A vedere l’omelia
di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete
certificato), mi è venuto in mente
quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può
essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste
solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili
tale espressione volesse privilegiare.
Se quello dei
realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme
né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non
solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la
sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità
del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).
Tuttavia resta
il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione
nel posto dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il
ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda)
verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.
Attribuire il
predicato della bellezza è un giudizio estetico:
si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più
bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona
Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor
de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo)
giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino
donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall
e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello
il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari.
A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o
negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il
giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito
all’indipendenza e potenza dell’unità politica. Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai
applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro
la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un
attributo positivo (e improprio) di bellezza
non le distingue (e non le santifica).
Tuttavia nel
chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero
perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei
principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti
culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi
trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”,
in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati”
la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che
dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai
minoritario.
C’è un’altra
ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un
significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana,
del poeta, del musicista o del pittore. La Divina Commedia è una straordinaria
costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come
gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli
un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il
cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e
la bellezza hanno compensato l’irrealtà
di queste.
Ma in politica
vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente
andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”.
Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando
l’immaginario (bello) per il reale “brutto”. Come d’altra parte, abitudine
consolidata negli ultimi decenni.
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