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Sarà sfortuna editoriale, ma non mi sembra che il libro di Gilad Atzmon nella sua edizione italiana, uscita appena un anno dopo dall’edizione inglese, abbia avuto quell’attenzione e quella discussione che avrebbe meritato, considerata l’importanza del tema affrontato e dell’altissima competenza che l’Autore ha certamente sul tema della “identità ebraica”, di cui tutti parlano senza mai chiedersi o fa intendere di cosa propriamente parlano. Circa la mancata diffusione, è ormai noto come esista una ben individuata e collaudata strategia di silenziamento: nessuna recensione pubblicitaria sui mainstream, se si organizza qualche presentazione presso qualche istituto pubblico o privato che dovrebbe occuparsi di cultura, giungono telefonate e pressione perché la presentazione non abbia luogo e così quando il pubblico arriva in sala o bussa alla porta, gli si dice che l’evento è stato annullato... Poche volte lo si viene a sapere e si inscena qualche protesta, ma il più delle volte la cosa resta nascosta. Anche di questo “potere” occulto Atzmon parla nella sua analisi del “potere ebraico”, di cui è egli spesso vittima in Gran Bretagna, dove risiede da cittadino britannico, dopo aver abbandonato all’età di 30 Israele, dove era nato, ritenendo che quella terra sia stata ingiustamente sottratta ai palestinesi. Suo nonno era un “terrorista” dell’Irgun, come Atzmon stesso narra. A salvarlo dal sionismo di famiglia, che aveva bevuto insieme con il latte materno, è stata la sua passione precoce per il jazz, i cui maggiori autori erano addirittura dei neri, come con stupore ebbe poi a scoprire il giovane musicista che anche nell’esercito israeliano si salvò, riuscendo ad entrare nella banda musicale ed evitare i campi di battaglia nella guerra al Libano nel 1982. Fu in quest’anno, durante la visita a un campo militare israeliano, che maturò la scelta definitiva di Atzmon. Egli narra come vedendo delle gabbie di cemento di un mq per 1,30 m di altezza, era convinto che si trattasse di gabbie per i cani e non riusciva a comprendere tanta crudeltà per delle povere bestie. Gli fu invece spiegato che ci tenevano prigionieri palestinesi che dopo tre giorni di un simile trattamento, diventano devoti sionisti. Fu così che Gilad buttò via la divisa dell’esercito ed iniziò un suo percorso fatto di musica e di filosofia. Questi episodi sono narrati nel suo libro e nel suo blog dove si trovano sempre aggiornate le sue analisi filosofiche. Ad essi rinviamo per maggiore completezza ed esattezza. Qui iniziamo la rilettura del libro, per riflettere ora sull’uno ora sull’altro punto.
(Segue)
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