lunedì 20 febbraio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Piero Visani, Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo, Oaks editrice, pp. 166, euro 20,00"

È veramente spiacevole recensire un libro come questo, postumo, sapendo che non se ne leggeranno altri. Perché Piero Visani, da me recensito negli ultimi anni, nei suoi lavori aveva testimoniato di un pensiero libero ed anticonformista, e al contempo, nel solco della migliore tradizione del pensiero politico (e giuridico) moderno.

Nell’introduzione il figlio Umberto riporta uno scritto indirizzatogli dal padre, che gli aveva “sempre cantato le lodi di una concezione antimercantilistica, antieconomicistica, antiutilitaristica, antispeculativa dell’esistenza”, e che è la migliore sintesi dei diversi scritti raccolti

E in effetti il libro consta di cinque parti: la prima sulla visione del mondo; la seconda sulla politica; la terza sulla guerra; la quarta sullo spettacolo; la conclusione, sugli scenari futuri.

Data la vastità dei temi, la sintesi sopra riportata, dovuta all’autore è quanto mai utile; tuttavia qualche altro passo può dare il senso di questo denso volume. Ad esempio sulla propaganda delle élites dirigenti che ci ha abituati a dissociare potere politico e militare da quello economico; e ancor più a dimenticare la “realtà effettuale” di guerra, nemico ed uso della forza (e così le condizioni di esistenza e azione politica). Ma a parte altro, la stessa propaganda criminalizza e indica al pubblico ludibrio chi non paga le imposte (di cui la classe dirigente vive), onde la considera l’autore così «si può essere  contrari al sogno di una grande Italia, in piena legittimità, ma essere favorevoli alla pratica di una “grande Equitalia” è davvero incredibile, è un obiettivo da minorati mentali. A meno che i “morti di fisco”, come i morti fatti dagli americani e dagli occidentali in genere, siano “meno morti”…». Visani peraltro, in tanti passi fa notare come le classi dirigenti  inette e in decadenza, predicano il bene, ma praticano alacremente lo sfruttamento della maggioranza governata. È inutile ricordare come, in Italia soprattutto, il servilismo e le prediche edificanti, hanno raggiunto il proprio apice proprio in coincidenza con il massimo prelievo fiscale, condizione per la (comodissima) vita delle stesse élite. Le quali vendono parole per rapinare beni.

Il buonismo imperante, il politicamente corretto si coniugano ad una incapacità di comprensione (e comunicazione) della realtà, ad una continua affabulazione, onde a seguire certi capi (?), il mondo di Bengodi della globalizzazione sarebbe già in atto e in via di completamento.

Tutt’al più, basta eliminare qualche disturbatore (già criminalizzato) per terminare l’opera (dell’uscita dalla storia). IN un quadro del genere un discorso come quello di Churchill che  prometteva agli inglesi sangue, sudore e lacrime prima di arrivare alla vittoria costituisce un esempio di cosa non dire. Ma a chi scrive l’illusione del mondo globalizzato (attenti alle votazioni all’Assemblea ONU – di segno opposto) ricorda quanto proclamato nella costituzione sovietica brezneviana, che il socialismo si era realizzato. Così bene che crollò una dozzina d’anni dopo; e di certe nuove illusioni non si può che augurarsi lo stesso.

Visani tratta di molte cose (film compresi): di idee, di autori, di mentalità, e sempre con un taglio originale e politicamente scorretto (ça va sans dire). È difficile trarre da una tale massa di giudizi un unicum prevalente. Tra i diversi possibili (e data l’abbondanza) ne ricordiamo tre:

Il primo è il disprezzo per le classi dirigenti attuali, in particolare per quella italiana (tuttavia il disprezzo è indirizzato anche a quella che l’aveva preceduta). Il secondo, correlato al precedente, è che le attuali élites (che secondo Max Weber vivono sia di politica che per la politica), vivono esclusivamente di, avendo cancellato dalla propria prospettiva di vivere per; così come di realizzare risultati invece di propagandare (buone) intenzioni.

Il terzo che la Weltanschaung globalista  appare come una scissione del rapporto – necessario in politica, come attività umana – tra ragione e passione.

Quello di cui è un esempio insuperato l’ultimo capitolo del Principe, dove l’unità politica d’Italia – in un mondo di Stati nazionali nascenti – era la condizione insostituibile per un’esistenza indipendente ed autonoma- Onde repubbliche e signorie, le quali avevano senso e funzione in un medioevo feudale, lo avevano perso con l’incipiente formarsi del mondo moderno.

La consapevolezza della diversità del contesto storico e politico era il presupposto di poter vivere liberi nella mutata situazione. Ragione (di Stato) e passione politica che la classe dirigente non riesce a coniugare. E che questo libro così interessante, che non dimentica mai tale rapporto, ci aiuta e sprona a fare.

 

giovedì 9 febbraio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Costituzione e canzonette"

A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.

Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).

Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto  dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.

Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da    Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).

Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.

C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.

Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”. Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.

 

martedì 7 febbraio 2023

Sull'Ebraismo come religione nel suo rapporto con il cristianesimo*

* Post originariamente in Facebook e qui salvato nella non improbabile ipotesi che venga in Facebook censurato e soppresso. Testo redatto a seguito di una privata conversazione e qui pubblicato con riserva di ulteriori elaborazioni, modifiche, integrazioni.

SULL'EBRAISMO COME RELIGIONE
NEL SUO RAPPORTO CON IL CRISTIANESIMO.

Con una persona assai cara, ma di diverse opinioni, mi è ancora una volta capitato di avere discussione sul tema indicato nel titolo, che spero non venga tacciato di "antisemitismo". Ne posso estrarre questo post che rendo pubblico.

Per quanto mi riguarda, come ammiratore del mondo greco-romano e precristiano, se il Cristianesimo che si venne a formare nel crogiuolo della società e cultura ellenistica, viene inteso e praticato come qualcosa di nuovo e diverso dalla religione giudaica che si evince dal Vecchio Testamento, dico nuovo e diverso, ma anche antitetico e contrapposto, allora la nuova religione universalistica, la Buona Novella, può essere qualcosa di rispettabile e perfino condivisibile.

Ma se il Cristianesimo oggi praticato lo si intende come un sottoprodotto, uno scarto dell'ebraismo, e perfino qualcosa di inferiore, o peggio ancora come il "compimento" dell'ebraismo, allora non solo l'ebraismo in quanto religione e cultura, ma neppure il cristianesimo è oggetto del mio interesse e apprezzamento: no, grazie! Se possibile, preferisco e patrocino il ritorno degli Dei Antichi, che oggi mi appaiono quanto mai attuali. Ne sento fortemente la nostalgia.

Detto questo, respingo fermamente l'operazione che è già implicita nel termine "antisemimistico", divenuto un titolo penale di reato severamente punito. Dopo un lungo periodo di documentazione, letture e riflessioni critiche, sono arrivato a distinguere tre diversi fenomeni che vengono volutamente e deliberatamente confusi:

a) L'antigiudaismo in quanto posizione meramente religiosa che si oppone al giudaismo religione, che ha sempre disprezzato tutte le altre religioni diverse dalla propria e i popoli relativi che in quelle religioni si riconoscevano e ne praticavano i culti. Nel medioevo vi vu anche in ogni paese una reazione di carattere sociale verso gli ebrei, ma si trattava per lo più di reazioni alle funzioni sociali che l'ebraismo esercitava: usura, esazione delle tasse, e quanto altro veniva loro assegnato dai Principi che per quelle stesse funzioni non volevano impiegare persone di religione cristiana. Esiste una letteratura sull'argomento che ho in buona parte letta e che è sempre utile leggere per chi si interessa a queste problematiche. L'antigiudaismo qui descritto non ha in ogni caso niente a che fare con l'antisemitismo post revoluzione francese. Trovo ben sintetizzato il problema in una pagina di B. Lazare, sionista e difensore di Dreyfus, dove si legge, rivolgendosi agli Ebrei: se in ogni epoca, in ogni paese, tutti i popoli hanno avuto moti violenti di protesta e reazione verso gli Ebrei, non sarebbe il caso di indagare se la causa di ciò non debba trovarsi in voi stessi?

b) L'antisemitismo propriamente detto, e oggi titolo penale di reato, sorge come conseguenza della equiparazioni dei diritti degli ebrei a quelli degli altri cittadini. Per molti, moltissimi casi fu una liberazione per gli ebrei stessi che poterono sottrarsi alla tirannia delle leggi rabbiniche alle quali nessuno nato di religione ebraica poteva sottrarsi. Il caso Spinoza è celebre e ad esso rinvio. Vi fu però una reazione da parte degli altri concittadini che non credevano alla lealtà dei nuovi cittadini. Inizialmente le Associazioni Antisemite erano perfettamente legali e legalizzate, e si poteva parlare liberamente di antisemitismo come oggi si parla e si deve parlare di anticomunismo, antifascismo, antinazismo... Il culmine di questa fase si ha con il caso Dreyfus, sul quale si innestò il sionismo ed oggi il fenomeno neo-con, i cui frutti vediamo oggi sotto i nostri occhi, o almeno sotto quegli occhi capaci di vedere, nella guerra in Ucraina.

c) L'antisionismo è a nosto avviso una reazione più che legittima al sionismo, che il già presidente Napolitano proponeva di equiparare all'antisemitismo. Ogni presidente, ogni detentore di potere grande o piccolo, ha in genere accanto a sé un consigliere "ebreo" che gli detta cosa deve dire e cosa fare. Conservo una lettere di simili "consiliori" avendo scritto una volta una lettera trabocchetto al già presidente Giorgio Napolitano. Non mi rispose lui direttamente, ma un suo "consiliore" appunto "ebreo"... Per quanto riguarda l'analisi del sionismo e quindi antisionismo il mio riferimento culturale è Gilad Atzmon, che definisce se stesso un "ex ebreo", che lasciò in segno di protesta lo Stato di Israele, dove era nato e dove compì il servizio militare. Egli definisce il sionismo come una "dottrina di primatismo razziale a carattere globale". Se così è, dovrebbe essere più che comprensibile una reazione "antisionista". Quanto poi all'antisemitismo credo che oggi non abbia più senso: nessuno perseguita gli ebrei in quanto ebrei. Anzi si verifica il caso opposto: sono gli ebrei che perseguitano i "non ebrei" che appena appena un poco si permettono di essere critici verso di loro, specialmente per il loro rapporto con lo Stato di Israele. È tanto vero ciò che dico, sul non senso del termine antisemitismo, al punto che loro stessi si sono coniati una definizione di cosa è antisemitismo, imposta come normativa a governi e assemblee da loro influenzati. Così ad esempio, criticare lo Stato di Israele è "antisemitismo", porre in evidenza ciò che gli Ebrei fanno in Israele ai palestinesi, è ... "antisemitismo"!

Spero di essere stato chiaro e di aver chiarito definitivamente e conclusivamente la mia posizione su questi temi. Desidero occuparmi di altro...

giovedì 2 febbraio 2023

Teodoro Klitsche de la Grange: "Pinocchio va alla guerra"

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina abbiamo letto notizie ed opinioni talvolta inverosimili in partenza, ma per lo più smentite dai fatti successivi; e il tutto accompagnato dall’omissione di circostanze contrarie, regolarmente taciute o minimizzate.

Quale esempio delle prime: Putin è matto, molto malato, ecc. ecc. Ma Putin non ha fatto nulla di diverso da quanto operato da secoli dai governanti russi: cercare uno “sbocco” a sud verso i mari caldi, con decine di guerre soprattutto contro gli ottomani. Per cui se farlo significa essere matti, vuol dire che la Russia è diretta, almeno da tre secoli, da dementi; ma ciò non le ha impedito di divenire una grande potenza. Ovvero che Putin sarebbe stato detronizzato dai “suoi”. Può darsi, ma finora, a quasi un anno dall’inizio delle ostilità, sembra saldo al potere. O anche che le sanzioni alla Russia l’avrebbero messa in ginocchio: ad oggi pare solo che ha perso qualche 2-3% del PIL (ossia un terzo di quello perso dall’Italia col governo Monti) e sarebbe in via di recupero. Quel che è taciuto è che il rublo si sia rivalutato nei confronti del dollaro e ancor più dell’euro: segno che i “mercati” – la pizia della stampa mainstream – ritengono la moneta (e l’economia) russa tutt’altro che inaffidabili, né in via di collasso.

O che i russi avrebbero presto finito le munizioni: da un anno continuano a sparare, il che testimonia che ce l’hanno. E potremmo continuare per pagine. Anche dall’altra parte se ne raccontano, ma la tempesta mediatica da occidente è di gran lunga superiore sia per varietà (e contraddittorietà) degli argomenti, sia soprattutto per quantità dei ripetitori. Nelle prime fasi del conflitto mi è capitato di scrivere che la “nebbia della guerra” di Clausewitz, applicata nel caso alla comunicazione, era imponente; oggi è ancora tale. L’ultimo caso è quello dei carri armati: è stata da poco diffusa la notizia che stavano per arrivare agli ucraini (nei prossimi tre mesi) circa 100 carri armati occidentali, destinati a far polpette di quelli russi. Nessuno spiegava né nei tre mesi suddetti, cosa avrebbero fatto i russi per evitarlo (magari accelerare le operazioni militari per vanificare tanto aiuto agli ucraini) ma soprattutto che la asserita qualità dei corazzati occidentali non avrebbe compensato la superiorità quantitativa di quelli di Putin. Un po’ come, per tenersi da quelle parti, successe nel ’43 a Kursk, dove qualche centinaio di eccellenti Tiger e Panther tedeschi fu sconfitto, malgrado le perdite inflitte ai sovietici alle assai più numerose formazioni di T-34 e KV russi. E ciò malgrado i nazisti fossero comandati dal miglior generale della II guerra mondiale: Erich von Manstein. Il quale infatti, e a dispetto dell’inferiorità numerica (da 1 a 3 a 1 a 5), riuscì a tenere l’Ucraina per circa un anno. Ma era von Manstein e non Zelensky a comandarle.

Agli albori dello Stato moderno, un noto giurista, Alberico Gentili, si poneva il problema se fosse lecito, in guerra, “ingannare” il nemico con menzogne di vario genere. E ne tratta per molte pagine del suo capolavoro il “De jure belli, libri 3”. Il problema sussisteva perché, per un giurista, è normale qualificare un comportamento come lecito o illecito.

E nel mentre riteneva illecito – in taluni casi – l’uso della menzogna per ingannare i nemici, tuttavia concludeva “Se infatti si ammette che a fin di bene anche gli amici possono essere ingannati con la menzogna, si può ammettere che i nemici possano essere indotti in errori per la loro rovina. Naturalmente, come agli amici è fatto per il loro bene, così ai nemici è reso il fatto loro e giustamente è recato loro danno”.

Ma in tutta la sua esposizione non si pone mai il problema del capo che mente (sistematicamente) al seguito; cioè il problema riconducibile alla propaganda di guerra – che tanta parte ha nei conflitti, soprattutto moderni.

Certo è che tutte – o quasi – le menzogne propagate non sembrano poter avere alcun effetto nell’ingannare Putin, o, al più, un’efficacia minima.

Quindi il loro unico – o assolutamente prevalente - risultato, è di suscitare un qualche consenso nell’opinione pubblica a sopportare il costo delle sanzioni e degli aiuti all’Ucraina. Ossia sono false o errate rappresentazioni ad usum delphini. Le quali hanno l’inconveniente, in politica e ancor più  nel di essa mezzo, la guerra, di indirizzare (e far regolare) le proprie azioni su presupposti e fini immaginari e immaginati, con ciò rischiando, a parafrasare Machiavelli “d’imparare più presto la ruina che la preservazione sua”. Nella specie quella della comunità nazionale, che i governanti hanno il dovere di proteggere e dei cui risultati devono rispondere.