Dall’inizio del
conflitto russo-ucraino i mass-media
mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle
sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..
Questo toccandone
ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista,
che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare
il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno
visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire
il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può
– l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti
non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi
possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.
Certo sanzionare
le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo
che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin
concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.
D’altra parte
nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione
o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.
A partire da
quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba
che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato
il proprio regime nemico degli Yanquis;
permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani,
e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la
sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati
così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.
La prima: che la
guerra reale è condizionata, limitata
ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre
pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso
di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio
della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi
e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né
influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la
conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.
La seconda: per
essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di
guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia
furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino
alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero
parzialmente e distrattamente. Lo
zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati
satelliti.
Al contrario l’embargo
deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941
era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle
possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in
primo luogo.
I militari
giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe
durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione
alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi
dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso
ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella
in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo
così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).
Cambiando angolo
visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che
consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito
essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza
da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della
guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di
fattori, fattori di potenza. Ossia
idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far
prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo
politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte
conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non
perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo,
anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da
altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito
guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna
– riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati
continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse
economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico
II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé –
hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza
dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo
essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione
nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo.
Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e
richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si
rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza).
Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più
ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle
sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace,
quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.
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