A leggere la
stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie
sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità
per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in
certi casi, norme di legge).
Dato che la
disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia
e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi
l’ha voluta, e perché.
Con la L.
2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati
pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità
giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e
locali in quanto siano conformi alle leggi”.
Come scriveva
Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da
una giurisprudenza timida e
favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e
l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo
sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo
radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa
ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come
freno e limite del potere esecutivo”. A completarla
comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di
Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa
che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo
giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello
Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore
però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi
abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e
contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il
loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze
dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà
il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella
costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi
amministrative”.
Ho riportato,
tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per
ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa –
disapplicazione inclusa - fu opera e merito della classe dirigente liberale; la
quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme
il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.
Dopo che da un
trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come
più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare
che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio
di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un
governo che possa governare, ecc. ecc.
Tutte cose in
tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come
“tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che
fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme)
indietro, che tutti i sedicenti liberali
aspettano fregandosi le mani.
Ciò stante, è
comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni
con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se
qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto
frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante. Ma
questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione
pubblica ed in particolare di quella giudiziaria. E non solo della
disapplicazione.
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