialmente politico, ed è difficilmente pensabile disgiunto dal concetto moderno di democrazia. É da collegare all’interesse della comunità, prima che a quelli singoli individui; la norma appena citata, del dovere di difendere (e morire) per la patria ne è la conferma.

In terzo luogo – ma in effetti è il primo – occorre ricordare all’uopo la regola di Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”. E in altri passi il filoso lo specifica “Quando si parla di senso politico, si pensa subito al senso della convenienza, dell’opportunità, della realtà, di ciò che è adatto allo scopo, e simili[4]; perché “L’azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi”.

A confortare quanto scritto da molti, tra cui ho citato solo Croce, è il dato storico e giuridico che l’istituzione di protezione della comunità, cioè lo Stato, perdura malgrado cambi la “tavola dei valori” (come scrivono per lo più i giuristi contemporanei); lo Stato nazionale italiano ne ha cambiate almeno tre, tuttavia esso e la comunità nazionale hanno continuato in suo esse perseverari. Confondere e ancor più far prevalere il normativo – di qualunque genere – sull’esistente è un errore, che, a seguire la logica di Croce, può portare a cessare di esistere; e se non si esiste, come comunità, non ci sono valori da perseguire.

In quarto luogo, la dottrina delle ragion di Stato, come scrive Meinecke (in ossequio alla salvaguardia dell’esistenza) si sviluppa anche come dottrina degli interessi degli Stati, intendendo con ciò quegli interessi costanti che sono di ogni comunità politica concreta. Così per la Francia evitare con ogni mezzo che alla destra del Reno vi sia uno Stato più forte – o forte quanto la Francia. Almeno da Richelieu e Mazzarino fino (sostengono in tanti) a Mitterand, tutti i governanti francesi l’hanno perseguito. O la tendenza della Russia (e prima della Moscovia) a espandersi verso i mari caldi (in particolare il mar Nero), che spiega – almeno in parte – il comportamento odierno di Putin.

Il quale non ha fatto altro che continuare quanto fatto da Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Caterina la Grande e tanti altri governanti russi.

5. Ma non è dato comprendere quanto contribuisca all’esistenza politica, al vivere e al buon vivere della comunità, e così all’interesse nazionale o generale, il trattamento uguale delle famiglie normali e no, dell’equità (quale?) e così via. Con ciò si difende non l’esistenza politica, né la potenza – in senso weberiano - dell’istituzione, cioè la possibilità di far valere con successo la propria volontà, ma una determinata visione del vivere sociale ed economico. Ovviamente subordinata all’esistenza perché solo chi esiste ha la capacità di realizzare una propria visione della convivenza sociale. Perciò è legittimo cercare di far valere la propria visione, ma è fuori dalla realtà ritenerla necessaria all’esistenza comunitaria quale interesse nazionale.



[1] Nel saggio “On Liberty” anche John Stuart Mill faceva derivare proprio dalla distinzione d’interessi tra governanti e governati e dalla volontà di superarla, le richieste di democrazia politica e di governo rappresentativo e responsabile di fronte agli elettori. Stuart Mill giudicava che questa era, a giudizio di chi la sosteneva, una risorsa contro i Governi i cui interessi ritenevansi di consueto opposti a quelli del popolo.

[2] Mosca scrive della “naturale tendenza che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri” e ne ravvede i temperamenti in forme d’autorità non fondate sul carisma e la religione, e nella divisione dei poteri. Ma la propensione di Mosca, come anche di Pareto, a considerare gli aspetti sociologici e politico-logici più di quelli giuridici, ne rendono meno pertinenti ai nostri fini le pur interessanti analisi e prospettazioni

[3] V. M. Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 174 ss.

[4] E prosegue “E si considerano forniti di senso politico coloro che a quel modo operano o a quel modo giudicano l’altrui operare, e, per contrario, privi di senso politico quegli altri, che diversamente si comportano, ancorché abbondino di morali intenzioni e si accendano a nobilissimi ideali”.

 

giovedì 20 ottobre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Legislatura e dualismo costituzionale"

Qualche mese fa (21/12/2021) osservavo in un articolo che Costantino Mortati aveva elaborato il concetto (nella modernità dovuto principalmente a Lassalle) e coniato il termine di “costituzione materiale”. Il termine, secondo il giurista calabrese indicava «una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura… e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della divisione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto–ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare “costituzione materiale” per distinguerla da quella cui si dà nome di “formale”».

Nella repubblica i partiti del CLN che avevano elaborato il testo della Costituzione alle successive prime elezioni politiche del 18 aprile ’48 conseguivano oltre il 90% dei voti, espressi da circa il 90% degli elettori: ne conseguiva che almeno l’80% dei cittadini italiani aveva votato i partiti del CLN. Fino agli anni ’80 la situazione variava di poco: i partiti ciellenisti conseguivano all’incirca l’80%-85% dei voti espressi.

Con l’ascesa della Lega e il crollo del comunismo tale consenso plebiscitario si riduceva. Già nel 1994 i partiti non ciellenisti (e non rivendicanti l’eredità di quelli) riportavano tra un terzo e la metà dei voti espressi.

Nel decennio trascorso il divario è cresciuto: il successo dei partiti anti-establishment dal 2018 (al più tardi) ha la maggioranza dei suffragi. Oltretutto anche tra gli altri l’affectio alla costituzione formale appare ridimensionato – almeno in alcuni.

La novità (prevista) – a questo riguardo – è che FdI, cioè il partito dei volutamente esclusi dall’arco costituzionale ha conseguito alle politiche il 26% dei suffragi, mentre il PD, cioè il partito della “costituzione più bella del mondo” ha il 18%. Inoltre la maggioranza anti-establishment è stata confermata. Dalla propaganda elettorale (e successiva) del PD basata in larga parte sull’antifascismo e sulla provenienza post-fascista della Meloni, a giorni probabilmente incaricata di formare il governo, si ricava che la Repubblica “nata dalla resistenza” e dotata della Costituzione “più bella del mondo” avrà un Presidente del Consiglio “post-fascista”. A parte la foga della propaganda, questo è un bel caso di “paradosso delle conseguenze”, scriverebbe Freund. Infatti se a una costituzione formale corrisponde una costituzione materiale diversa – e questo è il caso - la conseguenza non è che il popolo (e le forze politiche che ne hanno il consenso) deve adeguarsi alla Costituzione formale, ma che quella formale dev’essere adeguata a quella materiale, almeno in una democrazia.

Anche se sono convinto che nella situazione in cui è ridotta l’Italia, con oltre 5 milioni di poveri assoluti, vincoli esterni spesso matrigni, debito pubblico alle stelle, saccheggio fiscale e così via, quello di cambiare la Costituzione formale non è il problema più urgente, non bisogna trascurarlo né rinviarlo alle calende greche.

Soprattutto perché è la Costituzione ma soprattutto la forma di governo parlamentare ad essere una delle ragioni della decadenza della Repubblica. Questo già quando le forze riconducibili alla costituzione materiale avevano un consenso largo: ora che ci troviamo in una situazione di non corrispondenza tra formale e materiale, l’urgenza appare superiore. Il sintomo più evidente dell’allargamento del divario dopo, s’intende, il deperire dei partiti ciellenisti, è il crescere dell’astensionismo: governante la “seconda repubblica” l’astensionismo è aumentato di oltre 20 punti percentuali (alle elezioni politiche).

Secondo un modo di pensare diffuso, volto a considerare l’osservanza della legalità come criterio “moderno” della legittimità, è sufficiente osservare le procedure legali, in ispecie quella di successione al potere, perché il potere sia legittimo. Tuttavia senza disprezzare del tutto tale tesi, questa va ridimensionata. Ciò che fa delle leggi fondamentali un costituente/legittimante e un principio costituzionale è che siano scritte non sulla carta, ma nel “cuore” dei governati. Due pensatori agli antipodi come Rousseau[1] e de Maistre[2] lo sostenevano. E tanti altri hanno condiviso tale concezione: da Hauriou a Lasalle. Quest’ultimo riteneva la Costituzione formale “un pezzo di carta”, sul quale erano “buttati giù” i rapporti di forza effettivi. Se però questa operazione non era ne è realizzata, ne consegue un dualismo costituzionale, in cui a differenza (parziale) del dualismo di potere, chi ha la maggioranza non governa effettivamente, e chi governa effettivamente non ha la maggioranza.

Situazione squilibrata, che presuppone di essere (rapidamente) risolta.



[1] “Non vi sarà Costituzione buona e solida se non quella in cui la legge regnerà sui cuori dei cittadini” Considerazioni sul governo di Polonia”, Bari 1971, n. 179.

[2] “in che libro era scritta la legge salica… essa era iscritta nel cuore dei francesi” Des Constitutions politiques et des autres institution humaines, II,S. Pietroburgo, 1814.

 

martedì 11 ottobre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Qualche nota sulle elezioni"

Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.

La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.

Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.

Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.

Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente  rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).

Il nuovo blocco, imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti. Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il tutto tra gli osanna dei media mainstream.

Dopo un insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto tra loro era – ed è – secondario.

E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione) politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v. Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti anti-establishment quello che appare come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel 2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è poco scalfibile. Almeno a livello di base.

Per cui anche la piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza – contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il 2022. A conferma della forza attrattiva della collocazione anti-establishment (o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze, trasformismi (e diffidenze).

Resta da vedere in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?

La seconda, peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la di esso interpretazione più probabile.

Aspettiamoci anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che, avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.

Ma non è questo il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette, soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in Italia.

Nel caso dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato, per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo. Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio dell’astensione elettorale, ma una buona parte.

C’è da chiedersi peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del genere è pericoloso per sé e per gli altri.

In terzo luogo uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla comunità.

Clausewitz riteneva il sentimento politico uno dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom, disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva; ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile del blocco maggioritario.

La coesione del gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.

Da ciò deriva che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi. Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda alla disgregazione (tra vertice e base).

Compito difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai rara negli ultimi trent’anni.

 

lunedì 3 ottobre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Il terzo"

Julien Freund sosteneva che il conflitto è una relazione sociale bipolare, la quale comporta l’assenza (la dissoluzione, l’estraneità) del terzo dal rapporto. Utilizzando l’espressione del noto principio di logica, è caratterizzato dal terzo escluso.

Il terzo, scriveva il pensatore alsaziano riguardo alla polarità, la elimina in partenza, e poi la ritrova alla conclusione, senza contare che può infrangere la dualità conflittuale. Il terzo si manifesta così come la nozione correlativa, per contrasto, al conflitto.

Il terzo, scriveva Freund, aderendo alla tesi di Simmel, è di tre tipi. Il primo è il terzo imparziale, che non ha interessi nel conflitto, onde è il decisore/intermediario ideale per conciliare i contendenti a far cessare il conflitto. Deve avere autorità e in genere un certo potere per orientare la decisione delle parti in conflitto.

Il secondo tipo è “il terzo ladrone” (larron). Non è implicato nella guerra, ma ne trae benefici per se stesso. Tra i tanti sotto-tipi in cui può suddividersi tale tipo-genere, i più frequenti sono: poter perseguire il proprio tornaconto, contando sulla distrazione dei contendenti o, in altri casi, fare affari con i contendenti (o con uno di essi).

Il terzo tipo è quello del terzo che divide et impera. In questa sotto-classe il terzo non è né il decisore né il profittatore del conflitto: ne è talvolta colui che lo suscita, ma per lo più chi lo mantiene ed alimenta. Del quale tipo è ricolma la storia. Tanto per fare un esempio la politica di Richelieu nella guerra dei trent’anni, prima dell’intervento francese, in soccorso dei protestanti. O, per la politica interna, quella degli Asburgo verso i popoli nell’impero austro-ungherese.

Nella guerra russo-ucraina chi – e di che tipo – può essere il terzo? Il decisore, il profittatore, il suscitatore?

Quanto al profittatore, ce n’è tanti e, per lo più privati, che è superfluo parlarne.

Anche perché la posizione del terzo larron, è conseguenza – prevalentemente – di decisioni altrui e non proprie. Pertanto ha poche possibilità sia di suscitare che di far cessare la lotta.

Neppure si vede un terzo che abbia i connotati del primo tipo: non c’è nessuno che sommi in se neutralità (nel senso prima specificato), autorità e potere. Gli USA sono i protettori dell’Ucraina, come Richelieu lo era dei principi protestanti, e hanno ampiamente aiutato una delle parti e preso misure contro l’altra; l’U.E. non ha l’autorità, né il potere, e neppure è neutrale, anche se ha tutto l’interesse a far cessare il conflitto.

La Cina ha tenuto un comportamento relativamente equidistante tra i contendenti ed  è sotto questo aspetto, idonea; ma è dubbio se abbia il potere e ancor più il tasso minimo di autorità presso i contendenti. Il Vaticano si è saggiamente mantenuto in equilibrio tra le parti; ma anche se – credo – ha una certa autorità, ha pochissimo – o nessun – potere. Intendendo qui come “potere” l’impiego di incentivi alla pace o disincentivi alla guerra.

Di converso appare più chiaramente percepibile la presenza di terzi “suscitatori”. Forniture di armi e sanzioni possono disincentivare l’aggressore, ma sicuramente prolungano la guerra e probabilmente la intensificano.
Sempre tornando a Richelieu, la guerra dei trent’anni ebbe tale durata proprio grazie al denaro che il cardinale dava in abbondanza alla parte più debole, ossia ai protestanti. Per farla cessare fu necessario, tuttavia, l’intervento militare della Francia, con relativo abbandono del ruolo di terzo.

Nel conflitto russo-ucraino i “terzi” abbondano, ma dei tipi “polemogeni”; mancano, allo stato, quelli del primo tipo.

A meno che uno dei belligeranti non si riconosca sconfitto o ambedue trovino un’intesa pacifica (ipotesi che appare ancor più difficile), la durata appare rimessa alla volontà delle stesse. E la durata anche.

 

martedì 27 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Guerra ed ascesa agli estremi"

Non è confortante la decisione di Putin di mobilitare una parte dei riservisti russi.

Contrariamente alla previsione dei media mainstream che le sanzioni avrebbero piegato l’aggressore, il quale era anche una “tigre di carta”, la tigre ha deciso di usare ambedue le zampe per combattere. Spinto a ciò dalla resistenza ucraina, superiore (e più determinata) del previsto, al punto di sviluppare delle controffensive locali che hanno avuto – negli ultimi tempi - successo. Data la limitatezza delle forze russe già messe in campo, la decisione – tenuto conto della perdurante volontà russa di perseguire l’obiettivo politico - è stata quella logica: aumentarle. Anche perché se le sanzioni riuscissero a piegare la Russia come asserito dai giornaloni, nessuno si azzarda ad aggiungere quando. E se si procrastina a qualche anno l’effetto delle stesse, Putin avrà tutto il tempo per occupare l’Ucraina (ma sembra non volerlo - e giustamente); dopo di che le sanzioni farebbero probabilmente la stessa fine di quelle degli anni ’30 all’Italia: essere revocate.

Quel che più interessa (e preoccupa) di tali previsioni à la carte è d’esser contrarie alla logica della guerra, per cui era prevedibile che il prosieguo delle ostilità  (anche) con la comminatoria delle sanzioni, avrebbero attizzato e non spento il conflitto.

L’aveva previsto due secoli fa Clausewitz, formulando quale “legge” della guerra l’ascesa agli estremi, ossia la tendenza del conflitto ad aumentare d’intensità. La guerra, scriveva il generale, è un atto di violenza e non c’è limite alla manifestazione di tale violenza. Ciascuno dei contendenti detta legge all’altro, da cui risulta un’azione reciproca che, nel concetto, deve logicamente arrivare agli estremi. Ossia una guerra logicamente tende a divenire assoluta, cioè senza limiti né di spazio né soprattutto di condotta. L’osservanza delle regole è subordinata al conseguimento della vittoria. Le restrizioni, come il diritto internazionale “non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l’energia”.

Questo della guerra assoluta tuttavia è, secondo la terminologia weberiana un “tipo ideale”. Nelle guerre concrete “le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all’estremo” per cui la condotta della guerra si sottrae (in parte) alla legge dell’ “ascensione agli estremi”.

Questo effetto moderatore della realtà, di cui scriveva Clausewitz, funziona; tuttavia può essere controbilanciato dal caricare di significati ideologici, religiosi, e quanto altro il conflitto, ed in particolare il nemico dipinto come criminale, pazzo, avido; onde la guerra diventa un atto di giustizia, volta a castigare un delinquente.

Mentre il fine della guerra “razionale”, come già scriveva S. Agostino, è la pace “la pace è il fine della guerra, poiché tutti gli uomini, anche combattendo cercano la pace… Perfino coloro che vogliono turbare la pace in cui si trovano… Non vogliono dunque che non vi sia la pace, ma vogliono la pace che vogliono loro”; presupposto della pace è trattare con il nemico, e quindi il di esso riconoscimento come justus hostis. La guerra dei giornaloni (e di parecchi politici) realizza proprio l’effetto contrario all’avvio di negoziati di pace.

A quanto sopra si può opporre che le misure prese dalle potenze occidentali, sia le sanzioni che le forniture militari a sostegno dell’Ucraina possono favorire nel segno della “guerra reale” lo squilibrio di forze tra i belligeranti e così favorire i negoziati.

Questi costituiscono (gran parte) degli strumenti di cui la politica può servirsi per smorzare le guerre. E il “fattore” di ri-equilibrio è sicuramente da valutare come mezzo per favorire i negoziati. Ma hanno altresì il difetto di procrastinare (al limite evitare) la conclusione della guerra per debellatio della parte più debole.

Questo se non ci sia da una parte e dall’altra  la volontà di voler porre termine alla stessa.

Perché come scriveva il generale prussiano (e non solo) fare la guerra si fonda sulla volontà dei contendenti, quella dell’aggressore di realizzare una pace diversa, e quella dell’aggredito nel conservare l’ordine preesistente.

Lo squilibrio dei mezzi, la stessa occupazione totale del territorio dell’aggredito spesso non ne comportano la cessazione, come provano le guerre partigiane.

E accanto, occorrerebbe un terzo che favorisse la pace, essendo credibile, autorevole ed equidistante; il quale nella specie, manca. Ma questa è un’altra storia.

 

mercoledì 21 settembre 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Democrazie liberali, "illiberali" e in via di implosione"

È un classico del pensiero politico liberale il discorso di Benjamin Constant su “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” dove il pensatore svizzero distingueva i due generi di libertà “le cui differenze sono passate sino ad ora inosservate, o per lo meno non sono state rimarcate a sufficienza. La prima libertà è quella il cui esercizio era così sentito presso i popoli antichi; l’altra è quella il cui godimento viene considerato particolarmente prezioso all’interno delle nazioni moderne”. La prima “libertà” “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace” ed aveva il grave difetto che gli antichi “ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme” di guisa che “In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Mentre “Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza” e nel mondo moderno “la libertà è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui”, di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione, disporre dei propri beni, di andare dove si vuole, di culto religioso (e così via). Ed è anche il diritto “di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte certi funzionari, sia attraverso rappresentanze, petizioni, domande”.

Tale distinzione ha influito sul pensiero politico e giuridico moderno, tra gli altri su quello di I. Berlin e Carl Schmitt.

È interessante riprendere tale concezione in ispecie quando si riaccende il dibattito sullo “Stato di diritto” made UE e la concezione di Orban sulla “democrazia illiberale”; che tanto scandalizza la stampa mainstream. È vero che senza un certo rispetto di principi di libertà, lo stesso formarsi della volontà pubblica negli organi di governo viene ad essere falsata, se non in tutto, almeno in parte. Ma è anche vero che se poi questa una volta espressa ha un chiaro senso, ma viene corretta in senso contrario, come capitato in Italia nell’ultimo decennio (se non prima), è la democrazia ad essere mistificata. Prendersela con Orban perché controllerebbe buona parte della stampa e della televisione ungherese, avrebbe la mano pesante con gli immigrati e così via, può avere qualche ragione; resta il fatto che, con le elezioni della passata primavera, Orban ha ottenuto per la quarta volta la maggioranza. In quest’ultima, assoluta.

Scrivo questo perché Constant, pur avendo evidenziato la distinzione tra le due “libertà” e come potessero, in certi casi, contrapporsi (in particolare durante la Rivoluzione e la dittatura giacobina) non ebbe un concetto negativo della Rivoluzione, definendola provvida “malgrado i suoi eccessi perché guardo ai risultati”, ancor più trovava il punto di mediazione tra le due libertà nel governo rappresentativo.

Proprio per permettere ai cittadini di dedicarsi alle attività private, occorreva che avessero il diritto di delegare quelle pubbliche. Cioè il sistema rappresentativo. Il quale “altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da se”. Ma il pericolo che incombe, secondo Constant “è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Per cui occorreva che fosse garantito dalle istituzioni il diritto dei “cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni”.

Qual è la conclusione che si può ricavare da queste considerazioni del pensatore svizzero nell’attuale situazione italiana? Se è vero quanto dicono i sondaggi che, malgrado la crisi degli ultimi due anni, gli astensionisti domenica prossima saranno circa il 40% degli elettori, significa che la democrazia italiana non è né liberale né illiberale: semplicemente è in via di estinzione. Votare sarà pure un diritto, ma inutile: tanto poi le decisioni vengono prese altrove. È questo a costituire la maggiore preoccupazione per la tenuta del “sistema rappresentativo” (come, mutatis mutandis di ogni regime politico) assai più del “tasso di Stato di diritto”. Perché anche gli Stati di diritto possono finire per inedia, come il comunismo è cessato per implosione.