venerdì 29 dicembre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Meglio i rustici di Dulcamara"

 

La settimana di Natale non ha recato doni, tanto meno ricchi, ai buonisti in servizio permanente effettivo: dai pandori della Ferragni ai rinvii a giudizio per i congiunti di Soumahoro, ai bonifici vaticani per il no-global Casarino. È stato tutto un congiungere le buone intenzioni manifestate dai suddetti con le laute retribuzioni che ne conseguivano.

Mi son detto se il comune denominatore dei buonisti è la pratica di congiungere strettamente intenzioni e profitti, cosa li distingue da un “vecchio” piazzista da fiera, come ad esempio il Dulcamara?

Anche il ciarlatano dell’elisir d’amore racconta  un sacco di bugie agli ingenui paesani, e lo fa con logica di mercato: l’elisir che offre è magnifico, cura tutto: dal diabete all’impotenza, dal mal di fegato alla colite. È pure efficace come crema per la pelle, contro le rughe ed è un insetticida insostituibile. Il target di un prodotto del genere esonda nel (più) vasto pubblico dei consumatori, in ossequio alla prima legge di mercato: aumentare il numero degli acquirenti.

D’altro canto Dulcamara fa leva sempre sull’interesse all’acquisto dell’elisir: il prodotto non è solo utile a tante cose (ha un grande valore) ma costa poco (uno scudo). È il rapporto favorevole qualità/prezzo l’argomento determinante della pubblicità di Dulcamara. Gli altri argomenti (l’autorità scientifica del ciarlatano, nota dell’universo e in altri siti, i certificati, il successo nelle vendite, i costi) sono di contorno.

Ciò lo distingue dai suoi epigoni nostri contemporanei. I quali non promuovono pandoro, uova od altro facendo leva sull’eccellenza della merce e sulla modicità del prezzo. No. I nostri fanno leva sulle buone cause e sui buoni sentimenti. Chi non usa olio di palma salva tanti oranghi dalla distruzione del loro habitat (nessuno – per quanto risulta – si pone il problema di come la pensino i contadini indonesiani); chi acquista una macchina elettrica salva il pianeta dal cambiamento climatico; così coloro che mangiano pandori e uova della Ferragni aiutano i bimbi malati. E così via.

Con ciò da una promozione che si fonda sull’interesse si passa ad una che si basa, per così dire, sui valori. Che un pandoro sia fatto con grassi e farine di bassa qualità non importa: conta invece che comprarlo serve ad assistere dei bambini, come dice il testimonial. D’altra parte il concetto di “valore”, come inteso oggi, è nato nella scienza economica, e ad essa fa ritorno (sotto diverse spoglie). C’è da chiedersi: se Dulcamara avesse propagandato il proprio elisir chiedendo ai “rustici”   di comprarlo per assistere i bambini, lo avrebbe venduto? Penso che i rustici ci avrebbero riso su, abituati sia a far elemosina nelle sedi e modi tradizionali, sia a spendere oculatamente, come normale nelle società più povere. Invece, malgrado e date le cifre pagate ai testimonials le ditte produttrici riescono evidentemente a realizzare lauti profitti. Segno che i rustici di oggi abboccano assai di più che ai tempi di Dulcamara. E oltretutto non hanno la prospettiva della fortuna di Dulcamara e del suo “gonzo” Nemorino, del lieto fine, dell’eredità che arricchisce il truffato. Tutto a perdere, quindi, tranne che per i testimonials e i loro committenti.


Teodoro Klitsche de la Grange: "Salvador De Madariaga, La sacra giraffa, OAKS Editrice 2023, pp. 307, € 25,00"


    

    

Diplomatico, insegnante, uomo politico, presidente dell’Internazionale liberale, Salvator De Madariaga tra tante opere storiche scrisse questo libro distopico connotato da un umorismo á tous azimouths, ma, in particolare rivolto alla società inglese del secolo scorso, che conosceva bene, avendo insegnato ad Oxford. Immagina di aver trovato e tradotto un romanzo che descrive la civiltà dell’anno 6922, dove l’Europa (e la razza bianca) è scomparsa, primeggia l’Africa e gli Stati – come le società umane – sono dominati dalle donne, mentre gli uomini sono relegati a compiti domestici. Come nota Ingravalle nella diffusa introduzione, comunque le regolarità delle comunità umane non sono cambiate: in particolare l’ordinamento gerarchico delle stesse, l’aspirazione al potere e l’esigenza del sacro (e al mito).

E anche i difetti: a cominciare dalla vanità e dall’ipocrisia pubblica e privata.

A tale proposito basti leggere (il libro è stato pubblicato quasi un secolo fa)  il trattato internazionale che chiude il romanzo: zeppo di passaggi roboanti e commoventi che occultano la realtà di una spartizione tra due Stati “forti” di uno Stato debole. O la relazione sulla letteratura inglese, fatta da una storica secondo la quale più per fantasia e ricerca dell’originalità che della realtà sostiene che la rilegatura – cofanetto di un antologia di poeti inglesi pubblicata dall’Università di Oxford sia opera di un solo autore (anzi autrice), Oxford per l’appunto, che avrebbe scritto da solo gran parte della poesia e della prosa inglese attribuendola ad autori di fantasia come Chaucer, Milton, Shakespeare, Kipling, ecc. ecc. Il tutto con una pseudorazionalità che mutatis mutandis anche oggi conosciamo bene.

Il romanzo considera tanti aspetti della vita sociale; dal sacro al profano. Ai primi appartiene il mito fondatore dello Stato di Ebania; la cui prima regina sarebbe discesa dalla Luna alla Terra scivolando sul collo della sacra giraffa, la quale lo aveva allungato fino al satellite scambiandolo per una gigantesca noce di cocco; ai secondi la superiorità della donna sull’uomo, giustificata ad ogni piè sospinto, malgrado l’evidenza che non si tratta di una superiorità biologica, ma di ordinamento sociale.

L’umorismo di Madariaga può apparire (e in effetti spesso è) troppo fine per i palati rozzi. Ad esempio questo mito della discesa sul collo della sacra giraffa appare come una rappresentazione simbolica della costituzione dal cielo del potere sacro e dell’origine celeste dell’autorità. Fatta nell’immaginario di un popolo africano.

Sempre ai secondi (il profano) appartengono le regolarità delle comunità umane che pur cambiando razza, sesso, costumi, rimangono per certi aspetti immutato.

Così sia le società ove i dominanti sono maschi, ariani sia dove a dominare sono le donne di colore, le “costanti” della lotta per il potere e l’ordinamento gerarchico non mutano. Anche per questo “La sacra giraffa” rientra tra i migliori libri distopici del secolo scorso, come “1984” e “Il mondo nuovo”. Buona lettura.

giovedì 14 dicembre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Carl von Clausewitz, Pensieri sulla guerra, introduzione del generale Stefano Basset, OAKS editrice, € 10,00"


 

Perché recensire una edizione di massime tratte da un classico del pensiero, come il “Vom Kriege” di cui circolano tante edizioni integrali? La risposta è duplice: da un canto perché la guerra nel XXI secolo è tornata alla “ribalta” - a scapito delle anime belle che credevano di averla seppellita per sempre – e nella sua forma “tradizionale” (Russia-Ucraina) e in quella “aggiornata” (Israele-Hamas). Dall’altro perché il generale prussiano trattava della guerra come fenomeno, sia negli aspetti immutabili, sia in quelli più legati alle condizioni particolari (e così all’epoca e alle guerre napoleoniche).

Ne consegue che molte considerazioni (in particolare tratte dai libri I, II e VIII) concernono l’essenza e la teoria della guerra (le regolarità di qualsiasi conflitto armato) e così costanti.; altre alle condizioni (variabili) delle epoche e dei mezzi delle singole guerre. Ad esempio il Reno fu attraversato – nella stessa direzione – da Giulio Cesare e dagli alleati (Remagen): ovviamente i problemi e le difficoltà che dovevano affrontare il generale romano e quelli angloamericani erano assai diverse, e così la tattica; onde i consigli di Clausewitz vanno presi cum grano salis. Il libro raccoglie massime sulle “regolarità”: è quindi adatto ad un lettore anche non esperto. Una introduzione del generale Basset completa il volume.

martedì 5 dicembre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "A.A.V.V., La proprietà e i suoi nemici a cura di S. Scoppa, Tramedoro, Bologna 2023, pp. 110, € 10,00"

Questo volume fa parte della collana “Biblioteca della proprietà”, promossa da Confedilizia.

Prende l’occasione dalla direttiva sulle Case-green e in genere dall’andazzo ecologista dell’Unione europea per riproporre l’importanza e la necessità della proprietà, non solo in generale, ma anche per l’ambiente.

Per far questo deve superare due luoghi comuni propagandati: il primo che la proprietà privata comporti necessariamente peggioramento dell’ambiente, mentre quella pubblica no, o quanto meno lo comprometterebbe in misura minore; dall’altro il riflesso condizionato antiproprietario, in particolare da Marx in poi che, dopo il crollo del comunismo ha scelto la tutela dell’ambiente come ragione fondamentale del proprio livore.

Come scrive nell’introduzione Piombini, l’obiettivo «politico principale delle classi politico-burocratiche occidentali, appoggiate dai media e dagli intellettuali (è)  Usare la confisca, il clientelismo, la centralizzazione e la coercizione per combattere il cosiddetto “cambiamento climatico”». E così aumentare (e giustificare) il proprio potere. A tale proposito sostiene Lottieri che «la direttiva detta “case green” è soltanto l’ultimo frutto avvelenato di un’idea pervertita di Unione europea e, oltre a ciò, dello stesso declino del diritto». Tra le due mende, la più interessante è quella del “declino del diritto”. Questo è assorbito dalla legislazione, cioè dalle norme emanate dal principe, che hanno assunto, nello Stato moderno, un ruolo esclusivo (o quasi). Questo a scapito della concezione romana del diritto il quale, oltre alla leges, alle constitutiones, ai senatus consulta era “costituito” dai responsa prudentium, dagli edicta dei Pretori, dai mores maiorum. Cioè era un sistema pluralista e non (quasi del tutto) monopolizzato dallo Stato. Oltretutto negli ordinamenti giudiziari continentali, fino a meno di un secolo fa, privo di quello che Hauriou chiamava, per quello degli Stati Uniti, la superlegalité constitutionnel che garantisce la società civile dall’invadenza dello Stato.

Nell’individuare la ragione di tale bulimia pubblica, Lottieri scrive «alla base di tutto questo, allora, c’è l’antica, antichissima questione del potere. Perché non c’è dubbio che il potere esiste e una delle sue manifestazioni più caratteristiche consiste proprio nella capacità da parte di  alcuni (dominatori) di estrarre le risorse di altri (dominati)». Come gli italiani tartassati da un fisco predone coniugato ad un’amministrazione sgangherata, conoscono bene.

Restando nei limiti di una recensione ricordare tutti i contributi degli autori che affrontato i diversi aspetti del problema: vi rinviamo i lettori.

È opportuno fare comunque un’eccezione per quello di A. Vitale, già dal titolo assai attraente “dall’economia verde a una società al verde”.

Scrive Vitale nella post-fazione che «questo libro mette il dito nella piaga della legislazione e della regolamentazione, nel fondamentalismo ecologico e nella bulimia regolatoria europea – che minacciano di non avere limiti – giustificate con la “crisi climatica globale”» e prosegue che in realtà questo « è funzionale ai pianificatori di ogni colore per un rimodellamento della società secondo i loro desideri (l’uso delle espressioni “cambiare il mondo” e “nuovo mondo” è infatti molto frequente)». Peraltro l’obiettivo dell’ambientalismo radicale è «il controllo e in prospettiva l’annientamento della proprietà, del mercato, dell’economia libera. L’ambientalismo infatti, ignorando il ruolo del meccanismo del libero mercato, dei prezzi e della proprietà privata nella conservazione e nell’aumento delle risorse naturali, finisce sempre per perorare la causa di un’economia pianificata, interventista». Carente di sicuri presupposti, l’ideologia ambientalista non considera le esigenze sociali che sacrifica «di occupazione, di costi per i meno abbienti, di prezzi troppo elevati per i salari medi». E così conduce al verde la comunità.

Nel complesso un libro che possiede il pregio più importante in un’epoca di “politicamente corretto”: la demistificazione.

 

lunedì 27 novembre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco, Liberilibri 2023, pp. 88, € 16,00"


 

Sarebbero necessari tanti saggi come questo per risvegliare il senso comune da quel “sonno mediatico” che occulta pratiche, mezzi ed espedienti di sfruttamento dei governati (alias sudditi) del nostro tempo, soprattutto di quelli della Repubblica italiana. L’argomento può essere affrontato da più angoli visuali: Lottieri lo considera soprattutto da quello filosofico. Così l’autore considera il neopositivismo di Kelsen, per cui il diritto è “ricondotto alla mera validità formale”, ed è un sistema normativo organizzato secondo una gerarchia di precetti, fino a quello fondamentale. Questa «gerarchia ben precisa colloca obblighi e sanzioni ben al di sopra dei cosiddetti “diritti”. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda» (il corsivo è mio). Ciò era stato stigmatizzato già circa un secolo orsono da Carré de Malberg, secondo il quale la gerarchia di norme del giurista austriaco non era altro che la conseguenza della gerarchia tra organi dello Stato: la conformità dell’atto amministrativo alla legge era il riflesso della superiorità del Parlamento sul governo e l’amministrazione (e così via).

In particolare la proprietà è stata svuotata di contenuto attraverso una disciplina che sottraeva o limitava facoltà a favore dei poteri pubblici (quello che Rodotà, lato sensu, chiamava il “controllo sociale delle attività private).

Per cui sempre il giurista calabrese riteneva la proprietà un diritto sotto riserva di legge, ma del quale il legislatore poteva plasmare ad libitum il contenuto. I tedeschi, che avevano già assistito ad un dibattito simile relativamente al diritto di proprietà come regolato dalla Costituzione di Weimar, quando si dettero la Grundgesetz, tuttora vigente, si affrettarono per evitare simili concezioni, a disporre (all’art. 19) che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto sostanziale”; oltre a vietare su tali diritti, di legiferare con leggi di carattere non-generale.

In realtà, sostiene Lottieri “esiste un’inimicizia originaria tra il potere e il diritto, e quindi anche tra il potere e la proprietà”, in ispecie da quando l’ “ordine giuridico è stato ricondotto alle decisioni arbitrarie del legislatore”, onde “L’arbitrio anarchico del decisore politico stabilisce chi deve avere cosa, ma questo è reso possibile da una sorta di ipoteca collettivistica: dall’idea che ci sia un gruppo di potere titolato a disporre di ogni bene e che può attribuirlo a sua discrezione”. Lo Stato è il più grande distributore dei diritti (e delle risorse correlative). Peraltro nella cultura progressista e nel suo “Stato di diritto”; “è stato allora delineato, grazie alla teorizzazione dello Stato di diritto democratico e sociale, un super-costituzionalismo in ragione del quale alla tripartizione puramente istituzionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario si affiancherebbe una tripartizione ben più rilevante, la quale rinvia al contrapporsi dei tre “poteri” (politico, culturale ed economico). In questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero”. Onde funzione dello Stato sarebbe di contrastare i relativi (e così denominati) abusi. Ma “L’esito di tutto ciò è un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico: del controllo che il ceto governante esercita sul resto della società, sempre più espropriata dai governanti e dai loro complici”.

Il che non ha affatto impedito che dei poteri pubblici si servissero anche i grandi poteri privati, realizzando così un mélange pubblico-privato, d’altra parte spesso ripropostosi (storicamente) in gran parte delle comunità. Anche l’occidente, e non solo Putin (e Xi) ha i propri oligarchi. D’altronde, quanto alla dimensione temporale questo era già stigmatizzato da Pareto nella forma della “plutocrazia demagogica” molto simile all’attuale apparato economico-mediatico di controllo. Anche oggi, i poteri forti “hanno reso possibile un nuovo dirigismo, in cui la grande impresa lavora di concerto con i politici e gli intellettuali. Non c’è dunque da stupirsi se ora, un po’ tutti, stanno passando all’incasso”.

Da ultimo, per favorire il controllo sui governati si è inventato anche degli stati di emergenza gonfiati, l’ultimo dei quali pressoché inesistente (quanto alla causa indicata). È quello del riscaldamento ambientale, contestato da tanti scienziati e contraddetto dall’andamento ciclico delle temperature (da millenni, assai prima dell’uso dei combustibili, dei motori e delle caldaie moderne).

Nel complesso un saggio assai interessante, che ne fa auspicare un altro: come nell’Italia della Repubblica sia stato conculcato legislativamente il diritto di proprietà e quanto ci sia costato. Speriamo che Lottieri sia disponibile a scriverlo.

giovedì 16 novembre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Disapplicare non è una parolaccia"

 

A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).

Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.

Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.

Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa - fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.

Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.

Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.

Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della disapplicazione.


giovedì 26 ottobre 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Murray N. Rothbard, Contro l’egalitarismo a cura di Roberta Adelaide Modugno, Liberilibri 2023, pp. 122, € 18,00"

 

Nel volume sono raccolti saggi del filosofo ed economista libertario, allievo di von Mises. Scrive la Modugno nell’introduzione che dell’eguaglianza avversata da Rothbard che “non si tratta del principio dei Padri fondatori della repubblica americana, cioè l’idea che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati della stessa libertà. L’egalitarismo di sinistra proclama invece di voler rendere tutti gli uomini uguali, cosa ben diversa da un’uguaglianza nella libertà”. Dato che gli uomini sono (fortunatamente) tutti diversi l’uno dall’altro, il percorso tra eguaglianza da realizzare e disuguaglianza fattuale è del tutto in salita.

Anche perché a partire dall’eguaglianza più “soft”, cioè quella delle opportunità, le differenze fisiche di ciascun individuo fanno sì che ai punti di arrivo si ricreino disuguaglianze. Basti ricordare quanto pesino tali caratteri negli atleti, negli attori o nei cantanti (a tacer d’altro). Anche se provvisti di borse di studio, palestre, ecc. ecc., decisivi per il successo del calciatore, del tenore e dell’attrice saranno la prestanza fisica, l’ugola e la bellezza. E così a ricreare la disuguaglianza sia delle possibilità e stili di vita che nella ricchezza.

Inoltre come sottolinea Alessandro Fusillo nella post-fazione: “lo strumento per la realizzazione forzosa dell’uguaglianza è lo Stato… lo Stato, in quanto monopolista territoriale della violenza aggressiva ed entità collettiva che ricava i propri redditi non dalla produzione e dallo scambio ma dall’appropriazione fraudolenta o forzosa di quanto altri hanno prodotto o scambiato, è un’entità antisociale e asociale. Lo Stato, pertanto, non è, secondo la ricostruzione rothbardiana, un’entità magari inefficiente e farraginosa, ma fondamentalmente benevola e utile. Lo Stato è il nemico della società civile, l’organizzazione che ne impedisce o rallenta lo sviluppo e la prosperità”. Anche Rothbard nota che “La grande realtà della differenza e della varietà individuale (cioè, la disuguaglianza) risulta evidente dalla lunga storia dell’esperienza umana; da qui, il riconoscimento generale della natura antiumana di un mondo di uniformità forzata. Socialmente ed economicamente, questa varietà si manifesta nell’universale divisione del lavoro e nella “Legge Ferrea dell’Oligarchia” – la consapevolezza che, in ogni organizzazione o attività, alcuni (generalmente i più capaci e/o i più interessati) finiranno per diventare leader, con la massa che riempie le fila dei seguaci”. Quindi né l’ordine economico, né quello politico (anzi questo ancora di più) prescindono dalla disuguaglianza.

Chi scrive è convinto che un’affermazione è sicuramente condivisibile, il resto lo è solo in parte.

A osservare la realtà lo Stato moderno è anche il garante della libertà concreta (Hegel). Il bicchiere cioè è mezzo pieno, perché è proprio il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) che ha reso possibile un grado di coazione e quindi di realizzazione delle pretese (delle “obbligazioni-scambio” di Miglio) ragguardevole.

A parte i casi (tanti) di esercizio dispotico del potere, quello dello Stato moderno è assai più efficace di quanto lo fosse il sistema feudale o i diritti degli “Stati” arcaici dove le pretese – anche se statuite dal giudice – dovevano essere eseguite dagli aventi diritto.

Il tutto si basa tuttavia sulla diseguaglianza più evidente e necessitata perché determinata dalla natura umana: che il “politico” è squisitamente disuguale, basandosi sulla differenza più sostanziale e decisiva, ossia quella tra chi comanda e chi obbedisce.

Per cui l’eguaglianza da realizzare si fonda in ogni caso, su una disuguaglianza necessaria e decisiva. Perché normalmente chi comanda può arrivare fino a condannare (o destinare) alla morte. Cosa che Fusillo nota: “La supremazia dei pubblici poteri è la negazione del principio di uguaglianza”.

Rothbard nei saggi raccolti offre sempre una lettura originale, ma soprattutto anti-conformista e, ricordando Bacone, anti-idola. Un’ottima ragione per leggerlo.


martedì 29 agosto 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Alessandro De Carolis Ginanneschi, Il liberalismo, questo illustre sconosciuto, Ergo Sum Editore, Grosseto 2023, pp. 92, € 9,00"

 

Quanto mai utile questo agile libretto in un’epoca in cui di sedicenti liberali ce ne sono tanti, per il motivo che, essendo crollato nel 1989-1991 il comunismo, gran parte della sinistra si è riconvertita (spesso a parole) ad un asserito e rivisitato liberalismo che, dell’originale, conserva solo alcuni (e limitati) profili, per lo più in stretta correlazione con le minoranze che “tutela”. Lo scrive l’autore nella “premessa” “La constatazione che da troppo tempo molti parlano a sproposito del Liberalismo, convinti tra l’altro si tratti di una ideologia quando invece è un metodo, mentre molti si dichiarano liberali pur senza esserlo – anzi esprimendo idee e promuovendo politiche o comportamenti che liberali non sono, mi ha indotto a scrivere questo riassunto di riflessioni altrui”.

Peraltro già del liberalismo classico se  ne hanno più “versioni” distinte, anche se vicine.

Ad esempio quella sintetizzata dall’alternativa “Parigi o Filadelfia?”, onde liberalismo anglosassone o continentale? La preferenza dell’autore va alla declinazione anglosassone, che articola in una  serie di opposizioni. Antropologica: l’uomo è “legno storto” o “buon selvaggio”? Istituzionale: “rule of law” o “Stato di diritto”?. Common law (diritto consuetudinario) o legge (diritto statuito dal legislatore). Ognuna di queste alternative “parigine”, anche se in misura diversa, rischia di tradursi in un depotenziamento della libertà a favore di un potere statale pervasivo e opprimente. Nonostante le migliori intenzioni: forse non è un caso che la situazione odierna, malgrado quelle, somigli assai alla descrizione profetica che Tocqueville fa del “dispotismo mite”: un potere paternalistico che tratta i cittadini come bambini da rieducare. Anche l’Unione europea non è immune da tale menda. Come scrive De Carolis “Nell’attualità, sono sempre più convinto che un altro giacobinismo ci minaccia, ovvero quello del super-Stato europeo in mano ad una classe più burocratica che politica, e quindi svincolata dalle volontà dei propri cittadini/sudditi; mentre lo stiamo costruendo, lo Stato liberale e federale all’anglosassone sembra invece essere il modello che l’Europa, per essere davvero unita in armonia, dovrebbe seguire”: l’alternativa quindi non è tanto tra Stati nazionali e unioni superstatali, che andrebbero contemperati, ma tra bulimia del “pubblico” e garanzia del privato, presente sia a livello statale che sovrastatale, sia tra sovranisti che globalisti.

Il libro è completato da una serie di documenti: dalla dichiarazione dei diritti del 26/08/1789 al Manifesto di Oxford del 1947 (ed altre) che testimoniano, anche se sinteticamente, del perdurare del nucleo fondamentale del liberalismo in oltre due secoli.

Nel complesso un libro per chiarirsi le idee nella confusione imperante (e spesso artatamente intensificata). Particolarmente opportuno in una nazione, come l’Italia, che negli ultimi trent’anni ha visto una costante riduzione degli ambiti di libertà reale a favore del potere pubblico, presentati come un processo di “liberazione” e (addirittura)  come “fine della storia”. Un farmaco contro la weberiana eterogenesi dei fini.


mercoledì 26 luglio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Un caso interessante"

Spesso si ripete che l’Italia è un grande laboratorio politico dato che è la prima a sperimentare novità: e, con altrettanta frequenza, questo è vero.

Uno dei casi è proprio Forza Italia. Denominata partito personale, leggero anche per contrapporlo a quelli della I repubblica connotati da apparati assai più ideologizzati, professionalizzati e pervasivi.

Orsono venticinque anni mi capitò di scrivere su Berlusconi e Forza Italia, confrontandone l’allora breve esistenza politica con regole e parametri presi da Machiavelli e da un acuto giurista tedesco, Rudolf Smend. Questi è rimasto nella dottrina costituzionale come colui che ha valorizzato l’integrazione, cioè il rapporto tra vertice e base come “divenire dinamico dell’unità politica”, cioè (anche) come produzione di un idem sentire, che consolidasse e rendesse effettive unità e azione politica. Scrive Rudolf Smend “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”. E tra i gruppi sociali, quelli che più necessitano di integrazione sono quelli a carattere politico, a cominciare dai partiti fino allo Stato. Notavo che Forza Italia, data la forte personalità del capo era cospicuamente dotata di integrazione personale (anche se difettava nei dirigenti intermedi).

A distanza di oltre 5 lustri si può confermare che l’integrazione personale (tramite il leader) è stato il principale fattore d’integrazione e probabilmente quella che ha consolidato l’esistenza del partito. Lo dimostrano il numero enorme di preferenze  (nelle elezioni che le consentivano) a Berlusconi, gli assai più modesti risultati nelle elezioni locali, e comunque quando il cavaliere non si candidava, l’evidente ascendente dello stesso sull’elettorato. E perfino il complotto anti-Berlusconi che ne ha portato, tramite legge Severino, alla di esso privatizzazione: la (voluta) privazione del ruolo pubblico del cavaliere dopo la condanna definitiva è stato probabilmente il fatto che ha maggiormente contribuito al sorpasso della Lega su Forza Italia alle elezioni politiche del 2018. Proprio per la preponderanza che aveva l’integrazione personale nella “tenuta” di Forza Italia la tattica preferita dal centrosinistra è stata quella di attaccare il leader avversario sul piano personale (e “privato”).

Anche perché gli altri due mezzi (tipi) d’integrazione individuati da Smend, in Forza Italia di converso erano assai deboli. Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – “prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni”. Ma da quanto risulta tale mezzo è stato sempre poco praticato: i “congressi” di Forza Italia più che un modo per realizzare la volontà comune e selezionare la dirigenza (almeno in parte), sembravano convention aziendali per promuovere i prodotti offerti (in genere sono anche questo, ma era la proporzione prevalente a minare, alla lunga, la solidità dell’insieme).

Tra l’altro i sistemi elettorali per lo più adoperati hanno ridotto la possibilità che la selezione della dirigenza politica, in modo democratico, fosse “compensata” in sede elettorale. Questo perché la collocazione in collegi e listini consente ai vertici dei partiti un potere di designare gli eletti assai superiore alla vecchia legge elettorale proporzionale con preferenza, così che si è parlato – correttamente – per lo più di un parlamento di nominati.

Quanto all’integrazione materiale, cioè attraverso la comune adesione a “tavole di valori” comuni, all’inizio si manifestava per lo più in negativo cioè contrapponendosi al centrosinistra. Presentava il limite di essere in parte nebulosa, in altra stemperata in più rivoli, ma soprattutto non ha retto il confronto con le realizzazioni dei governi Berlusconi. I quali, malgrado maggioranze parlamentari cospicue, realizzavano poco di quanto promesso. Certo meglio di quanto avrebbe fatto il centrosinistra o i governi “tecnici” o “simil-tecnici”, ma comunque modesto rispetto alle promesse ma soprattutto alle aspettative dell’elettorato. Di guisa che circa due terzi del bacino elettorale di Forza Italia si è riversato sulla Lega e Fratelli d’Italia, partiti che quindici anni fa insieme avevano consensi pari a un terzo di quelli del partito di Berlusconi.

E adesso? La risposta è tutt’altro che facile e Tajani avrà un bel da fare. Venuto meno il fattore Berlusconi, estremamente difficile a sostituirsi, non resta che puntare sugli altri fattori d’integrazione e su mezzi di selezione del personale politico meno “autocratico”.

Scriveva Michels che la democrazia non è concepibile senza organizzazione. Nel caso di Forza Italia vale anche l’inverso e l’organizzazione non è concepibile senza democrazia. E così anche con la discussione a tutti i livelli dell’organizzazione. Questa serve a selezionare i capi, come ad acquisire e diffondere idee (anche) nuove. Serve sia all’integrazione funzionale che a quella materiale. Così come alla coesione dell’insieme.

Riuscirà l’impresa? È nuova, sicuramente per l’Italia, ma non mi risulta che sia stata realizzata altrove, almeno in Europa. Non resta che fare gli auguri, ricordando che il merito nel riuscirci è pari alle difficoltà da superare.

 

domenica 23 luglio 2023

VK: Indice Sommario. Numerico.

 Premessa.

I Social hanno ormai una grande diffusione che si misura non in milioni, ma in miliardi di utenze. L'unità elementare di comunicazione è il "post" che per essere letto pare non debba superare le 30/40 righe di testo. Può essere una forma di disciplina nella propria scrittura: cercare di dire l'essenziale in non più di un breve messaggio di testo. Facebook, che è tuttora la piattaforma più diffuda, ahimè non solo pratica la censura, ma fa di peggio: attraverso un sistema di "sanzioni" opera una sorta di condizionamento e indottrinamento del pensiero e degli orientamenti e dei comportamente degli Utenti. Un'altra piattaforma concorrente, VK, di origine russa, pare essere più liberale. Avendo scritto in oltre 10 anni parecchi testi in FB, ne faccio una rivisitazione, un eventuale aggiornamento, ed una più accurata edizione che pubblico in VK. Questo lavoro per non essere dispersivo ha però biosgno di una Indicizzazione. Quest post in Civium Libertas assolve a questa funzione. Il blog Civium Libertas continuerà ad assolvere alla funzione per la quale è stato creato e continuerà a pubblicare articoli nel senso tradizionale del termine.

§0. Salve: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1733

§1. È da espellere: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1734

§2. Cose da pazzi: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1737

§3. Interpellata: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1739

§4. Ai vecchi commilitanti: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1740

§5. Se questo: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1742

§6. Idioti al governo: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1746

§7. Sappiamo a chi: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1749

§8. Se di guerra si tratta: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1751

§9. Faccia di Kulebba: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1753

§10. Io da tempo: https://vk.com/id460170407?w=wall460170407_1755

– Io abbonarmi a Repubblica?

 

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lunedì 17 luglio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Luigi Marco Bassani, Tolleranza, Liberilibri, Macerata 2023, pp. 93, € 14,00"

Bassani spiega la tolleranza seguendo il “percorso tracciato dal realismo politico”. In effetti l’esigenza di tolleranza può essere sorretta da diverse argomentazioni e punti di vista: il rispetto delle idee e del modo d’essere altrui, in primo luogo, il diritto alla libertà di pensiero, il progresso del sapere e della scienza (cui giova tanto il confronto di comunicazioni che il superamento di quelle già condivise). È raro pensare che la tolleranza è necessaria alla formazione dello Stato moderno, perché funzionale alla neutralizzazione dei conflitti – riducendoli o rendendoli meno pericolosi.

Come scrive l’autore «La tolleranza è certamente una conquista del pensiero europeo moderno, ma è anche un momento fondamentale per la legittimazione del potere, nel suo tentativo di superare la frattura della Riforma. Vi è, infatti, una sorta di “regola aurea”, una vera e propria bussola nella storia del pensiero politico moderno: tutto ciò che va nella direzione del consolidamento della statualità ha successo, mentre tutto quel che vi si oppone, ogni pensiero che crei sacche di resistenza al potere, si sgretola. In questo senso, il principio di tolleranza stravince alla fine le guerre di religione, perché è necessario al consolidamento del potere del Principe».

Alla fine del XVI secolo Bodin e i politiques francesi collegarono sovranità e tolleranza «Sarà proprio il concetto di sovranità il miglior alleato di quello di tolleranza nel corso dell’età moderna. Molti critiani avranno la loro vita risparmiata in virtù della bramosia del Principe di creare un unico soggetto del suo dominio». Le guerre di religione in Francia si concludono con l’editto di Nantes che è «il capolavoro e la vera eredità permanente dei politiques». Con la fine delle guerre di religione, la tolleranza diviene pratica osservata dai sovrani assoluti. Federico II di Prussia, “tipo ideale” del sovrano assoluto del 700 rivendica la propria neutralità “tra Roma e Ginevra”, nel di esso amico Voltaire c’è «la fusione dei temi cari ad Erasmo e del movimento dottrinario statuale che parte da Bodin…Voltaire reinterpreta tutto il precedente dibattito politico e teologico, e pone la riflessione sul concetto di tolleranza come fulcro di una concezione moderna della politica, intesa a dirimere tutti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa dal punto di vista teorico».

Con le costituzioni moderne la tolleranza è codificata nelle dichiarazioni tra i diritti fondamentali, a partire da quella francese e americana (col primo emendamento). Nel secolo passato i totalitarismi sono stati tutt’altro che propizi alla tolleranza; anche se, nella seconda metà è stato riconosciuta in dichiarazioni internazionali dei diritti. Ma adesso  si vede un nuovo pericolo: è quello del politically correct, definito da Bassani un autodafé il quale «nasce e germoglia nel cuore di quello che è ormai l’Occidente tout court, ossia gli Stati Uniti, ma sta già minando la libertà di manifestazione del pensiero del Pacifico agli Urali. Se la nascita della tolleranza investe un’unica cultura, anche la fine della tolleranza parte da noi, ma ha a questo punto risvolti planetari». Tale intolleranza «è la conseguenza di un lungo processo di addomesticamento degli intellettuali ed è il risvolto, nel campo delle idee, dell’inesorabile marcia dello Stato nelle vite dei cittadini… vi è bisogno di un gruppo di intellettuali di professione diuturnamente impegnati a diffondere il verbo di Stato e la scienza di Stato… E se il tutto avviene senza alcun tipo di coercizione palese è proprio grazie alla vittoria straripante del politicamente corretto, di una polizia di pensiero, che colpisce pochi, spaventa molti ed è, almeno in apparenza, avversaria di tutti». E di fatto è un declino della cultura dell’occidente la quale da espansiva com’è stata per secoli (v. Toynbee) è divenuta inclusiva e soprattutto, autocolpevolizzata.

Riconosce l’altro, distruggendo se stessa. Ma per il primo risultato non è necessario il secondo. L’autore conclude «Solo quando il riconoscimento dell’altro smetterà di implicare necessariamente la distruzione di sé saremo finalmente sul punto di imboccare la strada che porta a una società libera e certamente assai disordinata nelle opinioni. E allora questa guerra alle fobie cadrà nel più assurdo dei ricordi».

 

martedì 11 luglio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Daniel Halévy, Appunti sulla lunga rivoluzione francese, introduzione di F. Ingravalle, Oaks Editrice 2023, pp. 201, € 18,00"

Scritto da Halévy nel 1939, questo saggio è dedicato alla “Storia” (nel senso della percezione) della rivoluzione, in particolare, ma non soltanto; nei pensatori francesi che si sono succeduto nel successivo secolo e mezzo (1789-1939).

Ne esce, tra l’altro, una distinzione fondamentale, condivisa da molti storici e filosofi, non solo quelli citati da Halévy: che in quella francese vi siano due rivoluzioni: la liberale del 1789 e l’altra, giacobina, del 1792. La rapida successione degli eventi storici ha così fuso insieme due catene di eventi assai differenti, il cui “nocciolo duro” era per la prima la costruzione dello Stato borghese, con i suoi principi di tutela dei diritti fondamentali e di distinzione dei poteri; per la seconda il carattere democratico dello Stato con relativa uguaglianza di partecipazione, cioè (anche) di voto degli individui, ossia dei cittadini. Determinando così l’ingresso delle masse nell’età contemporanea. Tale secondo aspetto avrebbe influenzato la modernità in senso divergente dal primo: il totalitarismo del XX secolo, con le rivoluzioni bolscevica e nazi-fasciste sarebbe (anche) la conseguenza del giacobinismo. Come scrive Ingravalle nell’attenta introduzione: “Halévy resta, comunque, attaccato alla fase liberale della Rivoluzione (1789-1791), nettamente distinta dalla fase giacobina”; e così nel rifiuto del comunismo o del fascismo. La rivoluzione francese, sostiene Halévy “è una passione da vincere, non una questione intellettuale da affrontare con l’analisi razionale. Si tratta di mostrare con quali deviazioni, passionali, psicologiche, nel XIX secolo, sia stata interpretata la crisi rivoluzionaria nel suo complesso costruendo un dogma e una leggenda che sono andati a sostituirsi alla realtà storica”. Leggenda divenuta “superstizione” nazionale. E anche conformismo “l’Illuminismo rivoluzionario adottato e acclimatatosi grazie a una burocrazia di docenti è divenuto conformismo… l’Università, figlia ella Rivoluzione, insegna la Rivoluzione. A tutti i livelli, questo insegnamento esiste” confermando il giudizio di Max Weber sul carisma, la leggenda è diventata “pratica quotidiana”. Halévy nota che la rivoluzione ha avuto (anche) effetti tutt’altro che positivi sulla Francia. A tacer d’altro ciò ricorda quanto scriveva De Gaulle nelle Memoires: che quando ri-prese il potere (nel 1958) erano 169 anni che la Francia non era governata (cioè dal 1789). Che poi siamo ancora nell’influenza della rivoluzione e del di esso culto (e dei modi per celebrarlo), Halévy lo sostiene e ne descrive dogmi e liturgie a lui contemporanee, che somigliano tanto alle attuali: per i sostenitori del culto rivoluzionario “per meritare di vivere, una società deve mettere fine al duplice scandalo delle patrie separate nell’insieme dell’umanità e delle condizioni differenti all’interno di ogni patria… Quanto ai disastri causati da una avventura rivoluzionaria, un millenarista non ne è turbato: sicuro di aver fatto il proprio dovere, accusa la malvagità degli uomini e delle cose”. Che ci ricorda questo mix di umanità e uguaglianza? E Halévy prosegue citando un altro predicatore della rivoluzione “Se gli avvenimenti infirmano troppo brutalmente le nostre predizioni e puniscono la nostra orgogliosa avventura, ci consoleremo eventualmente, pensando che gli avvenimenti hanno avuto torto” Cioè le intenzioni (buone) contano più dei risultati.

In conclusione e consigliando di leggere un saggio che merita, per concisione ed efficacia, una recensione più lunga, una breve considerazione del recensore. È un fatto che le due rivoluzioni, al di là delle conseguenze negative - allorquando l’una soffoca l’altra, fin quando si tengono in equilibrio, hanno costituito il modello di forma politica del periodo successivo. Lo Stato democratico liberale nasce dalla compresenza e dall’equilibrio di un principio di forma politica, la democrazia con i principi dello stato borghese. Anche uno tra i più decisi sostenitori della libertà borghese e avversario del giacobinismo, come Constant, aveva capito benissimo che per difendere questi era necessaria la forma politica della democrazia rappresentativa. Così per avere la democrazia reale è necessario un congruo tasso di Stato di diritto. È un mélange di principi diversi, ma una fusione di successo. L’importante è tenerli in equilibrio.

 

giovedì 22 giugno 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Intervista a Montesquieu su Nordio"

Da tempo le esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono oggetto di critiche, in particolare di essere permissive, anti-legalitarie, garantiste, ecc. ecc. Per saperne di più siamo andati a intervistare il barone di Montesquieu, noto intenditore di libertà politica e di Stato di diritto il quale, ci ha benevolmente concesso l’incontro.

Caro barone, che ne pensa della dichiarazione del Ministro Nordio che “La nostra legislazione tributaria è piena di ossimori. Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo le imposte non riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono”.

Penso che il legislatore, come ho scritto, deve essere chiaro e conciso, la moltitudine delle leggi impedisce il secondo carattere e rende problematico il primo.

L’ideale della legge è quella delle XII tavole: così piana e succinta che i bambini romani la conoscevano a memoria. Provate a fare la stessa cosa con le leggi italiane, anche soltanto con quelle tributarie: non ci riuscirebbe neanche Pico della Mirandola. Ma quei caratteri sono essenziali per la certezza del diritto; cioè per un connotato fondamentale dello stesso. Senza quelle, il diritto non è altro che l’arbitrio (facile) dell’interprete.

Cosa ne pensa del fatto che Nordio ha detto che non vuole interferenze dell’ANM nella formazione delle leggi?

Che ha capito lo “spirito” del mio pensiero, anche oltre la lettera; ho scritto che “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”. Certo qui non si tratta di un’interferenza formale, prescritta dalle leggi (il che sarebbe ancora peggio). Ma certo un’interferenza di un soggetto rappresentativo di una categoria di funzionari pubblici che esercitano uno dei poteri  dello Stato è, a mio avviso, comunque da evitare per scongiurare quanto da me sostenuto. Che può essere declinato in più maniere, la prima delle quali è che, per conseguire la libertà politica, è necessario che colui che pone la norma non sia quello che la applica. Invece coloro che criticano il Ministro sembra che tengano non alla libertà o alla legge, ma al potere della burocrazia di applicarla, nel modo meno determinato e controllato possibile. Un caso di buromania e di burodipendenza.

Passando ad altro, che ne pensa della concezione, anche dell’Unione Europea, di misurare lo “Stato di diritto” (soprattutto) sulla protezione dei diritti “LGBT"?

Ho sostenuto, a proposito della libertà che “Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi…. Gli uni l’hanno presa nell’accezione di facilità di deporre colui al quale avevano conferito un potere tirannico; gli altri come la facoltà di eleggere colui al quale dovevano obbedire; altri ancora come il diritto di essere armati e di potere esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione o delle proprie leggi. Un popolo ha preso la libertà per l’uso di portare una lunga barba”. Ecco a me pare che chi condivide la concezione suddetta è assai simile a quelli che la pensano come facoltà di farsi crescere la barba. Quando tanti diritti sociali ed economici sono poco garantiti, pensare e tutelare pretese marginali (e in qualche caso non fondate sulla realtà) mi sembra un tentativo, come dite, di distrazione di massa. Si pensa al diritto di affittare gli uteri (et similia) per costruirsi un’immagine gradevole e “liberale”, senza pagare prezzo.

Allora la ringrazio sig. barone,  posso tornare ad intervistarla?

Sinceramente penso che ce ne sarà bisogno. Come ho scritto non è che il regime delle repubbliche italiane dei miei tempi fosse del tutto corrispondente alla forma di governo dispotica. Ma avverto, nel vostro modo di governare, una tendenza storica a raggiungerla. E, per quanto mi riguarda, darò mano per invertirla.

 

lunedì 5 giugno 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Il pizzo di Stato"

 

Qualche giorno orsono, accendendo la televisione, mi è capitato di sentire un’omelia scandalizzata di un noto giornalista contro la Meloni che avrebbe qualificato “pizzo di Stato” le sanzioni, interessi e così via, applicate in caso di ritardo nel pagamento delle imposte (ovvero il pagarne troppe – non ho avuto occasione di ascoltare il discorso della Presidente).

Subito si è destato il solito coro (per lo più) dei burosauri  di regime i quali, con toni e argomenti             spazianti da quelli dell’agit-prop (post-moderno, cioè dell’epoca della globalizzazione) a quelli di un prefetto o generale ultraottantenne in pensione hanno stigmatizzato la carenza di senso dello Stato e di sensibilità sociale (???) della Meloni.

Vediamo un po’ se tanto sdegno trova fondamento nel pensiero politico e nella dottrina dello Stato moderno, quello che i parrucconi dicono di voler difendere chiamandolo “Stato di diritto” (e distorcendone il concetto).

Pizzo di Stato presuppone che: a) chi te lo chiede sia assimilabile a un criminale o brigante; b) che la richiesta sia ingiusta. A tale riguardo il primo (ma non è statisticamente “il primo”) a chiamarlo è stato Sant’Agostino – il quale si chiede (domanda che è già una risposta) “cosa sono gli Stati se non grandi associazioni a delinquere?” (magna latrocinia). Qualche decina d’anni dopo un altro scrittore ecclesiastico, Salviano di Marsiglia, attribuiva alle malefatte del governo imperiale e all’avidità della burocrazia e del fisco decadenza e (prossima) caduta dell’Impero romano d’occidente (scusate se è poco…)[1].

Nel secolo successivo lo (pseudo) Procopio di Cesarea con la “Historia arcana” offre un quadro dettagliato delle ruberie e malefatte del governo di Giustiniano (dall’imperatore in giù). Non parliamo dei secoli successivi per non annoiare il lettore: facciamo presente che per l’alto medioevo la difficile reperibilità dei contributi sul “pizzo” è dovuta più che alla condivisione della concezione contraria (quella dei parrucconi) alla decadenza letteraria dell’occidente latino (anche se quanto a governanti delinquenti gli esempi non mancano). Arrivando all’età moderna e alle rivoluzioni borghesi il “pizzo di Stato” è il leitmotiv dei grandi rivolgimenti politici: ship money, no taxation without representation, deficit, sono le sintesi delle rivoluzioni.

Come i rivoluzionari consideravano la burocrazia, tra i tanti ricordiamo Saint-Just il quale nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; … e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano». Tutt’altro che dato per scontato, il fatto che l’amministrazione agisca realmente per l’interesse generale è problematico; e conseguentemente le somme prelevate possono (almeno) diventare retribuzione per parassiti di Stato (pubblici e privati). La scienza della finanza italiana, a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare a Cesare Cosciani, distingueva diversi assetti della finanza pubblica (tra governanti e governati) come mutualistico, parassitario e predatorio a seconda della quantità, utilizzazione (e risultati) del prelievo fiscale.

Non mi risulta che quando Giustino Fortunato scriveva che la legge fondamentale del funzionamento della burocrazia italiana era l’inverso di quella di Carnot; ovvero che tutta l’energia prelevata doveva essere consumata per il sostegno e il frazionamento della macchina amministrativa (cioè in stipendi, gettoni, contributi, pensioni, missioni ecc. ecc.) e il minimo reso in servizi al contribuente, fosse mai stata oggetto di tanto sdegno, Né lo sia stato don Sturzo, il quale giudicava così la “costituzione più bella del mondo” «Purtroppo di statalismo, l’attuale schema di costituzione puzza cento miglia lontano» e molte norme «invocano l’intervento dello Stato ad ogni piè sospinto, e risolvono tutti i più assillanti problemi con il rinvio all’autorità, all’ingerenza e alle casse dello Stato». A fronte di Fortunato, Sturzo e di tutti gli altri che condividevano il loro giudizio realistico, la Meloni, con il suo “pizzo” e la volontà di riscrivere la Costituzione, appare una moderata.

E lo stesso risulta a considerare quanto scrivevano i teorici dello Stato di diritto moderno.

A citare per tutti questo se pensavano gli autori del Federalista: ossia che se gli uomini fossero degli angeli, di governi non ce ne sarebbe la necessità; e se fossero angeli i governanti, neanche servirebbero i controlli sui governi.

Ma dato che di angeli in giro non se ne vedono, sono necessari sia i governi che i controlli sugli stessi. Invece per i parrucconi tecno-burocrati, chi insinua che imposte ed accessori siano la mangiatoia di interessi e clientele tutt’altro che sollecite del bene comune (ossia che il governante non è come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni rispetto) bestemmia e merita l’anatema da cotanti sant’uomini.

Come scriveva Gogol nell’ “Ispettore generale” il giudizio dei parrucconi su chi lo pensa come (anche) la Meloni è quanto uno dei personaggi dice parlando dell’autore della commedia «Ma che razza di uomo è? un… un..,. un… non c’è nulla di sacro, per lui! Oggi sparla d’un consigliere, mettiamo, e domani verrà fuori a dire che Dio non esiste. Il passo  è breve».

Giudizio che avrebbe condiviso, tra i letterati, il nostro Giusti col suo Gingillino ed il suo credo nella Zecca onnipotente.

Sacralizzare il prelievo fiscale e l’uso che se ne fa, è materia per facile ironia. Ben vengano una, cento, mille Meloni a demistificarlo, laicizzarlo e (speriamo) a ridurlo.



[1] Giova riportare qualche breve passo di Salviano: «Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanto tiranni?... Nessuno, pertanto, è al sicuro… si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari. Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui». I governanti « con la scusa dell’esazione delle imposte, hanno dirottato queste imposte a profitto personale e hanno fatto delle tasse straordinarie un bottino privato… li hanno spolpati; si sono pasciuti non solo dei loro beni come normalmente fanno i ladri, ma anche del loro sangue dopo averli ammazzati».