martedì 19 settembre 2017

Teodoro Klitsche de la Grange: «Sovranismo e libertà politica»

SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA

1. Se si chiedesse, in un’inchiesta demoscopica, a cosa fa pensare la parola “sovranità”, oltre a una maggioranza di risposte improbabili, qualcuno risponderebbe ad una “autorità che giudica con decisioni inappellabili su ogni possibile oggetto e rapporto”. L’elemento più importante di una simile “definizione” è il soggetto, ossia che si tratta di un’ “autorità”. E ciò coincide con la concezione della sovranità interna allo Stato (alla sintesi politica). Se tuttavia si analizzano meglio, dal lato esterno, gli elementi essenziali del concetto, è necessario introdurre, per ottenere una definizione esaustiva (che ne comprenda quanti più elementi essenziali), il termine “antitetico” ad autorità, e cioè libertà. E questa non è contraddizione ma complementarietà: nella storia la formazione di sintesi politiche (Stati) si è realizzata, verso l’interno con la riduzione-relativizzazione dei poteri intermedi e, in una certa misura, dei diritti individuali, ossia nella costruzione di un potere irresistibile; all’esterno, attraverso la rivendicazione della esistenza politica indipendente (ovvero libera da interferenze e rapporti ineguali) della comunità (dell’istituzione) che rivendicava la sovranità.

La prima espressione politico-costituzionale di ciò l’offre la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: “Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina…” (1).

Questa è conseguenza naturale del potere (pubblico, di cui la sovranità e la “figura” apicale) di avere in se quali “poli” autorità e libertà e di doverli contemperare, senza poterli eliminare. Come scriveva de Maistre, è connaturato allo spirito europeo gravitare verso “quello Stato in cui il governante governa il meno possibile, e il governato è meno possibile governato. Sempre in guardia contro i suoi padroni, l’europeo ora li ha scacciati, ora ha opposto loro delle leggi. Ha tentato di tutto, ha esaurito tutte le forme immaginabili di governo per fare a meno di padroni o per ridurre il loro potere” onde “il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo” (2).

Il problema, sosteneva de Bonald, consiste nel fatto che il potere è per sua natura indipendente: “Ogni potere è necessariamente indipendente dai soggetti sottoposti alla sua azione …. Potere e dipendenza si escludono l’un l’altro per definizione, come rotondo e quadrato” (3); onde, sul piano interno (allo Stato) conciliare potere e controlli sul potere è arduo e si corre il rischio o l’indebolire troppo il primo o, di converso, i secondi (4); perché, come riteneva de Bonald “il potere è esercitato in virtù di certe leggi che costituiscono il modo della sua esistenza e ne determinano la natura, e quando vien meno a queste leggi, pone in forse la sua esistenza, si snatura e cade nell’arbitrio” (5).

2. Nella dottrina dello Stato borghese la sovranità come indipendenza dall’esterno è – come in ogni Stato sovrano – riconosciuta, senza alcuna differenza rilevante rispetto a quella dello Stato assoluto.

Verso l’interno, invece, all’ “espropriazione/riduzione” dei poteri intermedi (connessa al principio di funzionalizzazione, per cui ogni potere pubblico è funzione, inalienabile ed inappropriabile da chiunque e attribuito alla sintesi politica) si accompagna la tutela dei diritti fondamentali (cioè della divisione Stato/società civile) e la distinzione dei poteri (nel senso di Montesquieu) con la conseguente giuridificazione dei rapporti di subordinazione/coordinazione tra potestà, organi, uffici pubblici.

 La combinazione del potere sovrano con i principi sopra ricordati dello Stato borghese ha fatto sì che l’esercizio delle manifestazioni peculiari di quello fosse confinato nell’emergenza: solo quando ricorre questa, l’“état de siége”, l’“Ausnahmezustand” o la “necessità” di Santi Romano, il potere sovrano manifesta tutto il proprio carattere d’assolutezza e definitività con la sospensione (anche) dei diritti fondamentali e vistose deroghe a competenze e assetti degli organi pubblici. Ovviamente questo è il caso classico dell’ “eccezione che conferma la regola”, cioè che il sovrano, in applicazione del detto romano salus rei publicae suprema lex, ha il potere di sospendere – nelle parti più garantite – il diritto (e i diritti) vigenti ove l’esistenza della comunità lo richieda.

Quanto all’aspetto esterno, i costruttori e i teorici dello Stato borghese, non avevano dubitato della sovranità della Nazione: a partire da chi, come Sieyès ne aveva fatto il centro delle rivendicazioni rivoluzionarie, e dal Comitato di salute pubblica de “La patrie en danger”; fino ai liberali e ai mazziniani del Risorgimento che volevano costituire, e costituirono, lo Stato quale istituzione politica della comunità nazionale, in un ordine internazionale in cui questa assumeva il proprio posto, uguale e libero come e tra le altre. Giustamente Benedetto Croce sosteneva che il capolavoro del liberalismo dell’‘800 fosse il Risorgimento italiano (6); con esso si costituirono insieme lo Stato nazionale (altrove opera della monarchia assoluta) e liberale: la sovranità (nell’ordinamento internazionale) e la libertà individuale e sociale.

Comunque nel pensiero liberale si è spesso fatta strada l’idea – peraltro tutt’altro che peregrina, attesi gli eccessi della rivoluzione francese, che, come scriveva Orlando “indebolire il potere è rinforzare la libertà” (7), e che è l’esatto opposto di quello che pensava Hegel ossia “che lo Stato è la realtà della libertà concreta” (8).

Nel XIX secolo tuttavia la conciliazione delle istanze della borghesia, integrata nelle strutture dello Stato attraverso (soprattutto) i Parlamenti e il carattere (relativamente) moderato della lotta politica fece si che la “contraddizione” autorità/liberta non fosse collocata ai posti prioritari dell’agenda politica. Nella prima metà del ‘900 si cercò di “conciliare” altrimenti il rapporto, eliminando (o credendo) di eliminare le sovranità.

Come scrive Schmitt nella Politische Theologie, furono in particolare Kelsen e Krabbe a sostenere ciò (9)  e il giurista di Plettenberg lo considerava conseguenza (logica) dell’ideologia liberale (10).

Altra conseguenza di un liberalismo debole contemporaneo è la dottrina del c.d. “neocostituzionalismo”, del quale L. M. Bandieri in un denso saggio (11) sostiene essere un normativismo di valori e non di norme.

3. Il c.d. “sovranismo” (male assoluto – almeno secondo le classi dirigenti in affanno), non è né contrario alla concezione liberal-borghese, almeno nelle sue connotazioni tradizionali (sopraricordate), né oppressivo della libertà, almeno se inteso come normalmente sembrano intenderlo i “sovranisti”, ossia quale difesa della autodeterminazione e dell’identità dei popoli. Tantomeno è poi contrapposto alla democrazia, anzi ne è conseguenza necessaria.

Quanto al primo aspetto è chiaro che altro è compulsare delle libertà civili e politiche all’interno, altro è deciderlo per proteggere la comunità dalle aggressioni e interferenze esterne.

L’ultimo esempio di ciò è stato l’ Ètat d’urgence deciso da Hollande (certo non un sovranista) in Francia: è vero che comporta, come tutte le emergenze  delle limitazioni alla libertà, ma, a parte la prassi consolidata al riguardo (anche delle liberaldemocrazie), cioè che lo distingue da situazioni apparentemente analoghe (regime dei colonnelli et similia) è lo scopo: li è di sopprimere la libertà, qua di conservarne gran parte, limitandone strettamente necessario (12). 

4. Scriveva S. Tommaso che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est (13). Tale definizione metafisica della libertà pare la più adatta per significare essenza e condizione della sovranità. In tal senso il concetto di “suità” che se ne ricava corrisponde a quanto scrive Santi Romano per distinguere tra istituzione “perfetta” a quella che non lo è “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse, e ciò in vario senso. Può darsi infatti che a quest’ultimo esse siano soltanto coordinate; talvolta invece si hanno enti maggiori in cui le prime si comprendono e a cui sono subordinate” (14). 

D’altra parte sempre l’Aquinate sosteneva che è servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est); e – commentando la “Politica” di Aristotele – la comunità politica perfetta è quella ordinata a garantire i mezzi ad un’esistenza indipendente.

Anche Bodin scriveva che sovrano è chi non dipende da altri (15).

Applicando tali criteri non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Questa, in diritto internazionale, era la condizione degli Stati sotto protettorato al tempo del colonialismo.

5. E questa indipendenza intesa come libera auto-determinazione e quindi indipendenza da altri, è l’essenza delle rivendicazioni sovraniste.

Anche se spesso i leaders politici identitari insistono su una pluralità di aspetti e di criteri differenziali (in particolare culturali, religiosi ed etnici) atti a discriminare tra cittadini e non, la suità, come libera autodeterminazione delle comunità e quindi degli scopi e dei mezzi appare il punto d’Archimede della loro concezione. E non solo perché la composizione di un’unità politica, la concessione della cittadinanza a gruppi di non-cittadini alterano il tutto, ma perché se sono libera determinazione della volontà comunitaria, non ledono il principio dell’essere causa sui.

Occorre, per chiarire il tutto, ricordare quanto sosteneva Renan nella celebre conferenza Qu’est-ce-que une nation? e adattarlo mutatis mutandis alla questione. Dopo aver affermato che “l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune”; patrimonio che consiste di più legati: etnia, religione, lingua, geografia, comunanza d’interessi. Ma questo, prosegue Renan, non esaurisce quanto necessario per costituire una nazione. “Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, le quali in realtà sono una stessa cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale: una è nel passato, l’altra è nel presente. Una è un comune possesso di una ricca eredità di ricordi: l’altra è il consenso presente, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa”. La nazione “Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni” perché “L’uomo non è schiavo né della propria razza, né della lingua, né della religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle catene montagnose. Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione”. E chiarisce ulteriormente cosa intendeva “Se si sollevano dubbi sulle frontiere, consultate le popolazioni coinvolte. Esse hanno ben diritto di dare un parere sulla questione. Ecco una cosa che farà sorridere i geni della politica, quegli esseri infallibili che passano la vita a sbagliare e che, dall’alto dei loro superiori principi hanno compassione della nostra modesta proposta. Consultare le popolazioni! Quale ingenuità! È proprio una di quelle misere idee francesi che pretenderebbero di sostituire la diplomazia e la guerra con mezzi di così infantile semplicità”.

6. La sovranità è necessaria per avere un futuro comune; lo è ancor più per decidere quale debba essere. Se è democratica, non può prescindere dalla volontà popolare.

E d’altra parte le volontà “altre” nel modo contemporaneo sono meno quelle degli altri Stati che dei cosiddetti “poteri forti”, la cui caratteristica comune - che accomuna chiese e logge, sindacati e corporazioni - è di non essere democratici (quasi sempre), e sempre se ci riferisce alla volontà sovrana nella sintesi politica.

Non si capisce di converso, come sia possibile determinare un destino comune di un mondo globalizzato, in cui manca sia la comunità, e più ancora, un’istituzione politica credibile e responsabile. Nel noto saggio Impero di A. Negri e M. Hardt, la forma di governo dell’ “Impero” consiste in una nebulosa fatta di organizzazioni internazionali, lobby, FMI, Banca mondiale, sette, clubs, imprese multinazionali, in effetti prive di forma, intesa questa nel senso di un’istituzione capace di determinare pubblicamente e responsabilmente scopi (e mezzi) dell’esistenza comunitaria e dotata delle capacità e attribuzioni conferite all’uopo.

Tutte cose che si trovano in uno Stato sovrano ben ordinato e perfino in Stati relativamente disordinati, ma che non è dato percepire e distinguere in un quid senza forma e responsabilità. Per cui, in mancanza di alternative reali, è meglio tenersi il vecchio: Stato sovrano, democrazia e responsabilità dei governanti verso i governati.

Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE

(1) E conclude “Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni, solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati Liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolar il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere” (il corsivo è mio).

(2)  Du Pape, I

(3) Observations sur l’ouvrage De M. me La Baronne De Staël  trad. it. «La costituzione come esistenza» Roma 1985 p. 51.

(4) Va da se che, in uno Stato liberale il problema è insopprimibile, perché, come scritto nel “Federalista” dato che gli uomini non sono angeli e non sono angeli i governanti occorrono sia i governi che i controlli sui governi.

(5) Op. loc. cit.

(6)  “Se per la storia politica si potesse parlare di capolavori come per le opere dell’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di esser detto il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimo-nono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto dell’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine” Storia d’Europa nel secolo XIX, p. 224, Bari 1938.

(7) Più estesamente: “Gli Stati moderni europei retti con forme libere, sono detti per antonomasia rappresentativi, ma non è men vero che tutti gli Stati rappresentino il popolo, qualunque sia la loro forma. Ed è un altro pregiudizio che da quello deriva e che i casi speciali dell’epoca presente han coltivato, il credere il popolo continuamente in opposizione, anzi in lotta col governo, tendendo a strappargli dei diritti che esso gelosamente contende. In conseguenza, come disse, il Laveleye, pei liberali della vecchia scuola, indebolire il potere è rinforzare la libertà” in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 572.

 (8) V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 260.

(9) Riportiamo i passi salienti delle critiche di Schmitt: «Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fattosi tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto” in Politische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.

(10)  Ma l’altra conseguenza logica, a considerare il liberalismo nel suo complesso, nella storia e nella prassi, e non solo quale “tipo ideale”, è proprio la tesi di Schmitt che iscrive lo Stato liberale nella categoria dello status mixtus quale compromesso tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese, v. in particolare Verfassungslehere trad. it.  di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 171 ss. ed anche 265 ss. di cui si ricorda il passo saliente “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica. «La libertà non costituisce nulla», come ha detto giustamente Mazzini. Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali”.

(11)  Pubblicato in italiano su Behemoth (on-line) n. 54.

(12) “In un certo senso è adattabile al rapporto tra stato d’emergenza in un senso o nell’altro, questo scriveva V. E. Orlando sull’ “atto politico”. Ossia che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto: “Bensì la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti  del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per gistificazione il motto: salus reipubblicae suprema lex. Non è qui certamente luogo adatto per discutere la teoria di tali atti motivati da urgente necessità politica”. V. Digesto Italiano, Contenzioso amministrativo” vol. VIII p. 925

 (13) De regimine principum I, 1.

 (14) Santi Romano, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 38 (il corsivo è mio).

  (15) I sei libri della Repubblica, Torino 1988, p. 407.



lunedì 18 settembre 2017

Alain De Benoist, «Populismo. La fine della destra e della sinistra» (Arianna Editrice, 2017), recensito da Teodoro Klitsche de la Grange

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Alain De Benoist. Populismo. La fine della destra e della sinistra. Arianna editrice 2017, pp. 297, € 14,50

Con il consueto acume, Alain De Benoist da una lettura del populismo, termine abusato (e strumentalizzato), cui corrispondono diversi significati. Da chi lo considera sinonimo di demagogia (è il più condiviso dalla stampa vicina alle élite decadenti) a chi lo ritiene soprattutto uno “stile” del rapporto tra capo/i e seguito, ovvero una reazione di classi e individui in discesa sociale. La tesi di De Benoist (della quale è stato anticipatore da oltre vent’anni) è che il populismo sia l’emergere di una nuova opposizione politica, con diversi protagonisti. Onde la vecchia, ossia la destra e la sinistra, borghese e proletario del “secolo breve”, è progressivamente neutralizzata e politicamente de-potenziata.

Alain De Benoist
Diversamente tuttavia da qualche decennio fa, quando l’ipotesi di un emergere di soggetti politici al di là della contrapposizione destra/sinistra era una brillante intuizione, ma da consolidare dai fatti, oggigiorno siamo saturi di conferme. Di fronte alla crescita costante in Europa e negli USA del fenomeno “si conferma dappertutto l’ampiezza del fossato che separa il popolo dalla classe politica al potere. Ovunque emergono nuove divisioni, che rendono obsoleta la vecchia divisione destra-sinistra”. In pochi decenni i sistemi politici, basati da molti decenni sugli stessi partiti sono stati completamente sconvolti “In Italia la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista  sono praticamente spariti. Lo stesso dicasi dei vecchi partiti di governo greci. In Spagna, negli ultimi anni, il PSOE e Alleanza popolare si sono continuamente indeboliti a vantaggio di Podemos e Ciudadanos … In Austria, i due partiti di governo – socialdemocratico e cristiano-sociale – hanno raccolto solo il 22% dei voti all’elezione presidenziale del 2016”. Gli operai e il “popolo minuto” che in maggioranza votava per i partiti di sinistra, concede la maggioranza dei suffragi ai populisti “il comportamento dei partiti, ne trae le conseguenze. A questa apparente “destrutturazione” dell’elettorato corrisponde, al livello degli Stati maggiori politici e delle squadre di governo, un prodigioso spostamento verso il centro, cui per natura spinge il bipartitismo”. Alla ricerca di un consenso decrescente e, talvolta, definitivamente perduto.

Ma il consenso, in democrazia in ispecie non è tutto “In primo luogo perché la democrazia non è l’estinzione del conflitto, ma il conflitto padroneggiato. Affinché una società politica funzioni normalmente, ci dev’essere evidentemente un consenso sul quadro e sulle modalità del dibattito … Ma se il consenso fa sparire il dibattito stesso, allora allo stesso tempo sparisce la democrazia perché, per definizione, essa implica, se non la pluralità dei partiti, almeno la diversità delle opinioni e delle scelte, insieme con il riconoscimento della legittimità di un conflitto tra queste opinioni e queste scelte … Ciò significa che, contrariamente a quanto credono i fautori di una democrazia “non partigiana” o “di buona governance”, la democrazia non è solubile nel procedurale, perché ha una forma inevitabilmente agonistica … Il prezzo del consenso è “la diserzione civica”. Il rischio che ne consegue è che la democrazia muoia di sbadigli: cioè nell’anomia sociale. “Crescerà allora il rischio di vedere realizzare non una società pacificata dal “consenso”, ma al contrario una società pericolosa e potenzialmente belligena, in cui non ci si dovrà sorprendere di vedere un ritorno vigoroso, in forme talvolta patologiche, di altre modalità di affermazione identitaria (religiosa, etnica, nazionale ecc.), che non deriveranno da chissà quale desiderio di “pericolosa purezza”, ma saranno la conseguenza logica del fatto che ormai non è più possibile affermarsi come cittadini”.

Paul Piccone (1940-2004)
Le conclusioni di ciò, e tenuto conto che il sentimento politico non è solo uno degli elementi del “triedro della guerra” di Clausewitz, ma una generale condizione della politica (e più ancora della democrazia) da Machiavelli a Freund e Duverger, è, in termini politici, la frattura tra classe dirigente e popolo, la secessio plebis risolta da Menenio Agrippa e della quale l’emergere populista ha tutte le caratteristiche. È infatti una crisi squisitamente politica, una crisi di legittimità: “Settori sempre più grandi del popolo si sentono esclusi, incompresi, disprezzati, dimenticati. Hanno l’impressione di essere divenuti inesistenti, di essere superflui, di essere “di troppo”. Non sopportano più le formule rituali e i mantra del “politicamente corretto”, strumento delle leghe neopuritane e dello Stato interventista, igienico e punitivo”. Dall’altra parte come scriveva il compianto Paul Piccone la principale caratteristica dell’oligarchia in declino è di proporsi «detentrice di una conoscenza superiore e universalmente valida, atta a legittimare quella che essa considera come una razionalizzazione altamente necessaria della società». «Questa frattura sociale», aggiungeva Piccone «osservabile non soltanto a livello locale ma anche su scala globale, genera un tipo di disuguaglianza molto più profondo di tutto ciò che il vecchio capitale era mai riuscito a creare». Scrive il pensatore francese “La caratteristica fondamentale del populismo è questa: è strutturato intorno a un’opposizione non più orizzontale (destra-sinistra), ma verticale: il popolo contro le élite, le persone comuni “in basso” contro i privilegiati “in alto”. Questa opposizione non è riducibile a un riciclaggio del vecchio rancore poujadista dei “piccoli” contro i “grossi”, ma si basa sulla convinzione che un’élite tecnocratica e finanziaria, insediata nei mezzi d’informazione come nei corridoi del potere e fondata sulla connivenza incestuosa, quando non sulla corruzione, ha deliberatamente deciso di spossessare gli elettori del loro potere per sottrarre i suoi maneggi ad ogni controllo”.

Carl Schmitt Studien
Quindi non un malessere passeggero ma la conclusione di un ciclo storico-politico con l’esaurimento delle vecchie élite e l’affacciarsi al potere delle nuove, fondate su diverse opposizioni e altro ordine. Ordine il quale prende forma anche dall’opposizione e da quello che Schmitt chiamava il Zentralgebiet. Così l’opposizione cattolici/protestanti tipici delle guerre di religione (XVI-XVII secolo) fu risolta istituzionalizzando il principio di tolleranza, quella tra borghesia e monarchia (ancien regime) con lo Stato rappresentativo del XIX secolo, quella borghese/proletario col compromesso fordista (socialdemocratico). Perché come scrive De Benoist nel passo primo ricordato, i conflitti non si estinguono (specie, ma, non solo, in democrazia) ma si “padroneggiano” con istituzioni, norme, prassi di governo. Ossia si relativizzano rispetto all’esistenza e capacità di decisione ed azione della sintesi politica.

Questo, in breve: ma come in tutti i libri di De Benoist, c’è molto di più di quanto scritto in questa modesta e sintetica recensione. 
Teodoro Klitsche de la Grange