lunedì 24 settembre 2018

Teodoro Klitsche de la Grange: «Casalino e la burocrazia»


CASALINO E LA BUROCRAZIA
La “tempesta” provocata dalla pubblicazione della telefonata di Casalino sui propositi di “vendetta” del governo contro i dirigenti del MEF ha suscitato diversi tipi di reazioni.
La prima (stile ombrellone a Capalbio): come si permettono questi populisti rozzi ed ignoranti di criticare dei Tecnici, Esperti, Laureati e (per lo più) Nominati da noi? Se sono arrivati lì vuol dire che sono superiori, e gli inferiori hanno il dovere di credere, obbedire e pagare.
L’altra, più seria, tira in ballo la funzione della burocrazia e la distinzione tra potere burocratico e potere politico, garanzie (e doveri) del primo e così via.
Tutte cose (ed esigenze) consustanziali allo Stato moderno, il quale che sia democratico, monarchico, fascista o comunista è comunque sempre burocratico. È la burocrazia la costante principale (e trasversale) dello Stato moderno, come esposto oltre un secolo orsono da Max Weber.
Nello Stato democratico-liberale, al quale sono connaturali sia la selezione democratica dei governanti, sia le garanzie istituzionali degli apparati pubblici - ossia (anche) della burocrazia - chi esercita funzioni pubbliche appartiene all’una o all’altra categoria, le cui scriminanti essenziali (tra funzionario “politico” e burocrate) sono: funzione e carattere politico dell’uno e “neutro” dell’altro; e come connotato determinante l’essere scelti in base all’esito della lotta per il potere (quindi non necessariamente “esperti”) il primo, l’altro di essere estraneo alla lotta per il potere ed “esperto”. Cui corrisponde che mentre gli uni hanno competenze universali o comunque estese (v. il Parlamento; il governo, e, a scendere, i ministri), gli altri ne posseggono di limitate e specifiche (come le attribuzioni delle direzioni generali, e delle altre articolazioni dell’organizzazione amministrativa).
Dato però il principio democratico, è il potere politico ad attribuire le funzioni, almeno all’alta burocrazia, nominando agli uffici i titolari; i punti di contatto (e di frizione) quindi esistono e sono di fatto ineliminabili, a meno di compromettere da un lato il carattere democratico dello Stato, dall’altro la “neutralità” della burocrazia. Resta il fatto che, pur con tutte le garanzie istituzionali messe in opera dalle Costituzioni liberali, il rapporto tra i primi ed i secondi resta da un lato subordinato e dall’altro fiduciario.
Se però invece che subordinato divenisse coordinato (senza poteri di indirizzo e comando dei politici sui burocrati) lo Stato democratico perderebbe o ridurrebbe il proprio connotato fondamentale: la burocrazia non sarebbe servente, ma diverrebbe co-governante. Assumendo così un ruolo politico che contrasta con la propria (spesso inesistente ma prescritta) neutralità, oltre che col principio democratico.
Per cui la telefonata di Casalino può scandalizzare solo le zitelle di Capalbio: la burocrazia esegue e non governa perché è neutrale, subordinata e fruisce delle garanzie istituzionali. Se qualcuno non esegue è nell’ordine delle cose che debba essere messo alla porta.
A maggior ragione poi, quando, come dice il portavoce nella “celebre” telefonata, questi grand commis, sono stati nominati al loro posto da decenni; quindi dai partiti dell’ancien régime, onde è probabile che per formazione e devozione siano orientati a soluzioni diverse – e spesso opposte – a quelle sostenute da forze di governo accomunate dall’essere state sempre (i grillini) o da parecchi anni (i leghisti) all’opposizione. Che poi, data la nomina e la permanenza, i suddetti alti papaveri siano corresponsabili (in parte, forse non la maggiore) dello sfascio economico dell’Italia, che negli ultimi vent’anni è l’ultimo paese – per crescita economica dell’UE è assai più che un sospetto. Quindi è lecito pensare che al Ministero dell’economia i suddetti Tecnici devono aver “collaborato” a tale pessimo risultato e per questo non siano i migliori possibili.
Teodoro Klitsche de la Grange

mercoledì 12 settembre 2018

Teodoro Klitsche de la Grange: Forza, gufi!


FORZA GUFI
Da quando il governo grillo-leghista si è insediato, i gufi in servizio permanente effettivo hanno ripreso il (consueto) coro di previsioni catastrofiche: che avrebbe portato l’Italia allo sbaraglio, alla miseria, all’isolamento internazionale, ecc. ecc. La variante – nel caso - del canto funebre consiste nel fatto che, dagli stessi cantori, è attribuito a esponenti governativi d’intonare lo stesso ritornello iettatorio. Di Maio, soprattutto, è criticato per le sue previsioni di attacco finanziario all’Italia: ciò per addossare le colpe del (sicuro) fallimento del programma giallo-verde non allo stesso, ma a un complotto internazionale antitaliano, assolvendo l’intrinseca pochezza ed erroneità del “contratto di governo”, così diverso dalle idee, dalle esternazioni (e dalla politica) del centrosinistra d’antan. Per cui dagli a prevedere spread a gogò, crescita negativa. Europa corrucciata e “di traverso”.
Che Di Maio preveda manovre per propiziare questo scenario non è incredibile: in fondo è sempre successo sia che si siano realizzate manovre speculative “montate” ad arte, sia che si siano provocate e utilizzate a scopi politici, con strumenti economici e finanziari (blocchi, embarghi, tariffe protezionistiche). Un libro notissimo di alcuni anni fa (Guerra senza limiti) dei due colonnelli cinesi riteneva ciò normale conseguenza del rifiuto dello strumento militare, onde l’ostilità e la lotta per il potere si persegue con altri mezzi.
Ma a parte quest’ovvia considerazione e tenuto conto che aggiungere Di Maio alla compagnia cantante dei gufi non è congedare questi dal coro (basta leggere certi giornali, anzi la maggioranza), tali previsioni, a giudicare dai riscontri recenti, sono di buon augurio.
Infatti le sentiamo ogni volta che un movimento sovran-popul-identitario contesta con successo, o peggio, insidia o conquista il potere, pensionando i gufi.
Prima (e dopo) l’elezione di Trump era stato previsto che il plutocrate avrebbe portato l’America al disastro, alla regressione, al crollo finanziario. Risultati: Wall Street ai massimi storici, il PNL USA in aumento (l’ultimo dato è del 3,1% tra 2017 e 2018) le esportazioni USA decollate.
Prima della Brexit la profezia dei gufi era che, se la Gran Bretagna usciva dall’UE, gli inglesi si sarebbero ridotti come in un romanzo di Dickens, tra orfanotrofi dell’orrore, sfruttamento, mendicità e miseria diffusa.
Nulla di tutto questo: il PIL della Gran Bretagna è in aumento – anche se con incrementi meno sostenuti di quelli pre-Brexit – e Oliver Twist può ripassare, semmai, alla prossima crisi.
In sostanza il copione è sempre lo stesso: prima allarmare l’opinione pubblica con scenari catastrofici per evitare l’evento, poi insistere nella speranza che si verifichi, e, quando non si avvera, passare ad altro argomento, facendo finta di niente.
Per cui date le capacità divinatorie di certi gufi, così che gli eventi realizzati sono il contrario di quelli da loro previsti, il governo italiano non può che trovare conforto dalle gufate: sono di buon augurio (involontario) e non il contrario: di tutto quello che prevedono - in materia – si realizza l’inverso. Certo c’è il dubbio se tanta imprevidenza sia dovuta all’incapacità a capire o al desiderio di conservare (o riconquistare) il potere: in altre parole se sono stregoni di qualità assai modesta o rosiconi. Ma, tenuto conto dei risultati, la ragione è meno importante. L’essenziale è augurare: forza gufi.
Teodoro Klitsche de la Grange

giovedì 6 settembre 2018

Teodoro Klitsche de la Grange: Donna Prassede abita a Capalbio.

DONNA PRASSEDE ABITA A CAPALBIO

Donna Prassede.
A distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.
A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), e ciò significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, meglio incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento sia il frutto della (più abile) propaganda populista.
Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista  o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” - ma se sopravviva quello tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.
È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.
Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente proprio dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).
Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.
All’uopo è interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra) dalla classe dirigente.
Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può in larga misura constatare che le valutazioni lì fatte mostrano la preveggenza di gran parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.
In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:
1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi)[1].
2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher  Lasch “La ribellione delle élite”.
3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate[2].
4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione[3].
5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario[4].
Di tutte, questa era la previsione più facile:  una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto  preveggenti  nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler o Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiavano.
Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla  lontana, l’Impero  di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi)[5].
A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale - di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro (e di tanti altri sul tema) Alain de  Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti, onde sarebbe stato proficuo, per i suoi contestatori, andarlo ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto.
Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive  Manzoni, aveva poche idee ma a quelle– come agli amici – era incrollabilmente affezionata.
E più ancora, che se politici ed intellos  non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, un marxismo edulcorato e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e prevedere scenari possibili. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti solo allo strumento ma anche all’operatore[6]. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.
Perché al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi (la quale è considerata, al contrario del colore – essenziale –un optional).
E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.
Teodoro Klitsche de la Grange



[1] Scrive Paul Piccone “le prospettive del populismo, inteso come un’alternativa politica praticabile, possono essere più luminose che nel passato. Ciò è facilitato anche dal fatto che, con la crisi della modernità, la New Class sta attraversando una fase di delegittimazione e di declino”. V. Destra/Sinistra cit. p. 110.
[2] Anche se, come scrive De Benoist, il successo populista “Ha rivelato l’ampiezza del fossato che si era già scavato tra le élite e il popolo; fossato, al contempo ideologico e sociologico. Esso ha rivelato la differenza di un popolo che non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare in suo nome, essendo questi ultimi accusati di cercare solo di conservare i loro privilegi e di servire i loro interessi particolari. In effetti, da diversi decenni il popolo constata che la sua vita quotidiana è stata sconvolta in profondità da evoluzioni sulle quali non è mai stato consultato e che la classe politica, di tutte le tendenze, non ha mai cercato di modificare o frenare”, Il populismo, Bologna 2017, p. 14; e mostra come “ La globalizzazione produce molti “vincitori” tra le élite, ma milioni di perdenti nel popolo, il quale comprende per di più che la globalizzazione economica apre la strada alla globalizzazione culturale, suscitando al tempo stesso dialetticamente nuove frammentazioni”, idem p. 16.
[3] Sostiene Ernst Nolte “Quella differenza e particolarità, infatti, difesa dalla sinistra postmoderna, per l’odierna destra moderata è la differenza e la particolarità della nazione. Così questa si espone certamente all’accusa di “nazionalismo” da parte dell’intera sinistra, potendo apparire come tarda forma obsoleta di un fenomeno del XIX secolo o addirittura del fascismo. Ma l’equivoco è fondamentale. Il presunto “nazionalismo” della destra moderna di oggi accetta il processo di unificazione da tempo in corso, accetta sia l’unificazione politica dell’Europa, sia l’unificazione economica del mondo. Esso non è offensivo, ma difensivo: non è appunto “nazionalismo”. Tale odierna destra è però convinta che l’unificazione dell’Europa non può significare la riduzione degli stati nazionali europei a province e che l’unificazione politica del mondo che conducesse ad un genuino “governo mondiale” sarebbe il peggiore e più odioso dispotismo mai apparso sulla terra”. Op. cit. p. 104.
[4] Scrive sempre Paul Piccone “Nonostante questi ed altri problemi, e come conseguenza della crisi di ingovernabilità, attualmente il populismo sta sempre più attirando a sé un diffuso sentimento anti-statale, sia tra la destra tradizionale, sia tra ciò che rimane della sinistra storica, accelerando così la disintegrazione della dicotomia politica destra-sinistra, ormai ridotta alla difensiva”. Op. cit. p.117; e sostiene De Benoist sulla tensione politica della vecchia contrapposizione “La destra ha perduto il suo nemico principale: il comunismo. La sinistra ha scelto di collaborare con il suo: il capitalismo. Ne è derivato che la destra non può più mobilitare i suoi elettori denunciando il “pericolo collettivista” mentre la sinistra non può più raccogliere i suoi proponendo loro di “cambiare la società”. Ciò non impedisce tuttavia che, periodicamente, vengano riportate in vita vecchie diatribe” e anche “L’attuale crisi del cleavage destra-sinistra non significa dunque che non esisteranno più una destra o una sinistra, ma che tale cleavage, così come lo abbiamo conosciuto fino ad un periodo recente, ha ormai perso il significato. Riflesso di un’epoca al tramonto, esso ha semplicemente fatto il suo tempo. L’attualità non fa che confermarlo”, op. cit. pp. 90-91.

[5] Ovviamente i libri comparsi sul populismo e sul tramonto della contrapposizione destra/sinistra sono diversi (anche prima della recente esplosione) e non solo quello qui citato, proprio in quanto collettaneo.
Tra i quali ricordiamo Marco Tarchi Italia populista, II ed., Il Mulino, Bologna 2015; De Benoist Populismo. La fine della destra e della sinistra, Arianna Editrice, Bologna 2017.

[6] Ce n’è una terza, per la quale riportiamo il giudizio di Alessandro Campi “Chiunque si ostini a difendere il valore della coppia in oggetto è per ciò stesso un uomo di sinistra teso a salvaguardare il plusvalore politico che gli deriva dall’utilizzo … Difendere la dicotomia  destra-sinistra è, per un uomo di sinistra, difendere una rendita di posizione politica, visto che i due termini che compongono la diade si presentano, nella visione oggi dominante, come fortemente diseguali e squilibrati”, op.cit. p. 157.

mercoledì 5 settembre 2018

Teodoro Klitsche de la Grange: recensione a: "La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio".


Enzo Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Laterza Editori, Bari 2018, pp. 278, € 20,00.

L’autore tratta del brigantaggio, cui si riconducono i tre conflitti del 1799, del 1806-1812 e del 1860-1870, come di vera e propria guerra civile, anche se innestantesi su un “sottofondo” di criminalità comune (spesso adornata di romanticismo) ma in cui prevalgono ragioni religiose, politiche e socio-economiche. Mentre la narrazione ufficiale del brigantaggio, a cominciare dalla circolare Ricasoli del 24 agosto 1861, può riassumersi in tre parole: depoliticizzare, minimizzare e criminalizzare il nemico, cioè il brigante. Cui non è riconosciuti il carattere (né diritti) dell’hostis, ma è latro e quindi criminale. E se ne nega così il carattere “pubblico” e politico che costituisce la scriminante tra nemico e criminale, come scritto già nel Digesto (L,16,118).
Ciconte si interroga specialmente sui militari incaricati della repressione  “Chi sono gli uomini che hanno dato la caccia ai briganti? da dove provengono? Dal Piemonte e da altre regioni del Nord o ci sono anche meridionali che imbracciano il fucile in una lotta fratricida che ha i caratteri d’una guerra civile?”, onde prosegue “In primo piano ci saranno coloro che hanno guidato ed effettuato la grande repressione. Sono loro i protagonisti assoluti. È di loro che parla questo libro, sia quando guidano la caccia, ordinano fucilazioni, saccheggi, stragi ed incendi, imprigionano e perseguitano parenti e familiari dei briganti”; nonchè sui conflitti “briganteschi” hanno, in tutti i casi, anche il carattere di lotte sociali tra cafoni, per lo più legati ai Borboni, e galantuomini (borghesi) prima “giacobini” e poi liberali.
L’autore si chiede, data la frequenza e la ripetitività delle azioni repressive se queste “sono atti individuali di uomini particolarmente feroci o sono la spia di un modo d’intendere la repressione che coinvolge in una medesima e condivisa cultura i vertici militari e anche le autorità politiche di governo, locale e nazionale?”
La risposta che può dare il recensore è che in, tutti e tre i conflitti, il carattere “assoluto” della guerra, teorizzata da Clausewitz, e particolarmente evidente in quelle partigiane, fa si  che le parti in lotta  non applichino né i temperamenti derivanti dal riconoscimento al nemico del carattere di justus hostis, né le garanzie di una legalità (nullum crimen sine lege, giusto processo e così via) garantite al criminale.
In sostanza nessuna norma interviene a limitare la violenza e l’ “irregolarità” del confronto. Quando questa c’è, viene per lo più violata dalle stesse autorità militari incaricate della repressione, come attesta Ciconte.
In sintesi il brigantaggio è stato, il contrario della guerra nei merletti (guerre en dentelles) di westfaliana memoria, e “l’avanguardia” delle guerre parigiane che il XX secolo (ma anche il XXI) ha praticato intensamente, come  scrive Carl Schmitt nella Theorie des partisanen.
Teodoro Klitsche de la Grange
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