Sull’esito
elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica
italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole
tra le meno frequentate dai giornali di regime.
La prima è che,
come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata
verso partiti anti-establishment.
Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse
precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini
popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.
Da ultimo
abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad
Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è,
decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che
alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment
che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza
frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.
Sicuramente in
tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato,
lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle
politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi
totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022
dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente
distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti
(filo establishment/anti-establishment).
Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai
risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’
“interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è
quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.
Qualche anno fa
mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del
“blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza
(rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI
secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari
(M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda
Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da
cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il
momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in
circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa,
di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni –
precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).
Il nuovo blocco,
imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in
molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti.
Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune
misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge
Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i
sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il
tutto tra gli osanna dei media mainstream.
Dopo un
insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che
l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace
ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto
tra loro era – ed è – secondario.
E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da
millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione)
politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v.
Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del
soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro
cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo
anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle
coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di
Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti
anti-establishment quello che appare
come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre
all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel
2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e
filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello
schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è
poco scalfibile. Almeno a livello di base.
Per cui anche la
piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il
ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E
soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta
del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza –
contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il
quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il
2022. A conferma della forza attrattiva
della collocazione anti-establishment
(o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze,
trasformismi (e diffidenze).
Resta da vedere
in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle
percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando
il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente
candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?
La seconda,
peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza
alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la
di esso interpretazione più probabile.
Aspettiamoci
anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che,
avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia
rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere
che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di
natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.
Ma non è questo
il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni
fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette,
soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli
aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di
civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in
Italia.
Nel caso
dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione
al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è
aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni
conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico
di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio
scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un
partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno
aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per
cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma
è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e
sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato,
per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla
rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se
che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma
in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo.
Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio
dell’astensione elettorale, ma una buona parte.
C’è da chiedersi
peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in
cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che
siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione
della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del
genere è pericoloso per sé e per gli altri.
In terzo luogo
uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della
contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla
comunità.
Clausewitz
riteneva il sentimento politico uno
dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si
accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche
le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom,
disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli
ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva;
ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento
politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile
del blocco maggioritario.
La coesione del
gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad
un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.
Da ciò deriva
che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il
presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere
nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da
un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è
necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi.
Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio
quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è
non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda
alla disgregazione (tra vertice e base).
Compito
difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai
rara negli ultimi trent’anni.
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