sabato 5 gennaio 2008

Le ragioni del “Perché ci odiano” leggendo il reportage di Paolo Barnard ed altri testi

Versione 2.1
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Sommario: 1. Premessa. – 2. La narrativa corrente sul povero Stato di Israele. – 3. Alle origini della minaccia atomica in Medio Oriente. – 4. Di Israele «ci si può fidare». – 5. Il primo bavaglio: il potere delle lobbies. – 6. La sofferenza dei palestinesi. – 7. Il secondo bavaglio: l’accusa di antisemitismo. –

1.
Premessa. – Ho scoperto quasi per caso il libro di Paolo Barnard, Perché ci odiano, Bur 2006, pp. 346, euro 9,60, in uno scaffale della Libreria Feltrinelli, che si trova nei pressi di casa mia. Non ne avevo prima sentito parlare per nulla: era stato efficacemente sottratto alla mia attenzione. Dopo aver letto alcune pagine in libreria ho subito deciso che il libro valeva largamente il suo costo, mentre invece sono 8 euro sprecati (con questo chiaro di luna!) il libretto Einaudi (110 pagine) di Gadi Luzzatto Voghera, Antisemitismo a sinistra, che ho comprato giusto ieri perché mi è stato segnalato, chiedendomene un parere. Quest’ultimo libro, per la sua ottusa falsità, mi ha fatto fin dalle prime pagine uscire dai gangheri. Ne dirò tutto il male che merita forse in un’altro post, ma non è escluso che procedendo la lettura di pari passo possa fare un raffronto fra le cose che si apprendono dall’uno e dall’altro libro. I rilievi critici che posso fare a Barnard è che forse egli non si è reso ben conto dell’importanza dei dati di prima mano che è andato a scoprire di persona. Cose da Indiana Jones. Addirittura narra della difficoltà che ha incontrato e superato per andare ad intervistare l’unica «sopravvissuta» di una delle infinite stragi yankee nel cortile di casa statunitense costituito da tutti i paesi latinoamericani. Insieme con la sua guida scavalcò una frana che aveva ostruito la strada, impedendo la prosecuzione del viaggio, bisognava perciò rimandare al giorno dopo, ma poi il reporter Barnard non avrebbe potuto più incontrare Rufina Amaya (p. 137), morta nel marzo del 2007, unica superstite del famigerato battaglione Atlaclad, nome per me difficile da pronunciare, ma le cui efferatezze superano di gran lunga quelle comunemente attribuite ai nazisti, ormai assunti a simbolo di ogni male immaginabile, quando ormai si tratta di capire ed accettare che quei limiti reali o immaginari sono stati largamente superati e si superano ogni giorno sotto i nostri occhi. Anzi l’uso disonesto e strumentale del passato è forma essa stessa della maggiore barbarie in atto.

Devo aggiungere a quella che non è una critica una mia perplessità sulla scelta del titolo:
Perché ci odiano. Non sono purtroppo un viaggiatore giramondo come Paolo Barnard, ma io non vedo e non sento su di me alitare nessun odio da parte islamica. Addirittura il barbiere islamico che ho sotto casa ed anche la comunità che vi si riunisce si è offerto di proteggermi nel caso in cui venissi minacciato ed infastidito dai sionisti romani. Non ho mai avvertito “odio” in tutti i (rari) contatti che ho avuto con il mondo islamico, mentre invece ho avvertito subito un maggiore odio da parte ebraica nei miei confronti negli altrettanti rari contatti. E perfino in questo Blog se ne può trovare documentazione, da me appositamente lasciata: addirittura minacce da denuncia penale. Inoltre il concetto di odio dovrebbe essere scisso in almeno due componenti, in modo analogo e corrispondente al diverso significato delle parole latine inimicus e hostis. Nelle nostre lingue moderne tradotte con una sola parola "nemico”, ma in latino riferite l’una al nemico privato (inimicus) e l’altra al nemico pubblico in guerra (hostis). La confusione fra le due cose non aiuta l’analisi.

Meglio avrebbe fatto Paolo
Barnard a rinunciare a qualsiasi dichiarazione teleologica: dobbiamo capire il «perché ci odiano» perché in questo modo possiamo intervenire sulle radici e far cessare la causa. Intento certamente lodevole ma che forse indebolisce la carica stessa del libro, che nella sua capacità di denuncia contiene tutto il bene che può rendere alla causa della verità. Sarà poi responsabilità dei governi e dei loro cittadini assumere una condotta morale di fronte a ciò che la Verità dice alla coscienza di ognuno. Insomma, se io potessi e sapessi riscriverei lo stesso libro con gli stessi identici dati in maniera diversa. Ed è quello che qui in misura ridotta voglio cercare di fare. Mi propongo di rileggere più volte il libro ed approfondire e studiare quelle cose di cui apprendo per la prima volta, grazie a Paolo Barnard, comprensibilmente non amato dai nostrani «Corretti Informatori», ma che ha il grande merito di essere uno dei pochi veri giornalisti che sanno fare dell’autentico giornalismo d’inchiesta. La mia non è dunque una critica, ma un rendergli grazie per il servizio che ha reso alla Verità e per l’obbligo che pone ad altri – storici, filosofi, moralisti, politici – di saper trarre le conseguenze da ciò che è stato posto davanti ai loro occhi.

Sempre in tema di odio pare opportuno fare qui menzione di un’altro libro recente che ho iniziato a leggere da diversi mesi, interrompendo e riprendendone la lettura fino ad essere giunto quasi alla metà. Si tratta del volume uscito, come quello di
Luzzatto Voghera pure presso Einaudi, di un autore americano, nato in Romania nel 1948 in una famiglia ebraica di lingua ungherese: Andrei S. Markovits, La nazione più odiata. L’antiamericanismo degli europei. Sia nell’originale inglese sia in traduzione italiana il libro esce nel 2007. Avevo comprato il libro, un “novità”, attratto dal titolo. Mi aspettavo per primo una conoscenza sul fenomeno, ammesso che esista, e poi una sua spiegazione. Il libro non ha finora prodotto in me una sensazione significativa. In parte sembra essere un excursus letterario addirittura risalente indietro nei secoli sul modo in cui l’America appariva agli europei. Ed è cosa vecchia non legata all'attualità, che era il motivo che mi aspettavo venisse principalmente trattato nel libro. Sembra poi che l’autore, una volta accertato il crimine, voglia di ciò incolpare gli europei: ed è questo intento colpevolizzante forse il solo elemento di attualità. In un certo senso si tratta uno scopo diametralmente opposto a quello dichiarato da Paolo Barnard, uno scopo assolutamente non meritevole di elogio e tale da suscitare una legittima reazione da parte di un lettore autenticamente europeo. Collegando poi l’ispirazione di fondo del libro con alcune correnti attuali, parrebbe che si voglia fondere insieme antisemitismo e antiamericanismo, per cui essere tacciati di antiamericanismo – magari soltanto per l'odierna politica estera statunitense, equivarrebbe ad essere antisemita, con tutta la carica di negatività che è venuta fuori dalla fine tragica per l’Europa nel 1945, liberata o distrutta a seconda della sensibilità politica di ognuno, ma in ogni caso definitivamente tolta di mezzo dall’agone politico. Sono proprio queste connessioni evidenti che dovrebbero consentire un ripensamento critico del concetto di antisemitismo, cosa che è certamente impossibile trovare nel libro di Luzzatto Voghera, piuttosto volto a ricordarci, minacciandoci e terrorizzandoci, quanto siamo miserabili per non avere ancora espiato abbastanza i nostri peccati. Può darci che procedendo nella lettura, seguendo la strada maestra fornita da Paolo Barnard, si possano enucleare connessioni tematiche fra questi tre libri ed altri che eventualmente per strada si possono aggiungere.


2.
La narrativa corrente sul povero Stato d’Israele. –Voglio incominciare con una ampia citazione dal libro, dove Barnard ben sintetizza una “narrativa” corrente che la volgar stampa ed il generale sistema dell’informazione, ampiamente lobbizzato – e una cosa tutta da ridere come “Informazione Corretta” segnatamente – ogni giorno ci propina:
«In essa, il piccolo e democratico Stato di Israele nasce per dare rifugio agli ebrei perseguitati nel mondo, secondo le legittime aspirazioni sia laiche che religiose dei suoi padri fondatori. Lo Stato ebraico mette le sue fragili radici in una terra musulmana implacabilmente ostile, che lo ha da subito avversato e minacciato e dove sopravvive da quasi sessant’anni assediato da regimi arabi mostruosi retti da mostruosi dittatori perennemente intenti a pianificare la sua distruzione. Questo stato di cose ha costretto Israele a una perenne difesa militare, che dopo una serie di aggressioni su larga scala subite ma sempre vittoriosamente respinte deve oggi fare i conti con una infame guerriglia araba di eccezionale viltà, rappresentata dal fenomeno suicida dei terroristi palestinesi dei gruppi islamici fondamentalisti. E così il pacifico popolo israeliano vive un’esistenza costellata di orrori e di spargimenti di sangue voluti dall’inspiegabile crudeltà dei palestinesi radicali, cui deve, per legittima difesa, rispondere con ogni mezzo, fino ai più estremi. I suoi tentativi di ottenere una giusta pace basata sul suo sacrosanto diritto di esistere sono stati immancabilmente frustrati dall’inguaribile vocazione alla violenza degli arabi, subdolamente aizzata e sfruttata dai loro corrotti e inaffidabili rappresentanti. Per gli ebrei d’Israele si perpetua così un destino impietoso, che da tempi immemorabili li ha visti lottare in un mondo che quasi sempre li perseguita, e la Palestina non fa eccezione»

Paolo Barnard,
Perché ci odiano,
BUR 2006, p. 205.
Una mirabile sintesi del modo in cui sui media viene raffigurato Israele, invertendo i ruoli del lupo e dell’agnello. A questo visione si attiene fondamentalmente il pamphlet di gadi Luzzatto Voghera, sul quale faccio alcune iniziali osservazioni. Se in questo nostro libero paese è ancora consentito l’uso del linguaggio metaforico, si può obiettare agli eredi spirituali, o sedicenti tali, del campi di concentramento nazisti, che essi dal canto loro usciti idealmente nel 1945 da un lager ne hanno ricostruito uno ancora più grande dove vi hanno imprigionato dentro il mondo intero. Barnard ci ha fatto non metaforicamente vedere come dall’Indonesia all’America Latina con il Medio Oriente tutto il mondo si trovi un un lager a stelle e strisce. In questo mondo gli Europei primi liberati e sapientemente rieducati fanno oggi il compito che era dei Kapò. Questo è il mondo in cui sembra riconoscersi Luzzatto Voghera, che per giunta si attarda in una distinzione fra destra e sinistra, alla quale credo non attribuisca più valore nessun intellettuale che si rispetti. E come se non bastasse questa distinzione manichea il nostro docente di “didattica della Shoa” (!) considera già la destra come un’indistinta massa damnationis, della quale non vale neppure la pena di occuparsi, mentre la sinistra può ancora emendarsi e scontare i suoi peccati, riconoscendo i profondi e non criticabili valori dell’ebraismo. Infatti, in un mondo in cui tutto è criticabile, l’unica cosa di cui non può mai farsi critica è l’ebraismo e la sua incarnazione terrena costituita dallo Stato di Israele.


3.
Alle origini della minaccia atomica in Medio Oriente. – Il brano che segue è molto lungo, ma non importa. Nessuno meglio di Barnard stesso può riferire le cose che scrive. Il contenuto del suo libro merita anche la massima diffusione possibile. La questione dell’atomica di Israele mi ha sempre fatto uscire dalla grazia di Dio, per così dire. Nella mia matura ingenuità mi chiedevo e mi chiedo come si possa baccagliare senza fine su un’atomica che prima si attribuiva falsamente all’Iraq di Saddam, che invece non la deteneva. In ultima all’Iran di Ahmadinejad, che però dichiarava di voler perseguire un programma atomico ad uso civile. Sia o non sia vero, resta da chiedersi perché mai uno Stato, un qualsiasi stato, non possa avere le stesse più potenti armi che altri invece possiedono: evidentemente è la forma moderna del dominio. Uno stato dice all’altro: io sono e devo restare il più potente dei due e tu mi sei soggetto. Per chi astrattamente si preoccupa delle sorti astratte di un’ancora più astratta idea generale di umanità si chiede perché mai in un’area calda come quella del Medio Oriente debba essere permesso ad una delle parti in lotta di possedere la più letale delle armi mai prodotte, usata la quale porterebbe le sue conseguenze letali oltre i soggetti impegnati in guerra ma protrerrebbe i suoi effetti radioattivi anche per innumerevoli generazioni a venire: non solo i figli dei nostri figli, ma anche i figli dei nostri più lontani discendenti ne porterebbe le conseguenze sulla biologia dei loro organismi. Una volta tanto il male che l’uomo è capace di produrre si ritorce direttamente su stesso. Prima bastava sterminare il prossimo e trarne tutti i vantaggi dopo qualche lacrima di circostanza. Oggi, se si usa l’atomica su ampia scala in una catena di azione e reazione, questo gioco non è più possibile. Ma per rinunciarvi occorre gettare l’anello del potere – rappresentato dall’atomica – nel fuoco del vulcano dove è stato prodotto: ho letto il romanzo di Tolkien ed il film che ne è stato tratto parecchie volte, affascinato dalla simbologia che descrive l’irresistibile attrazione che gli uomini provano per il potere. Ma come è dunque stato possibile che uno staterello di assatanati dediti alla violenza ed alla furbizia maligna, per nulla scevra dal più spregiudicato terrorismo e capace di violare ogni limite posto dalle leggi interne ed esterne solo che ciò torni utile? Credo che Barnard per raccontare la storia dell'atomica di Israele nell'ampio estratto che segue si sia basato su interviste in loco. È da aggiungere che il libro è stato chiuso nell’aprile del 2006, quando ancora non era noto il rapporto della CIA sull’inesistenza di un’atomica iraniana e sembrava imminente una nuova aggressione statunitense all’Iran, ancora oggi istigata da Israele. Non conoscevo la storia nel modo nitido in cui Paolo Barnard la racconta:
«Come è noto la comunità internazionale è alle prese con la cosiddetta questione nucleare iraniana, che vede Teheran rivendicare il proprio diritto allo sviluppo di reattori per la produzione di energia a fronte dell’accusa rivoltagli da parte di alcune potenze occidentali di celare in tal modo la corsa agli armi amenti nucleari, cosa che è con tutta probabilità vera. La diatriba sta riempiendo i quotidiani e i talk show televisivi, fiumi di parole vengono spese ai più alti livelli della diplomazia mondiale, e ovviamente il nome di Israele è in primo piano. Ma attenzione: nella corrente narrativa, lo Stato ebraico figura invariabilmente come minacciato dalla cosiddetta bomba degli Ayatollah iraniani, e non, come suggerisce la realtà dei fatti, nei suoi veri panni di iniziatore della minaccia nucleare per l’intera regione. Infatti le cose stanno precisamente in quel modo, visto che sono esattamente cinquant’anni che Tel Aviv possiede un ampio arsenale atomico illegale in ogni sua parte.

Perché tolleriamo la smisurata ipocrisia che vede tutto l’Occidente chiudersi in un silenzio imbarazzato quando le parole bomba atomica & Israele compaiono nel dibattito, per poi lanciarsi in furibonde condanne grondanti di retorica quando la bomba rischia di fare capolino nei laboratori di chiunque altro? Ma la dottrina della non proliferazione non vale per tutti? Chi ha sancito che solo allo Stato ebraico si può concedere la prerogativa di ignorarla impunemente?

Per comprendere meglio è necessario un accenno storico al problema. Alla metà degli anni cinquanta Israele iniziò una fitta collaborazione con le maggiori potenze europee che avevano mantenuto forti interessi in Medioriente, in primo luogo con la Gran Bretagna (area d’influenza Egitto, Iraq, Cipro e Giordania) ma anche con la Francia (Algeria e Tunisia), su richiesta delle quali si prestò per scatenare la nota guerra del 1956 contro l’Egitto dello sgradito nazionalista arabo Nasser. Il rapporto con Parigi tuttavia andò oltre: Israele usò infatti le comunità ebraiche del Nord Africa per aiutare i francesi nella repressione dei movimenti di liberazione nazionale algerini e tunisini, una politica questa che il governo di Tel Aviv portò avanti sostanzialmente all’insaputa degli israeliani, e vi sono motivi di credere che essi non avrebbero mai acconsentito a tali scelte. Per questa ragione l’allora premier israeliano Ben Gurion mantenne rapporti segreti con Parigi attraverso il lavoro del giovane Shimon Peres, che non essendo a quei tempi membro del Knesset (Parlamento israeliano) poteva muoversi con maggior disinvoltura. La Francia remunerò Israele per i suoi favori iniziando una collaborazione per l’assemblaggio sul suolo israeliano di un reattore capace di produrre plutonio (il componente delle bombe nucleari) nella più totale segretezza e all’insaputa sia del governo che del Parlamento di Tel Aviv, fatta eccezione ovviamente di Ben Gurion e di pochissimi altri. Il luogo prescelto fu la località di Dimona, dove prese forma un reattore gemello di quello che i francesi avevano costruito a Marcoule, nei pressi di Avignone, denominato Tipo G1, e che iniziò la produzione nei primi anni sessanta (17). I problemi per Ben Gurion venivano tuttavia anche dall’esterno, poiché sapeva che gli Stati Uniti erano contrari alla proliferazione delle armi nucleari e per quel motivo Washington fu inizialmente tenuta all’oscuro. Per poco: presto gli aerei spia americani U2 fotografarono gli impianti di Dimona e il presidente Eisenhower ne fu pienamente informato nel 1960. Da allora la vicenda è rimasta sospesa in un incredibile limbo, dove da una parte Israele non ha mai ammesso né negato di possedere armi atomiche e dall’altra gli Stati Uniti fanno finta di nulla, in violazione (o secondo una interpretazione di comodo) persino delle proprie leggi che gli proibiscono di fornire aiuti a Paesi che producano clandestinamente armi nuleari (18).

L’illegalità del potenziale atomico israeliano è fuori discussione, e infatti quel Paese si è sempre rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT), non ha mai permesso le ispezioni delle agenzie internazionali preposte, e oltretutto, come si evince dai paragrafi precedenti, non ha| mai chiesto il consenso democratico dei suoi cittadini per l’escalation atomica.

L’arsenale nucleare dello Stato ebraico fu svelato con certezza al mondo intero solo nel 1986, quando il tecnico nucleare israeliano dissidente Mordechai Vanunu raccontò al «Sunday Times» di Londra dell’esistenza di circa 200 testate atomiche in Israele, fornendo prove fotografiche concernenti gli impianti di produzione. Vanunu divenne all’istante il ricercato numero uno da Tei Aviv, e in una sporca vicenda da film di spionaggio su cui grava il sospetto della complicità del nostro Paese, il tecnico fu irretito da una bella spia, attirato a Roma per poi essere sequestrato dai Servizi segreti israeliani che lo riportarono in patria. Fu condannato a diciotto anni di carcere, di cui undici passati in isolamento, che sconterà interamente per poi subire ulteriori vessazioni appena liberato. Akiva Orr, l’ex partigiano d’Israele della guerra del 1948 e oggi uno dei più sagaci e colti intellettuali israeliani viventi, ha commentato nel corso di una nostra recente conversazione l’odissea di Vanunu sottolineandone un lato grottesco:
«Il suo processo fu una farsa, perché Israele non ha mai ammesso di avere armi nucleari e dunque Mordechai fu condannato per aver rivelato un segreto che coloro che lo hanno processato sostengono non esista neppure».
Dunque nel 1986 il mondo ebbe la certezza che Israele era a tutti gli effetti una potenza nucleare, e gli Stati arabi reagirono di conseguenza. Spiega Orr:
«Quella data coincide con l’accelerazione fra i Paesi arabi della gara per acquisire armi di distruzione di massa, soprattutto biologiche e chimiche, da contrapporre all'arsenale israeliano. Nacque così la corsa agli armamenti non convenzionali nel Medioriente, per colpa di Israele».
Ma sempre secondo l’intellettuale ebreo, la miopia di Ben Gurion finì per trasformare quello che secondo le intenzioni dello statista doveva essere un deterrente contro la minaccia di distruzione dello Stato d’Israele per mano araba, nell’esatto contrario:
«L’aver portato la competizione al livello più alto, e cioè quello del confronto atomico, ha paradossalmente indebolito il nostro Paese come mai prima. Per comprenderlo basta un semplice ragionamento: poniamo che Israele attacchi per primo l’Iran. Teheran avrebbe sicuramente il tempo di reagire e di lanciare i suoi ordigni, poiché la sua superficie è talmente vasta che è impossibile neutralizzarlo in un colpo solo. Al contrario la superficie di Israele è assai piccola ed è densamente popolato, in particolare i due centri urbani di Tei Aviv e Haifa. Ciò significa che in pratica può essere distrutto da appena due bombe H, una su ciascun centro, poiché la loro devastazione significherebbe l’annientamento dei gangli nevralgici della nazione. Ammesso anche che Israele fosse poi in grado di lanciare un secondo attacco, a che servirebbe visto che sarebbe già sostanzialmente distrutto?».
La conclusione di Akiva Orr è che l’unica strada affidabile sarebbe un trattato di denuclearizzazione di tutto il Medioriente iniziando proprio dal disarmo di Israele. Ma sappiamo bene che gli Stati Uniti hanno da tempo cessato di esercitare pressioni affinché Tel Aviv firmi il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, e tacciono sull’opportunità che gli ispettori internaziionali visitino i suoi centri di ricerca atomica, in una palese e ipocrita contraddizione con quanto invece hanno fatto nei confronti dell’Iran o, ancor più, dell’Iraq.
Paolo Barnard,
Perché ci odiano,
BUR 2006, p. 224-28.
Note:
(17) Secondo tonti dell’Intelligence americana, Israele avrebbe ricevuto anche aiuti dal Sud Africa dell’Apartheid durante lo sviluppo del suo arsenale atomico, in particolare nel 1979 per lo svolgimento di test sugli ordigni.
(18) La sintesi storica sulla nascita del progetto di armamento nucleare d’Israele è tratta da documenti di Stato e da studi di relazioni internazionali conservati nell’archivio privato dello storico israeliano Akiva Orr a TeilAviv.
Ho voluto qui dare notizie che da tempo cercavo sull’evoluzione dell’atomica israeliana e sulle responsabilità, o meglio complicità, che le hanno consentite. Barnard le ha potuto attingere direttamente da una fonte di prim’ordine. E dunque responsabilità inizialmente francesi più che americane. Mi lusinga leggere che ciò che a me è parso sempre la cosa più ragionevole che si potesse fare per impedire la proliferazione nucleare nell’area, e cioè che si incominciare a pretendere da Israele lo smantellamento del suo arsenale, per poi poter esigere che altri non si dotino di simile armi di distruzioni di massa, era un parere già formulato da un importante intellettuale israeliano come Akiva Orr, che contrasta con le ipotesi di recente agognate dai «Corretti Informatori» in un’ipotesi di guerra nucleare simulata apparsa qualche giorno fa sul “Corriere della Sera”, prontamente raccolta dall’agenzia pezzaniana senza la benché minima espressione di scongiuro, cosa che la dice lunga sulle segrete pulsioni di questa gente.


4. Di Israele «ci si può fidare». – Esiste un diffuso pregiudizio che gioca a favore di Israele, qualsiasi cosa faccia. Anche questa mattina, o questa notte, è andata in onda su Radio Radicale una registrazione di Piero Ostellino tale da mettere a dura prova la mia pazienza e di conseguenza alla tastiera di questo mio computer. Avrei voluto scrivere un apposito articolo, aspro e polemico di reazione alle follie ascoltate, dette invero con grande pacatezza d’animo per quanto a me riuscissero orripilanti, ma preferisco non raccogliere la provocazione intellettuale e dar corso al palinsesto della mia giornata nel modo programmato. Chi vuole può tentare di rintracciare l’intervista nell’archivio sonoro di Radio Radicale e lasciarne i commenti in questo post: io al momento non ho trovato il link della registrazione. L’editorialista del “Corriere della sera” vorrebbe Israele nella Nato per costringere tutta l’Europa ad entrare in guerra contro tutti i paesi arabi, che colpevolmente non vogliono riconoscere il principio etico – su quello di fatto ormai si debbono rassegnare, alla faccia loro, lascia irresponsabilmente il nostro campione di giornalismo – del diritto di Israele all’esistenza e sul corrispondente dovere di non esistere e di morire per i palestinesi ed estensivamente per tutto il mondo e la cultura arabo-islamica, anche se l’ineffabile Ostellino non ha tratte queste inevitabili conseguenze.

Considerata l’importanza che Piero Ostellino ha avuto ed ha nel giornalismo italiano – anche se io per la verità lo conoscevo solo per la pubblicità ampia del suo nome e non per le enormità ascoltate questa mattina – vi è di che allarmarsi come se stessimo per precipitare nel pieno di una guerra. Per un comune cittadino che non si chiami Piero Ostellino la sola idea di porsi in guerra contro un miliardo di musulmani per la sola bella faccia di un pugno di invasori prepotenti e privi di scrupoli è un vero e proprio precipizio nella barbarie ed una inaudita perdita di umanità: altro che scontro di civiltà. Inoltre, non credo che nemmanco lo stesso Ostellino dia credito alle banali categorie concettuali di cui si serve, principalmente la bacata nozione di terrorismo. Evidentemente, esistono molte cose in cielo ed in terra che io non conosco e non posso conoscere, ma per fortuna in questi casi mi è di aiuto l’immaginazione e l’arte della congettura: spesso ci azzecco! Sono certo di poter trovare nell’archivio di “Informazione Corretta” il nome di Piero Ostellino, fra i “buoni”, cioè quelli annotati come “informazione che informa”, mentre invece per le sue “vergogne” rinvio a Kelebek che ne ha evidenziata qualcuna. Il fatto che l’Europa addomesticata nel 1945 senta sotto sotto che non vuole né gli conviene una nuova guerra mondiale, nel ruolo di vassallo degli USA, è per Ostellino addirittura “viltà”. Di fronte ad un Ostellino – soggetto e prodotto egli stesso della lobby di cui parleremo più avanti – io mi auguro che il mondo islamico sappia resistere per salvare la loro stessa libertà e per noi la speranza di tornare liberi da un giogo che portiamo dal 1945. Si vorrebbe fare degli arabi ciò che di noi è stato fatto: ridurre al ruolo di vassalli sempre ubbidienti e servili.

In virtù di questo diffuso pregiudizio in favore di Israele si ammette che il possesso dell’atomica da parte di Israele non costituisce una minaccia per l’umanità intera. Nelle pagine di Barnard si illustra come a giudizio di esperti il possesso dell’atomica sia in realtà controproducente per la sicurezza stessa di Israele. Ma su questa materia tecnica io non mi addentro essendo alquanto digiuno in materia. Riporto invece di seguito l'altra faccia del pregiudizio secondo il quale di Israele «ci possiamo fidare». Vi sarebbe un’identità di natura, di istituzioni, di principio democratici, di affinità elettive che costituisce un topos della propaganda di guerra israeliana in Occidente. Addirittura donna Fiammetta Nirenstein vi ha scritto sopra un libro dal titolo “Israele siamo noi”, di cui mi occupo altrove ed il cui contenuto – se posso esprimersi liberamente – mi fa rivoltare. Ritengo al contrario il mondo antico mesopotamico di gran lunga più importante per la nostra civiltà ed identità europea di quanto abbia mai potuto esserlo la misera appendice ebraica. Le vestigia della splendida civiltà mesopotamica – dove gli ebrei furono schiavi in Babilonia – è in pratica distrutta sotto i nostri occhi, probabilmente su istigazione ebraico-israeliana.

A questa secondo significato del pregiudizio «di Israele ci si può fidare» dà una risposta che riporto di seguito per la sua limpida formulazione:
«La risposta all’argomento che “ci si può fidare più di Israele in quanto democrazia” piuttosto che degli Stati islamici illiberali come l’Iran, è ancora più semplice: lo Stato ebraico si è reso responsabile di aggressioni militari e di atti di terrorismo di una ferocia sicuramente pari, se non talvolta superiore, a quella dei cosiddetti Stati Canaglia mediorientali, e che non di rado neppure l’intervento degli Stati Uniti è riuscito a contenere, lungo una scia di sangue impressionante. Per cui diviene chiaro a chiunque approcci il tema con un minimo di imparzialità che la fiducia che noi accordiamo alla presunta moderatezza d’Israele (e che neghiamo ai Paesi islamici) non ha alcuna base nei fatti reali, ed è frutto solo di un’abitudine mentale che ci caratterizza, poiché percepiamo il popolo ebraico come affine ai nostri valori e cioè come «uno di noi». La bomba atomica nelle mani di Israele è stata, e rimane, un pericolo per tutta l’umanità».
Paolo Barnard,
Perché ci odiano,
BUR 2006, p. 231.
Qui mi discosto da Paolo Barnard osservando che la pretesa identificazione di tutti noi [pure io?!] con Israele è costruzione affatto mediatica, progettata negli uffici israeliani del ministero della guerra o nelle sedi occidentali della lobbies – il primo bavaglio – di cui diremo nel prossimo paragrafo. Per non ripetere lunghe argomentazioni e descrizioni fatte altrove basta ricordare la scissione originaria fra cristianesimo e giudaismo, la storia lunga tre mila anni di irriducibile avversione da parte di tutto il mondo conosciuto verso l’ebraismo per concluderne – nel bene e nel male – che questa identità non esiste affatto, o meglio è una identità normalmente respinta dalla coscienza dei popoli, senza poi parlare della maggiore avversione che almeno un certo mondo ebraico ha sempre nutrito per i popoli idolatri, i goym. Non è comunque in questi aspetti che si debba rintracciare il maggior pregio del libro di Barnard, bensì nel suo carattere giornalistico di reporter che ha visitato i luoghi e parlato con le persone oltre che nella sua capacità e indipendenza di giudizio.


5. Il primo bavaglio: il potere delle lobbies. – È interessante notare che una delle reazione che vi è stato contro il libro di Mearsheimer e Walt è stata quella di negare l’esistenza stessa delle lobbies. Il solo averlo fatto notare è stato tacciato di pregiudizio antiebraico, cioè è stato bollato come antisemitismo, una denuncia che se provata ha pure implicazioni penali: non si scherza e comprensibilmente tutti quelli che ne sono tacciati respingono questa accusa. Sono due “bavagli” con i quali si mette a tacere ogni critica. Con il primo si esercitano pressioni di ogni genere e senza scrupoli, con il secondo si usa un’arma più micidiale, quando la prima non abbia sortito effetto ossia la persona è tale da non poter essere fatta oggetto di pressione. Chi non deve candidarsi da nessuna parte può infischiarsene allegramente della minaccia di non ricevere fondi per la sua campagna elettorale. E così in genere chi vive del suo e conduce vita ritirata può tranquillamente esprimere il suo pensiero e dire senza veli e filtri quello che pensa effettivamente. In questi casi si passa alla diffamazione vera e proprio, cioè l’accusa di antisemitismo, da cui non vengono risparmiati neppure gli ebrei ultraortodossi: di loro si dice che odiano se stessi, il loro essere ebrei. Veramente un museo dell’orrore che si maschera di democrazia e liberalismo, anzi di civiltà occidentale davanti alla barbarie islamica.

È interessante però che da Barnard non vengano mai citati i nomi dei due politologi americani. In modo del tutto autonomo giunge alla constatazione dell’esistenza di una “Israel lobby”, di cui elenca una serie di sigle del tutto sconosciute al normale cittadino italiano. Ma è invece opportuno studiarle ad una ad una, per poi verificare l’analogo nel nostro paese e soprattutto le relazioni che i loro soggetti hanno la nostrana “Israel lobby” e soprattutto con i nostri politici ed i nostri intellettuali. In questo modo confido che potremo conoscere meglio gli arcana della politica di casa nostra. Ma lasciamo ampiamente la parola a Barnard:
«In questa sede vorrei per una volta trattare del carico di colpe o di crimini dello Stato d’Israele, e la straordinaria mistificazione che li nasconde a gran parte di noi. Prima di dare sostanza a queste affermazioni con le autorevoli prove documentali e le testimonianze storiche che troverete alla fine di questo capitolo (pag. 254 e seg.), è bene chiarire con quali mezzi la sopraccitata mistificazione è stata imposta alle opinioni pubbliche mondiali, e a quelle occidentali in particolare. Infatti esistono due distinti meccanismi che impediscono alla realtà del conflitto israelo-palestinese di essere giustamente divulgata, e sono i due bavagli con cui i leader israeliani, i loro rappresentanti diplomatici in tutto il mondo, i simpatizzanti d’Israele e la maggioranza dei politici, dei commentatori e degli intellettuali conservatori di norma zittiscono chiunque osi criticare pubblicamente le condotte dello Stato ebraico nei Territori Occupati, o altri aspetti controversi della storia e delle politiche di quel Paese.

* * *

Sarebbe qui macchinoso aprire una sottosezione per individuare i singoli soggetti, con nome e cognome, della mistificazione di cui fondatamente parla Paolo Barnard, che è anche lui un giornalistica professionista e conosce quanto basta il suo mondo professionale. Apriamo perciò qui un post derivato, dove con riferimento alla carta stampata italiana ed aiutandoci principalmente con il prezioso archivio di «Informazione Corretta” – la punta avanzata del sionismo italico – redigeremo un censimento, un monitoraggio, di giornalisti ed opinionisti italiani che sono responsabili per l’Italia della sopracitata mistificazione. Come abbiamo già detto, occorre uscire dalla fumosità di un potere ebraico onnipervasivo. Ciò in effetti potrebbe dar luogo all'accusa di pregiudizio, mentre fortunatamente non tutti gli ebrei sposano e fanno proprie le posizioni sioniste e la politica genocida del governo israeliana. Il miglior modo per prevenire simili strumentali accuse è di procedere in una sempre più analitica distinzione di soggetti dell’informazione e loro responsabilità. Portando alla luce del sole ciò che si nasconde ed agisce nell’ombra, si rende il migliore servizio alla democrazia con mezzi che sono e restano politici e che non hanno altro fine che quello eminentemente politico di rendere matura e criticamente informata la nostra democrazia. Il primo nome di questi giornaliste ed opinionisti che mistificano è qui capitato quasi per caso. È il nome autorevole di Piero Ostellino. Ve ne sono una caterva, benché meno noti dell’insigne giornalista la cui sicumera se non sfacciataggine è tale da trarre in inganno l’ignaro cittadino.

Cliccando qui si accede al link di un nuovo post di questo blog: Israele e la stampa italiana: una mistificazione incredibile e pericolosa per la nostra democrazia



***


Il primo bavaglio è l’impiego a tutto campo dei gruppi di pressione ebraici, le cosiddette lobby, per dirottare e falsificare il dibattito politico sul Medioriente (negli USA in primo luogo); il secondo è l’accusa di antisemitismo che viene sempre lanciata, o meglio sbattuta in faccia ai critici d’Israele. Nel capitolo 3 di questo libro ho già anticipato una parte del materiale che forma l’insieme dei capi d’imputazione di cui Israele dovrebbe rispondere. Qui l’approfondimento, e inizio proprio dall’operato delle lobby ebraiche.

Per far luce su questo punto è necessario analizzarlo nel contesto americano, poiché è innegabile che l’orientamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele e della crisi in Medioriente sia ciò che fìssa le coordinate cui tutti gli altri governi occidentali, incluso il nostro, sono tenuti a conformarsi, con poche ed effìmere differenze più cosmetiche che di sostanza. Inoltre l’America, in virtù della straordinaria dipendenza di Israele dagli aiuti economici e militari di Washington, è la potenza nelle cui mani giacciono i destini del processo di pace, e questo ne cementifica la centralità nel discorso.

Ma negli Stati Uniti oggi un dibattito franco sulla questione ai livelli che contano, e cioè sui grandi media e in parlamento, è del tutto impossibile. Infatti l’ordine di scuderia tassativo ai vertici di quel Paese è: i palestinesi stanno alla fonte della violenza e a essi tocca cessarne l’uso prima di ogni discussione su qualsiasi cosa; le vittime sono gli israeliani, martirizzati in patria nonostante la loro incessante ricerca della pace,
full stop, che in inglese sta a significare «è così e non se ne discute».

Non per nulla anche in occasione della recente vittoria elettorale di Hamas nelle elezioni parlamentari palestinesi (25 gennaio 2006) la parola d’ordine lanciata dal Dipartimento di Stato americano e rimbalzata ovunque, dall’ONU ai parlamenti europei e nei mass media, è stata «
First, Hamas must renounce violence» («Per prima cosa Hamas deve rinunciare all’uso della violenza»), e di certo nessuno a Washington ne altrove in Occidente avrebbe osato sussurrare neppure di sfuggita che anche Israele deve per prima cosa smettere di massacrare e di opprimere i civili palestinesi.

E questa non è una caricaturizzazione né un’estremizzazione della realtà americana. Anzi, spesso la linea è anche più intransigente. Nella primavera del 2002, proprio mentre l’esercito di Tel Aviv invadeva di nuovo i Territori Occupati con l’assedio di Jenin a fare da apogeo della violenza contro la popolazione civile araba, un gruppo di eminenti sostenitori americani d’Israele teneva una conferenza a Washington dove a rappresentare l’Amministrazione di George W. Bush fu invitato l’allora viceministro della Difesa
Paul Wolfowitz, noto neoconservatore di destra e aperto sostenitore della nazione ebraica. Lo scomparso Edward Said, professore di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York e uno degli intellettuali americani più rispettati del XX secolo, ha raccontato un particolare di quell’evento con le seguenti parole: «Wolfowitz fece quello che tutti gli altri avevano fatto – esaltò Israele e gli offrì il suo totale e incondizionato appoggio – ma inaspettatamente durante la sua relazione fece un fugace riferimento alla “sofferenza dei palestinesi”. A causa di quella frase fu fischiato così ferocemente e così a lungo che non potè terminare il suo discorso, abbandonando il podio nella vergogna» (4).
Stiamo parlando di uno dei politici più potenti del terzo millennio, di un uomo con un accesso diretto alla Casa Bianca e che molti accreditano come l’eminenza grigia dietro ogni atto dello stesso presidente degli Stati Uniti, prima, durante e dopo la sua ascesa al potere. Eppure gli bastò sgarrare di tre sole parole nel suo asservimento allo Stato d’Israele per essere umiliato in pubblico e senza timori da chi, evidentemente, crede di contare più di lui nell’America di oggi.

AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), ZOA (Zionist Organization of America), AFSI (Americans for a Safe Israel), CPMAJO [Conference of Presidente of Major American ]ewish Organisation), INEP (Institute for Near East Policy}, JDL (Jewzsh Defense League), B’nai Brith, ADL (Anti Defamation League}, AJC (American Jewish Committee), Haddasah sono gli acromini e i nomi di alcune di quelle lobby, che a noi risultano pressoché sconosciute ma che nei corridoi del Congresso americano possono creare seri grattacapi a senatori e deputati indistintamente. Un fronte compatto che secondo lo stesso Edward Said «può distruggere una carriera politica staccando un assegno», in riferimento alle generose donazioni che quei gruppi elargiscono ai due maggiori partiti d’oltreoceano.

Come se non bastasse, lo schieramento lobbistico pro Israele è stato oggi rafforzato oltre ogni immaginazione dallo sposalizio con un altro fronte di potere assai in auge in America, quello dei gruppi di cristiani fondamentalisti vicini al presidente George W. Bush e che controllano i voti dalla cosiddetta Bible Belt (cintura della Bibbia), e cioè la fascia di Stati americani del centro e del sud del Paese (circa il 18% dell’elettorato totale). Ed è così che negli USA è possibile oggi sentir parlare di Christian Zionists, sionisti cristiani, un ibrido che stride a un orecchio anche solo mediamente colto e che ci riserva il meglio di quel crogiolo di assurdità e bizzarrie che talvolta è la società americana. Infatti quella alleanza si regge solidamente e apertamente proprio su ciò che in teoria dovrebbe renderla impossibile.

La teologia dei cristiani fondamentalisti d’America professa e attende la seconda venuta del Cristo e la conseguente fine del mondo, secondo una interpretazione della Bibbia resa immensamente popolare dai libri di un certo reverendo Tim LaHaye (che nel 2001 hanno venduto più di John Grisham). Ma quell’evento sarà possibile, secondo loro, solo quando gli ebrei avranno stabilito uno Stato ebraico su tutta la Palestina, e cioè ben oltre gli odierni confini di Israele. Ecco dunque la ragione per cui quei gruppi di estremisti della Bibbia lavorano alacremente fianco a fianco con le lobby ebraiche americane per difendere, colonizzare ed espandere con ogni mezzo le aree dei Territori Occupati già in mano a Tel Aviv, contraddicendo ogni mediazione di pace e ovviamente negando ogni possibilità all’esistenza di uno Stato palestinese. Ma qui arriva il guizzo di follia su cui tutto ciò si regge. Infatti, sempre secondo la teologia cristiana fondamentalista di cui sopra, esiste una seconda condizione per la venuta di Cristo, a dir poco assai più problematica della prima: e cioè che tutti gli ebrei che oggi incitano alla conquista della Palestina dovranno in ultimo convenirsi al cristianesimo, pena l’annientamento fra le fiamme di un olocausto infernale. Niente meno.
E gli ebrei americani in tutto questo? Senza dubbio ne sono consapevoli, e sorvolano su quel dubbio ne sono consapevoli, e sorvolano su quel credo sostanzialmente antisemita perché, come disse tempo fa uno dei più pungenti commentatori israeliani antagonisti, «semplicemente se ne fregano, a fatto che oggi appoggino Israele» (5).

Ora, per sottolineare l’elemento al limite dell’irreale in questo incrocio, si provi a immaginare la scena frequentemente reiterata all’esterno degli incontri al vertice fra Stati Passo oltre e proseguo nell’analisi di alcuni fatti significativi accaduti negli Stati Uniti e che hanno avuto come protagonisti le lobby ebraiche e i legislatori di quel Paese.

I metodi di questi gruppi di pressione pro-Israele sono stupefacenti nel fatto che la loro opera di vigilanza e di attivismo si estende ben oltre i due rami del Parlamento americano, e va dal monitoraggio della piccola radio locale di provincia a quello dei grandi network come la CBS o la NBC, dal giornalino di facoltà di Berkeley al «New York Times». Nulla gli sfugge e nessuno ne esce indenne.

Ne sa qualcosa Dennis Bernstein, ebreo e conduttore di un programma presso una radio libera piuttosto nota fra i progressisti in California, la KPFA, e che solo per aver scelto di discutere (sic) con autorevoli ospiti in studio la sanguinosa occupazione israeliana di Jenin nell’aprile del 2002 ha subito un assalto fatto di diffide e di critiche da varie organizzazioni, e persino di lettere minatorie private come questa: «Stronzo di un ebreo che odia la sua razza, che scopa sua madre, pezzo di merda... Hitler ha ammazzato gli ebrei sbagliati, avrebbe dovuto uccidere i tuoi genitori così che un pezzo di merda ebrea come te non sarebbe mai nato. Se Dio vorrà, un terrorista arabo ti farà a pezzi così come è successo a Daniel Pearl [reporter del “Wall Street Journal” sgozzato dagli islamici in Pakistan nel 2002, nda]»; o come quest’altra: «Dio volendo, un palestinese ti ammazzerà, violenterà tua moglie e taglierà la gola ai tuoi bambini» (6).

Barbara Lubin, attivista ebrea dell’organizzazione americana Middle East Children’s Alliance che ha avuto l’ardire di collaborare con progetti scolastici palestinesi, ne ha ricevute di peggio, ed essendo di sesso femminile si può immaginare cosa le hanno scritto. Va sottolineato che fra le accuse di regola rivolte a questi personaggi c’è invariabilmente quella di essere un Self Hating Jew, un ebreo che si odia. Questo perché, di nuovo dalle parole del professor Said, «il Sionismo americano ha reso tabù qualsiasi discussione pubblica sul passato o sul futuro di Israele... L’aborto, l’omosessualità, la pena di morte, la moralità del bombardamento di Hiroshima e persino la “sacra” spesa militare possono essere dibattuti con un minimo di libertà... si può persino bruciare la bandiera americana in pubblico, ma la sistematica continuità di mezzo secolo di oppressione israeliana e di maltrattamenti dei palestinesi è impronunciabile» (7) e dunque se un cittadino ebreo di quel Paese viola quel tabù deve necessariamente essere uno psicopatico, ovvero un povero mentecatto che odia se stesso e le sue radici. Naturalmente simili tentativi di censura bersagliano chiunque altro in quel Paese, indipendentemente dalla razza o dalla religione; e questo è vero soprattutto per i docenti scolastici di ogni livello, quello universitario in particolar modo, al punto che da diversi atenei americani è partito un allarme per una sorta di paralisi del libero insegnamento sulle materie attinenti alla Storia medio-rientale (8).

A livelli più alti, e cioè nella politica nazionale americana, la cronaca dimostra oltre ogni dubbio che le lobby ebraiche sono in grado di assestare colpi pericolosi e di condizionare perciò l’intero dibattito nazionale sul Medioriente a favore esclusivo di Israele.

Vi sono esempi storici, come quello dei senatori J. William Fulbright e Charles Percy, entrambi ex capi della Commissione Relazioni Estere del Senato, la cui scalata ai livelli massimi del potere politico fu stroncata dalle loro prese di posizione considerate anti-israeliane. L’AIPAC non perdonò a Fulbright di aver chiesto delle audizioni in seno alla Commissione Esteri proprio per indagare l’operato delle lobby ebraiche nei loro rapporti col Congresso degli Stati Uniti, mentre Percy mise il piede in fallo quando criticò la sanguinosa invasione israeliana del Libano nel 1982.

Il repubblicano dell’Illinois Paul Findley fu repentinamente allontanato dalla scena politica dopo ventidue anni di servizio proprio dopo la pubblicazione del suo libro They dare to speak out (Essi osano denunciare, 1989), un attacco alle lobby pro israeliane che fu invece accolto con favore dal pubblico americano.

Nel 1992 George Bush senior ebbe l’ardire (e la sconsideratezza) a pochi mesi da una sua possibile rielezione alla Casa Bianca di minacciare Tel Aviv con il blocco di 10 miliardi di dollari in aiuti se non avesse messo un freno agli illegali insediamenti ebraici nei Territori Occupati. Passo falso: gli elettori ebrei americani, che già per tradizione sono propensi al voto democratico, svanirono davanti ai suoi occhi in seguito alle sollecitazioni dei loro gruppi di interesse, e nel conto finale dei voti Bush si trovò con un misero 12% dell’elettorato ebraico contro il 35% che aveva incassato nel 1988. Al contrario, la campagna elettorale del suo rivale Bill Clinton fu invece innaffiata dai lauti finanziamenti proprio di quelle organizzazioni di sostenitori d’Israele che l’allora presidente aveva in tal modo alienato. E non è dunque un caso che Hillary Clinton qualche anno più tardi, nella sua gara politica nello Stato di New York, sia arrivata a «surclassare anche i più intransigenti sionisti americani nel suo fervore pro israeliano, arrivando al punto da invocare il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme» (9).

Earl Hilliard, nel 2002, fu sonoramente sconfitto nelle primarie dell’Alabama dallo sfidante Artur Davis. Il quotidiano israeliano «Ha’aretz» scrisse che Davis fu arricchito nella sua campagna elettorale dai fondi donati da diverse note famiglie ebraiche della costa Est degli Stati Uniti, ma anche di Chicago e di Los Angeles, che vollero punire Hilliard per aver espresso compassione per le sofferenze dei palestinesi. E nello stesso anno l’AIPAC fustigò pubblicamente l’ambasciatore americano in Israele Daniel Kurtzer, il quale, seppur con molta cautela, aveva espresso critiche alla politica di espansione illegale degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati. Le scosse telluriche di quel caso ebbero l’effetto nel medesimo periodo di mettere in fila cinquanta senatori americani, novanta deputati e tredici alti funzionari dell’Amministrazione Bush a presenziare la convenzione annuale dell’AIPAC fra dichiarazioni di sostegno e lodi sperticate all’operato del governo d’Israele. Il 2002 fu anche l’anno in cui il Parlamento degli Stati Uniti votò una mozione di appoggio incondizionato allo Stato ebraico che vide in Senato 94 voti a favore e 2 contrari, e alla Camera 352 voti favorevoli e 21 contro (10).
Ma il caso forse più penoso di soppressione in America del dibattito politico sui meriti o demeriti delle lobby ebraiche pro Israele, per mano delle medesime organizzazioni, coinvolse la figura del deputato democratico James Moran, eletto nello Stato della Virginia, il quale con quaranta parole «sbagliate» distrusse sostanzialmente i suoi quarant’anni di impegno nella vita pubblica del suo Paese. Il 3 marzo del 2003 in un discorso tenuto di fronte a un pugno di suoi elettori nella cittadina provinciale di Reston, a poca distanza da Washington, Moran criticò la decisione del presidente George W. Bush di muovere guerra all’Iraq e sostenne che «se non fosse stato per il forte sostegno della comunità ebraica [americana, nda] per questa guerra in Iraq, noi non staremmo facendo questo». Moran pronunciò anche un’accorata esortazione ai «potenti» leader di quella comunità di adoperarsi per frenare i disastrosi eventi bellici.

Fu sufficiente, Ronald Halber, il direttore esecutivo del Jewish Community Council di Washington, di parole ne pronunciò sei: «la comunità ebraica è profondamente offesa», e separatamente oppose alla frase di Moran l’etichetta di «velenoso commento antisemita» (11). Il pavimento del Congresso degli Stati Uniti si spalancò sotto i piedi del deputato della Virginia e il suo sprofondare fu accompagnato dai commenti di fuoco di Nacy Pelosi e di Tom Daschle, i capigruppo democratici alla Camera e al Senato, che lo invitarono ad abbandonare la sua carica di leader regionale del partito, mentre altri sei deputati democratici di origine ebraica lo diffidarono dal tentare la rielezione nel 2004, pena il loro mancato appoggio alla sua candidatura. Nacy Pelosi, intervistata alla CNN, disse inoltre che le opinioni di Moran «non trovano posto in un partito come quello democratico», lasciando intendere che neppure la formazione politica americana progressista è disposta ad accogliere un qualsivoglia dissenso sull’operato delle lobby ebraiche, o su Israele stesso (12).

Inutili i tentativi di rettifica o le scuse del deputato, pronunciati in una sorta di penosissima autoflagellazione, tanto contrita quanto imbarazzante a vedersi. Moran ebbe forse il torto di essersi espresso con eccessivo semplicismo, per il fatto di aver gettato una responsabilità generica a ventaglio su una massa di cittadini americani ebrei non egualmente responsabili o influenti, ma in quella bufera il pubblico americano perse ancora una volta l’occasione di poter discutere ai livelli che contano di una delle realtà politiche maggiormente controverse del loro Paese. Infatti, come ha scritto uno dei più sagaci commentatori liberalo americani «il motivo per cui ]ames Moran viene così istericamente bastonato è che i nervi ebraici sono scoperti precisamente nel punto che lui ha sollevato, e cioè il ruolo della pubblica opinione ebraica qui in America nel sostenere un attacco all’Iraq» (13).

]ames Moran viene così istericamente bastonato è che i nervi ebraici sono scoperti precisamente nel punto che lui ha sollevato, e cioè il ruolo della pubblica opinione ebraica qui in America nel sostenere un attacco all’Iraq» (13).

Paolo Barnard,
Perché ci odiano,
BUR 2006, p. 205-16.

Note:

(4) Crisis ForsAmerican Jews, by Edward Said, Al Haram, 17 maggio 2002.

(5) Uri Avenery, leader di Gush Shalom, ONG pacifista israeliana, in una dichiarazione riportata dal quotidiano inglese «The Independent» il 13 luglio 2002.

(6) Robert Fisk, A stange kind of freedom, Znet, Mideast, 13 luglio 2002.

(7) Edward Said: America’s Lasi Taboo. Znet, Mideast, 13 dicembre 2001.

(8) In Italia ho avuto personalmente occasione di sperimentare quanto ho appena scritto, quando il preside di un liceo bolognese che mi aveva chiamato per una mattinata di confronto con gli studenti sulla questione mediorientale mi avvisò trafelato a poche ore dall’inizio che i dirigenti della comunità ebraica cittadina, informati chissà da chi, avevano preteso la presenza al mio fianco di ben tre controparti da loro nominate e incaricate di sorvegliare sull’andamento della discussione. Obiettai che sarebbe stato più giusto concedergli un’altra mattinata per controbattere, piuttosto che scatenare un vespaio da cui i giovanissimi avrebbero tratto ben poca utilità e chiarezza. Il povero preside mi rispose: «Sarei d’accordo, ma non ho potere di scelta...». E vespaio è stato, tutto a danno degli studenti.

(9) Edward Said, America’s Last Taboo, Znet, Mideast, 13 dicembre 2001.

(10) The Battle of the Middle East Lobbies, by Jonathan Broder, MSNBC News, 30 aprile 2002 - Robert Fisk, A stange kind of freedom, Znet, Mideast, 13 luglio 2002 - The Nation, Turkey, Israel and the US, by Jason Vest, 23 agosto 2002; e poi si vedano le cronache del «New York Times», «Washington Post», «Chicago Tribune» e «Wall Street Journal» relative alle epoche indicate.

(11) CNN News, Lawmaker under fire for saying Jews support Iraq war, by Ted Barrett, 12 marzo 2003.

(12) CNN News, Moran steps down from leadership post, 14 marzo 2003.

(13) Alexander Cockburn, ]im Moran and the Dixie Chicks: never say sorry, it only makes things worse, CounterPunch, 15 marzo 2003.
Il lungo brano qui riportato è altamente istruttivo ai nostri fini e si aggiunge alla lettura di Mearsheimer e Walt. Le conclusioni sono convergenti. Ciò che qui interessa particolarmente è la nota 8, dove Paolo Barnard narra la sua esperienza in una scuola bolognese. Anche qui una lobby ebraica pretendeva di zittirlo ed ha difatti intimidito il preside della scuola. Dice anche il vero Barnard quando avverte che la mitizzazione dell’influenza lobbistica degli ebrei, specificatamente nel contesto americano ma anche altrove, può più far danno che non essere utile ai giusti fini di ridimensionamento di un potere fondamentalmente illegale. Non sono però d’accordo nella demonizzazione di questi gruppi, che restano pur sempre meno colpevoli delle lobbies che intendono contrastare. Si tratta di saper indicare loro la strada giusta alla loro voglia di lotta dura senza paura. Sono poi interessantile sigle e l’elenco delle varie organizzazioni lobbistica. Ognuno di essa verrà qui studiata e si tenterà di stabilire se esiste un equivalente italiano o se queste organizzazioni hanno rapporti con l’Italia, come abbiamo già detto in qualche altro luogo. Le parole di Paolo Barnard sono da mandare a memoria.


6. La sofferenza dei palestinesi. – Dopo l’ampia citazione del testo di Barnard fatta nel paragrafo precedente tento qui un’analisi dei dati che mi ha fornito e che non avrei diversamente attinto. Egli dice ad un certo punto che svolgono una funzione negativa e dannosa tutti quelli che mitizzano il potere ebraico facendone un potere occulto cui soggiace il mondo intero. Questa mitizzazione è poi a sua volta tacciata di antisemitismo e si ricade così nel cerchio infernale. A nostro avviso, il miglior modo di affrontare i miti è quello di demistificarli. Pertanto, della denunciata lobby va fatta minuta analisi. Ed è proprio ciò che la lobby teme più di ogni cosa, come lo stesso Barnard racconta nell’ampia citazione che ne abbiamo fatto. Pertanto in questo e nei paragrafi che seguono procederemo fino ad esaurimento nella rassegna minuta – aiutandoci con le risorse della Rete – di tutti i passi di Barnard suscettibili di ricerca e di approfondimento. In particolare, poiché viviamo in Italia e ci interessa in primo luogo e necessariamente il nostro paese, studieremo tutte le connessioni rintracciabili fra la Israele lobby statunitense e quella italiana. I miei Cinque abituali Lettori sono qui allertati affinché si trasformino da Lettori in Ricercatori e Coautori di questo Post. Possono condurre una loro personale ricerca secondo le linee qui indicate e dare i loro contributi nello spazio dei Commenti, dove i loro eventuali testi saranno da me attentamente vagliati. Il titolo di questo paragrafo vuole essere una ricerca a partire dalla frase che Wolfowitz, in un momento di umanità forse non impossibile persino in un cuore come il suo, si lasciò sfuggire, provocando la pronta reazione sionista, per la quale i palestinesi con le loro sofferenze che durano da almeno cento anni non sono degni di compassione alcuna. Forse si potrà per questa via demistificare un altro mito: quello dell’unicità della crudeltà nazista. A mio avviso, succeda quel che succeda, il livello di crudeltà raggiunto in Terra Santa lungo 60 anni è anche per un fatto quantitativo e temporale di gran lunga superiore a quello attribuito ai pochi anni di regime nazista, per i quali liberi dalle pressioni interessate della lobby dobbiamo esigere ad alta voce piena libertà di ricerca storica senza le rituali premesse demonizzanti. Le demonizzazioni si fanno in chiesa dal pulpito. Gli storici devono solo indagare i fatti e saperli interpretare.

In questo link Edward Said, in un articolo del 10 ottobre 2002, fa una minuta descrizione di un intricato episodio della moderna guerra dei Cento Anni fra arabi ed israeliani. Ci smarriremmo nel seguire l’intreccio dei fatti. A noi interessa solo l’espressione “sofferenza dei palestinesi” che è contenuta nel saggio, dove Said riferisce dell’infortunio toccato a Wolfowitz nella scorsa primavera. Il saggio oltre alla narrazione degli eventi bellici relative in buona parte alla prima invasione israeliana del Libano contiene una serie di osservazioni di carattere generale che andremo evidenziando per il loro valore ermeneutico.

Dal testo di Said mi sembrano oggettivamente interessanti una serie di passi che riporto e commento in successione sequenziale. Innanzitutto un brano dove si palesa la deliberata intenzione da parte degli israeliani di uccidere Arafat. Si tratta di assassinio deliberato che si distingue dal comune rischio bellico di eserciti che si fronteggiano su opposti fronti secondo ataviche prassi di guerra che comportano una serie di regole riconosciute. Sarebbe come se in condizioni di non combattimento si decidesse di uccidere a sangue freddo un capo di stato o un suo alto dirigente allo scopo di decapitare il legittimo governo e produrre disordini interni che possano indebolire l'avversario. Se non questo non è terrorismo, come lo si vuol chiamare altrimenti. Ma ecco come nel 2002 scriveva Edward Said nel saggio linkato:
«In seguito sarebbe emerso in modo inequivocabile che Sharon stava tentando di uccidere Yasser Arafat, bombardando tutto ciò che stava attorno all'impudente leader palestinese. Oltre all'assedio c'era il blocco degli aiuti umanitari; le forniture di acqua e di elettricità erano state sospese e una campagna serrata di bombardamenti aerei aveva distrutto centinaia di edifici a Beirut. A metà agosto, quando si concluse l'assedio, si contarono 18.000 morti palestinesi e libanesi, la maggior parte dei quali civili».[…]
«…Verso la metà del 1994, Arafat, ancora a capo dell’OLP, e alcuni di quegli stessi consiglieri e soldati riuscirono a entrare a Gaza grazie ai cosiddetti accordi di Oslo. All’inizio di quest'anno Sharon avrebbe detto di sentirsi rammaricato per non essere riuscito ad uccidere Arafat a Beirut. Certamente non per non averci provato; decine di nascondigli e di quartier generali sono stati ridotti in macerie con grosse perdite umane nel tentativo di stanarlo
».
Sembra di ravvisare un chiaro precedente all’odierna divisione indotta nel conflitto Hamas/al Fatah in quanto accadde in Libano. Uno delle parti impegnate nella guerra intestina prevalse con l'aiuto determinante di Israele. Questi avrebbe perciò dovuto diventare vassallo di Israele. Ma così non fu e gli eventi precepitarono in modo oscuro quanto tragico:
«Il principale alleato di Sharon era Bashir Gemayel, capo del partito della Falange, che il 23 agosto il parlamento aveva eletto presidente del Libano. Gemayel odiava i palestinesi per essere sconsideratamente entrati nella guerra civile a fianco del Movimento Nazionale, un'estesa coalizione di partiti di sinistra e di partiti nazionalisti arabi che comprendeva Amal, un precursore dell'odierno movimento dell'Hezbollah sciita, il quale avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella cacciata degli israeliani nel maggio del 2000. Alla prospettiva di un diretto vassallaggio nei confronti di Israele, dopo che era stato l'esercito di Sharon ad averlo effettivamente fatto eleggere, Gemayel a quanto pare fece marcia indietro. Fu assassinato il 14 settembre. Due giorni dopo iniziarono i massacri dentro un cordone di sicurezza fornito dall'esercito israeliano, per consentire ai vendicativi estremisti cristiani di Gemayel di svolgere indisturbati il loro terribile lavoro nei campi di Sabra e Shatila.».
È di queste ore un lancio di agenzie che consente di stabilire un parallelismo fra il Libano di Gemayel e la Cisgiordania di Abu Mazen, dove entrambi questi personaggi sono chiaramente destinati al ruolo di “vassalli”:
Citta' di Gaza, 15:53
M.O.: HAMAS, VISITA DI BUSH UNA “SCENEGGIATA”
Il movimento di resistenza islamico Hamas ha liquidato come "sceneggiata" la missione della settimana prossima di Bush in Israele e nei Territori. Hamas, che a giugno scorso ha assunto con un colpo di mano il controllo della Striscia di Gaza e continua a opporsi alla linea del presidente Abu Mazen del negoziato con Israele, ritiene che la visita di Bush abbia il solo scopo di dare sostegno allo Stato ebraico e all'occupazione dei territori palestinesi. "La visita di Bush non e' ben accetta perche' fa soltanto il gioco degli occupanti garantendo loro sostegno psicologico e politico", ha detto in una nota Sami Abu Zuhri, dirigente di Hamas, "E' una visita di congedo, occasione di foto di gruppo mentre Bush si prepara a lasciare la Casa Bianca"».
Fonte: La Repubblica News
Non si può rimproverare ad Hamas una sfiducia preconcetta circa le vere intenzioni dei negoziatori di Annapolis in quanto sono inequivocabili i precedenti libanesi del 1982:
«I fatti del 1982 hanno consolidato negli arabi la convinzione non solo che Israele avrebbe usato una tecnologia avanzata (aerei, missili, carri armati ed elicotteri) per attaccare i civili in maniera indiscriminata, ma anche che né gli USA né i governi arabi avrebbero fatto nulla per fermare gli attacchi, anche se questi avrebbero significato prendere di mira i leader e le capitali».
Fu quello anche il primo tentativo nell’area mediorientale di cambiare il governo di un paese con l’intervento militare:
«Così si concluse il primo vero e proprio tentativo militare dei nostri tempi di cambiamento di regime da parte di un paese sovrano contro un altro in Medio Oriente. Lo cito come sfondo caotico a quello che sta succedendo in questo momento. Oggi Sharon è il primo ministro di Israele, i suoi eserciti e la sua macchina propagandistica ancora una volta accerchiano Arafat e i palestinesi ne offrono l'immagine disumanizzata di "terroristi". Vale la pena ricordare che la parola "terrorista" cominciò ad essere impiegata sistematicamente da Israele a metà degli anni '70 per descrivere qualsiasi azione di resistenza da parte dei palestinesi. Da allora questa è stata la regola, specialmente durante la prima Intifada del 1987-93, con il risultato di eliminare la distinzione tra resistenza e puro terrore e, di fatto, depoliticizzare le ragioni della lotta armata. Durante gli anni '50 e '60 Ariel Sharon si fece un nome, per così dire, guidando l'infame Unità 101, che fece vittime tra i civili arabi e rase al suolo le loro case con l'approvazione di Ben-Gurion».
Seguirà poi il caso dell’Iraq, il cui governo – liberamente eletto – è però costituzionalmente asservito all’esercito invasore ed è anche il destino di Abu Mazen, che forse è il primo a rendersene conto ma che evidentemente trova gradevole il servaggio. Fra guerre preventive ed imposizione militare dei governi la nostra democrazia da esportazione è un prodotto scadente che ci ritorna indietro e ci costringe ad interrogarci sui fondamenti delle nostre istituzioni. Analogo discorso per il terrorismo, il cui carattere propagandistico si regge solo grazie al vergognoso asservimenti dei grandi mezzi di comunicazione che danno credito non solo ad un concetto privo di contenuto ma che se mai ne avesse uno dovrebbe essere ritorto principalmente contro gli USA e Israele, i veri Stati terroristi ovvero Stati canaglia.

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