martedì 26 aprile 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Sanzioni ed eterogenesi dei fini"


 

Dall’inizio del conflitto russo-ucraino i mass-media mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..

Questo toccandone ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista, che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può – l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.

Certo sanzionare le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.

D’altra parte nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.

A partire da quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato il proprio regime nemico degli Yanquis; permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani, e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.

La prima: che la guerra reale è condizionata, limitata ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.

La seconda: per essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero parzialmente e distrattamente. Lo zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati satelliti.

Al contrario l’embargo deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941 era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in primo luogo.

I militari giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).

Cambiando angolo visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di fattori, fattori di potenza. Ossia idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo, anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna – riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé – hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo. Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza). Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace, quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.

venerdì 22 aprile 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: A.A.V.V., "Grammatica del costituzionalismo", a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

 

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.


giovedì 21 aprile 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Pace e guerra in Ucraina"


 

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)

b) li si applica alla situazione concreta

c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass - quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

sabato 9 aprile 2022

La dichiarazione di Putin sull'annuncio del pagamento in rubli del gas.

 

Vale la pena di ascoltare l’intero discorso, perché il presidente Putin ha comunicato all’Occidente le proprie intenzioni senza possibilità di equivoci. Devo avvertire che si tratta di una traduzione automatica, per cui le sfumature lessicali potrebbero non essere riprodotte. Quello che segue è il senso generale delle parole di Putin.

Dato che il sito del Cremlino viene attaccato ad intermittenza, questa traduzione automatica arriva tramite un post su Moon of Alabama, per il quale ringraziamo karlof1 [in inglese].

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Tratto da Saker

Oggi ho firmato l’Ordine Esecutivo che introduce le regole per il commercio del gas naturale russo con i cosiddetti stati ostili. Offriamo a questi Paesi uno schema chiaro e trasparente. Per acquistare gas naturale russo, devono aprire dei conti in rubli nelle banche russe. È tramite questi conti che sarà effettuato il pagamento per il gas consegnato a partire da domani, 1° aprile. Se i pagamenti non verranno effettuati, si tratterà di inadempienza contrattuale, con tutte le conseguenze derivanti. Nessuno ci dà niente gratuitamente, e noi non faremo beneficenza. Ciò significa che ai contratti non sarà data esecuzione.

Vorrei sottolineare nuovamente che in una situazione in cui il sistema finanziario viene utilizzato dai paesi occidentali come fosse un’arma, quando le aziende di questi stati si rifiutano di adempiere ai contratti con banche, imprese ed individui russi, quando i beni in dollari ed euro sono congelati, non ha senso utilizzare le valute di questi paesi.

Quindi, cosa sta succedendo, e cosa è già successo? Abbiamo fornito ai consumatori europei le nostre risorse, in questo caso il gas, e loro l’hanno ricevuto, ci hanno pagato con gli euro che poi loro stessi hanno congelato. A questo proposito, esistono ragioni valide per ritenere che abbiamo fornito all’Europa del gas praticamente gratis.

Ovviamente tutto questo non può continuare. Inoltre, nel caso di altre forniture di gas pagate nell’ambito del regime tradizionale, possono essere bloccate anche nuove entrate finanziarie in euro o dollari. Possiamo ragionevolmente aspettarci questa possibilità, soprattutto perché alcuni politici in Occidente ne parlano in pubblico. È in quest’ottica che si esprimono i capi di governo dei paesi dell’Unione Europea. I rischi di questa situazione sono ovviamente inaccettabili.

E se si considera la questione nel suo complesso, il trasferimento dei pagamenti in rubli per la fornitura di gas russo è un passo importante verso il rafforzamento della nostra sovranità finanziaria ed economica. Continueremo a muoverci in modo coerente e sistematico in questa direzione nel quadro di un piano a lungo termine, per aumentare la quota di aggiustamenti nel commercio estero in valuta nazionale e nelle valute di quei paesi che si dimostrano contraenti affidabili.

A proposito, probabilmente siete al corrente che molti fornitori tradizionali di risorse energetiche per il mercato mondiale stanno anche parlando di diversificare le valute di riferimento.

Permettetemi di ripeterlo ancora una volta: per la Russia la reputazione commerciale è un valore. Rispettiamo e continueremo a rispettare tutti i nostri obblighi contrattuali, compresi quelli sul gas, e continueremo a fornire gas nei volumi stabiliti e, lo sottolineo, ai prezzi specificati nei contratti a lungo termine esistenti.

Faccio notare che questi prezzi sono diverse volte inferiori alle attuali quotazioni sul mercato spot. Cosa significa? In breve, il gas russo vuol dire energia meno costosa, calore e luce nelle case degli europei, un costo accessibile dei fertilizzanti per gli agricoltori europei, e quindi cibo. Sta in tutto questo la competitività delle imprese europee, e di conseguenza anche gli stipendi dei cittadini europei.

Tuttavia, stando alle dichiarazioni di alcuni politici, pare che siano pronti ad ignorare gli interessi dei loro stessi cittadini per compiacere il loro padrone d’Oltremare, il loro signore feudale.  Una sorta di populismo al contrario: le persone sono incoraggiate a mangiare di meno, a vestirsi di più per risparmiare sul riscaldamento, a non viaggiare – e tutto questo presumibilmente a beneficio di quelle persone che pretendono questi sacrifici per il bene di un’astratta solidarietà nordatlantica.

È da più di un anno che osserviamo questi discutibili comportamenti da parte dei paesi occidentali nel campo delle politiche energetiche e alimentari.

Tra l’altro, la crisi alimentare sarà seguita da un’altra inevitabile ondata di migrazione, principalmente verso i paesi europei.

Ciò nonostante, un po’ alla volta sono prese decisioni che spingono l’economia mondiale verso la crisi, portano alla rottura dei legami produttivi e logistici, ad un incremento dell’inflazione globale e a un aumento delle disuguaglianze, ad una diminuzione del benessere di milioni di persone, e nei paesi più poveri, come ho già detto, alla tragedia della fame di massa.

Naturalmente, sorge la domanda: chi è responsabile di questo? Chi dovrà risponderne?

È chiaro che gli Stati Uniti cercheranno di nuovo di risolvere i propri problemi – i propri esclusivi problemi – a spese di qualcun altro, e questo include nuove ondate di emissioni e deficit di bilancio. Quest’ultimo è già cresciuto in modo esorbitante, e nelle principali economie europee e negli Stati Uniti sono ormai battuti i record dell’inflazione. Intanto incolpano noi dei loro errori di politica economica. Sono sempre alla ricerca di qualcun altro da incolpare. È piuttosto ovvio, lo vediamo tutti.

Vorrei aggiungere che gli Stati Uniti cercheranno di capitalizzare l’attuale instabilità globale, come hanno fatto durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, durante le loro aggressioni contro la Jugoslavia, l’Iraq, la Siria e così via. I mercati globali sono in calo e solo il valore delle azioni delle società del complesso militare-industriale americano sta crescendo. Il capitale sta fluendo negli Stati Uniti, privando altre regioni del mondo di risorse per lo sviluppo.

Di conseguenza, gli europei non solo sono costretti a pagare, ma addirittura a minare con le loro stesse mani la base della competitività delle loro imprese, rimuovendole dal mercato globale. Per l’Europa questo vuole dire la deindustrializzazione su larga scala e la perdita di milioni di posti di lavoro. E, tenendo conto dell’aumento dei prezzi di cibo, benzina, elettricità, alloggi e servizi pubblici, significa anche un radicale declino del tenore di vita dei cittadini.

È il prezzo che la gente paga, come ho già detto, per le ambizioni e le scelte politiche ed economiche miopi delle élite di potere occidentali, inclusa la guerra economica che tentano di scatenare contro la Russia, o si può anche dire, che hanno già scatenato.

Tutto questo non è iniziato adesso, né il mese scorso. Sono anni che nei confronti del nostro paese vengono attuate sanzioni illegittime e restrizioni varie. Vogliono frenare lo sviluppo della Russia, minare alla base la nostra sovranità, indebolire il nostro potenziale produttivo, finanziario e tecnologico.

Consentitemi di ripetere che queste sanzioni erano state già preparate in anticipo, e sarebbero state introdotte lo stesso, lo voglio sottolineare. In realtà, queste sono sanzioni per il nostro diritto alla libertà, per il diritto di essere indipendenti, per il diritto di essere la Russia. Tutto questo, per il fatto che non vogliamo suonare musiche scritte da altri, sacrificare il nostro interesse nazionale ed i nostri valori tradizionali.

L’Occidente collettivo non abbandonerà la sua politica di pressione economica sulla Russia. Anzi, di sicuro vorrà trovare nuove ragioni, o più correttamente pretesti, per imporci le sue sanzioni. Perciò, non ha senso contare sulla possibilità che questa politica subisca un cambiamento, non almeno nel prossimo futuro.

A questo proposito, chiedo al Governo, alla Banca Centrale e alle regioni di tenere conto del fatto che la pressione delle sanzioni sul nostro paese continuerà, come è successo nei decenni precedenti. Questa è la realtà.

Cosa penso sia importante notare qui e chiedere a tutti i nostri colleghi di prenderne nota? Quando si considera la situazione in ogni settore specifico, dovremmo concentrarci non solo sul superamento delle sfide attuali, ma anche sulla costruzione di piani di sviluppo a lungo termine basati sulle capacità interne della nostra economia, della scienza russa e del sistema educativo. Dovremmo fare affidamento principalmente sull’iniziativa imprenditoriale privata e su una sana concorrenza, sforzarci di massimizzare l’utilizzo delle nostre imprese, creare nuove competenze e migliorare la competitività globale della Russia nel suo complesso.

Allo stesso tempo, gli indicatori chiave dell’efficacia della politica economica per noi devono essere il mantenimento e la creazione di posti di lavoro, la riduzione della povertà e della disuguaglianza, il miglioramento della qualità della vita delle persone e l’accesso a beni e servizi. È con questi requisiti in mente che la scorsa settimana abbiamo discusso la situazione nei settori dell’edilizia e delle abitazioni.

mercoledì 6 aprile 2022

Teodoro Klitsche de la Grange: "Nebbia della guerra e fake news"

Scriveva Clausewitz che la guerra è caratterizzata dalla “nebbia” che non consente o consente con poca chiarezza e distinzione la percezione della situazione effettiva.

Tale nebbia non è però solo quella di Austerlitz, cioè un fenomeno naturale, ma è dovuta ad attività (ed errori) umani: alla confusione, allo scarso o contraddittorio afflusso d’informazioni, agli espedienti del nemico volti ad ingannare. Le informazioni, scriveva il generale prussiano, sono la base per le “nostre idee ed azioni… base fragile ed oscillante, e si comprenderà ben presto quanto pericolosa sia l’impalcatura della guerra, con quanta facilità possa crollare, e schiacciarci sotto le sue macerie”. Le informazioni perciò “in guerra sono in gran parte contraddittorie, in maggior parte ancora menzognere, e quasi tutte incerte”. Tale difficoltà è già importante per chi deve decidere, cioè i comandanti politici e soprattutto militari, gli esperti. Ma è assai peggiore “la cosa per colui che non ha esperienza…ed invece le notizie successive si sostengono, si confermano, s’ingrandiscono, aggiungono”. E il “pubblico” cioè coloro che osservano le descrizioni belliche, sono il massimo della non-esperienza, e non si rendono conto o in misura minima che “la maggior parte delle informazioni è falsa… Ciascuno è disposto a credere più il male che il bene, ciascuno è tentato di esagerare un poco il male: ed i pericoli fittizi che vengono segnalati, in tal modo, pur dissolvendosi in se stessi come le onde del mare, si affacciano, al pari delle onde, senza una causa visibile”. Il capo ha così il difficile compito di valutare e selezionare tra le tante che gli giungono, le notizie più attendibili.

Quando poi le informazioni generosamente distribuite sono dirette al pubblico radio-televisivo e dei media in genere, la nebbia s’infittisce e si amplifica l’interesse a produrle, anche quando la saggezza le rende improbabili. Con ciò si passa alla “guerra psicologica”, definibile come l’insieme delle iniziative volte a controllare l’opinione pubblica e i di essa giudizi ed azioni, agendo – prevalentemente – sul sentimento  e l’emotività. Se indirizzato al nemico (in atto o in potenza) lo scopo assolutamente prevalente è di condizionarne e fiaccarne la volontà, inducendolo alla trattativa (a perdere), se la guerra è in atto, o a non farla (o a non intervenire) se è in potenza. Questo è ovvio, perché da un lato la guerra è un mezzo per affermare la propria volontà e potenza, onde il miglior nemico è quello poco determinato a combattere; dall’altra la prima regola dell’agire strategico è ridurre il numero (o almeno la potenza) dei nemici, come ben sapevano i romani. Il generale prussiano, tuttavia, in un’epoca in cui la stampa quotidiana muoveva i primi passi non era in grado di prevedere quanto si sarebbe intensificata col progredire dei media.

La guerra russo-ucraina è connotata, ancor più che le precedenti del XX e XXI secolo, da essere una guerra telematica, combattuta sui media, non meno – anzi di più – che sul campo. Ma sempre caratterizzata dallo scopo, ovvero fiaccare la volontà del nemico e indurlo a sottomettersi – e dei mezzi all’uopo spiegati: una massa d’informazioni false, artate, contraddittorie. Che non reggono, o sono del tutto improbabili una volta verificate o valutate.

Ad esempio il ruolo di Putin, elevato – in mancanza di più acconci interpreti – ad incarnazione del male assoluto. È lo stesso statista che fino a pochi mesi fa interloquiva con tutti i grandi della terra, che stringevano accordi e facevano affari con lui. Mostrandosi così, almeno, un po’ ingenui, facenti parte della razza dei Chamberlain, non dei Bismarck. E anche dimentichi che il nemico non è solo quello cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si conclude la pace. Onde è meglio, come nel diritto (romano) e internazionale classico non demonizzarlo, o anche solo criminalizzarlo, perché così si rende ancora più difficile concludere la pace. E la stessa pace diventa così una tregua di briganti.

Altra notizia non falsa, ma costante, è quella sui “danni collaterali”, ossia sui civili morti a causa delle operazioni belliche. É cosa vera, semplicemente perché da millenni a far le spese della guerra sono (anche) gli innocentes (come scrivevano i teologi-giuristi del ‘600). Ancor più nelle guerre moderne dove la straordinaria forza distruttiva delle armi ne ha reso l’uso limitato spesso impossibile, Con la conseguente violazione del principio del diritto “in guerra” di risparmiare gli innocentes, ossia i non combattenti.

Solo che a distinguere tra crimine di guerra e “danni collaterali” è, molto spesso, la natura dell’obiettivo e l’intensità (e potenza) dell’attacco. Ad esempio non risulta che i russi abbiano impiegato l’aviazione per bombardamenti terroristici, tipo quelli di Dresda, Amburgo e Tokio (e di tante altre città dell’Asse) della seconda guerra mondiale. In cui i morti, nella più modesta delle valutazioni furono alcune decine di migliaia (a bombardamento). E dove furono largamente impiegate le bombe al fosforo per causare incendi difficilissimi da spegnere. Cioè proprio ordigni fatti con lo stesso elemento che tanto tiene banco tra le atrocità russe praticate in questa “operazione militare speciale”. Peraltro anche in tal caso qualcuno s’è impancato a docente di chimica bellica, confondendo fenomeni e norme. Le bombe al fosforo sarebbero armi “chimiche” perché… basate su una reazione chimica (produrre la combustione). Ma essendo una reazione chimica altresì l’esplosione causata dalle bombe convenzionali, anche queste, ragionando come certi esperti, sarebbero delle armi chimiche. Sul piano giuridico invece le bombe al fosforo sono classificate armi convenzionali e, per questo, vietate dalla Convenzione di Ginevra del ’98, ma tenute ben distinte dalle armi chimiche vietate da altra convenzione. Per cui reagire all’uso di ordigni al fosforo con un bombardamento di gas nervini sarebbe una rappresaglia sproporzionata.

Soprattutto non si può confondere il nemico con il criminale come fa la propaganda argomentando che l’uno e l’altro uccidono e danneggiano. La Russia – e così l’Ucraina – ha, come qualsiasi Stato lo jus belli, e quindi il diritto di servirsene. Chi la governa non è un animale, un essere non-umano, né un delinquente. Già lo sapevano i romani. Nel Digesto (L, 16, 118) si legge “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”; e traducendo “i nemici sono coloro che a noi, o noi a loro,  abbiamo dichiarato pubblicamente guerra: gli altri sono briganti o pirati”. Caso mai Putin ha, secondo una moda invalsa da quasi un secolo, fatto la guerra chiamandola diversamente (operazione militare speciale). Ma in ciò è stato preceduto da tanti altri – Nato compresa – che ha condotto guerre denominandole “operazioni di polizia internazionale” (ecc. ecc.). L’ipocrisia non è una pratica peculiare a un contendente ma appare estesa a tutta un’epoca che, vagheggiando un pacifismo integrale, ha cominciato a  realizzarlo dal vocabolario. Purtroppo non andando oltre.

Resta da vedere se, diversamente dalle buone intenzioni esternate, una pratica siffatta non faccia crescere d’intensità lo scontro bellico: anzi la creazione del male, del nemico assoluto porta proprio a quello: ad intensificare il sentimento ostile (Clausewitz);e così a popolarizzare la guerra.

Le vie dell’infermo sono lastricate di buone intenzioni.