martedì 6 novembre 2007

La fabbrica dell’Emozione: Shlomo Venezia in “grande emozione” con Veltroni e Gattegna. La recensione di C. Mattogno a «Sonderkommando» con Appendici

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È necessario dire due parole su come questo post è nato e soprattutto su come si svilupperà. La prima parte è una cronaca della presentazione del libro avvenuta in Roma nella sala della Protomoteca in Campidoglio ai primi di novembre del 2007. Ero presente ed ho raccolto le mie impressioni sulla manifestazione e sul pubblico presente. Ho poi comprato il libro e ne ho iniziato la lettura, che si era fermata dopo una cinquantina di pagine. Mi soffermavo su aspetti non tecnici, sufficienti tuttavia a farmi sobbalzare sotto il profilo morale, etico, storico, pedagogico. Avevo segnalato a Carlo Mattogno la presentazione del libro in Campidoglio e lo aveva invitato a venire in Roma. Lui si riservò invece una recensione critica del libro, risparmiandosi l’evento mondano. Così fu ed io dopo aver letto la recensione di Mattogno non ritenni di aver più nulla da dire su libro, per me macabro e per nulla emozionante. Adesso le cose cambiano. La vicenda del prof. Valvo, sospeso dall’insegnamento in un liceo romano, vede sullo sfondo il nome di Shlomo Venezia. Questo anziano signore ha accompagnato le scolaresche romane nell’ultima edizione del viaggio ad Auschwitz di circa 250 studenti più il seguito tutto a spese del dissestato bilancio comunale. Per giunta, nel liceo artistico che ha sospeso un professore di storia che chiedeva ad un grafico le “prove” della Shoa si annuncia una sorta di “lectio magistralis” di Shomo Venezia. È troppo. Riprenderò la mia lettura del testo di Shlomo Venezia soffermandomi sugli aspetti non tecnici, fra cui la recezione del libro, dalla sua presentazione in poi, lasciando la parte tecnica (pianta di Auschwitz, fonti testuali ed archivistiche, incongruenze e prestiti, ecc) all’analisi di Carlo Mattogno, che priva di ogni credibilità sul valore testimoniale del libro in relazione a temi controversi, sui quali l’aspetto di gran lunga più grave non è il suo merito specifico ma il fatto che non può esservi una libera discussione e confutazione critica. In Germania, Francia e altri paesi vi è una incriminazione penale per chi non accetta testimonianze come quella di Shlomo Venezia. Vanno a farsi benedire almeno due secoli di civiltà giuridica improntati al principio della libertò di pensiero, di parola, di coscienza. Nel titolo del post ho voluto dare evidenza all’espressione “grande emozione” che ricorre come un cliché in differenti contesti, quasi come una formula promozionale e propagandistica di un prodotto che in questo caso è la formazione industriale di un pregiudizio.

Versione 2.2
Status: 5.12.08
Sommario: Parte I. Antonio Caracciolo: Shlomo Venezia in “grande emozione” fra Veltroni e Gattegna. - Appendice 1ª: Rassegna stampa commentata. – Parte II. Carlo Mattogno: «La verità sulle camere a gas»? Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia. - Appendice 1ª: I “nuovi” documenti su Auschwitz di Bild.de. Una bufala gigantesa. – Parte III. Carlo Mattogno: L’«Irritante questione» delle camere a gas ovvero da Cappuccetto Rosso ad… Auschwitz. Risposta a Valentina Pisanty.

PARTE PRIMA

Antonio Caracciolo

Slomo Venezia in “grande emozione” fra Veltroni e Gattegna. Cronaca della manifestazione capitolina e riflessioni in margine al libro ed al suo successo

Ho ritardato di un giorno la mia partenza per fruire di una grande occasione di conoscenza, cioè «La verità sulle camere a gas», che sarebbe stata offerta oggi alle 18 nella Sala della Protomoteca al Campidoglio, presente il sindaco Walter Veltroni ed il capo degli ebrei italiani Renzo Gattegna nonché tutta la comunità ebraica romana che abita proprio a quattro passo nel Ghetto adiacente. Tra il pubblico ho riconosciuto Pacifici mentre batteva le sue cinquine. Forse il senso più vero della manifestazione è stato dato da una persona del pubblico accanto a me, che mi ero piazzato in quarta fila, cioè la prima fila di sedie non riservate. Questa persona diceva ad un’altra che era stata una “grande emozione” ed io mi sono subito associato, confermandogli che anche io ritenevo fosse stata una “grande emozione”. Ma niente di più. E per giunta una “grande emozione” solo per chi era andato lì con l’intento di emozionarsi, ascoltando un martire vivente, tal Shlomo Venezia che ha avuto certamente la grande disgrazia di essere stato in Auschwitz, dove avrebbe fatto parte del “Sonderkommando”, cioè di quei gruppi di prigionieri che dovevano occuparsi dei cadaveri di altri prigionieri, tirati fuori – si suppone – dalle camere a gas ancora fumanti.

Non ero e non sono prevenuto nei confronti della “verità”, quale che essa sia. Avrei voluto finalmente sentirla questa verità e per tutto il tempo sono stato con le orecchie tese. Non ho però sentito altro che discorsi volti a suscitare “emozione”. Veltroni è riuscito ad essere banale per ognuno dei cinque “livelli” di conoscenza da lui epistemologicamente individuati. Ma da quel furbastro che è a lui interessano più che altro i voti degli ebrei romani: non è da lui che si può certo attingere la Verità. Non saprei dire se la lobby romana abbia lo stesso potere e la stessa influenza della Israel lobby statunitense. Quel che è certo è che Veltroni ha stabilito un contatto organico con questa comunità a tutto discapito degli altri cittadini che neppure si accorgono di essere defraudati nelle loro libertà e nel loro diritto ad una memoria storica non adulterata. Sul libro non è stato detto nulla che da un punto di vista scientifico incoraggi a leggerlo. Anzi, sotto questo riguardo suona sospetta l’ammissione che a scriverlo siano stati in “tanti”. Forse Shlomo Venezia lo ha solo firmato. Naturalmente, acquisterò e leggerò il libro, ma temo che sarà una perdita di tempo [vedi ora la recensione di Mattogno, che già si era occupato una prima del personaggio], almeno per chi va alla ricerca di una “verità” e non semplicemente di una “grande emozione”.

A provare questa “grande emozione” ogni anno il sindaco Veltroni – credo con i soldi dei contribuenti – porta 300 studenti a visitare Auschwitz. Ne traggono certamente grande edificazione morale e gioia dello spirito altamente utile per la loro formazione. Si parla sempre più spesso nella letteratura scientifica di una religio holocaustica. In effetti, questa sera al Campidoglio sembrava di trovarsi alla celebrazione di una cerimonia religiosa, dove si sono pronunciate condanne per i non credenti, additati alla pubblica esecrazione negli storici revisionisti e negazionisti. È stato forse questo il solo momento di lucidità da parte degli oratori, avendo loro ben compreso da quale parte possono venire le critiche dissacranti. Veltroni ha pure associato il cosiddetto negazionismo – termine che solo loro usano, ma non i diretti interessati per definire se stessi – alla “barbarie”. Deve temersi che il nostro Veltroni, appena succeduto a Prodi, regalerà a Shlomo una bella legge liberticida come quella già vigente in altri paesi. Basterà contraddire il martire vivente Shlomo per trovarsi in galera. Dove stia la barbarie, se nel “negazionismo” o nella galera inflitta a chi scrive qualche libro senza imprimatur gattegnano, resta un punto di vista.

Saranno gli storici a valutare la “testimonianza” di Shlomo Venezia, ma a me è parso che negli stessi discorsi degli oratori sia stata sempre presente e forse voluta un’ambiguità di fondo. Nessuna distinzione è stata fatta fra la realtà della discriminazione e della persecuzione degli ebrei, che nessuna “nega”, e la specifica realtà dello “sterminio” che è cosa storicamente distinta ed è ciò su cui propriamente dibattono gli storici revisionisti, per nulla “negazionisti” sulla realtà dei campi di prigionia. Ho già detto che a mio avviso il “negazionismo” è una pura invenzione di quanti hanno inteso coniare una formula a scopo di mera diffamazione, denigrazione, delazione. La “grande emozione” è ciò che impedisce ad arte di tenere distinti i due aspetti. Ma è anche vero che il nostro tempo di “grandi emozioni” ne può distribuire quante se ne vogliono e di ogni genere. Ognuno si sceglie le sue “grandi emozioni”. Ognuno ha diritto alle sue “grandi emozioni”. I guai incominciano quando si pretende d'imporre ad altri le proprie “grandi emozioni”. Ed è esattamente ciò che si è tentato di fare in Campidoglio con il concorso del sindaco Veltroni, che scalda i suoi muscoli ed i suoi motori per le prossime campagne elettorali.

* * *

Ho comprato il libro. Avendolo comprato, tocca leggerlo, con pazienza e pena infinita. Il libro è preceduto da una prevedibile ed immancabile Prefazione di Walter Veltroni, che per la sua carriera politica fa molto affidamento sull'elettorato ebraico. Mi riescono chiari i passaggi che lo hanno portato a conferire la massima onorificenza comunale al Foxman, presidente di quella ADL che l’ebreo dissidente Chomsky ha definito un centro permanente di diffamazione. Ho già detto che per la mia quota infinitesimale di cittadino romano quell'onorificenza non ha la benché minima giustificazione, se non l'interesse politico dello stesso Veltroni. Ma veniamo al libro di Slomo Venezia, redatto con la collaborazione del centro ebraico di documentazione, secondo quanto ho potuto ascoltare nel corso della presentazione, dove si è parlato di una “collaborazione” che è già un'ammissione di non autenticità ed una manipolazione confessa. Dalla Prefazione di Veltroni si apprendere di «studenti che partecipano ai “Viaggi della memoria” organizzati dal Comune di Roma assieme alla Comunità ebraica nei campi di sterminio», la cui esistenza è posta in dubbio dal revisionismo storico, una corrente di pensiero che anche sulla storia della nostra gloriosa Resistenza incomincia a far vedere a quanti non vogliono restare con gli occhi bendati come la realtà storica sia fatta di luci e di ombre, dove spesso le tenebri con il loro carico di menzogna prevalgono sulla luce e sulla verità. Per Veltroni si tratta di un “libro bellissimo”: de gustibus ne disputandum est. Per me si annuncia già nelle sue prime pagine come un libro bruttissimo e macabro, che certamente come docente non farei rientrare in un programma educativo per quegli studenti (maggiorenni, liberi e vaccinati) che volessero seguire i miei corsi di filosofia, magari sui viali dell'università, a lezione accademica finita. Avverto ancora che se riuscirò a giungere nella lettura del libro fino alla sua ultima pagina il mio intento non sarà quello di verificare il libro sul piano strettamente storico – compito che lascio agli storici cui compete –, ma di analizzare i giudizi di valore e la filosofia che sempre dietro ogni scritto traspare, essendone o meno consapevole gli autori. Per il resto la profondità filosofica di Veltroni è tutta racchiusa in frasi come la seguente, che lasciano senza fiato e si sottraggono ad ogni possibilità di commento esegetico nella loro banale insignificanza: «La forza del ricordo è una forza benefica e allo stesso tempo disperata» (p. 6). Bah! Per me è troppo profondo!

Fatto salvo il rispetto per l’anagrafe familiare di Slomo, che si legge in una dedica che francamente considerato il tema io avrei evitato, ma ormai viviamo in tempi di reality show, si legge nell’Avvertenza all'edizione italiana di una vasta collaborazione nella preparazione del testo. Ed è ciò che mi fa dubitare dell’autenticità di una testimonianza – di questo si tratta – così manipolata. All’origine vi sarebbe una lunga intervista a Béatrice Pasquier raccolta a Roma tra il 13 aprile e il 21 maggio 2006, vale a dire ad oltre 60 anni dagli eventi. Ho personale esperienza di come già dopo pochi anni i ricordi si appannino e non posso dubitare che la “forza del ricordo” sia stata in questo caso stimolata ed aiutata dai numerosi soggetti candidamente menzionati nell’Avvertenza e nel corso della Presentazione capitolina. Prevedo che le mie impressioni sul libro non piaceranno a quanti nella sala capitolino hanno vissuto la “grande emozione”. Io però il libro l’ho comprato – senza quello sconto che avrei potuto avere in una libreria che mi era stata indicata da una Signora – e lo commento ed interpreto come mi pare. È un mio diritto che ho pagato euro 17,50.

In esordio Shomo ci informa della sua genealogia, per la quale probabilmente sarà stato aiutato da Beatrice. Per i comuni mortali, ossia che non hanno titoli nobiliari e non dispongono di platee di famiglia, se tutto va bene ed i documenti parrocchiali non presentano lacune non è possibile risalire nella costruzione del proprio albero genealogico ad oltre il XVII secolo. Shlomo sa che la sua famiglia si trovava in Spagna già nel XV secolo. Beato lui che dispone di così accurati archivi! Il fatto è comunque estraneo all'interesse specifico del libro, che è la “verità sulle camere a gas”, secondo quanto era stato promesso nella locandina della Presentazione. Ed è a questa sola questione che è rivolta la mia lettura sequenziale del libro. Con tutto il dovuto rispetto per Shlomo rilevo che già il mondo attuale è popolato da sei miliardi di persone, senza contare le esistenze di quanti ci hanno preceduto dagli albori dell’umanità fino ad oggi. Non vedo perché l’esistenza di Shlomo posso essere oggetto di un particolare interesse se non per la promessa di verità che ci è stata fatta. Tralascio dunque nella mia lettura tutti i dati biografico-genealogici non pertinenti all’oggetto.

A pagina 19 si parla di “vero volto” e “vera natura” del fascismo, lasciando intendere un’assoluta negatività. Nella stessa pagina però Shlomo racconta di aver frequentato le scuole italiane di Salonicco, dove poteva godere “tutto gratuitamente” di vantaggi che né nelle scuole ebraiche né in altre scuole avrebbe mai goduto:
«Sui circa sessantamila ebrei della città, noi di origine italiana saremo stati, al massimo, trecento. Ed eravamo gli unici a mandare i figli alla scuola italiana. Rispetto agli altri, che andavano alla scuola ebraica, godevano di alcuni vantaggi: ricevevamo tutto gratuitamente, ci regalamo i libri, mangiavamo alla mensa, ci distribuivano dell’olio di fegato di merluzzo… Indossavamo delle uniformi molto belle, con disegni di aerei per i ragazzi e di rondini per le ragazze. A quei tempi i fascisti volevano dare alla prosperità italiana. Era solo propaganda all’estero, ma noi ne approfittavamo…» [il corsivo è nostro].
E noi vi è dubbio che le comunità ebraiche, ieri come oggi, sanno ben approfittare delle situazioni sotto qualsiasi regime: di Mussolini ieri, di Veltroni oggi. Esiste una bibliografia al riguardo che però non intendo dare per prevedibili reazioni. Era questa la verità promessa?

A pagina 22 sembra evidente un’inquinamento moderno nella memoria di Shlomo Venezia. Si legge infatti con riferimento alla Salonicco degli anni trenta:
«Nei cinema venivano proiettati dei film che favorivano l’antisemitismo in cui si raccontava che gli ebrei uccidevano i bambini cristiani e, con il loro sangue, preparavano il pane azzimo. Era il periodo più difficile, anche se non mi ricordo di degenerazioni violente. La difficoltà di essere ebrei veniva sentita invece quando cambiava il governo [quello greco?] e gli ebrei potevano essere più facilmente vittime di ingiustizie. Ma eravamo così distanti dalle faccende del mondo… Pochi di noi sapevano cosa stava succedendo in Germania e fino alla fine, del resto, nessuno avrebbe potuto immaginarlo…».
In compenso, oggi ottobre 2007, con l'aiuto del centro di documentazione ebraica in nostro Slomo può immaginarlo. Sembra evidente l'allusione al libro di Ariel Toaff sulle «Pasque di sangue», che dopo una forte reazione della comunità ebraica, è stato addirittura ritirato dal commercio su richiesta dello stesso autore. Se si tratta di un libro di memorie, è però una memoria fabbricata nell’ottobre 2007.

A pagina 27 delle sue Memorie Shlomo ci fa sapere che già in gioventù era un ladro ed uno speculatore, più o meno accorto:
«In un’altra occasione fui più fortunato. Trovai un forno dove riuscii a recuperare [sic] delle gallette che cominciai a vendere. Tutti volevano comperarmele e tornai al magazzino per prenderne altre; nel frattempo, però, qualcuno aveva sbarrato l’accesso. Tuttavia riuscii a scovare un’apertura da cui potevo passare: presi tutto quello che potevo e me ne tornai a casa, con le gallette e con i soldi».
Non saremo certo noi a fare gli ipermoralisti e vogliamo concedere tutte le attenuanti. A chi ruba spinto dalla fame non gli si può dare del ladro: gli si può concedere la discriminante dello stato di necessità. Ma perché dopo aver rubato la gallette, ripetutamente rubato, il nostro Shlomo pensò di vendere ciò che non gli apparteneva? Avrebbe potuto concederlo “gratuitamente” ad altri affamati in tempi di carestia. In genere, il carattere morale si forma in gioventù e si consolida negli anni maturi. In attesa della verità promessa come possiamo fidarci del nostro eroe? Sarebbe questa la “grande emozione” trasmessa al pubblico capitolino Veltroni compreso? Sarebbero questi gli alti insegnamenti morali impartiti alle scolaresche precettate in sala e spediti annualmente ad Auschwitz in viaggio d’istruzione a spese del Comune? Quale apertura di credito possiamo aprirgli dopo che un altro ebreo, ben diverso da Shlomo Venezia, la cui padronanza della lingua italiana è già dubbia, ha scritto un libro dal titolo eloquente: “L’industria dell'Olocausto”? A distanza di oltre 60 anni il ladro sembrava vantarsi dei suoi furti tanto da scriverne o farsene scrivere in un libro e non è neppure sfiorato dal problema morale. Probabilmente, sarà una risorsa della superiore moralità ebraica.

(segue)

1. E dove sta la «verità sulle camere a gas»? – Il link immette in un sonoro dove si ascolta la voce di Shlomo Venezia. Nonostante le innumerevoli divulgazioni sull’«Olocausto» si continua a fare una grande confusione e mistificazione. Non ho motivo di dubitare che Shlomo Venezia sia stato nel lager di Auschwitz, se è lui stesso a dirlo. Che Auschwitz sia esistito in quanto campo di prigionia e di concentramento nessuno lo nega e qualcuno deve pur esserci stato. Ma il punto non è questo. Quando si afferma che in Auschwitz vi sia stato “sterminio” in senso tecnico-giuridico mediante camere a gas, dovrebbe essere lecito chiederne documentazione inconfutabile del fatto. Altro è dire che Auschwitz non fosse un luogo di villeggiatura, altro è dire che fosse un “campo di sterminio”. Lo stesso Venezia parla della sua presenza in Auschwitz in quanto “forza lavoro”. Se gli uomini racchiusi nei lager dovevano costituire una riserva di lavoro schiavistico da usare a fini bellici, la cosa riveste una suo certamente deprecabile significato. Se invece si intende che gli uomini ivi racchiusi erano semplicemente destinati alla morte, ad essere uccisi, sorgono interrogativi inquietanti. Non si giustifica in nessun modo che venga proibita la ricerca o le opinioni di quanti ritengono di voler e poter criticare le versioni ufficiali. Shlomo Venezia ha prodotto in collaborazione con “tecnici” un libro che avrebbe dovuto dire la parola fine ad ogni duscussione e mettere per sempre a tacere i cosiddetti “negazionisti”, orribile parola con la quale si intende diffamare, denigrare, consegnare al boia persone che non hanno altra colpa che quella di non credere, per esempio, ad uno Shlomo Venezia. Il sonoro non apporto nessun contributo. Per il libro che è qui sulla mia scrivania dicasi lo stesso.

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2. Walter, Shlomo e Marcello ad Auschwitz nel 2005. – Le grandi effusioni che io ho potuto vedere nella sala capitolina nel novembre del 2007 esprimono un’amicizia fra Walter Veltroni, Shomo Venezia e Marcello Pezzetti di più antica data, perlomeno in occasione dell’ormai rituali viaggio in Auschwitz, a spese del contribuente, dove ogni anno a far data da Rutelli vengono portati 250 studenti romani, accompagnati da docenti ed ospiti vari. Ci permettiamo di osservare che avremmo giudicato meglio spesi quei soldi per mettere in sicurezza gli edifici scolastici romani oppure se si deve tagliari sugli sprechi nella pubblica istruzione, questo sarebbe certamente il caso, essendo a nostro avviso il viaggio perfino diseducativo. Il link immette in un articolo del 13 ottobre 2005 a firma Arela Piattelli dal titolo «Mai più quest’ultima fermata», apparso su “il Giornale”. Ma ahimé di “fermate” in Auschwitz credo ve ne saranno altre ancora, nel senso che anche con Alemanno continua la tradizione dei viaggi di istruzione. Anche questo articolo contiene l’abituale confusione fra “detenzione” e “sterminio”. Tutta la discussione storica che vede criminalizzati i cosiddetti negazionisti verte sulla documentazione dello “sterminio” in senso proprio, avvenuto mediante “camere a gas”. Non mi soffermo sul contenuto dell’articolo che mi pare contenga notevoli inesattezze, mentre invece la mia attenzione è su un cognome: quello delle sorelle Tatiana e Andra Bucci. Mi chiedo se hanno qualcosa a che fare con il giornalista Carlo Alberto Bucci il cui articolo «La Shoah? Non esiste» – Prof. negazionista» al liceo, apparso su la Repubblica del 16 novemre 2008 ha dato il via alla messa alla gogna del professore in questione, fino ad una repentina “sospensione” dall’insegnamento. Mi chiedo per quali vie quella che avrebbe potuto essere una discussione animata fra colleghi in un consiglio di classe di un modesto liceo sia finita su un giornale importante come “la Repubblica”. Cercherò di scoprirlo. Ma per adesso avanzo una congettura. Non sarà stato come già successo in Torino per un altro docente di liceo? In quel la figlia di una giornalista de “la Stampa” riferì alla madre di ciò che un docente aveva osato dire e si iniziò una squallida storia che portò persino ad una visita psichiatrica del docente! Spero di poter verificare presto questa mia congettura, fondata o meno che sia. Resta in ogni caso da sapere e capire come la faccenda sia finita sui giornali. È un dato essenziale per capire la meccanica lobbistica. La stucchevole motivazione didattica e pedagogica che di si dà di questi viaggi è che i ragazzi – in genere disponibili a qualsiasi viaggio – devono (acriticamente) apprendere e ricordare affinché quello che è successo non si ripeta più. Vediamo invece che non solo quello che è successo continua a ripetersi, ed in forme a nostro avviso anche più gravi, ma che di episodi paragonabili di pulizia etnica e simili viene sempre più incolpata da Onu e Ong proprio Israele, che dalla Shoah ha tratto e trae il massimo vantaggio economico e politico. Non io lo dico, ma una vasta letteratura e numerose organizzazioni, ad incominciare dall’Onu e dal presidente della Assemblea Miguel d’Escoto accusa apertamente Israele nelle sedute del 24 e 25 novembre 2008 di apartheid e di violazione dei diritti umani. Se è così, e riteniamo che lo sia, dispiace vedere come dei ragazzi che non guardano molto a quali viaggi si offrano loro vengano così irresponsabilmente ed acriticamente indottrinati.

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Appendice 2ª
DOCUMENTAZIONE PERVENUTA E ARTICOLI CORRELATI

1. Chi è Slomo Venezia. – Il link immette in una pagina del sito “Thule Toscana” che offre una serie di rapide notazioni su Shomo Venezia.
2. Si segnala in particolare la recensione critica già disponibile in pdf ad opera di Carlo Mattogno, in pratica un contro-libro demolitore, che ben dimostra come Shlomo Venezia non solo non aggiunge nulla a ciò che già si sapeva, ma utilizza malamente le fonti da cui ha attinto, in pratica scrive un “romanzo”. I vari Pezzetti che lo hanno coadiuvato nell’impresa hanno dimostrato la loro incompetenza o scarsa maestria nel maneggiare un materiale peraltro assai macabro. Questa nota era stata da me scritta prima della pubblicazione della Parte Seconda di questo post, che si distingue per un diverso editing rispetto al pdf. Sono inoltre aggiunte illustrazioni che non potevano essere contenute nel pdf, sempre disponibile per chi preferisce questa forma di lettura.

Antonio Caracciolo

PARTE SECONDA

Carlo Mattogno

«La verità sulle camere a gas»?
Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia

Sommario: 1. Un testimone dell’ultima ora. – 2. Il titolo del libro. – 3. Le ragioni del silenzio. – 4. La deportazione ad Auschwitz. – 5. Il campo di quarantena BIIa. – 6. Il primo giorno nel “Sonderkommando”. – 7. Il “Bunker 2”. – 8. Il primo giorno di lavoro la “Bunker” secondo i compagni di sventura di Venezia. – 9. La “fosse di cremazione” nell’area del “Bunker 2”. – 10. Il reupero di grasso umano nelle “fosse di cremazione”. – 11. La camera a gas del Crematorio III. – 12. Il trasporto dei cadaveri ai forni del crematorio III. – 13. Forni crematori e cremazione. – 14. I camini fiammeggianti. – 15. La rivolta del “Sonderkommando”. – 16. La salvezza. – 17. Epilogo. – 18. Conclusione. – APPENDICE: 19. I “nuovi" documenti su Auschwitz di Bild.de. Una bufala gigantesca.

1.
Un testimone dell’ultima ora

Shlomo Venezia, sedicente ex detenuto del cosiddetto “Sonderkommando” di Birkenau, ha deciso di “parlare” solo nel 1992. Di questa testimonianza mi ero già occupato nel 2002, in un articolo intitolato “Un altro testimone dell’ultima ora: Shlomo Venezia(1). Le fonti all’epoca disponibili erano scarne. Venezia aveva acquisito una certa notorietà nel 1995, grazie a una sua intervista a cura di Fabio Iacomini intitolata “La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando [sic]” (2); sei anni dopo apparve una sua “Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria(3). Nel gennaio 2002, Venezia concesse un’intervista a Stefano Lorenzetto (4), la quale, nell’ottobre del 2002, fu riproposta con qualche lieve modifica, sul settimanale “Gente”, col titolo “Io, ebreo, cremavo gli ebrei(5).
Nell’articolo summenzionato rilevavo:
«Shlomo Venezia, sedicente membro del cosiddetto “Sonderkommando” dei crematori di Birkenau, come Elisa Springer, ha taciuto per quasi cinquant’anni, ma, a differenza di questa testimone, non ha (ancora) scritto il suo “memoriale”» (6) .
Come previsto, Venezia ha finalmente colmato la lacuna nel 2007, affidando le sue memorie a un libro: “Sonderkommando Auschwitz. La verità sulle camere a gas. Una testimonianza unica” (7), che esaminerò dal punto di vista storico anche alla luce delle sue precedenti dichiarazioni.

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2.
Il titolo del libro

Come ho rilevato più volte, l’attribuzione del termine “Sonderkommando” al personale dei crematori di Auschwitz-Birkenau non ha alcun fondamento storico. Nessun documento giustifica quest’uso terminologico. Nei documenti tedeschi il personale dei crematori viene chiamato Krematoriumspersonal o viene indicato con il relativo numero di commando, ad es. «206-B Heizer Krematorium I. u. II. 207-B Heizer Krematorium III. u. IV. (206-B Fuochisti crematorio I e II. 207-B fuochisti crematorio III e IV)». Ad Auschwitz esistettero almeno undici “Sonderkommandos” diversi che non avenano nulla a che vedere con i crematori (8). Nel 2004 Carlo Saletti ha scritto:
«Il termine Sonderkommando, usato per indicare la squadra addetta alla manutenzione e al funzionamento dei crematori, compare assai raramente nei documenti ufficiali del Lager, dove si utilizza piuttosto la denominazione Arbeitskommando [squadra di lavoro] seguita dalla specificazione Heizer Krematorium [fochisti del crematorio]. Esso, invece, è di uso comune presso il personale nazista in servizio nel Lager e presso gli internati di Auschwitz» (9) .
L’ultima affermazione è vera soltanto in relazione alle testimonianze successive alla fine della seconda guerra mondiale, quando appunto il termine in questione si impose ufficialmente e divenne di uso comune, esattamente come il termine “Bunker(10).

Questa osservazione non è ispirata al mio studio summenzionato, ma è tratta dall'Opus Magnum del Museo di Auschwitz curata da W. Długoborski e F. Piper (11). L’unico caso ivi menzionato di presenza del termine “Sonderkommando” in un documento – il “Dienstplan für Dienstag” (piano di servizio per martedì) del 18 agosto 1944, menziona sì il termine, ma nulla dimostra che esso si riferisca al personale dei crematori (12). Pertanto il termine “Sonderkommando”, come sinonimo di personale dei crematori, non compare «assai raramente nei documenti ufficiali del Lager»: non vi compare mai.

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3.
Le ragioni del silenzio

Prima di esaminare le dichiarazioni di Venezia, è bene soffermarsi sulle ragioni che lo hanno indotto a tacere «fino al 1992, 47 anni dopo la Liberazione»! (13) Al riguardo egli ha spiegato:
«Per tutti questi anni non abbiamo parlato, neppure col mio amico, sebbene lui sapesse che il padre lavorava dove stavo io, ed è stato ucciso. Non avevamo il coraggio di tornare su questi argomenti. Ma ad un certo punto, di fronte a certi fatti, abbiamo deciso che era necessario. È stato qualche anno fa, quando a Roma hanno segnato le stelle di Davide su alcuni negozi, sono comparse sui muri scritte come “juden raus”, “ebrei ai forni”, e si sono cominciati a vedere i naziskin. Per qualcuno possono essere ragazzate, cose di poco conto, ma per noi che le abbiamo vissute, vedere di nuovo insorgere queste cose è inaccettabile. È stata la spinta per incominciare…» (14).
Nel libro, Venezia ha scritto:
«Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo, non perché non ne volessi parlare, ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci. Quando uscii dall’ospedale, mi ritrovai con un ebreo e cominciai a parlare. A un tratto mi resi conto che, invece di guardarmi, guardava dietro di me qualcuno che gli faceva dei segni. Mi girai e vidi uno dei suoi amici che gli diceva con i gesti che ero completamente matto. Da quel momento in poi non ho voluto più raccontare. Per me parlarne era una sofferenza e quando mi trovavo di fronte a persone che non mi credevano mi dicevo che era inutile. Solo nel 1992, quarantasette anni dopo la mia liberazione, ho ricominciato a parlarne. Il problema dell’antisemitismo riprendeva a manifestarsi in Italia e sui muri si vedevano sempre le croci uncinate... Nel dicembre 1992 sono tornato per la prima volta ad Auschwitz. [...]. Oggi, quando sto bene, sento il bisogno di testimoniare, ma è difficile. Sono una persona molto precisa, che ama le cose chiare e ben fatte. Quando vado a parlare in una scuola e il professore non ha preparato abbastanza i suoi allievi, la cosa mi ferisce profondamente. Nell’insieme, comunque, testimoniare nelle scuole mi procura molte soddisfazioni» (15).
In un’altra intervista, dopo aver parlato delle scritte antisemite sui muri di Roma, dichiarò:
«Allora sentii che era mio dovere raccontare l’Olocausto come l’ho visto con i miei occhi» (16) .
Queste motivazioni non sono convincenti. Esse non spiegano anzitutto perché neppure i parenti stretti di Venezia, il fratello Maurice e il cugino Dario, suoi compagni di sventura nel “Sonderkommando”, abbiano taciuto come lui. Ma, soprattutto, esse appaiono futili di fronte al “dovere di testimoniare”, che dovrebbe essere giudiziario e storico, oltre che etico. Venezia infatti, inspiegabilmente, non ha fatto nessuna dichiarazione ufficiale, non ha reso alcuna deposizione giurata, non ha partecipato ad alcun processo contro i suoi persecutori: non al processo Eichmann di Gerusalemme (aprile 1961-maggio 1962), non al processo Auschwitz di Francoforte (dicembre 1963-agosto 1965), non al processo Auschwitz di Vienna contro F. Ertl e W. Dejaco (gennaio-marzo 1972); egli non ha contribuito alla condanna dei suoi carcerieri, né ha illuminato gli storici sul presunto processo di sterminio ad Auschwitz. Perché? Soltanto perché qualche conoscente lo aveva preso per matto?

L’altro cugino di Venezia, Yakob Gabbai, invece parlò. All’inizio degli anni Novanta concesse una lunga intervista allo storico israeliano Gideon Greif, il quale la pubblicò nel 1995 (17). Questi intervistò altri tre sedicenti compagni di sventura di Venezia, che lo nominarono esplicitamente: Josef Sackar, immatricolato ad Auschwitz col numero 182739 (18), Shaul Chasan, 182527 (19) e Léon Cohen, 182492 (20), a sua volta menzionato esplicitamente da Venezia (21). Il raffronto tra queste testimonianze e quella di Venezia, come si vedrà, è molto istruttivo.

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4.
La deportazione ad Auschwitz

Venezia, nato a Salonicco nel 1923, fu arrestato ad Atene il 25 marzo 1944 e successivamente deportato a Birkenau, dove giunse l’11 aprile. Cosa curiosa, nel suo “Libro della memoria”, Liliana Picciotto Fargion elenca, tra gli Ebrei italiani deportati, tre persone con cognome Venezia nate a Salonicco, ma non Shlomo (22), sebbene fosse cittadino italiano (23) .
A Birkenau, il testimone fu immatricolato con il numero 182727. L’11 aprile 1944 giunse in effetti ad Auschwitz dalla Grecia un trasporto di 2.500 Ebrei di cui furono immatricolati 320 uomini (182440-182759) e 328 donne (76856-77183) (24) .
Nel libro egli menziona esattamente il numero dei detenuti immatricolati (25), che all’epoca non poteva conoscere. È dunque chiaro che questa informazione è tratta dal Kalendarium di Auschwitz. Il cugino di Venezia, Y. Gabbai, di cui egli parla ripetutamente, giunse ad Auschwitz con il medesimo trasporto e fu immatricolato col numero 182569 (26), ma, a suo dire, all’arrivo furono selezionati 700 uomini (27). Evidentemente non conosceva il Kalendarium di D. Czech. Venezia racconta come segue ciò che accadde all’arrivo al campo:
«Invece il gruppo in cui ci ritrovammo io, mio fratello e i miei cugini venne inviato a piedi fino a Auschwitz I» (28).
Ma il cugino Y. Gabbai descrisse lo stesso evento in tutt’altro modo:
«Dal trasporto furono scelti 700 uomini, tra di essi mio fratello ed io, che poi dovettero ancora percorre a piedi tre chilometri (29) verso Birkenau» (30) .
Inoltre a Venezia il numero 182727 fu tatuato il giorno stesso dell’arrivo (31) al cugino Y. Gabbai, invece, il numero precedente 182569 fu tatuato inspiegabilmente «dopo alcuni giorni» (32) .

In relazione al campo di Auschwitz, Venezia afferma:
«All’interno del campo, immediatamente sulla sinistra, si trovava il blocco 24: era il bordello dei soldati e di qualche privilegiato non ebreo» (33) .
Questo bordello era invece destinato esclusivamente ai detenuti. In un rapporto del Lagerarzt (medico del campo) del KL Auschwitz del 16 dicembre 1943 si legge al riguardo:
«In ottobre nel Block 24 è stato istituito un bordello con 19 donne. Prima del loro impiego le donne sono state visitate per Wa. R. (34) e Go. (35). Queste visite vengono ripetute ad intervalli regolari. L’accesso al bordello è consentito ai detenuti ogni sera, dopo l’appello. Durante l’orario di visita [al bordello] devono essere sempre presenti un detenuto medico e un detenuto infermiere che eseguono le misure sanitarie ordinate. Alla sorveglianza provvedono un medico SS e un infermiere SS» [«Im Oktober wurde im Block 24 ein Bordell mit 19 Frauen errichtet. Vor ihrem Einsetzen wurden die Frauen auf Wa. R. und auf Go. untersucht. Diese Untersuchungen werden in regelmässigen Abständen wiederholt. Der Zutritt ins Bordell ist den Häftlingen allabendlich, nach dem Appell gestatten. Während der Besuchzeit ist immer ein Häftlingsarzt und Häftlingspfleger anwesend, die die angeordneten sanitären Massnahmen durchführen. Die Überwachung besorgt ein SS-Artz und ein S.D.G.»] (36).
5.
Il campo di quarantena BIIa

Il giorno dopo Venezia fu inviato nel campo BIIa di Birkenau, dove doveva restare in quarantena per quaranta giorni. Egli racconta che, qualche giorno dopo,
«ci fecero prendere un carro, come quelli che si utilizzavano per trasportare il fieno. Dovevamo trainarlo noi al posto dei cavalli. Raggiungemmo una baracca che si trovava alla fine della quarantena, la chiamavano Leichenkeller, la camera dei cadaveri. Quando aprimmo la porta un odore atroce ci prese alla gola: la puzza dei corpi in decomposizione. Non ero mai passato davanti a quella baracca, e solo allora appresi che serviva da deposito per i cadaveri dei detenuti morti durante la quarantena, prima che venissero portati al Crematorio per essere bruciati. Un gruppetto di prigionieri passava tutte le mattine nelle baracche per recuperare i corpi di quelli che erano morti durante la notte. I cadaveri potevano poi rimanere a marcire nel Leichenkeller quindici o venti giorni, e quelli sul fondo erano spesso in uno stato di decomposizione avanzato, a causa del caldo» (37) .
In realtà nel campo di quarantena BIIa non esisteva alcuna camera mortuaria. Delle 19 baracche che lo componevano, 14 servivano da alloggio per i detenuti, 3 contenevano lavatoi e latrine, una l’infermeria e una la cucina. Nell’aprile-maggio 1944, 12 baracche furono adibite a ospedale per i detenuti, nessuna a camera mortuaria (38).

La permanenza di cadaveri nelle camere mortuarie di Birkenau per «quindici o venti giorni» non ha alcuna base reale, il che rende ulteriormente insostenibile il racconto di Venezia. Il 4 agosto 1943 l’SS-Sturmbannführer Karl Bischoff, capo della Zentralbauleitung, rispose all’SS-Hauptsturmführer Eduard Wirths, medico della guarnigione di Auschwitz, che aveva richiesto la costruzione di camere mortuarie in muratura:
«L’SS-Standartenführer dott. Mrugowski, nel corso del colloquio del 31 luglio, ha dichiarato che i cadaveri devono essere portati nelle camere mortuarie dei crematori due volte al giorno, e precisamente al mattino e alla sera. Perciò la costruzione separata di camere mortuarie nelle singole sottosezioni diventa superflua». [«SS-Standartenführer Mrugowski hat bei der Besprechung am 31.7 erklärt, daß die Leichen zweimal am Tage, und zwar morgens und abends in die Leichenkammern der Krematorien überführt werden sollen, wodurch sich die separate Erstellung von Leichenkammern in den einzelnen Unterabschnitten erübrigt»] (39) .

Il 25 maggio 1944 il dott. Wirths inviò una lettera al comandante del campo di Auschwitz in cui si dice:
«Nelle infermerie dei detenuti dei campi del KL Auschwitz II ogni giorno vi è naturalmente un certo numero di cadaveri, il cui trasporto ai crematori è invero regolamentato e avviene due volte al giorno, al mattino e alla sera». [«In den Häftlingsrevieren der Lager des KL Auschwitz II fallen naturgemäß täglich eine bestimmte Anzahl von Leichen an, deren Abtransport zu den Krematorien zwar eingeteilt ist und täglich 2 mal, morgens und abends, erfolgt»] (40) .
Il trasporto dei cadaveri ai crematori «al mattino e alla sera» spiega perché il “Sonderkommando” era suddiviso in due turni di lavoro, uno diurno e uno notturno, come affermò anche Venezia:
«Noi facevamo turni dalle 8 alle 20 oppure dalle 20 alle 8» (41); «lavoravamo in due turni, uno di giorno e uno di notte» (42).
Per quanto riguarda la denominazione della presunta baracca, Venezia confonde con quella della camera mortuaria seminterrata del crematorio II/III: “Leichenkeller” significa appunto “scantinato per i cadaveri”; tutte le altre camere mortuarie di Birkenau erano infatti al livello del suolo. Come vedremo, Venezia afferma di essere stato assegnato al cosiddetto “Sonderkommando” del crematorio III, ma, fatto alquanto curioso, non nomina mai il termine “Leichenkeller” proprio quando lo dovrebbe menzionare: il “Leichenkeller 1” era infatti la presunta camera a gas omicida.

In fatto di terminologia errata, Venezia, ripetendo ciò che aveva già detto nel 1995 (43), afferma che i detenuti, ad Auschwitz, venivano chiamati «pezzi» (Stücke) (44). Nessun documento noto attesta quest’uso linguistico. Per contro, in migliaia di documenti i detenuti sono chiamati, appunto, “detenuti” (Häftlinge); a volte sono indicati soltanto con il numero di matricola, a volte anche con il loro nome (45). Nessun altro testimone del “Sonderkommando” e nessuno dei compagni di sventura di Venezia conferma questa pretesa denominazione di «Stücke». Suo cugino Y. Gabai dichiarò: «Non c’erano nomi al campo, solo numeri» (46) .

Venezia continua la sua narrazione così:

«Alla fine della terza settimana di quarantena, si presentarono degli ufficiali tedeschi che solitamente non si facevano vedere qui, poiché il mantenimento dell’ordine era affidato ai Kapos. Gli ufficiali si fermarono davanti alla nostra baracca e ordinarono al Kapo di disporci in fila, come per l’appello. Ognuno di noi dovette dichiarare che mestiere faceva e sapevamo tutti che bisognava mentire. Quando arrivò il mio turno sostenni di essere barbiere, mentre Léon Cohen, un amico greco che era sempre con noi, disse di essere dentista, sebbene in realtà lavorasse in banca. Pensava che lo avrebbero messo in uno studio dentistico a fare le pulizie, almeno sarebbe stato al caldo. Io ero convinto invece che in questo modo avrei raggiunto i prigionieri che lavoravano nella Zentralsauna. Avevo visto che il lavoro non era troppo difficile e poi si stava al caldo. In realtà non accadde quello che immaginavamo. Il tedesco scelse ottanta persone, tra cui me, mio fratello e i miei cugini»
(47).
Ma nell’intervista di Stefano Lorenzetto i prescelti erano 70 (48). Ecco il racconto di Y. Gabbai del medesimo episodio:
«Dopo venti giorni - dunque il 12 maggio 1944 - ci fu un’altra selezione, più rigorosa della prima: vennero due medici con due sottufficiali. Dovemmo sfilare nudi. Un medico tedesco ci visitò, senza dire una parola, e scelse i 300 più robusti e più sani» (49).
Al riguardo J. Sackar riferì:
«Da lì ci portarono nella quarantena: Abschnitt BIIa. Vi restammo tre settimane. [...]. Una sera, quando erano arrivati i primi trasporti dall'Ungheria, si effettuò di nuovo una selezione e furono presi 200-220 Greci del nostro trasporto e fummo portati in blocchi speciali, se non erro, n. 11 e 13» (50) .
I primi trasporti di Ebrei ungheresi arrivarono ad Auschwitz il 17 maggio 1944 (51). S. Chasan raccontò:
«Restammo due settimane nella “quarantena”. [...] I Tedeschi vennero semplicemente nella “quarantena” e presero 200 uomini robusti per il lavoro» (52). [Nell’immagine Chasan si vede frontalmente, il primo a sinistra]
Infine, L. Cohen dichiarò:
«Restammo un mese nella quarantena. Un giorno nel blocco giunsero un medico ebreo e uno tedesco per la “visita”. Poiché conoscevo il tedesco, i miei compagni mi incaricarono di tradurre per loro. Andai dai medici e dissi loro che non ci dovevano assegnare al Sonderkommando. Alcuni giorni dopo arrivò un giovane Tedesco, di circa trent’anni, che parlava francese. [...]. Allora mi disse che aveva bisogno di 200 uomini robusti per lavori di caricamento presso la ferrovia. [...]. L'uomo ritornò il mattino seguente e disse: “Tutti i Greci con me!”. Eravamo circa 150 persone» (53).
Dalla “Quarantäne-Liste” (Lista della quarantena) risulta che il 13 aprile 1944 furono accolti nel campo BIIa 320 Ebrei provenienti da Atene con i numeri di matricola 182440-182759 che furono alloggiati nel Block 12; la quarantena scadeva l’11 maggio, ma 30 detenuti furono trasferiti il 5 maggio (54), pertanto Venezia - che rimase solo tre settimane in quarantena - doveva far parte di questo gruppo, sebbene adduca la cifra di 70 o 80 detenuti.

In riferimento alla baracca del “Sonderkommando”, egli aggiunge:
«Comunque non ci rimasi molto; nel giro di una settimana fummo trasferiti nel dormitorio del Crematorio» (55).
Ciò sarebbe dunque avvenuto intorno alla metà di maggio del 1944. Ma secondo, Filip Müller, un altro sedicente membro del “Sonderkommando”, ciò accadde «alla fine di giugno» (Ende Juni) (56) .

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6.
Il primo giorno nel “Sonderkommando

Venezia, con i 30 o 70 o 80 o 150 o 200-220 o 300 prescelti fu condotto nel campo BIId «verso due baracche che pur essendo dentro al campo erano isolate da tutte le altre con filo spinato» in cui si trovava il cosiddetto “Sonderkommando(57).
«La mattina dopo – racconta il testimone – verso le sette, ci portarono al crematorio III, che era circondato da un reticolato di filo spinato con la corrente a seimila volts. Dietro al reticolato correva una palizzata alta tre metri. Da fuori non potevano [sic] vedere nulla di quello che accadeva dentro, si vedeva solo la cima dei camini. Appena entrati dentro il kapò, per non metterci subito a contatto con la realtà, ci disse di rimanere fuori nel cortile ad estirpare l’erba ed altri lavori del genere [sic]. Ad un certo punto notai che l’edificio aveva una finestra ad altezza d’uomo, e spinto dalla curiosità decisi di vedere che cosa succedeva in questo crematorio. Mi avvicinai a quella finestra e vidi una stanza piena di morti, così aggrovigliati che sul principio non riuscivo a capire, non come quelli che avevamo visto nella baracca (58), ma morti da poco, ancora tutti in carne. Non ci volevo credere» (59).
«La mattina dopo» è il 6 maggio 1944. All’epoca il crematorio III (al pari del crematorio II) non era circondato da alcuna «palizzata alta tre metri» che impedisse la vista dei rispettivi cortili, come risulta in particolare dalla fotografia n. 153 dell’Album di Auschwitz, scattata il 26 maggio 1944, che mostra la metà est e buona parte del cortile del crematorio III, ben visibile perché era circondato soltanto da una recinzione di filo spinato (60). Questa fotografia appare anche nel libro di Venezia, con una didascalia ingannatrice: «Gruppo di donne e bambini - ebrei ungheresi - in procinto di entrare nel crematorio II» (61). [Cliccare sull’immagine qui sotto riportata dal libro, per ottenerne un notevole ingrandimento] Le fotografie dell’Album di Auschwitz scattate successivamente dimostrano infatti che questo gruppo di persone percorse la Hauptstrasse (strada principale) oltrepassando i crematori II e III e, attraverso la Ringstrasse (strada circolare) (62) si fermò nel boschetto nei pressi del laghetto situato a est del crematorio IV (63).

La storia della palizzata è tratta dal libro di F. Müller, che scrisse:
«In precedenza Moll qui [presso il Bunker] e nei cortili dei crematori IV e V aveva fatto innalzare una barriera visiva alta circa 3 metri di lunghi pali conficcati, bastoni e rami secchi, per impedire a coloro che si trovavano al di là di gettare sguardi indiscreti sui luoghi dello sterminio» (64).
Evidentemente Venezia non ha capito bene questo passo, perché attribuisce al crematorio II o III ciò che F. Müller riferiva al “Bunker” e ai crematori IV e V.

Stando nel cortile del crematorio, Venezia notò «che l’edificio aveva una finestra ad altezza d’uomo». Raccontata così, la storia è piuttosto ingenua, perché lungo tutto l’intero perimetro esterno del crematorio si trovavano la bellezza di 47 finestre ad altezza d’uomo (65). C’era solo l’imbarazzo della scelta. Nel libro, Venezia ritorna sull’episodio scrivendo:
«Il primo giorno al Crematorio rimanemmo nel cortile senza entrare nell’edificio. A quei tempi lo chiamavamo Crematorio I; non sapevamo ancora dell’esistenza del primo Crematorio di Auschwitz I. Tre scalini portavano all’interno ma, invece di farci entrare, il Kapo ci fece fare un giro intorno. Un uomo del Sonderkommando venne a dirci quello che dovevamo fare: togliere le erbacce e pulire un po’ il terreno. Non si trattava di cose molto utili; probabilmente i tedeschi volevano tenerci sotto osservazione prima di farci lavorare all’interno del Crematorio. Quando tornammo il giorno dopo ci fecero fare le stesse cose. Sebbene ce lo avessero vietato formalmente, spinto dalla curiosità mi avvicinai al fabbricato per guardare dalla finestra cosa accadeva all’interno. Arrivato abbastanza vicino da dare un’occhiata, rimasi paralizzato: al di là del vetro vidi corpi ammucchiati, gli uni sugli altri, cadaveri di persone ancora giovani. Tornai verso i miei compagni e raccontai loro cosa avevo visto. Andarono quindi a guardare pure loro, con discrezione, senza che il Kapo se ne accorgesse. Tornavano con il volto distrutto, increduli. Non osavano pensare a quello che poteva essere successo. Compresi solo più tardi che quei cadaveri erano il “surplus” di un convoglio precedente. Non erano stati bruciati prima dell’arrivo del nuovo convoglio, e li avevano messi lì per fare spazio nella camera a gas» (66).
Rilevo anzitutto che, in questa versione, la scena si svolge al crematorio II invece che al crematorio III. Venezia vi ha inoltre rinunciato alla storia insostenibile della «palizzata alta tre metri». Aggiungo che le finestre del crematorio erano doppie ed erano tutte protette da una inferriata, dettagli non trascurabili che non potevano sfuggire a un osservatore esterno.
Secondo un altro sedicente membro del “Sonderkommando”, Henryk Tauber, al pianterreno del crematorio II il locale denominato “Waschraum und Aufbahrungsraum” (sala di lavaggio e di composizione delle salme), verso il quale si apriva il montacarichi, veniva usato nel marzo-aprile 1943 come «deposito dei corpi» (67).
Ma anche se si volesse estendere questa funzione al crematorio III e al maggio 1944, resterebbe comunque il caso straordinario che Venezia, tra le 22 finestre che si aprivano in quella facciata del crematorio, sarebbe andato a curiosare proprio alla coppia di finestre del locale in questione.
Per F. Müller questo locale era usato per le esecuzioni (68). Di tale presunto uso, però, Venezia non sa nulla: per lui le esecuzioni con colpo alla nuca venivano effettuate nella sala forni, vicino all’«angolo dell’ultimo forno» (69), né egli accenna all’impiego di un locale al pianterreno per depositarvi un “surplus” di cadaveri.

La storia del «“surplus” di un convoglio precedente» è del resto smentita dal Kalendarium di Auschwitz, secondo il quale l’ultima gasazione prima del 6 maggio 1944 fu eseguita il 2 maggio, ma le presunte 2.698 vittime (70), in base alla capacità di cremazione addotta da Venezia (71), sarebbero state cremate in meno di due giorni; d’altra parte, la prima gasazione successiva a quella data, sarebbe avvenuta il 13 maggio (72). Nel libro, «la mattina dopo» diventa «qualche giorno dopo il nostro arrivo» (73), ma ciò non modifica la conclusione che scaturisce dal suo racconto: Venezia nel crematorio II o III non poté vedere il gruppo di cadaveri di presunti gasati.

Il cugino di Venezia narrò l’evento in questo modo:
«All’inizio della settimana, il lunedì 15 maggio, il gruppo fu diviso. Gli uni andarono al crematorio II [= III], noi fummo portati al crematorio I [= II]. Nel nostro gruppo c’erano soprattutto Ebrei greci, tra i quali Michel Ardetti, Josef Baruch di Corfù, i fratelli Cohen, Shlomo e Maurice Venezia, io e mio fratello Dario Gabai, Leon Cohen, Marcel Nagari e Daniel ben Nachmias. Ci dissero che la prima notte non dovevamo ancora lavorare, solo osservare. Ricordo che verso le 17 e 30 arrivò un trasporto dall’Ungheria (74). I lavoratori anziani dissero che noi nuovi arrivati dovevamo guardare bene, giacché entro pochi minuti essi [i deportati] non sarebbero più stati vivi. Non ci credevamo. Dopo poco tempo ci ordinarono di seguire giù i lavoratori, per vedere che cosa accadeva lì. Questo era ormai il nostro lavoro, ci fu detto. Fuori c’era [scritto] “Docce”, in polacco, tedesco, russo e inglese.
[Domanda] Che cosa vide quando, per la prima volta, la porta della camera a gas si aprì davanti a Lei?
[Gabbai] Vidi cadaveri, uno sopra l’altro. C’erano circa 2.500 corpi»
(75).
Per J. Sackar, S. Chasan e L. Cohen, invece, il primo giorno di lavoro i nuovi detenuti del “Sonderkommando” furono portati direttamente al “Bunker”, come vedremo nel paragrafo 8.

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7.
Il “Bunker 2

Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, Venezia ha raccontato la sua prima giornata di lavoro nel cosiddetto “Sonderkommando” senza menzionare affatto l’aneddoto relativo al crematorio:
«L’indomani [il 6 maggio 1944] ci fecero attraversare un boschetto. Arrivammo davanti a una casupola di contadini. Guai a chi si muoveva o fiatava. Tutti fermi in un angolo ad aspettare. All’improvviso sentimmo delle voci in lontananza: erano intere famiglie, con bambini piccoli e nonni. Li costrinsero a denudarsi al freddo. Poi li fecero entrare nella casetta. Arrivò un furgone con le insegne della Croce Rossa: scese un Ss, con un attrezzo aprì uno sportellino e fece cadere all’interno una scatola di roba, circa due chili. Chiuse e se ne andò. Dieci minuti dopo fu aperta una porta dalla parte opposta all’ingresso. Il capo ci chiamò a tirar fuori le salme. Dovevamo buttarle dentro il fuoco in una specie di piscina a 15 metri di distanza» (76).
Questa narrazione si riferisce al cosiddetto “Bunker 2”, una casa contadina al di fuori del campo di Birkenau pretesamente trasformata in camera a gas omicida nel 1942. In realtà questa presunta installazione di sterminio, come ho dimostrato in uno studio specifico (77), non è mai esistita. Essa non appare mai in nessun documento tedesco né col nome “Bunker” né con qualunque altro nome, neppure “criptato”.
La Commissione di inchiesta sovietica, che svolse la sua attività ad Auschwitz nel febbraio-marzo 1945, ignorava completamente il termine “Bunker”: essa usò sempre l’espressione “camera a gas” (газовая камера, gazovaja kamera) n. 1 e 2. Il testimone per eccellenza, Szlama Dragon, nella sua prima deposizione resa davanti ad un giudice istruttore sovietico il 26 febbraio 1945, parlò parimenti di “gazokamera [газокамерa] n. 1 e 2” e dichiarò esplicitamente che questa era la denominazione ufficiale. Anche H. Tauber, nella sua deposizione del del 27 e 28 febbraio 1945, riferì soltanto di “camere a gas” (“газовые камеры”, gazovie kameri). Il termine “Bunker” apparve per la prima volta nella deposizione di Stanisław Jankowski (anch’egli sedicente membro del “Sonderkommando) del 16 aprile 1945 (78).

Venezia ignorava che, secondo la versione ufficiale, questo “Bunker” fu rimesso in funzione in occasione dell’arrivo degli Ebrei ungheresi ad Auschwitz (perché le “camere a gas” dei crematori non riuscivano a smaltire le vittime), dunque non prima del 17 maggio 1944. La stessa cosa vale per la presunta «piscina» di cremazione. D. Czech afferma infatti che Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, nel quadro dei preparativi per il presunto sterminio degli Ebrei ungheresi, ordinò di riattivare il “Bunker 2” in data 9 maggio 1944 (79). F. Müller scrive al riguardo che «all’inizio di maggio nell’area dei crematori apparve dapprima il comandante del campo Höss e alcuni giorni dopo l’Hauptscharführer Moll» (80), il quale ordinò di scavare «cinque fosse dietro il crematorio V». F. Müller aggiunge:
«Anche nell’area del Bunker V ogni giorno si recò un numero molto consistente di detenuti per scavarvi parimenti delle fosse» (81).
Il periodo è proprio quello del presunto invio di Venezia al “Bunker 2”: all’epoca, dunque, egli, eventualmente, avrebbe potuto assistere solo allo scavo di fosse, non già allo spettacolo di fosse ardenti. Inoltre, come ho rilevato sopra, allora non arrivò neppure un trasporto di Ebrei che potessero esservi gasati.
Venezia ignorava anche che il presunto “Bunker 2”, secondo Sz. Dragon, era suddiviso in quattro locali, e aveva 4 porte di entrata e 4 di uscita, nonché 5 aperture di introduzione dello Zyklon B. Per D. Paisikovic, invece, esso aveva 3 locali (82), mentre in base al rilevamento topografico del Museo di Auschwitz del 29 luglio 1985, esso comprendeva 7 locali (83) .

D’altra parte, l’espressione «denudarsi al freddo» (84) non solo non conviene al periodo (6 maggio), ma è anche in contrasto con la versione ufficiale, secondo la quale presso il “Bunker 2” furono costruite tre baracche nelle quali le vittime si spogliavano.
Qui apro una parentesi. Lo storico Marcello Pezzetti, nello scritto “La Shoah, Auschwitz e il Sonderkommando” allegato al libro di Venezia, invece di segnalare questo errore, cerca di coprirlo asserendo:
«In questo periodo di massima capacità di messa a morte del campo, le autorità naziste misero di nuovo in funzione il Bunker 2 (senza baracche spogliatoio accanto e il cui interno venne diviso in due parti... » (85).
Ma il testimone F. Müller, che è certamente un po’ più importante di Venezia, al riguardo ha scritto che «gli spogliatoi in cui le vittime si dovevano togliere i vestiti prima della gasazione si trovavano in tre baracche di legno» (86). Anche Sz. Dragon ha confermato che, alla riattivazione del “Bunker 2”, «sono state costruite delle altre baracche» (87).
M. Pezzetti è smentito perfino dalla pianta di Birkenau riprodotta nel libro, in cui il “Bunker 2” (designato “M 2”) appare corredato di due baracche spogliatoio! [Cliccare sull’immagine per averne l’ingrandimento] (88)

Tornando alle dichiarazioni di Venezia, gli sportelli a tenuta di gas delle camere di disinfestazione (e delle presunte camere a gas omicide) non si aprivano «con un attrezzo», ma con un semplice chiavistello a farfalla. Il testimone confonde con i barattoli di Zyklon B, i quali, appunto, si aprivano con un attrezzo speciale, che si chiamava “Schlageisen”, “scalpello”.
Non è poi chiaro come Venezia abbia potuto stabilire che nella «casupola» fossero stati introdotti «circa due chili» di Zyklon B, perché questo era confezionato in barattoli di vario formato, da 100 a 1.500 grammi di acido cianidrico, che egli però non descrive mai.
Nel libro, Venezia racconta in modo più prolisso il medesimo aneddoto. Riporto i passi essenziali:
«Arrivammo davanti a una casetta che veniva chiamata, come ho saputo più tardi, Bunker 2 o “casa bianca” e proprio in quel momento il mormorio si fece più intenso.
Il Bunker 2 era una piccola fattoria con il tetto ricoperto di frasche. Ci ordinarono di metterci su un lato della casa, vicino alla strada che passava lì davanti, da dove non potevamo vedere niente, né a destra né a sinistra»
(89).
Due pagine dopo, viene riprodotto un disegno del sedicente membro del “Sonderkommando” David Olère risalente al 1945, che mostra il “Bunker 2(90). Vi appare una casa (il presunto “Bunker 2”) con una porta al centro della facciata, una finestrella al centro del fianco visibile e un tetto ricoperto apparentemente di frasche. [Clicca sull’immagine per ingrandirla. A.C.] In realtà, secondo la deposizione di Sz. Dragon del 10-11 maggio 1945 (91), il tetto era di paglia (92), cosa confermata il 10 agosto 1964 da D. Paisikovic (93).
Aggiungo che il disegno di Sz. Dragon del “Bunker 2” (94) è in aperto contrasto con quello di D. Olère, che presenta per di più parecchi elementi di fantasia (95), mentre quello di D. Paisikovic è in contrasto con entrambi (96). Perciò il particolare del «tetto ricoperto di frasche» è il frutto di un fraintendimento del disegno di D. Olère.

Venezia dice poi che arrivarono 200-300 vittime: «Le persone vennero costrette a spogliarsi davanti alla porta». Nessuna menzione delle apposite baracche-spogliatoio neppure qui.
Nel seguito della narrazione scompare sia l’accenno all'SS che «con un attrezzo aprì uno sportellino», sia il riferimento ai «circa due chili» di Zyklon B.
Venezia aggiunge:
«Quanto a noi, ci ordinarono di andare dietro la casa da dove, all’arrivo, avevo notato provenire uno strano bagliore. Mentre ci avvicinavamo mi resi conto che si trattava della luce del fuoco che bruciava nelle fosse, a una ventina di metri di là» (97).
In precedenza egli aveva menzionato una sola fossa, «una specie di piscina», o «un fossato tipo piscina» (98): qui, invece, parla di «fosse», al plurale, senza curarsi di dire neppure quante erano. La cosa in effetti era piuttosto ardua, perché, al riguardo, i testimoni oculari si contraddicono a vicenda, asserendo che esse erano 1, 2 o 4, che erano lunghe 50 o 30 metri, larghe 10 o 6 metri e profonde 3 o 4 metri (99).
Venezia ignorava anche che, nel 1944, il “Bunker 2” (secondo altri testimoni) era stato ribattezzato “Bunker V” (F. Müller) o “Bunker 5” (D. Paisikovic), sicché Jean-Claude Pressac prese la salomonica decisione di denominarlo “Bunker 2/V(100).

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8.
Il primo giorno di lavoro al “Bunker
secondo i compagni di sventura di Venezia

A questo riguardo, J. Sackar raccontò quanto segue sulla sua prima giornata nel “Sonderkommando”:
«Del primo giorno mi ricordo bene. Eravamo nel campo D [BIId] e una sera ci portarono dietro all’edificio dell'ultimo crematorio [hinter das letzte Krematoriumsgebäude], dove vidi le atrocità più orribili della mia vita. La sera era arrivato un piccolo trasporto. Noi non dovevamo lavorare; ci avevano portato là affinché ci abituassimo a guardare. C’era una fossa scavata, chiamata “Bunker”, per cremare i cadaveri. Dalle camere a gas i cadaveri venivano portati a questi “Bunker”, vi venivano buttati dentro e bruciati nel fuoco» (101).
L’«ultimo crematorio» era il crematorio V, perciò il testimone localizzava il “Bunker 2” nel cortile esterno di questo crematorio!
Alla domanda: «Può descrivere il “Bunker”?», il testimone rispose:
«Sì, era una grossa fossa, dove si portavano e si gettavano i cadaveri. Le fosse erano scavi profondi, giù, sul fondo, veniva accatastata la legna. Dalle camere a gas si portavano qui i cadaveri e si gettavano nelle fosse. Le fosse erano tutte fuori, all’aperto. C'erano alcune fosse, nelle quali bruciavano i cadaveri» (102).
Per J. Sackar dunque il “Bunker 2” non era una casa contadina trasformata in impianto di gasazione, bensì una «grossa fossa» nella quale si cremavano i cadaveri delle vittime assassinate nelle camere a gas del crematorio V!
Quest’idea olocausticamente strampalata appare anche nelle testimonianze dei suoi compagni di sventura.
S. Chasan, infatti, sempre in relazione alla prima giornata di lavoro, asserì:
«Camminammo e camminammo. Strada facendo chiedevamo: “Dove lavoreremo?”. La risposta era: “Nella fabbrica”. Finalmente giungemmo in un boschetto. Ci guardammo intorno nel boschetto e che vedemmo? Una piccola casa contadina, una capanna isolata. Ci avvicinammo, vi arrivammo e quando fu aperta la porta, vidi una cosa orribile. Dentro era tutto pieno di cadaveri di un trasporto, più di 1.000 cadaveri. L’intero locale, tutto pieno di cadaveri» (103).
Questa «casa contadina» aveva dunque una sola camera a gas con una sola porta. Come ho già rilevato, ciò è in contrasto con le testimonianze di Sz. Dragon e D. Paisikovic, a loro volta contraddittorie.
Ma anche per S. Chasan il “Bunker” non era la «casa contadina», bensì una fossa:
«Dovevano tirare fuori i cadaveri. Lì c’era un bacino, una fossa profonda che era chiamata “Bunker”» (104).
Alla domanda dell’intervistatore: «Dove si trovava questo bacino?», il testimone ribadì:
«Veniva chiamato “Bunker”. Ora, quando sono ritornato ad Auschwitz, non ho trovato né la fossa né la casa. Doveva trovarsi dietro al crematorio IV [= V(105) .
Perciò anche S. Chasan localizzava il “Bunker 2” nel cortile del crematorio V.
Ed ecco infine il racconto di L. Cohen:
«I Tedeschi non ci portarono alle costruzioni degli impianti di cremazione, ma alle fosse di cremazione. Là vidi parecchi carrelli accanto alle fosse e molto vicino una costruzione con una piccola porta. Poi mi fu chiaro che vi si asfissiavano le persone con il gas. Aspettammo fuori circa 15 minuti, poi, per ordine dei Tedeschi, dovemmo aprire le porte. I cadaveri caddero fuori a mucchi e noi cominciammo a caricarli sui carrelli. Erano piccoli carrelli aperti come quelli delle miniere. Di gran lunga più piccoli dei vagoni ferroviari. I cadaveri furono portati alle fosse. Nelle fosse i cadaveri furono disposti così: uno strato di cadaveri di bambini e di donne (106), sopra uno strato di legna; poi uno strato di cadaveri di uomini, e così via, finché la fossa, profonda tre metri buoni, non era completamente piena. Indi i Tedeschi versavano della benzina nella fossa. La mescolanza di corpi morti e legna bruciava in modo fiammeggiante» (107).
Ricapitolando sommariamente, per Venezia i nuovi detenuti del “Sonderkommando” furono condotti prima al crematorio II oppure al crematorio III, dove videro dei cadaveri da una finestra, ma non fu consentito loro di entrare nella camera a gas; Y. Gabai afferma invece che il 15 maggio 1944 essi furono portati al crematorio II, dove nella camera a gas videro i cadaveri di 2.500 ebrei ungheresi di un trasporto che arrivò a Birkenau solo due giorni dopo. Il testimone non dice nulla del lavoro al “Bunker 2”. J. Sackar asserisce che i detenuti furono diretti nel cortile esterno del crematorio V, dove c’era una fossa che era chiamata “Bunker”. S. Chasan fa dichiarazioni simili. L. Cohen, invece, che non conosceva neppure la denominazione “Bunker”, definisce la presunta installazione di sterminio semplicemente «una costruzione». Egli introduce nella sua narrazione i «carrelli» per trasportare i cadaveri alle fosse, indubbiamente molto più comodi del sistema descritto da Venezia:
«Trasportare un cadavere in due su quel terreno fangoso dove i piedi affondavano non era facile, ma da soli era quasi impossibile... » (108).
S. Chasan, arrivato al “Bunker 2”, lo trovò già pieno di 1.000 cadaveri. L. Cohen, invece, dovette aspettare 15 minuti prima di vedere i cadaveri. Venezia, non si sa come, riuscì anche a vedere le vittime vive, che però non erano 1.000, ma 200-300:
«Curioso come sempre, mi avvicinai per capire cosa stesse succedendo e vidi intere famiglie che aspettavano davanti alla capanna: giovani, donne, bambini. Due, trecento persone in tutto» (109) .
Infine, secondo J. Sackar, i nuovi membri del “Sonderkommando” non lavorarono al “Bunker”, ma si limitarono a guardare, mentre per Venezia essi furono costretti a rimuovere i cadaveri dalla camera a gas e gettarli in fosse ardenti, per L. Cohen, invece, dovettero disporli a strati in una fossa vuota.
Concludo questa breve panoramica con un’altra testimonianza oculare, quella di Miklos Nyiszli, sedicente medico del “Sonderkommando” nello stesso periodo in cui vi lavorava Venezia. Egli scrisse che il “Bunker 2”, da lui mai chiamato in questo modo, ma descritto come «una lunga costruzione decrepita dal tetto di stoppia», «una casa contadina», non era una installazione di gasazione, ma un semplice «spogliatoio» per le vittime ebree, che non morivano in una camera a gas, bensì con un colpo alla nuca sul ciglio di due enormi “fosse di cremazione” (110).


9.
Le “fosse di cremazione” nell'area del “Bunker 2

L’esistenza di “fosse di cremazione” nella primavera-estate del 1944 nell’area del “Bunker 2” è uno dei temi ricorrenti della memorialistica su Auschwitz. L. Cohen - per restare ai nostri testimoni - ci informa che «la fossa» (die Grube) era profonda «tre metri buoni» (111) , mentre secondo S. Chasan «la fossa era molto profonda, credo circa quattro metri» (112).
Ma nessuna delle fotografie aeree scattate dall’aviazione americana e inglese nel 1944 mostra “fosse di cremazione” o fumo in quest’area (113) .
Per di più, all’epoca, la falda freatica dell’area di Birkenau si trovava a 1,2 metri dal livello del suolo (114), perciò la cremazione sarebbe avvenuta nell’acqua!
Un rapido accenno anche alle “fosse di cremazione” del cortile del crematorio V. A loro conferma, nel libro di Venezia sono riprodotte due fotografie. [clicca sulle foto per ingrandirle]
La prima mostra «uomini del Sonderkommando presso una delle fosse comuni del Crematorio V» (115). La didascalia è doppiamente errata. Dal punto di vista olocaustico, poiché nella fotografia appare del fumo, si dovrebbe parlare di “fossa di cremazione”, come si fa comunemente. La relativa nota del libro asserisce che «alla fine della primavera del 1944 cinque erano le fosse di cremazione a cielo aperto intorno al Crematorio V» (116), ma ciò è arbitrario e falso.
Arbitrario perché le testimonianze dei sedicenti ex membri del “Sonderkommando” sono contraddittorie: le presunte fosse erano 2 per S. Jankowski, 3 per C. S. Bendel, 3 per H. Tauber secondo la deposizione resa ai Sovietici, 5 secondo la deposizione da lui resa a J. Sehn e anche per Sz. Dragon e F. Müller (117). Ogni testimone, inoltre, attribuiva ad esse dimensioni e capacità contrastanti (118).
Falso perché in quest’area esistette un solo sito di cremazione con una superficie di circa 50 metri quadrati. Questo unico sito appare sia nella fotografia menzionata sopra, sia nella fotografia aerea di Birkenau scattata dagli Inglesi il 23 agosto 1944, che è appunto la seconda fotografia del libro sul tema delle “fosse di cremazione” (119). La colonna di fumo che si vede accanto al crematorio V proviene proprio da questo sito, come ho dimostrato in base a ingrandimenti delle fotografie disponibili (120).
Secondo F. Müller, le pretese cinque “fosse di cremazione” di quest’area dovevano misurare metri 40-50 x 8 x 2 di profondità (121), perciò la loro superficie complessiva avrebbe dovuto essere mediamente di 1.800 metri quadrati. Le fotografie aeree di Birkenau mostrano invece un solo sito di cremazione di circa 50 metri quadrati. Naturalmente, anche le “fosse” di F. Müller sarebbero state piene d'acqua almeno per il 60% della loro profondità.

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10.
Il recupero del grasso umano nelle “fosse di cremazione”

Nell’intervista apparsa su “Il Giornale”, Venezia, incredibilmente, riferisce l’assurda storia del recupero del grasso umano nella «piscina»:
«Sì, ma la prima notte mi adibirono a questo crematorio all’aperto. Intorno c’era uno scolo in pendenza dove si raccoglieva l’olio che colava dalla pira. Dovevo raccattarlo e ributtarlo sui cadaveri per farli bruciare più in fretta. Lei non ha idea di che combustibile sia il grasso umano» (122).
E nel libro ripete:
«Le fosse erano in pendenza; il grasso umano prodotto dai corpi che bruciavano colava lungo il fondo fino a un angolo, dove era stata scavata una specie di conca per raccoglierlo. Quando il fuoco minacciava di spegnersi, gli uomini prendevano un po' di grasso dalla conca e lo versavano sui corpi per ravvivare la fiamma. Una cosa del genere l’ho vista solo qui, nelle fosse del Bunker 2» (123).
Questa storia, inventata nell’immediato dopoguerra, ha ricevuto la sua sanzione ufficiale da F. Müller, che l’ha ricamata in modo molto minuzioso. Secondo lui, tuttavia, le presunte “fosse di cremazione” erano provviste di due canaletti larghi 25-30 cm che, dal centro della fossa, correvano in pendenza lungo l’asse centrale e sboccavano in due buche più profonde nelle quali si raccoglieva il grasso umano liquido, che veniva raccolto con un secchio e gettato sul rogo (124).
Come ho dimostrato in uno studio specifico (125), questa storiella è insensata già per il fatto che, mentre la temperatura di accensione degli idrocarburi leggeri che si formano dalla gasificazione dei cadaveri è di circa 600°C, la temperatura di accensione dei grassi animali è di 184°C, perciò in un tale impianto il grasso umano brucerebbe immediatamente. Anche perché la temperatura di accensione del legno stagionato è di 325-350°C. Inoltre, se – per qualcuno dei tanti miracoli di cui sono costellate le vite dei “sopravvissuti” del “Sonderkommando” – il grasso umano liquido avesse potuto colare attraverso le fiamme sul fondo della fossa, scorrere sulle braci ardenti e defluire nelle fosse di raccolta laterali, Venezia, insieme a F. Müller, avrebbe dovuto attingerlo sul ciglio di una “fossa di cremazione” in cui c’era un immenso rogo che bruciava ad una temperatura minima di 600°C!

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11.
La camera a gas del crematorio III

All’inizio, a Fabio Iacomini, Venezia aveva raccontato di essere stato assegnato al crematorio III (126). A Stefano Lorenzetto, invece, disse: «Ero addetto al Krematorium 2, il più grande dei quattro (127) funzionanti a Birkenau» (128). Nel libro egli ritorna sulla prima versione:
«La tregua non durò a lungo: il giorno dopo dovemmo ricominciare a lavorare e io fui mandato con un gruppetto di una quindicina di persone al Crematorio III» (129).
Nelle piante di Birkenau e nella documentazione ufficiale – a cominciare dai rapporti esplicativi (Erläuterungsberichte) (130) e dai preventivi di costo (Kostenanschläge o Kostenvoranschläge) (131) del campo e dalla “Deliberazione di consegna” (Übergabeverhandlung) di queste installazioni (132), i crematori di Birkenau sono normalmente denominati II, III, IV e V; in pochi documenti appare la denominazione I, II, III e IV. Ma Venezia non ha mai accennato a questa duplice numerazione, che evidentemente gli era ignota, perciò non si può credere che, nelle sue testimonianze, egli abbia adottato l'una o l'altra a seconda delle circostanze, cosa che sarebbe comunque deplorevole.

Com’era fatta la camera a gas? Sorprendentemente, nel libro Venezia non la descrive affatto: non indica le sue dimensioni, la sua posizione nell’edificio, come vi si accedeva, come era allestita all’interno, se era divisa in due locali (come afferma H. Tauber) o se era un locale unico (come dichiara M. Nyiszli).
Qui egli ha anche perduto un’ottima occasione per chiarire definitivamente, coll’autorità della sua testimonianza oculare, uno dei punti più importanti e più controversi del presunto processo di sterminio nei crematori II e III: la struttura dei presunti dispositivi per introdurre lo Zyklon B nella camera a gas. Erano dei semplici tubi vuoti di lamiera a sezione quadrata con fori su ogni faccia, come dice M. Nyiszli? (133) Avevano al loro interno «una spirale» per distribuire uniformemente lo Zyklon B, coma afferma F. Müller? (134) Oppure non erano di lamiera, ma di rete metallica, e avevano una sezione quadrata di 70 cm di lato, come testimonia M. Kula (il sedicente costruttore dei congegni) (135), o di 35 cm, come sostiene J. Sackar (136), o di 25 cm, come dichiara K. Schultze? (137) E se erano di rete metallica, al loro interno avevano un corto «cono di diffusione» e di recupero dello Zyklon B che si inseriva nella parte alta del dispositivo, come asserisce Kula, o un «cestello» che si tirava su «con l'aiuto di un filo di ferro», come riferisce H. Tauber? (138) Oppure, come raccontò S. Chasan, si trattavava di tubi metallici rotondi, pieni di fori, che però non arrivavano fino a terra, ma avevano in basso uno spazio libero per recuperare i granuli di Zyklon B? (139) O, come narra J. Weiss, «erano colonne per i ventilatori, attraverso cui veniva immesso il gas»? (140) Oppure, secondo la descrizione di J. Erber, i dispositivi avevano insieme tutte queste caratteristiche: erano tubi di ferro (Eisenrohre) ma, nello stesso tempo, «erano circondati da una rete d’acciaio» e avevano al loro interno un «contenitore di lamiera»(Blechbehälter) che si poteva tirare su con una corda? (141)
Al riguardo Venezia non dice assolutamente nulla: dalla sua testimonianza oculare non si apprende come erano fatti i presunti dispositivi per introdurre lo Zyklon B, quanti erano, come erano dislocati, neppure se esistevano realmente! E a giudicare dal fatto che, a suo dire, lo Zyklon B veniva semplicemente «buttato a terra» nella camera a gas – come vedremo sotto – egli non sapeva nulla di tali dispositivi.

Per avere una magra descrizione della presunta camera a gas, bisogna ritornare indietro alla sua testimonianza del 1995: «Questa era una grande sala, sul soffitto c’era una doccia finta ogni metro» (142) , o alla testimonianza del gennaio 2001, non meno laconica:
«La gente così era convinta di andare a fare la doccia e, infatti, c’era una grande stanza con tante docce finte» (143).
Queste affermazioni richiedono un chiarimento.
La deliberazione di consegna (Übergabeverhandlung) del crematorio III all’amministrazione del campo datata 24 giugno 1943 assegna «14 Brausen» (docce) al Leichenkeller 1, la presunta camera a gas, omicida (144). Queste docce, a partire da Pressac, vengono considerate “finte”. La realtà è ben diversa. Esse erano l’attuazione di un progetto precedente ben documentato.
Il 16 maggio 1943, Bischoff inviò a Hans Kammler, Amtsgruppenschef C dell’SS-WVHA, un «Rapporto sulle misure adottate per l’attuazione del programma speciale ordinato nel KGL [campo per prigionieri di guerra] Auschwitz dall’SS-Brigadeführer e Generalmajor der Waffen-SS dott. ing. Kammler» (Bericht über die getroffenen Massnahmen für die Durchführung des durch SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen-SS Dr. Ing. Kammler angeordneten Sonderprogrammes im KGL. Auschwitz) nel quale, al punto 6 si legge:
«Impianto di disinfestazione. Per la disinfestazione dei vestiti dei detenuti è previsto in ciascuna delle singole parti del campo del BAII (145) un impianto di disinfestazione Organizzazione Todt. Per poter eseguire una disinfestazione corporea ineccepibile per i detenuti, nei due bagni per i detenuti esistenti nel BAI vengono montate caldaie di riscaldamento e boiler affinché per l'impianto doccia esistente sia disponibile acqua calda. Inoltre si prevede di montare serpentini di riscaldamento nell'inceneritore dei rifiuti del crematorio III per ottenere tramite essi l’acqua [calda] per un impianto doccia da costruire nel seminterrato del crematorio III. Riguardo all’esecuzione della costruzione per quest’impianto si è discusso con la ditta Topf und Söhne di Erfurt».
Entwesungsanlage. Zur Entwesung der Häftlingskleider ist jeweils in den einzelnen Teillagern des BAII eine OT-Entwesungsanlage vorgesehen. Um eine einwandfreie Körperentlausung für die Häftlinge durchführen zu können, werden in den beiden bestehenden Häftlingsbädern im BAI Heizkessel und Boiler eingebaut, damit für die bestehende Brauseanlage warmes Wasser zur Verfügung steht. Weiters ist geplant, im Krematorium III in dem Müllverbrennungsofen Heizschlangen einzubauen, um durch diese das Wasser für eine im Keller des Krematoriums III zu errichtende Brauseanlage zu gewinnen. Bezüglich Durchführung der Konstruktion für diese Anlage wurde mit der Firma Topf & Söhne, Erfurt, verhandelt»]
(146).
Le docce, dunque, erano vere (147).
Nel libro, Venezia si limita a dire:
«Dopo essersi svestite, le donne entravano nella camera a gas e aspettavano, pensando di trovarsi in una sala docce, coi rubinetti in alto[?]» (148).
Oltre alle presunte docce finte, in precedenza Venezia aveva menzionato soltanto la porta della presunta camera a gas:
«Allora chiudevano la porta, che era fatta come quella delle celle frigorifere, con un piccolo oblò per vedere dentro» (149).
«Infine chiudevano la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai, una doppia porta con al centro uno spioncino per vedere dentro»
(150).
Nel libro, Venezia ha aggiunto soltanto che la porta «all’interno era protetta da alcune sbarre in ferro per evitare che le vittime rompessero il vetro» (151), particolare che però è tratto da un disegno di D. Olère, sul quale ritornerò successivamente – che mostra appunto la porta aperta della camera a gas con lo spioncino protetto internamente da una griglia quadrata (152). [Clicca sull’immagine per ingrandirla] Il disegno, a sua volta, si ispira liberamente alla porta a tenuta di gas con uno spioncino munito all'interno di una griglia emisferica di protezione che fu trovata nel 1945 nel Bauhof (magazzino dei materiali da costruzione) di Auschwitz, come appare nelle fotografie riportate da Pressac (153). Senza approfondire, mi limito a rilevare che la porta del Leichekeller 1 (presunta camera a gas) del crematorio III fu costruita senza griglia di protezione.
La lettera di Bischoff alle officine DAW (Deutsche Ausrüstungswerke) del 31 marzo 1943 fa riferimento ad un’ordinazione del 6 marzo concernente «una porta a gas (Gastür) (154) 100/192 per il Leichenkeller 1 del crematorio III, BW 30a» la quale doveva «essere costruita esattamente secondo il tipo e le dimensioni della porta del seminterrato (Kellertür) del crematorio II antistante, con spionicino di vetro da 8 mm con guarnizione di gomma e ferramenti (mit Guckloch aus doppelten 8 - mm - Glas mit Gummidichtung und Beschlag(155). Riguardo alla porta del crematorio II, nella sua deposizione del 24 maggio 1945 davanti al giudice istruttore J. Sehn, H. Tauber, che aveva visto questa porta nel Bauhof (156), dichiarò che la porta della presunta camera a gas aveva una finestrella che all’interno «era protetta da una griglia metallica in forma di mezza luna», ma poiché essa veniva regolarmente danneggiata dalle vittime, «lo spioncino è stato nascosto da una tavola o una placca di metallo» (157).

Venezia si dilungua invece nella descrizione del processo di gasazione e dell’aspetto delle vittime. Al riguardo egli afferma:
«Alla fine arrivava il tedesco con il gas. Prendeva due prigionieri del Sonderkommando per sollevare la botola dall’esterno, al di sopra della camera a gas, e introduceva lo Zyklon B. Il coperchio, in cemento, era molto pesante. Il tedesco non si sarebbe mai preso la briga di sollevarlo da solo; lo facevamo in due. Qualche volta io, qualche volta altri» (158).
Questa affermazione è in radicale contrasto con tutte quelle più accreditate. Ad esempio, il testimone F. Müller riferì che lo Zyklon B era versato da due «disinfettori» SS (159). Ancor più chiaramente il testimone M. Nyiszli, che Venezia menziona nel libro come «medico ebreo ungherese assistente di Mengele» (160), affermò:
«In questo preciso istante si sente il rombo di un’automobile. È una macchina di lusso, che reca l’insegna della Croce Rossa internazionale. Ne scendono un ufficiale ss e und S.D.G. Senitätsdienstgefreiter (sottufficiale del Servizio di Sanità) (161). Il sottufficiale porta quattro scatole di latta verde. Avanza sul prato dove, ogni trenta metri (162), dei piccoli camini di cemento spuntano dal suolo. Dopo essersi messa la maschera antigas, solleva il coperchio del comignolo, anch’esso di cemento. Apre una scatola e ne versa il contenuto, una materia granulosa violacea, nella bocca del camino» (163).
Ed ecco la relativa testimonianza di H. Tauber:
«[L’SS-Rottenführer] Scheimetz apriva i barattoli con l’aiuto di cesorie particolari e di un martello, poi versava il contenuto nella camera a gas e chiudeva l’apertura [dei piccoli camini] con un coperchio di cemento. Come ho già detto, c’erano quattro di questi piccoli camini. In ognuno di loro Scheimetz versava il contenuto di un barattolo più piccolo di Zyklon. Erano recipienti avvolti con un’etichetta gialla. Prima di aprirli, Scheimetz indossava una maschera antigas. Aveva la maschera addosso quando apriva i barattoli con il [sic] Zyklon e versava il contenuto nei piccoli camini della camera a gas. Oltre a Scheimetz, altre SS svolgevano questo compito, ma ho dimenticato i loro nomi» (164).
Ciò è in ulteriore contrasto con la seguente affermazione di Venezia:
«Alcuni sostengono che le SS portassero maschere antigas, ma io non ho mai visto tedeschi portarne, né per versare il gas né per aprire la porta» (165) .
Venezia ignora incredibilmente la storia dei piccoli camini esterni per l’introduzione dello Zyklon B nella camera a gas, in quanto parla di una semplice «botola» evidentemente installata sul soffitto del locale, che aveva un coperchio di cemento. Questo particolare proviene dalla deposizione di H. Tauber (166). E, menzionando «la botola», egli mostra di non sapere neppure che le presunte aperture per lo Zyklon B nel Leichenkeller 1 dei crematori II e III dovevano essere quattro.

Il riempimento della camera a gas da parte delle SS descritto da Venezia contiene un evidente controsenso:
«Gli uomini venivano invece mandati nella camera a gas alla fine, quando la sala era già piena. I tedeschi facevano entrare per ultimi una trentina di uomini robusti in modo tale che, incalzati dalle botte, massacrati come animali, non avevano altra scelta che spingere in avanti gli altri per entrare e sottrarsi ai colpi» (167).
Ma gli «uomini robusti», per definizione olocaustica, non venivano mandati alla camera a gas, bensì al lavoro.

Ed ecco la descrizione dei cadaveri nella camera a gas:
«Li trovavamo aggrappati gli uni agli altri, ognuno alla ricerca disperata di un po'’ d’aria. Il gas, buttato a terra, sviluppava degli acidi [sic] dal basso; tutti cercavano di raggiungere l’aria, anche se dovevano salire gli uni sugli altri fino a quando anche l’ultimo moriva» (168).
Questa scena è tratta, molto improvvidamente, dalla testimonianza di M. Nyiszli. Questi infatti ha scritto:
«I cadaveri non sono coricati un po’ dappertutto, in lungo e in largo, per la sala, ma pigiati in un ammasso alto fino al soffitto. La spiegazione è nel fatto che il gas inonda dapprima gli strati inferiori dell'aria e sale lentamente verso l'alto. È questo che obbliga i disgraziati a pestarsi, a montarsi l’uno sull'altro. Qualche metro più su, il gas li raggiungerà un po' più tardi» (169).
Il testimone aveva costruito questa scena fittizia sul presupposto che il gas impiegato a scopo omicida fosse non già acido cianidrico (il principio attivo dello Zyklon B), ma «cloro sotto forma granulata» (170), ed è noto che il cloro ha una densità maggiore di quella dell’aria (171), sicché se questo gas fosse stato immesso nella camera, avrebbe appunto inondato dapprima gli strati inferiori dell’aria e sarebbe salito lentamente verso l’alto. Ma, come ha rilevato lo storico Georges Wellers (172),
«i vapori dell’acido cianidrico sono più leggeri dell’aria, perciò salgono in alto nell’atmosfera» (173),
proprio il contrario di ciò che è stato asserito da M. Nyiszli. La scena da lui descritta e ripresa da Venezia è pertanto completamente inventata.

In questa non-descrizione della camera a gas, l’aspetto più incredibile, come ho rilevato sopra, è l’assenza di qualunque riferimento ai presunti congegni di rete metallica per l’introduzione dello Zyklon B. Ormai da anni i ricercatori revisionisti hanno dimostrato che questi presunti congegni sono un semplice espediente letterario senza alcuna base documentaria e materiale (174). Venezia, invece di contraddirli, almeno sul piano testimoniale, su questo punto fondamentale della storia delle gasazioni omicide nei crematori II e III di Birkenau, non sfiora neppure la questione!

Venezia non dice praticamente nulla neppure sul sistema di ventilazione del Leichenkeller 1. Tutto ciò che si riesce a sapere dalla sua testimonianza è che, dopo che era stata accesa la ventilazione, «per una ventina di minuti si udiva un intenso ronzio, come una macchina che aspirava l’aria» (175) e che «il ventilatore continuava a purificare l’aria» (176) (corsivo mio).
Ma l’impianto di ventilazione del Leichenkeller 1 constava di due ventilatori, uno premente che soffiava l’aria (Belüftung), l’altro aspirante che la evacuava (Entlüftung).
La cosa più sorprendente è comunque il fatto che, mentre la presunta camera a gas del crematorio III, per accedervi, richiedeva circa venti minuti di ventilazione meccanica, in quella del “Bunker 2”, che non era fornita di impianto di ventilazione, si poteva entrare subito dopo l’apertura della porta:
«Dieci minuti dopo fu aperta una porta dalla parte opposta all’ingresso. Il capo ci chiamò a tirar fuori le salme» (177).
Ancora più incredibilmente, Venezia non parla mai di maschere antigas, senza le quali i detenuti del “Sonderkommando” sarebbero rimasti a loro volta gasati: certamente nel “Bunker 2”, molto probabilmente nel crematorio III. F. Müller al riguardo ha scritto:
«Mentre i morti venivano portati fuori dalla camera a gas, i trasportatori di cadaveri dovevano indossare maschere antigas, perché i ventilatori non potevano aspirare completamente il gas. Soprattutto tra i morti si trovavano sempre resti del gas tossico che si liberava durante lo sgombero della camera a gas» (178).
Un’ultima osservazione. Venezia afferma:
«La svestizione durava un’ora, un’ora e mezzo, spesso anche due ore, dipendeva dalle persone: più anziani c’erano, più tempo ci voleva e i primi a entrare nella camera a gas potevano rimanervi in attesa per più di un’ora» (179).
Ed ecco la relativa dichiarazione di L. Cohen:
«[Domanda] Quanto restavano le persone nello spogliatoio?
[Cohen] Circa 20 minuti, talvolta una mezz’ora»
(180).


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12.
Il trasporto dei cadaveri ai forni del crematorio III

Venezia descrive così il trasporto dei cadaveri ai forni:
[Cliccare sull’immagine per ingrandirla] «Alla fin fine la cosa più semplice era usare un bastone e tirare il corpo da sotto la nuca. Si vede in un disegno di David Olère. Con tutte le persone anziane mandate a morire, non ci mancavano certo i bastoni» (181).
Il disegno in questione è riprodotto nella pagina seguente del libro. Esso mostra l’ingresso della presunta camera a gas, con la porta aperta (munita di spioncino protetto da una griglia quadrata, di cui ho già parlato); un detenuto è al lavoro all’ingresso, un altro trascina con la mano sinistra il cadavere di una donna, con la destra, per un braccio, quello di un bambino verso i forni. Nella parte sinistra del disegno si vede lo spigolo dell’ultimo forno a tre muffole. In questo disegno è evidente che lo strumento con cui il detenuto summenzionato trascina la donna non può essere un bastone da passeggio, perché esso, nella mano del detenuto, presenta una curvatura a uncino, che invece, secondo l’affermazione di Venezia, dovrebbe avvolgere la nuca della donna. Lo strumento è più verosimilmente una cinghia stretta al collo della donna. La cinghia è infatti menzionata, in diverse varianti, da altri testimoni. M. Nyiszli, ad esempio, ha scritto:
«Fissano di nuovo le cinghie ai polsi dei morti e li trascinano sugli appositi scivoli che li scaricheranno direttamente davanti ai forni» (182).
La scena descritta è chiaramente falsa, perché pone la presunta camera a gas al pianterreno, in comunicazione diretta con la sala forni. Il locale si trovava invece notoriamente nel seminterratto (Kellergeschoss) del crematorio, e Venezia stesso parla del montacarichi usato per trasportare i cadaveri dalla presunta camera a gas alla sala forni (183).
Tuttavia, incredibilmente, né Venezia, né M. Pezzetti hanno rilevato questo grossolano errore architettonico.

Sempre a proposito del trasporto dei cadaveri, Venezia aggiunge:
«Nel disegno di David Olère, si vede un corridoio d’acqua davanti ai forni che serviva per trasportare più facilmente i corpi tra il montacarichi e i forni. Buttavamo dell’acqua in quel rigagnolo e i cadaveri scivolavano senza troppi sforzi» (184).
Questo «corridoio d'acqua» richiama lo «scivolo» menzionato da M. Nyiszli. Il disegno in questione appare nella pagina seguente del libro (185). Per ora ne esamino solo la parte destra. Su quella sinistra, che mostra la tecnica di caricamento di una muffola, ritornerò successivamente. A destra dunque, si vede l’apertura del montacarichi con una porta a due ante aperta.
Qui si impone una breve digressione. Venezia scrive che «il montacarichi non aveva porte; un muro ne bloccava un lato e, in alto, i cadaveri venivano scaricati dall’altro lato» (186). Questa descrizione non è solo in contrasto col disegno di Olère, ma, cosa molto più grave, col disegno del montacarichi che fu installato nel crematorio III. Si tratta del disegno 5037 redatto dalla ditta Gustav Linse Spezialfabrik f.[ür] Aufzüge (fabbrica speciale di montacarichi) di Erfurt il 25 gennaio 1943 che ha l’intestazione «Lasten-Aufzug bis 750 kg Tragkraft für Zentralbauleitung der Waffen SS, Auschwitz/O.S.» (Montacarichi fino a 750 kg di portata per la Zentralbauleitung der Waffen SS, Auschwitz Alta Slesia) (187). Esso mostra che il montacarichi aveva una porta a due ante su entrambi i lati. Una si apriva verso la sala forni, l’altra verso il locale denominato “Waschraum und Aufbahrungsraum” di cui ho già parlato.
Torniamo al disegno di Olère. A partire dal montacarichi, lungo la parete della sala forni con le finestre, sul pavimento corre una striscia larga approssimativamente un metro e mezzo (188). Su di essa non vi sono cadaveri; un mucchio di cadaveri appare invece tra essa e i forni. Questa striscia si trovava in realtà nel crematorio II. Nella sua sala forni, davanti a ogni muffola, nel pavimento, erano installate originariamente tre paia di rotaie collegate a due rotaie di caricamento dei forni (Gleis zur Beschickung der Öfen) che erano disposte perpendicolarmente alle prime fino al montacarichi (Aufzug). Sulle rotaie scorreva il carrello di introduzione dei cadaveri, che si chiamava “Sarg-Einführungs-Vorrichtung”, dispositivo di introduzione della bara. Nel marzo 1943 fu deciso di sostituire questo dispositivo con più pratiche «barelle per cadaveri» (Leichentragen) (189). Le rovine della sala forni del crematorio II presentano ancora le rotaie che erano collocate davanti alle muffole; le rotaie di caricamento che andavano fino al montacarichi furono invece divelte e i relativi solchi nel pavimento in cui erano alloggiate delimitano appunto una striscia di cemento che sembra uno scivolo. Nel crematorio III fu deciso fin dalla fine di settembre del 1942 di sostituire il carrello di caricamento dei cadaveri con le barelle (190), perciò nella sala forni non furono installate rotaie e non c'era alcuno “scivolo” davanti al montacarichi.

La narrazione di Venezia si ispira anche ad altri disegni di Olère.
Il racconto delle vittime che, non riuscendo a camminare, venivano trasportate ai crematori con camion e venivano buttate giù ribaltando il cassone, «come sabbia da scaricare e loro cadevano uno sopra l’altro» (191), è un semplice commento del relativo disegno di Olère, presentato come «donne selezionate nel campo, scaricate davanti al Crematorio III» (192).
La storia assurda che, a suo dire, gli era stata riferita da alcuni uomini del “Sonderkommando”, secondo la quale «nel Crematorio V i camion scaricavano direttamente le vittime, ancora in vita, nelle fosse che bruciavano a cielo aperto» (193), proviene parimenti da due disegni di Olère non pubblicati nel libro di Venezia. Essi recano la seguente didascalia: «SS che gettano dei bambini vivi in una fossa ardente (Bunker 2/V)». I due disegni (il primo è la bozza del secondo) mostrano la parte posteriore di un autocarro sul ciglio di una “fossa di cremazione” ardente; il cassone, pieno di bambini, è inclinato verso la fossa e da esso un soldato SS, parimenti sul ciglio della fossa, afferra i bambini e li getta dentro; un altro soldato, ancora sul ciglio della fossa, saluta col braccio teso. Nella realtà, i due soldati, a causa del calore irraggiato dal rogo, sarebbero bruciati vivi, mentre il serbatoio dell’autocarro sarebbe esploso in pochi minuti.
Venezia parla di due Tedeschi che stavano sulla porta della camera a gas (194): perché proprio due? Perché il relativo disegno di D. Olère mostra, appunto, due Tedeschi (195).

[Clicca sull’immagine per averne l’ingrandimento. Si faccia lo stesso per tutti gli altri disegni di Davide Olère acquisite tramete scanner da libro di Shlomo Venezia, Sonderkommand Auschwitz. - N.d.R.]

Il ritratto dell’SS-Unterscharführer Johann Gorges (196) eseguito da D. Olère (197), suggerisce a Venezia questa descrizione:
«Alto, il viso largo, ma non ricordo il nome. Assomigliava a una delle SS disegnate da David Olère» (198).
L’idea è tratta da F. Müller, che descrive fisicamente «Gorges», affermando tra l’altro che era alto (un metro e ottanta centimetri) (199).

L’aneddoto della bambina trovata viva nella camera a gas, che Venezia espone con ricchezza di particolari, fa parte dei topoi letterari di questo genere di narrativa, come quello dei parenti incontrati nella camera a gas (200). Ad esempio, M. Nyiszli dedica un intero capitolo a questo aneddoto: in questo racconto, si tratta di una ragazza (201). Venezia riferisce invece del ritrovamento di una bambina di due mesi, viva, nella camera a gas (202).

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13.
Forni crematori e cremazione

Venezia non fornisce alcuna descrizione né della sala forni, né dei forni crematori: non dice neppure quanti erano, meno che mai come erano strutturati e come funzionavano.
L’unica cosa che racconta a questo riguardo, è il caricamento di una muffola di un forno:
«Davanti a ogni muffola tre uomini si occupavano di infornare i cadaveri. I corpi erano disposti su una specie di barella, uno per la testa e uno per i piedi. Due uomini, ai lati della barella, la sollevavano con l’aiuto di un lungo pezzo di legno inserito dal di sotto. Il terzo uomo, di fronte al forno, impugnava i manici e infornava la barella. Doveva far scivolare i corpi e riprenderla velocemente, prima che il ferro si scaldasse troppo. Gli uomini del Sonderkommando avevano preso l’abitudine di versare dell’acqua sulla barella prima di disporvi i corpi, per evitare che si incollassero al ferro incandescente, altrimenti il lavoro diventava ancora più difficile: bisognava staccare i corpi con una forca e dei pezzi di pelle rimanevano attaccati» (203).
Questa narrazione è il risultato di un’incauta fusione del disegno di D. Olère che appare nella pagina seguente del libro con un’eco del relativo racconto di H. Tauber. Il disegno è quello che ho già esaminato in relazione al presunto «corridoio d’acqua», che si trova nella parte destra (204). A sinistra appare appunto la scena di tre detenuti che introducono dei cadaveri nella muffola centrale di un forno con la Leichentrage. Questa scena non può corrispondere alla realtà.

Documento 1: Disegno di David Olère del 1945. Da: David Olère. A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, p. 57.

Anzitutto le dimensioni dell’apertura della muffola e conseguentemente dei forni sono assolutamente spropositate. Il culmine della volta della porta della muffola supera di gran lunga le teste dei tre detenuti, mentre in realtà si trovava ad appena 132 centimetri dal pavimento (205). Se D. Olère avesse rappresentato la muffola con le sue dimensioni reali, non avrebbe potuto raffiguare la scena del caricamento contemporaneo di tre cadaveri. D’altra parte, un tale carico avrebbe anche ostacolato il processo di combustione: i cadaveri avrebbero ostruito sia le aperture intermuffola attraverso le quali i gas provenienti dai gasogeni affluivano dalle muffole laterali in quella centrale, sia le aperture della griglia di questa stessa muffola, attraverso le quali i gas combusti si immettevano nel condotto del fumo sottostante.
In secondo luogo, il disegno mostra fiamme e fumo che escono dalla muffola aperta, ma ciò era impossibile, perché fumo e fiamme erano risucchiati immediatamente dal tiraggio del camino, nella muffola centrale tanto più intensamente in quanto le aperture del condotto di scarico del forno a 3 muffole collegato al camino si trovavano proprio in essa, nel cenerario sottostante. La muffola centrale del forno a 3 muffole si apriva a destra: di conseguenza il detenuto disegnato a destra che sorregge la barella si sarebbe trovato davanti al lato interno della porta di introduzione della muffola, che aveva una temperatura di esercizio di 800°C. Questo detenuto, che, al pari dei suoi due compagni, appare a torso nudo, si sarebbe dunque ustionato mortalmente.
Inoltre la tecnica di caricamento esposta nel disegno è errata. Il forno a 3 muffole era dotato di due rulli di scorrimento (Laufrollen), fissati ad un telaio ribaltabile imperniato su un’asta di fissaggio (Befestigungs-Eisen) rotonda saldata alle barre di ancoraggio del forno sotto le porte delle muffole. Questi rulli servivavo inizialmente per lo scorrimento all’interno della muffola della trave di caricamento del carrello di introduzione dei cadaveri, successivamente per lo scorrimento della Leichentrage, i cui tubi laterali, larghi quanto i rulli, vi venivano appunto appoggiati sopra per permettere alla barella di scorrere facilmente all’interno della muffola. Ciò è appunto quanto riferisce Tauber, il quale però aggiunge che l’operazione era eseguita da sei detenuti, non da tre. La tecnica esposta nel disegno di Olère avrebbe comunque richiesto almeno quattro detenuti, perché il detenuto addetto alla barella non avrebbe potuto, da solo, «far scivolare i corpi» sulla griglia di argilla refrattaria della muffola. Questo, come dice Tauber, era compito di un altro detenuto, che doveva tenere fermi i cadaveri con un raschiatoio mentre la barella veniva estratta dalla muffola (206).


Documento 2: Esponenti del Congresso degli Stati Uniti davanti ai forni del crematorio di Buchenwald nel 1945, da http://www.vho.org/GB/thottc/Image29.jpg.
In primo piano, a sinistra, si vede la muffola centrale del primo forno con la porta aperta.

I rulli permettevano ai due detenuti che sollevavano la barella con una sbarra di ferro (non con «un lungo pezzo di legno», come Venezia ha malamente desunto dal disegno di D. Olère) di restare a distanza di sicurezza dalla porta spalancata della muffola evitando loro di ustionarsi.
La cosa più sorprendente è che D. Olère, nel quinto forno crematorio a 3 muffole, ha disegnato correttamente sia l’asta di fissaggio, sia i rulli di scorrimento!
Venezia, infine, ispirandosi molto liberamente al racconto di Tauber, ha dimenticato di precisare che l’acqua versata sulla barella doveva essere saponata:
«Si faceva sciogliere del sapone nell’acqua, in maniera che i corpi scivolassero meglio sulla barella» (207).
Passiamo alla questione essenziale della capacità di cremazione dei forni.
Nella sua prima dichiarazione, Venezia al riguardo ha affermato:
«Dopo queste operazioni i cadaveri venivano gettati sul montacarichi, che li portava al piano terra dove c’erano le bocche dei crematori. Qui altri prigionieri li inserivano, due, tre alla volta nei forni. Dopo venti minuti rimaneva solo cenere e pezzi delle ossa più grandi» (208).
Questi dati – 3 cadaveri in 15 muffole in 20 minuti per 24 ore – sono tratti dalla testimonianza di M. Nyiszli:
«Sono messi per tre su una specie di carrozzina costruita in lamiera d’acciaio. [...]. L'incinerazione dura venti minuti» (209).
Ciò corrisponde ad una capacità di cremazione massima teorica di (3 x 15 x 24 x 60/20 =) 3.240 cadaveri.
In aperta contraddizione con ciò, nell’intervista pubblicata da “Il Giornale” e da “Gente”, Shlomo Venezia ha dichiarato:
«[Domanda] I forni quante ore al giorno funzionavano?
[Venezia] Ventiquattro su 24. Noi facevamo turni dalle 8 alle 20 oppure dalle 20 alle 8. Cremavamo 550-600 ebrei al giorno»
(210).
Dunque la capacità di cremazione massima dei forni del crematorio III era di 600 cadaveri in 24 ore, e tra 600 e 3.240 la differenza non è poca! Venezia afferma inoltre che
«la camera a gas aveva una capienza di circa 1.400 persone, ma i nazisti arrivavano a stiparne 1.700» (211),
perciò per cremare un carico di gasati erano necessari (1.700 : 600 =) quasi 3 giorni (in realtà quasi 6 giorni), ed egli lo ha anche dichiarato esplicitamente:
«In media, l'intero processo di eliminazione di un convoglio durava 72 ore. Uccidere la gente era una cosa veloce, più lungo era bruciare i cadaveri: non c’era un minuto di stasi» (212).
Così egli ha confermato la capacità di cremazione massima di 600 cadaveri in 24 ore. Ma nel libro Venezia ha scritto:
«I Crematori IV e V erano più piccoli dei Crematori II e III; i forni funzionavano meno bene e avevano una capacità inferiore. Le fosse permettevano di accelerare il ritmo di eliminazione dei cadaveri: bruciare settecento corpi in forni così piccoli era un’operazione lunga, tanto più che i forni non funzionavano correttamente. Da noi, invece, potevano entrare fino a milleottocento persone» (213).
La capacità di cremazione del crematorio tipo II/III addotta dal testimone, dunque, prima scende da 3.240 a 550-600 e poi risale a 1.800 cadaveri in 24 ore, senza alcuna spiegazione.
Qui è interessante sapere che cosa dichiararono i compagni di sventura di Venezia. Suo cugino Y. Gabai disse che in ogni muffola si caricavano quattro cadaveri (vier Leichen), che bruciavano completamente in mezz'ora, sicché la capacità del crematorio III era di (4 x 15 x 24 x 60/30 =) 2.880 cadaveri in 24 ore (214) .
J. Sackar affermò:
«Nel forno il fuoco [sic] era così caldo che i cadaveri bruciavano immediatamente [sofort] e vi si potevano introdurre continuamente altri cadaveri».
Questa fantastica cremazione immediata faceva sì che, in tutti i crematori di Birkenau, si potessero cremare «quasi 20.000 uomini [sic] al giorno»! (215)
Il quantitativo spettante al crematorio III, considerato che il numero complessivo delle muffole era di 46, di cui 15 si trovavano in questo crematorio, ammontava a ([20.000 : 46] x 15) circa 6.500 cadaveri in 24 ore.
S. Chasan asserì invece che in ogni muffola si caricavano «tra due e cinque cadaveri» e la cremazione durava mezz'ora, perciò «ogni mezz'ora si potevano cremare da 50 a 75 cadaveri», ossia, al massimo, appunto (75 : 15 =) 5 cadaveri cadaveri per muffola. Ciò significa 150 cadaveri in un'ora e 3.600 in 24 ore.
Riassumo le affermazioni dei testimoni su questo aspetto cruciale del presunto processo di sterminio nella seguente tabella:

capacità di cremazionetestimone
Venezia 13.240
Venezia 2550-600
Venezia 31.800
Gabai2.880
Sackar6.500
Chasan3.600

Non c’è bisogno di ricordare che i testimoni si riferivano agli stessi impianti nello stesso periodo.
Tuttavia, nel corso degli interrogatori cui furono sottoposti dai ufficiali del servizio di controspionaggio sovietico, gli ingegneri della Topf Kurt Prüfer e Karl Schultze, che avevano progettato l’uno il forno a 3 muffole, l’altro la sua soffieria, dichiararono unanimamente che in tale impianto la cremazione di un solo cadavere in una muffola richiedeva un’ora (216) e questa era appunto la capacità reale che risulta da altre fonti tecniche concordanti (217). Pertanto la capacità di cremazione massima teorica del crematorio modello II/III era di (15 x 24 =) 360 cadaveri in 24 ore. Dico “teorica” perché i forni crematori non potevano funzionare continuativamente 24 ore su 24, come spiegherò subito.

Nella sua intervista apparsa su “Gente”, la domanda «I forni quante ore al giorno funzionavano?» è formulata così: «I forni erano sempre accesi?». La risposta è la stessa: «Ventiquattro ore su 24» (218). Questa è un’altra assurdità termotecnica, perché i forni di Birkenau, essendo riscaldati con coke, richiedevano una sosta giornaliera per la pulizia delle griglie dei gasogeni. Ciò era esplicitamente prescritto dalle istruzioni di servizio del forno a 2 e a 3 muffole della Topf, la ditta costruttrice:
«Ogni sera bisogna liberare le griglie dei gasogeni dalle scorie ed estrarre la cenere». [«Jeden Abend müssen die Generatorroste von den Koksschlacken befreit und die Asche herausgenommen werden»] (219).
Ma ciò fu anche dichiarato dal prof. Roman Dawidowski, perito dell'accusa al processo Höss, e accettato dal giudice istruttore J. Sehn, il quale scrisse che i forni crematori di Auschwitz-Birkenau richiedevano ogni giorno «un intervallo di tre ore per pulire i gasogeni dalle scorie» (220).
Aggiungo che la previsione del consumo di coke dei crematori di Birkenau stilata da un impiegato civile della Zentralbauleitung di Auschwitz il 17 marzo 1943 presupponeva un funzionamento dei forni di 12 ore al giorno (221).

Venezia afferma inoltre che le ceneri dei cadaveri
«venivano portate ad una spianata di cemento dietro al crematorio, dove le ossa dovevano essere sminuzzate dai prigionieri con degli attrezzi simili a quelli usati per battere i sampietrini» (222).
Questa storia è tratta dalla testimonianza di F. Müller, che ha scritto:
«Per poter eliminare rapidamente e senza dare nell’occhio le ceneri provenienti dai crematori e dalle fosse, Moll fece cementare presso il crematorio, accanto alle fosse, una superficie di circa 60 x 16 metri, sulla quale le ceneri delle fosse furono poi finemente polverizzate per mezzo di mazzeranghe» (223).
Tuttavia per F. Müller tale presunta «spianata di cemento» si trovava esclusivamente «nel cortile interno del crematorio V» (224), mentre Venezia la colloca nel cortile del crematorio III. In realtà una tale «spianata di cemento» non è mai esistita né nel cortile del crematorio V né in quello del crematorio III: di essa non esiste traccia nelle fotografie aeree americane di Birkenau del 1944, in particolare in quelle, molto chiare, del 31 maggio 1944 (225), né esistono resti architettonici in loco.
Nel libro, Venezia ha rinunciato alla storia della «spianata di cemento», scrivendo in modo vago:
«Le ossa venivano frantumate prima di essere mescolate con le ceneri. L'operazione avveniva nel cortile del Crematorio, dietro l'edificio. Nel Crematorio III il luogo per triturare le ceneri si trovava all'angolo, vicino all'ospedale e al campo degli zingari. Le ceneri sminuzzate e passate più volte al setaccio come quello dei muratori, venivano poi trasportate su una piccola carriola» (226).
Ma anche il riferimento alla carriola è tratto dalla testimonianza di Müller (227).

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14.
I camini fiammeggianti

Nella sua prima intervista, Venezia ha raccontato la trita storiella dei camini fiammeggianti:
«Dalla finestra si vedevano delle fiamme, era una cosa spaventosa, da un camino uscivano le fiamme… […].
Noi ancora non sapevamo niente, avevamo visto le fiamme e ci avevano detto che c’erano i crematori…»
(228) .
Come ho rilevato ripetutamente, la storia dei camini fiammeggianti è una assurdità tecnica (229). Probabilmente il testimone ne ha avuto sentore, perché in seguito non l’ha più ripetuta. Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, egli ha dichiarato: «All’arrivo però notai subito quel fumo che usciva dai camini» (230).
Venezia non menziona questa storia fantasiosa neppure nel libro, ma qui appare un disegno di Olère che rappresenta «il Crematorio II in attività» col camino fiammeggiante! (231). [Clicca sull’immagine per ingrandirla. Nota aggiunta di A.C.]

In compenso, Venezia racconta un’altra storia che riguarda il camino del crematorio III:
«Il lavoro non doveva mai fermarsi, lavoravamo in due turni, uno di giorno e uno di notte. Una catena continua, ininterrotta. Soltanto una volta fummo costretti a sospendere il lavoro per due giorni a causa di un problema alla ciminiera. Per il troppo calore alcuni mattoni si erano fusi e avevano ostruito la canna fumaria. Per i tedeschi perdere due giorni di lavoro era un dramma. Un giovane ebreo polacco, coperto di sacchi per proteggersi dalla fuliggine e dal calore, aprì lateralmente la base del camino ed estrasse i mattoni lucidi, incrostati di grasso umano che causavano il problema» (232).
L’aneddoto è liberamente ispirato a un evento (in parte fantasioso) descritto da Müller, che risaliva però al 1942:
«Le fiamme si erano già attizzate così vivamente e il calore aveva già raggiunto una tale intensità che i mattoni refrattari del camino si sciolsero e il forno bruciò, mentre dei mattoni caddero nel canale che univa il forno al camino» (233).
Il racconto di Venezia è irreale e anche piuttosto ingenuo. Anzitutto il camino non aveva «la canna fumaria», ma «le canne fumarie»: tre. In secondo luogo, ciascuna aveva una sezione di cm 80 x 120 e in ogni canna fumaria si immetteva un condotto del fumo di identiche dimensioni. Perciò «alcuni mattoni» non avrebbero ostruito nulla. In terzo luogo, quando si verificavano dei guasti, l’amministrazione del campo si rivolgeva alla ditta Topf se essi riguardavano i forni, alla ditta Koehler se si riferivano ai condotti del fumo e al camino, che erano stati costruiti da essa. Ad esempio, il 9 maggio 1944 il Bauleiter del KL II (Birkenau) chiese al comando del campo un «permesso di accesso ai crematori I-IV» (Genehmigung zum Betreten der Krematorien I-IV) per la ditta Koehler, perché essa era incaricata di «lavori urgenti di riparazione nei crematori» (mit dringenden Instandesetzungsarbeiten bei Krematorien beauftragt ist) (234).
Ma se proprio un detenuto doveva entrare nel camino, non avrebbe aperto «lateralmente la base del camino [?]», ma piuttosto la porta di pulizia (Reinigungstür) che si trovava alla base del camino e di cui Venezia, evidentemente, non sapeva nulla.

Infine, nei forni crematori, che funzionavano con una temperatura di esercizio di 800°C, il grasso dei cadaveri bruciava completamente nelle muffole, sicché nel camino non si potevano trovare mattoni «incrostati di grasso umano».

Venezia parla inoltre di una «sala del camino» che descrive come segue:
«Così di tanto in tanto, quando potevo fare una pausa e far continuare gli altri per un po’ senza di me, salivo in quella piccola stanza quadrata e suonavo l’armonica per rilassarmi o mi appoggiavo semplicemente al davanzale della finestra per prendere aria. Quella piccola sala, con una finestra e al centro il grande condotto del camino in mattoni, quadrato, era il mio rifugio» (235).
Ma la «sala del camino» era il “Müllverbrennungsraum”, il locale in cui si trovava l’incineritore per le immondizie (Müllverbrennungsofen) e l’imponente camino, che del resto non era quadrato, ma rettangolare (misurava circa m 4 x 2,5); non si trattava ovviamente di una «piccola stanza», perché aveva all’incirca dimensioni di m 10 x 8, inoltre aveva 4 finestre e 2 finestrelle. Dall’altra parte del camino, verso la sala forni, separate da un muro, c’erano tre piccole stanze quadrate. Quella centrale, nel crematorio II, era destinata originariamente ad alloggiare uno dei tre impianti di tiraggio aspirato del camino (Saugzuganlagen), che nel crematorio III non furono installati; le due stanze laterali, ciascuna con una finestra, erano denominate “Motorraum” (sala motori). Solo quella in mezzo aveva «al centro il grande condotto del camino in mattoni», ma questo era invisibile, al di là del muro, nel “Müllverbrennungsraum”, inoltre essa non possedeva alcuna finestra. Del resto queste tre stanze si trovavano al livello della sala forni, sicché non si poteva «salire» in nessuna di esse. In conclusione, la stanza descritta da Venezia non esisteva.

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15.
La rivolta del “Sonderkommando”

Venezia dedica a questa vicenda un intero capitolo, che comincia così:
«L’idea della rivolta era nata prima del mio arrivo a Birkenau ed era sopravvissuta alle diverse selezioni grazie ad alcuni Kapos che, come Lemke o Kaminski, si trovavano nel campo da lungo tempo e si erano incaricati della sua organizzazione» (236).
Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, Venezia aveva detto esplicitamente che «in media ogni tre mesi i Sonderkommando [sic] venivano uccisi a loro volta» (237). Questa storia proviene da M. Nyiszli, che aveva dichiarato più generosamente:
«La vita d’un Sonderkommando dura quattro mesi. Allo scadere dei quattro mesi, un bel giorno arriva una compagnia di ss, raduna tutti gli uomini nel cortile posteriore del crematorio. Una raffica di mitra e mezz’ora dopo ecco il nuovo Sonderkommando» (238).
Commento con le parole di C. Saletti:
«Sono innumerevoli i testi memorialistici e critici su Auschwitz in cui si sostiene che la durata della vita dei prigionieri del Sonderkommando non era superiore ai quattro mesi, e che una volta trascorso il termine essi venivano, regolarmente, eliminati. Nessuna delle due informazioni corrisponde a verità» (239).
La storia dell’eliminazione periodica dei detenuti del “Sonderkommando” è anche in contrasto con ciò che Venezia afferma riguardo alla loro sorveglianza:
«In genere c’erano due SS per ogni Crematorio; una durante il giorno, l’altra di notte» (240).
Il numero reale era appena più elevato: 22 guardie in quattro crematori, 10 di giorno e 12 di notte. Queste guardie dovevano tenere a bada 870 detenuti del cosiddetto “Sonderkommando”. Nel crematorio III, 5 guardie (2 di giorno e 3 di notte) dovevano fronteggiare 220 detenuti (241): un po’ pochino se costoro sapevano di essere destinati a morte certa!

Quanto al resto, Venezia è oltremodo evasivo. Egli non menziona la data ufficiale della presunta (242) rivolta (il 7 ottobre 1944), ma parla genericamente dell’inizio di ottobre (243); non menziona la presunta selezione e gasazione preliminare alla fine di settembre del 1944 di 200 detenuti del “Sonderkommando” dei crematori IV e V, che avrebbe innescato la rivolta pochi giorni dopo (244); non menziona il numero delle presunte vittime: 451; non menziona il numero dei superstiti: 212, in massima parte detenuti dei crematori III e V; non menziona la presunta selezione del 26 novembre 1944 nel corso della quale sarebbero stati uccisi altri 100 detenuti. Egli racconta che «il giorno dopo», dunque l’8 ottobre, «i tedeschi ordinarono che trenta persone uscissero per continuare il lavoro al Crematorio II e io decisi di far parte del gruppo» (245), mentre invece, secondo la versione ufficiale, i 30 detenuti furono scelti il 26 novembre per lavorare al crematorio V. Egli aggiunge:
«Quando le operazioni di smantellamento raggiunsero il tetto del Crematorio, i membri del Sonderkommando tornarono a dormire nel campo degli uomini, nella baracca isolata dove avevamo passato le prime notti da Sonderkommando. Eravamo meno di settanta» (246).
Qui evidentemente Venezia ha frainteso la versione ufficiale, secondo la quale, il 26 novembre 1944 70 detenuti furono assegnati all' Abbruchkommando (squadra di demolizione), perciò, alla fine, restavano «circa 100 detenuti del Sonderkommando» (247), non «meno di settanta».

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16.
La salvezza

Venezia, al pari dei suoi sedicenti ex colleghi, racconta di essere sfuggito fortunosamente o miracolosamente a morte certa, perché tutti i detenuti del “Sonderkommando” dovevano essere uccisi. Di ciò, come scrive, venne a conoscenza fin dall’inizio:
«Sempre da lui seppi che tutti coloro che facevano parte del Sonderkommando venivano “selezionati” e “trasferiti” in altro luogo, ma io non compresi subito che le parole “selezione” e “trasferimento” erano degli eufemismi che significavano in realtà “eliminazione”. Tuttavia non ci misi molto a capire che eravamo stati integrati nel Sonderkommando al posto di altri prigionieri “selezionati” e uccisi» (248).
Successivamente egli afferma:
«Per i tedeschi l’evasione di un membro del Sonderkommando era gravissima; non potevano assolutamente permettersi di lasciar evadere un uomo che aveva visto l’interno delle camere a gas» (249).
Allora come riuscì a salvarsi? Riassumo la sua lunga narrazione.
Il 17 gennaio 1945 la guardia SS che accompagnò alla loro baracca alloggio i superstiti del “Sonderkommando”, disse loro che «era assolutamente proibito uscire» e se ne andò. Ma Venezia venne a sapere che era in corso l'evacuazione del campo e capì che essi sarebbero stati uccisi. Allora uscirono tutti dalla baracca mescolandosi con gli altri detenuti. Così egli riuscì a sfuggire «alla liquidazione programmata del Sonderkommando». Indi racconta:
«Di tanto in tanto, durante la notte, un tedesco passava tra i prigionieri e urlava: “Wer hat im Sonderkommando gearbeitet”, “Chi ha lavorato nel Sonderkommando”»,
domanda non molto sensata, perché, come ho spiegato sopra, ad Auschwitz-Birkenau esistettero almeno undici “Sonderkommandos”.
«Nessuno rispondeva - continua Venezia -. Continuarono a domandarlo con regolarità, durante tutta la strada; non avevano altro modo di ritrovarci» (250).
In realtà i detenuti furono evacuati in trasporti recanti cognome, nome e numero di matricola. In uno appare anche Filip Müller (251). Cinque detenuti polacchi del “Sonderkommando(252) erano già stati trasferiti a Mauthausen il 5 gennaio 1945 (253). Il trasferimento fu trascritto anche nelle schede personali di questi detenuti, come risulta da quella del Kapo M. Morawa (254). Se dunque le SS avessero realmente voluto sterminare i detenuti del “Sonderkommando”, questi non avrebbero avuto scampo.
Successivamente anche Venezia e gli altri superstiti del “Sonderkommando” furono trasferiti a Mauthausen. Il suo trasporto di evacuazione giunse al campo il 25 gennaio: constava di 5.725 detenuti, che furono immatricolati con i numeri 116501-122225 (255).
Venezia narra così l’arrivo e l’immatricolazione:
«Dormii due notti all’aperto per essere tra gli ultimi a entrare nella Sauna. Ero con mio fratello, i miei cugini e altri amici di Auschwitz. Dei soldati passavano di tanto in tanto chiedendo: “Wer hat im Sonderkommando gearbeitet?”. Per evitare che ci scoprissero, proposi a mio fratello di cambiare nome. Invece di “Venezia”, se me lo avessero chiesto avrei risposto che mi chiamavo “Benezia”. [...]. Come il primo giorno a Birkenau fummo costretti a spogliarci completamente, dei detenuti ci rasarono la testa e il corpo e ci venne assegnato un numero. A differenza che ad Auschwitz il numero non era tatuato; Auschwitz è l’unico campo dove i prigionieri venivano tatuati. Ci diedero invece una specie di bracciale in ferro con una piastrina; sulla mia era scritto il numero 118554, la mia matricola a Mauthausen. Quando mi chiesero il nome, dissi “Benezia” e loro, capendo male, scrissero “Benedetti” (256(257).
E con questo sotterfugio Venezia si salvò per la seconda volta.
Questa storia non può essere vera per il semplice fatto che, come ricorda Venezia stesso, egli e i suoi compagni recavano tatuato sul braccio il marchio indelebile della loro appartenenza al “Sonderkommando”: il numero di matricola di Auschwitz. Se dunque le SS avessero davvero voluto rintracciare i detenuti che avevano lavorato nei crematori, non avrebbero mandato un soldato a gridare tra i detenuti «“Wer hat im Sonderkommando gearbeitet?», ma avrebbero controllato il numero di matricola di ogni detenuto nella sauna nel corso dell’immatricolazione. Il sotterfugio di Venezia è in effetti di una ingenuità disarmante: egli cambiò il suo cognome per evitare che lo scoprissero, dunque le SS avevano una lista nominativa dei detenuti del “Sonderkommando”, ma allora avevano necessariamente anche una lista dei numeri di matricola (258).
È dunque certo che le SS non cercarono i detenuti del “Sonderkommando” né a Birkenau, né a Mauthausen, e ciò si spiega col semplice fatto che costoro non erano depositari di alcun “terribile segreto”.

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17. Epilogo

Nell’intervista a Stefano Lorenzetto, Venezia, alla domanda «Dopo quanti anni è tornato ad Auschwitz?», rispose:
«Quarantasette. Non ho trovato il crematorio. Ci sono rimasto male, perché non sapevo che i tedeschi l’avessero demolito. Devono aver faticato molto. Era stato costruito come il Colosseo: doveva durare per l’eternità» (259).
Nel libro, egli ha confermato:
«Non sapevo che i nazisti, fuggendo, avevano fatto saltare i crematori; vedere le rovine mi ha sorpreso» (260).
In flagrante contraddizione con ciò, nel libro, Venezia ha scritto:
«Verso la fine di ottobre [1944] arrivò l’ordine di cominciare a smantellare i Crematori. Continuammo a lavorare occasionalmente nel Crematorio II, le rare volte che arrivava un convoglio, ma lavoravamo soprattutto allo smantellamento degli altri Crematori. Ci volle molto tempo, perché i tedeschi volevano che li eliminassimo un pezzo alla volta. Le strutture erano molto solide; erano state costruite per durare a lungo. Avrebbero potuto utilizzare la dinamite, ma volevano demolire sistematicamente tutto l’interno della struttura: i forni, le porte della camera a gas e tutto il resto. E dovevano farlo gli uomini del Sonderkommando; eravamo i soli a poter vedere l’interno delle camere a gas. Per smontare la struttura esterna vennero invece impiegati altri prigionieri, tra cui donne provenienti da Birkenau e detenuti da Auschwitz I» (261).
Dunque egli aveva partecipato personalmente alla demolizione del “suo” crematorio!
La storia narrata da Venezia contiene inoltre un errore cronologico. Ciò che si sa al riguardo, è che l’attività dei crematori II e III cessò all’inizio di dicembre del 1944: il 1° dicembre fu istituito un commando femminile per la demolizione del crematorio III (262); il giorno 8, il capo della Zentralbauleitung, l’ SS-Obersturmführer Werner Jothann, chiese all’Abteilung IIIa (impiego lavorativo dei detenuti) l’assegnazione immediata di 100 detenuti per i lavori di demolizione «presso il crematorio [nel] campo II» (beim Krematorium Lager II) (263), indubbiamente il crematorio II. D. Czech riferisce che il Kommando 104b, la squadra di demolizione dei crematori, era costituito da 70 detenuti del “Sonderkommando”; essi praticarono dei fori nelle pareti dei crematori e delle presunte camere a gas in cui furono inserite cariche esplosive (264), esattamente il contrario di ciò che afferma Venezia.

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18.
Conclusione

Il libro “Sonderkommando Auschwitz” viene presentato come “La verità sulle camere a gas” e come “Una testimonianza unica”. Questi giudizi sono del tutto infondati perfino dal punto di vista della storiografia olocaustica.
Questo libro non fornisce infatti nessuna «verità» prima ignota e conferma solo in modo confuso e sfumato le «verità» già note. Esso non apporta alcun contributo importante o anche semplicemente nuovo alla conoscenza di Auschwitz, anzi, elude sistematicamente tutte le questioni storicamente rilevanti.
La cronologia è praticamente inesistente. Dopo la data dell’arrivo ad Auschwitz, l’11 aprile 1944 (265), la data successiva che appare nel libro è l’inizio di ottobre del 1944 (266), sicché il racconto di quasi cinque mesi di attività nel “Sonderkommando” del crematorio III si svolge in una sorta di tempo al di fuori del tempo. Su questo “Sonderkommando”, Venezia non dà alcuna informazione storicamente utile: da quanti detenuti era costituito, come erano ripartiti nei vari crematori, quali erano le loro specifiche mansioni, ecc. Anche sulla rivolta finale del “Sonderkommando” egli non elargisce alcun dettaglio di rilievo, neppure la data.
Egli parla del crematorio III in modo estremamente vago: non dice nulla di come si presentava esternamente, quasi nulla di come era fatto internamente, nulla di come appariva la mansarda (che si chiamava Dachgeschoss), dove si trovava il suo alloggio.
Il processo di sterminio, nel libro di Venezia, resta parimenti avvolto nella nebbia.
Nessuna descrizione del “Bunker 2”, né delle sue presunte “fosse di cremazione”, di cui Venezia non indica neppure il numero.
Per quanto riguarda il crematorio III, la descrizione dello spogliatoio è evanescente, quella della camera a gas inesistente. Problemi storici essenziali per confutare il “negazionismo”, come quello dei congegni per l’introduzione dello Zyklon B, svaniscono in un imbarazzante silenzio; dal libro, non si apprende né quali fossero le dimensioni della camera a gas, né come fosse strutturata (267), né come fosse equipaggiata, né come fossero disposte le bocchette del sistema di aerazione e disaerazione, né come vi si accedesse dallo spogliatoio. Nessun cenno a come appariva la copertura di cemento armato del Leichenkeller 1 nel cortile nord del crematorio, se era al livello del suolo o rialzata, se presentava dei «camini», ed eventualmente quanti erano e come erano disposti.
La stessa nebbia aleggia nella narrazione della cremazione: anche qui, tutto è sfuggente e indistinto. Venezia non dice nulla riguardo ai forni crematori: sul loro sistema costruttivo, sul loro funzionamento, sul loro consumo di coke, neppure sul loro numero. Sulla loro capacità di cremazione, invece, fornisce tre dati precisi, ma tecnicamente assurdi e in contraddizione reciproca.
Dal punto di vista della storiografia olocaustica, dunque, questa testimonianza può essere definita «unica» soltanto per la sua inconsistenza, per la sua impalpabilità, per la sua evanescenza, per la sua totale e straordinaria mancanza di concretezza e di precisione.

Gli storici che hanno coadiuvato Venezia in questo progetto editoriale (268) dimostrano tutti i limiti di una inettitudine atavica. Il loro contributo più evidente, nel testo, si limita a una semplice revisione terminologica (269) e all’introduzione della terminologia tecnica (270) prima assente, ma non senza qualche strafalcione, come nel caso del «Leichenkeller» o del termine «Stücke». L’apparato delle note esplicative (271) è misero e acritico. Ma non si tratta solo di inettitudine. Nel saggio “La Shoah, Auschwitz e il Sonderkommando” (272), lo “specialista” di Auschwitz Marcello Pezzetti (273), nella bibliografia, menziona il libro di Gideon Greif “Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz” che ho citato più volte. L’idea dell’iconografia di “Sonderkommando Auschwitz” è tratta chiaramente da quest’opera: essa contiene infatti quasi tutte le immagini che vi compaiono (274). Nonostante ciò, M. Pezzetti non ha informato il lettore del fatto importantissimo che l’opera di G. Greif raccoglie le testimonianze di ben quattro presunti compagni di “Sonderkommando” di Venezia, tra cui il cugino Yakob Gabbai. Questa grave dimenticanza diventa gravissima in considerazione delle incredibili contraddizioni che tali testimonianze presentano rispetto a quella di Venezia. Bisogna dunque pensare piuttosto a un silenzio intenzionale e oculato.
Non meno grave è il fatto che M. Pezzetti e i suoi colleghi hanno taciuto tutte le contraddizioni - che ho rilevato sopra – della narrazione di Venezia rispetto ai canoni della storiografia olocaustica, tutte le incoerenze cronologiche e architettoniche.

Nella prospettiva revisionistica, il giudizio sul libro di Venezia è ancora più severo.
Nel 1998, Valentina Pisanty, in un’opera sul cosiddetto “negazionismo”, si lasciò sfuggire questa magistrale analisi delle testimonianze olocaustiche:
«Spesso gli scrittori intrecciano le proprie osservazioni dirette con frammenti di “sentito dire” la cui diffusione nel lager era capillare. La maggior parte delle inesattezze riscontrabili in questi testi è attribuibile alla confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri occhi e ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento. Con il passare degli anni, poi, alla memoria degli eventi vissuti si aggiunge la lettura di altre opere sull’argomento, con il risultato che le autobiografie stese in tempi più recenti perdono l’immediatezza del ricordo in favore di una visione più coerente e completa del processo di sterminio» (275).
Ciò si addice perfettamente al testimone Venezia. Nel suo libro appare evidentissima l’impronta della «lettura di altre opere sull’argomento», soprattutto quella, fondamentale, dell’album di David Olère (276), ma anche delle testimonianze di Miklos Nyiszli e di Filip Müller, cui bisogna aggiungere gli incontri con altri sedicenti ex membri del “Sonderkommando” e storici (277). La fotografia che apparve nel 2002 su “Il Giornale”, successivamente ripresa anche su “Gente(278), è rivelatrice: essa mostra infatti Venezia che tiene aperto, nelle mani, l’album di D. Olère, alla pagina in cui è ben visibile il disegno poi riprodotto a p. 92 di “Sonderkommando Auschwitz”. Qui Venezia vi nomina più volte il suo autore, e afferma perfino di averlo incontrato:
«Di francesi non ne ho visti; altrimenti avrei provato a parlare con loro. David Olère, ad esempio, non sapevo che fosse stato deportato dalla Francia; per me era un polacco che parlava yiddish».
La narrazione di Venezia relativa al presunto processo di sterminio è in effetti essenzialmente un commento dei disegni di D. Olère, spesso male interpretati. La scelta di pubblicare molti di questi disegni nel volume, indubbiamente suggerita dai suoi curatori, è solo apparentemente oculata, in quanto vorrebbe fornire una conferma della veridicità della narrazione di Venezia; in realtà si rivela malaccorta, perché è fin troppo evidente che è tale narrazione ad essere basata sui disegni. Ne è la riprova il fatto che essi mostrano scenari grossolanamente falsi che Venezia non è in grado di correggere.
Nei suoi disegni, D. Olère, lungi dal rappresentare la realtà, ha semplicemente illustrato i temi propagandistici creati dal movimento di resistenza di Auschwitz che circolavano al campo (279), incluse le leggende più assurde, come quella dei camini fiammeggianti, di cui mi sono occupato sopra, o quella della colorazione blu dell’acido cianidrico!
In un suo disegno a colori, senza data, che rappresenta una scena di gasazione, da un barattolo di Zyklon B si sprigionano infatti vapori blu! (280).
Questa leggenda fu ripresa, tra gli altri, dal cugino di Venezia, Yakob Gabbai, che dichiarò:
«Quando egli [un soldato SS] introduceva il gas da sopra, esso si diffondeva [con vapori] blu. Il materiale stesso era in forma di cubetti blu che si scioglievano a contatto coll’aria e sprigionavano il gas, che causava immediatamente l’asfissia» (281).
Come tutti gli sprovveduti loro pari, costoro credevano che il “Blausäure” (acido cianidrico, letteralmente: acido blu) fosse blu e sprigionasse vapori blu, mentre è risaputo che esso è un liquido incolore (282); il supporto poroso che veniva imbevuto di esso per produrre lo Zyklon-B era invece notoriamente costituito da granuli bianchi di farina fossile.
Venezia rivendica apertamente la sua qualità di testimone “oculare”:
«Birkenau era un vero inferno, nessuno può capire o entrare nella logica del campo. Per questo voglio raccontare tutto quello che posso, fidandomi solamente dei miei ricordi, di quello che sono certo di avere visto e niente di più» (283).
Ma egli non può aver visto scenari irreali, come palizzate fittizie, trasporti ebraici illusori, camini fiammeggianti, recupero di grasso umano immaginario, locali inesistenti, gasazioni fantastiche, cremazioni impossibili, ecc., né vissuto storie improponibili come quella della sua “salvezza”.

In conclusione, riprendendo l’analisi di V. Pisanty, si può dire che la testimonianza di Venezia è il frutto della confusione tra ciò che il testimone ha visto con i propri occhi, ciò di cui ha sentito parlare durante l’internamento e ciò che alla sua memoria degli eventi vissuti si è aggiunto successivamente dalla lettura di altre opere sull’argomento, col risultato che l’immediatezza del ricordo è scomparsa di fronte ad una una visione più coerente e completa del presunto processo di sterminio, cioè si è trasformata in un romanzo storico.
Ma proprio per questo gli storici che lo presentano come “La verità sulle camere a gas” e come “Una testimonianza unica” non possono avere nessuna scusante e nessuna giustificazione. Neppure la loro inettitudine atavica.
A cominciare da quelli che, già nel 2005, hanno incluso Venezia nel martirologio ufficiale del “Sonderkommando” di Auschwitz (284).


NOTE

(1) In:
Olocausto: dilettanti a convegno. Effepi Edizioni, Genova, 2002, pp. 150-160. Torna al testo.
(2) In: Ragionamenti sui fatti e le immagini della storia. Mensile di Storia Illustrata, giugno 1995, pp. 30-37. Torna al testo.
(3) Consultabile in: http://www.gliscritti.it/approf/shoa/shlomo/shlomo.htm.
Torna al testo.
(4) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», in: Il Giornale, 13 gennaio 2002, p. 1 e 16. Torna al testo.
(5) Gente, n. 41, 10 ottobre 2002, pp. 77-79. Torna al testo.
(6) C. Mattogno, Olocausto: dilettanti a convegno, op. cit., p. 150. Torna al testo.
(7) Rizzoli, Milano, 2007. Torna al testo.
(8) C. Mattogno, “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato. Edizioni di Ar, Padova, 2000, pp. 138-141. Torna al testo.
(9) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), a cura di Carlo Saletti. Ombre Corte, Verona, 2004, nota 2 a p. 15. Torna al testo.
(10) Vedi § 7. Torna al testo.
(11) Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz. Verlag des Staatlichen Museums Auschwitz-Birkenau, Oświęcim, 1999, volume III, Vernichtung (sterminio), redatto da F. Piper, note 359 e 360 a p. 213. Torna al testo.
(12) Vedi al riguardo il mio commento in “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato, op. cit., p. 139. Torna al testo.
(13) Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria, art. cit. Torna al testo.
(14) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 37. Nota al testo.
(15) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 176-177. Torna al testo.
(16) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(17) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz. Böhlau Verlag, Colonia, Weimar, Vienna, 1985, pp. 125-166. Qui egli si presentò col nome Jaacov Gabai. Torna al testo.
(18) Idem, pp. 1-48. A p. 9 sono nominati i fratelli Venezia. Torna al testo.
(19) Idem, pp. 220-255. Shlomo Venezia è menzionato a p. 245. Torna al testo.
(20) Idem, pp. 256-285. Nota al testo.
(21) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 68. Torna al testo.
(22) Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945). Mursia, Milano, 1991, p. 599. Torna al testo.
(23)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 19. Torna al testo.
(24) Danuta Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, p. 754. Torna al testo.
(25)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(26) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(27) Idem, p. 129. Torna al testo.
(28)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(29) La cosiddetta vecchia rampa (una banchina di legno) in cui si scaricavano i trasporti si trovava a poche centinaia di metri dal campo di Birkenau. Torna al testo.
(30)
G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 129. Torna al testo.
(31)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 58. Torna al testo.
(32) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(33)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(34)
“Wassermannsche Reaktion”: una reazione chimica per individuare la sifilide scoperta dal batteriologo August Wassermann (1866-1925). Torna al testo.
(35) “
Gonorrhöe”, gonorrea. Torna al testo.
(36) Rapporto trimestrale dell’
SS-Lagerarzt del KL Auschwitz I all’SS-WVHA, Amt DIII, del 16 dicembre 1943. GARF, 7121-108-32, pp. 95-96. Torna al testo.
(37)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 66-67. Torna al testo.
(38) Irena Strzelecka, «Das Quarantänelager für männliche Häftlinge in Birkenau (BIIa)», in:
Hefte von Auschwitz. Verlag Staatliches Auschwitz-Museum, 1997, p. 71, 73 e 115. Torna al testo.
(39) Lettera di Bischoff a Wirths del 4 agosto 1943 con oggetto «
Hygienische Sofortmassnahmen im KGL: Erstellung von Leichenhallen in jedem Unterabschnitt». RGVA, 502-1-170, p. 262. Torna al testo.
(40) Lettera di Wirths a Höss del 25 maggio 1944 con oggetto «
Bau von Leichenkammern im KL Auschwitz II». RGVA, 502-1-170, p. 264. Per un approfondimento della questione rimando al mio studio «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents», in: The Revisionist, vol. 2, n. 3, agosto 2004, pp. 271-294. Torna al testo.
(41) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(42) Idem, p. 94. Torna al testo.
(43) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34. Torna al testo.
(44)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 105. Torna al testo.
(45) Vedi ad esempio le liste di detenuti con nome e numero di matricola che ho pubblicato alle pp. 169-172 nel mio studio La “
Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz”. Edizioni di Ar, Padova, 1998. Torna al testo.
(46) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 130. Torna al testo.
(47)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 68-69. Torna al testo.
(48) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(49) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(50) Idem, p. 9. Torna al testo.
(51) Vedi al riguardo il mio studio
La deportazione degli ebrei ungheresi del maggio 1944. Un bilancio provvisorio. Effepi, Genova, 2007, p. 47. Torna al testo.
(52) Idem, p. 228. Torna al testo.
(53) Idem, p. 265. Torna al testo.
(54)
Quarantäne-Liste. APMO, D-AuII-3/1, p. 5. Torna al testo.
(55)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 72. Torna al testo.
(56) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 236. Torna al testo.
(57) Secondo la versione ufficiale, il “
Sonderkommando” era alloggiato nel Block 13 del campo BIId. Torna al testo.
(58) Il testimone si riferisce ad una baracca adibita a camera mortuaria. Torna al testo.
(59) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(60)
L’Album d’Auschwitz. Editions du Seuil, Parigi, 1983, p. 177. Torna al testo.
(61)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 120. Torna al testo.
(62) La denominazione delle strade si trova anche nella «Pianta di Birkenau» pubblicata alle pp.56-57 del libro di Venezia. Torna al testo.
(63)
L’Album d’Auschwitz, op. cit., fotografia 152 a p. 176 e 174-189, pp. 194-205. Vedi al riguardo il mio studio La deportazione degli ebrei ungheresi del maggio 1944. Un bilancio provvisorio, op. cit., pp. 36-38 e 66-67. Torna al testo.
(64) F. Müller,
Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., 1979, p. 200. Torna al testo.
(65) Vedi il disegno 936 del crematorio II (e III) del 15 gennaio 1942 in: J.-C. Pressac,
Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, pp. 268-269. Vedi anche la fotografia del crematorio III pubblicata in Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 73. Torna al testo.
(66) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 72-73. Torna al testo.
(67)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., pp. 66-67. Torna al testo.
(68) F. Müller,
Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 287, pianta del crematorio II/III (erroneamente indicato come IV/V), locale 12. Torna al testo.
(69)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 99. Torna al testo.
(70) D. Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 764. Torna al testo.
(71) Vedi § 13. Torna al testo.
(72) D. Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 773. Torna al testo.
(73)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 66. Torna al testo.
(74) Come ho già accennato, i primi trasporti dall'Ungheria arrivarono ad Auschwitz il 17 maggio. Torna al testo.
(75) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, pp. 130-131. Torna al testo.
(76) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(77) C. Mattogno,
The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004. Torna al testo.
(78) Idem, p. 75. Torna al testo.
(79) D. Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 769. Torna al testo.
(80) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 198. Torna al testo.
(81) Idem, p. 200. Torna al testo.
(82) C. Mattogno,
The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., p. 210. Torna al testo.
(83) Idem, p. 220. Torna al testo.
(84) Tuttavia i cadaveri, nel «
Leichenkeller», erano in decomposizione «a causa del caldo». Vedi § 5. Allo stesso modo, durante l'evacuazione su vagoni aperti, nel gennaio 1945, quando il freddo era «insostenibile» – almeno 20 gradi sotto zero, riferisce Primo Levi (Se questo è un uomo. Einaudi, Torino, 1984, p. 196) – un cadavere morto nel vagone di Venezia, il giorno dopo, «cominciava a puzzare tremendamente». Torna al testo.
(85)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 199. Torna al testo.
(86) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 212. Torna al testo.
(87)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 45. Torna al testo.
(88)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 56-57. La casetta ribattezzata “Bunker 2” si trovava al di fuori del campo, circa 200 m a ovest della Zentralsauna. Torna al testo.
(89) Idem, p. 74. Torna al testo.
(90) Idem, p. 76. Torna al testo.
(91) Sulle contraddittorie e insensate dichiarazioni di Sz. Dragon, incluse quelle rese ai Sovietici, vedi il mio studio The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 71-83. Torna al testo.
(92)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 42. Torna al testo.
(93) C. Mattogno,
The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 106-110 e documento 15 a p. 210, che riproduce un disegno del “Bunker 5” eseguito dal testimone in cui appare la didascalia «dach kryty słomą», «tetto ricoperto di paglia». Torna al testo.
(94)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 54. Torna al testo.
(95) C. Mattogno,
The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 88-92. Torna al testo.
(96) Idem, pp. 106-110 e 210-211. Torna al testo.
(97)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 75. Torna al testo.
(98) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(99) Vedi al riguardo il mio studio
Auschwitz: Open Air Incinerations. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005, pp. 13-23. Torna al testo.
(100) J.-C. Pressac,
Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 171. Torna al testo.
(101) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz , op. cit., pp. 9-10. Torna al testo.
(102) Idem, p. 10. Torna al testo.
(103) Idem, p. 228. Torna al testo.
(104) Idem. Torna al testo.
(105) Idem, p. 229. Torna al testo.
(106) Una concessione alla leggenda della fantastica combustibilità dei cadaveri delle donne, espressa così da H. Tauber: «I corpi delle donne bruciavano meglio e più in fretta di quelli degli uomini. Per questo motivo, cercavamo il corpo di una donna, quando un carico bruciava male, per metterlo nel forno e accelerare l’incenerimento».
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 76. Torna al testo.
(107) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz , op. cit., pp. 266-267. Torna al testo.
(108)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 78. Torna al testo.
(109) Idem, p. 74. Torna al testo.
(110) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz. Longanesi, Milano, 1977, pp. 72-73. Torna al testo.
(111) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 267. Torna al testo.
(112) Idem, p. 229. Torna al testo.
(113) C. Mattogno,
Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 43-68. Torna al testo.
(114) Idem, pp. 33-34. Vedi anche il mio articolo «“Verbrennungsgruben” und Grundwassenstand in Birkenau», in:
Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 6, n. 4, dicembre 2002, pp. 421-424. Torna al testo.
(115)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80. Torna al testo.
(116) Idem, p. 223, nota 18. Torna al testo.
(117) Ma al processo Auschwitz F. Müller aveva menzionato solo «due grosse fosse» (z
wei große Gruben). Bernd Naum, Auschwitz. Bericht über die Strafsache gegen Mulka u. a. vor dem Schwurgericht Frankfurt. Athäneum Verlag, Francoforte sul Meno-Bonn, 1965, p. 334. Torna al testo.
(118) C. Mattogno,
Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 13-23. Torna al testo.
(119)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 100. Torna al testo.
(120) C. Mattogno,
Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., documemti 23-28, pp. 106-111. Torna al testo.
(121) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 207 e 211. Torna al testo.
(122) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(123)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 77. Torna al testo.
(124) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., pp. 207-208. Torna al testo.
(125) C. Mattogno, «Verbrennungsexperimente mit Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen in den angeblichen Vernichtungslagern des 3. Reiches», in:
Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 7, n. 2, luglio 2003, pp. 185-194. Torna al testo.
(126) Vedi § 6. Torna al testo.
(127) Affermazione priva di senso, avendo i crematori II e III la medesima pianta, sia pure speculare. Torna al testo.
(128) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(129)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80. Torna al testo.
(130) Ad es. l’
Erläuterungsbericht zum Ausbau des Kriegesgefangenenlagers der Waffen-SS in Auschwitz O.S. del 30 settembre 1943. RGVA, 502-2-60, p. 81. Torna al testo.
(131) Ad es. il
Kostenvoranschlag zum Ausbau des Kriegesgefangenenlagers der Waffen-SS in Auschwitz del 1° ottobre 1943. RGVA, 502-2-60, pp. 89-90. Torna al testo.
(132) Ad es. quella del crematorio II del 31 marzo 1943. RGVA, 502-2-54, p. 77. Torna al testo.
(133) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 39. Torna al testo.
(134) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 96. Torna al testo.
(135) Processo Höss, tomo 2, pp. 99-100. Torna al testo.
(136) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 33. Torna al testo.
(137) «Protokolle des Todes», in:
Der Spiegel, n. 40/1993, p. 162. Torna al testo.
(138)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), p. 65. Torna al testo.
(139) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 237. Torna al testo.
(140)
The Buchenwald Report. Translated, edited and with an introduction by David A. Hackett. Westview Press. Boulder, San Francisco, Oxford, 1995, p. 168. Torna al testo.
(141) Gerald Fleming,
Hitler und die Endlösung. Limes Verlag, Wiesbaden e Monaco, 1982, p. 204. Torna al testo.
(142) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(143) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(144) RGVA, 502-2-54, pp. 77-78. Torna al testo.
(145) Bauabschnitt II, settore di costruzione II. Torna al testo.
(146) RGVA, 502-1-83, p. 311. Torna al testo.
(147) Per un approfondimento della questione rimando al mio studio già citato «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents». Torna al testo.
(148)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 85. Torna al testo.
(149) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(150) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(151) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 89. Torna al testo.
(152) Idem, p. 82. Torna al testo.
(153) J.-C- Pressac,
Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 50, 232 e 486. Torna al testo.
(154) Ho spiegato la funzione di questa porta e del locale (il
Leichenkeller 1) nell’articolo già citato «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents». Torna al testo.
(155) J.-C- Pressac,
Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 436. Torna al testo.
(156)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 82. Torna al testo.
(157) Idem, p. 65. Torna al testo.
(158)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(159) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 183. Torna al testo.
(160) Idem, p. 131. Successivamente Venezia si dimentica di lui, scrivendo: «Un medico ebreo che faceva parte del
Sonderkommando mi disse che bisognava incidere per far uscire il pus» (p. 143). Ma questo «medico ebreo» era appunto M. Nyiszli. Torna al testo.
(161) SDG significa Sanitätsdienstgrade, designazione degli infermieri SS del servizio sanitario. Torna al testo.
(162) M. Nyizsli afferma che la presunta camera a gas, un locale lungo 30 metri, aveva una lunghezza di 200 metri. M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 37 e 39. Torna al testo.
(163) Idem, p. 39. Torna al testo.
(164)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 74. Torna al testo.
(165)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(166)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 66. Torna al testo.
(167)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(168) Idem, p. 83. Torna al testo.
(169) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 40-41. Questa storia fantastica era già stata precedentemente ripresa, con un ardito plagio, da F. Müller. Cfr. C. Mattogno, Auschwitz: un caso di plagio. Edizioni. La Sfinge, Parma 1986; Olocausto: dilettanti allo sbaraglio. Edizioni di Ar, Padova 1996, pp. 59-62. Torna al testo.
(170) Idem, p. 39. Torna al testo.
(171) Il cloro, rispetto all'aria a 0°C, ha densità di 2,49. Torna al testo.
(172) G. Wellers, morto nel 1991, fu direttore di un laboratorio di ricerche alla Facoltà di Medicina di Parigi dal 1956 e Assessore del Decano della Facoltà dal 1968 al 1974. Torna al testo.
(173) G. Wellers, «Die zwei Giftgase», in:
Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. Eine Dokumentation. A cura di Eugen Kogon, Hermann Langbein, Adalbert Rückerl e altri. S. Fischer Verlag, Francoforte sul Meno, 1983, p. 283. Torna al testo.
(174) Vedi al riguardo il mio studio già citato «The Elusive Holes of Death». Torna al testo.
(175)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 89. Torna al testo.
(176) Idem, p. 93. Torna al testo.
(177) Idem, p. 77. Vedi § 7. Torna al testo.
(178) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 186. Torna al testo.
(179)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 95. Torna al testo.
(180) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 269. Torna al testo.
(181)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 81. Torna al testo.
(182) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 42. Torna al testo.
(183)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 91. Torna al testo.
(184) Idem. Torna al testo.
(185) Vedi documento 1. Torna al testo.
(186)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 91. Torna al testo.
(187) J.-C. Pressac,
Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945. Feltrinelli, Milano, 1994, documento 25 fuori testo. Torna al testo.
(188) Come si desume dal rapporto coll'apertura del montacarichi, che era larga m 2,10. Torna al testo.
(189)
Aktenvermerk di Kirschnek del 25 marzo 1943. APMO, BW 30/25, p. 8. Torna al testo.
(190) Lettera della Topf alla
Zentralbauleitung del 30 settembre 1942. APMO, BW 30/34, p.114 e BW 30/27, p. 30. Torna al testo.
(191)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 98. Torna al testo.
(192) Idem, p. 96. Torna al testo.
(193) Idem, p. 100. Torna al testo.
(194) Idem, p. 85. Torna al testo.
(195) Idem, p. 88. Torna al testo.
(196) L’ortografia è incerta: F. Piper dà le varianti Gorges, Gorger, Goger e Gorgies. Torna al testo.
(197)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., 106. Torna al testo.
(198) Idem, p. 105. Torna al testo.
(199) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 147. Torna al testo.
(200)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 127. Qui il parente è il cugino del padre, Léon Venezia. Torna al testo.
(201) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 98-103. Torna al testo.
(202)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 129-130. Torna al testo.
(203) Idem, p. 91. Torna al testo.
(204) Vedi documento 1. Torna al testo.
(205) Vedi il documento 2. Torna al testo.
(206)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 75. Torna al testo.
(207) Idem. Torna al testo.
(208) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 36. Torna al testo.
(209) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 43. Torna al testo.
(210) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit.; «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 79. Torna al testo.
(211) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(212) Lorenzo Fazzini, «Il caso. Dopo la conferenza di Teheran sull'Olocausto, parla l'unico sopravvissuto del Sonderkommando di Auschwitz vivente in Italia», in:
http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2007_01_03/agora.html. Torna al testo.
(213)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 102. Torna al testo.
(214) G. Greif,
Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 131. Torna al testo.
(215) Idem, pp. 40-41. Torna al testo.
(216) Interrogatorio di K. Prüfer del 5 marzo 1946; interrogatorio di K. Schultze del 4 marzo 1946. Vedi J. Graf, «Anatomie der sowjetischen Befragung der Topf-Ingenieure. Die Verhöre von Fritz Sander, Kurt Prüfer, Karl Schultze und Gustav Braun durch Offiziere der sowjetischen Antispionageorganisation Smersch (1946/1948)», in:
Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 6, n. 4, dicembre 2002, pp. 404 e 413-414. Torna al testo.
(217) Vedi al riguardo il mio studio «The Crematoria Ovens of Auschwitz and Birkenau», in: D
issecting the Holocaust. The Growing Critique of “Truth” and “Memory”. A cura di Ernst Gauss [Germar Rudolf]. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003, pp. 373-412. Torna al testo.
(218) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 78. Torna al testo.
(219) J. A. Topf & Söhne,
Betriebsvorschrift des koksbeheizten Topf-Doppelmuffel-Einäscherungsofen, 26 settembre 1941. APMO, BW 11/1/3, p.2-3; J. A. Topf & Söhne, Betriebsvorschrift des koksbeheizten Topf-Dreimuffel-Einäscherungsofen. Marzo 1943, in: J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 222. Torna al testo.
(220) J. Sehn,
Oświęcim-Brzezinka (Auschwitz-Birkenau) Concentration Camp. Wydawnictwo Prawnicze, Varsavia, 1961, p. 137. Torna al testo.
(221) J.-C. Pressac,
Auschwitz : Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 224, fac-simile del documento. Torna al testo.
(222) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., pp. 36-37. Torna al testo.
(223) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 212. Torna al testo.
(224) Idem, p. 211. Torna al testo.
(225) C. Mattogno,
Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 101-107. Torna al testo.
(226)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 93. Torna al testo.
(227) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 222. Il trasporto delle ceneri avveniva «mit Schubkarren», con carriole. Torna al testo.
(228) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34. Torna al testo.
(229) C. Mattogno, «Flammen und Rauch aus Krematoriumskaminen», in: V
ierteljahreshefte für freie Geschichts-forschung, anno 7, n. 3-4, dicembre 2003, pp. 386-391. Torna al testo.
(230) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(231)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 84. Torna al testo.
(232) Idem, p. 94. Torna al testo.
(233) Idem, p. 31. Torna al testo.
(234) Lettera del Bauleiter del
Lager II alla Kommandantur des K.L.II Birkenau del 9 maggio 1944. RGVA, 502-1-83, p. 377. Torna al testo.
(235)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 107-108. Torna al testo.
(236) F. Müller,
Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 134. Torna al testo.
(237) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(238) M. Nyiszli,
Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 59-60. Torna al testo.
(239)
Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., nota 12 a p. 16. Torna al testo.
(240)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 105. Torna al testo.
(241) C. Mattogno,
Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 80-89, riepilogo della forza del personale dei crematori. Torna al testo.
(242) Su questo evento non esiste alcun documento tedesco. Torna al testo.
(243)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 140. Torna al testo.
(244) Seguo la versione ufficiale esposta da F. Piper in W. Długoborski e F. Piper (a cura di),
Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz, op. cit., volume III, pp. 221-224. Torna al testo.
(245)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 139. Torna al testo.
(246) Idem, p. 147. Torna al testo.
(247) W. Długoborski e F. Piper (a cura di),
Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz, op. cit., volume III, p. 224. Torna al testo.
(248)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 70. Torna al testo.
(249) Idem, pp. 112-113. Torna al testo.
(250) Idem, pp. 147-148. Torna al testo.
(251) AGK, 131-12. Torna al testo.
(252) Wacław Lipka (n. 2520), Mieczysław Morawa (n. 9730), Józef Ilczuk (n. 14916), Władysław Biskup (n. 74501) e Jan Agrestowski (n. 74545). Torna al testo.
(253) Fac-simile del documento originale in:
Inmitten des grauenvollen Verbrechens. Handschriften von Mitgliedern des Sonderkommandos. Hefte von Auschwitz, Sonderheft (I), Oświęcim, 1972, p. 44. Torna al testo.
(254) Idem, pp. 50-51, fac-simile del documento originale. Torna al testo.
(255)
Het Nederlandsche Roode Kruis. Auschwitz. Deel V: De deportatietransporten in 1944. Uitgave van het hoofdbestuur van de vereniging het Nederlandsche Roode Kruis. 's-Gravenhage, 1953, p. 85. Torna al testo.
(256) Un’idea non molto sagace: se egli avesse detto “Benezia”, gli addetti all’immatricolazione avrebbero potuto capire male e scrivere proprio “Venezia”! Anzi, poiché è un fatto risaputo che gli Ebrei «arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano» (
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 17) e poiché il nome della città di Venezia è noto a tutti, gli addetti in questione avrebbero certamente capito, appunto, “Venezia”. Torna al testo.
(257)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 153. Torna al testo.
(258) Ad Auschwitz le liste riguardanti i detenuti recavano anzitutto il numero di matricola, poi il cognome e il nome. Torna al testo.
(259) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(260)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 176. Torna al testo.
(261) Idem, 142. Torna al testo.
(262) D. Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 939. Torna al testo.
(263) RGVA, 502-1-67, p. 227. Torna al testo.
(264) D. Czech,
Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., 962. Torna al testo.
(265)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 42. Torna al testo.
(266) Idem, p. 140. Torna al testo.
(267) Le strutture del
Leichenkeller 1 che più balzavano agli occhi erano i sette pilastri di calcestruzzo di cm 40 x 40 che sostenevano un poderoso trave di calcestruzzo che attraversava al centro il locale per tutta la sua lunghezza. Torna al testo.
(268) Venezia esprime il suo ringraziamento «a tutti gli storici, i ricercatori, gli insegnanti e gli studenti» che aveva incontrato, «in particolare a quelli che, in un modo o nell'altro, hanno contribuito a questo libro: Marcello Pezzetti, Umberto Gentiloni, Béatrice Prasquier, Maddalena Carli e Sara Berger».
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., 179. Torna al testo.
(269) Ad esempio, quella che Venezia indicava in precedenza come «sezione A» («La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34), diventa correttamente la sezione BIIa. Torna al testo.
(270) Con ciò intendo i termini relativi a installazioni o funzioni del campo. Torna al testo.
(271)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 221-223. Torna al testo.
(272) Idem, pp. 181-205. Torna al testo.
(273) Su di lui vedi il mio articolo «Marcello Pezzetti, “esperto mondiale” di Auschwitz», in:
Olocausto: dilettanti a convegno, op. cit., pp.93-117. Torna al testo.
(274) Una pianta di Birkenau (pp. XLIV-XLV) simile a quella pubblicata nel libro di Venezia (pp. 56-57), la fotografia del crematorio III, p. L (
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 73) e della cremazione all'aperto, p. XLVIII (Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80), inoltre i sette disegni di D. Olère che nel libro di Venezia appaiono alle pp. 76, 82, 84,86, 88, 90, 92, rispettivamenti riprodotti a p. 66, 240, 13, 17, 90, 274 e 143. Torna al testo.
(275) V. Pisanty,
L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 1998, p. 183. Torna al testo.
(276) S. Klarsfeld (a cura di),
David Olère. A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989. Torna al testo.
(277) Nel libro stesso appaiono fotografie di Venezia con Avraham Dragon, «ex membro del Sonderkommando», con Lemke Pliszko (idem) e con «lo storico Marcello Pezzetti» a Birkenau.
Sonderkommando Ausschwitz, op. cit., p. 71,104 e 177. Torna al testo.
(278) In questa rivista appare anche un'altra fotografia che mostra Venezia col medesimo album, ma aperto al disegno del crematorio col camino fiammeggiante. «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 79. Torna al testo.
(279) Vedi al riguardo il mio studio
Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant'anni di propaganda. I Quaderni di Auschwitz, 5. Effepi, Genova, 2005. Versione riveduta e ampliata in: http://www.vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMausch45.pdf. Torna al testo.
(280) S. Klarsfeld (a cura di),
David Olère. A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz, op. cit., p. 54. Torna al testo.
(281) Idem, p. 141. Torna al testo.
(282) In un questionario ufficiale destinato ai disinfettori civili si legge: «D.- L’acido cianidrico ha un colore determinato? R.- No, l’acido cianidrico è incolore sia liquido sia gasoso. D.- Perché allora si chiama
Blausäure [= acido blu]? R. - Perché all’inizio fu prodotto dal blu di Prussia». O. Lenz, L. Gassner, Schädlingsbekämpfung mit hochgiftigen Stoffen, Heft 1: Blausäure. Verlagsbuchhandlung von Richard Schoetz, Berlino, 1934, p. 15. Torna al testo.
(283)
Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 75-77. Torna al testo.
(284) E. Friedler, B. Siebert, A. Kilian (a cura di), Z
eugen aus der Todeszone. Das jüdische Sonderkommando in Auschwitz. Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco, 2005. I molteplici riferimenti a Venezia sono tratti da un’intervista. Torna al testo.


ABBREVIAZIONI

AGK: Archiwum Głównej Komisji Badania Zbrodni Przeciwko Narodowi Polskiemu - Instytutu Pamieci Narodowej (Archivio della Commissione centrale di inchiesta sui crimini contro il popolo polacco - memoriale nazionale), Varsavia
APMO: Archiwum Państwowego Muzeum w Oświęcimiu (Archivio del Museo di Stato di Auschwitz), Auschwitz
GARF: Gosudarstvenni Archiv Rossiskoi Federatsii (Archivio di Stato della Federazione Russa), Mosca
RGVA: Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv (Archivio russo di Stato della guerra), Mosca.




19.
Appendice


I “NUOVI” DOCUMENTI SU AUSCHWITZ DI BILD.DE:
UNA BUFALA GIGANTESCA

L’8 novembre 2008 il giornale tedesco BILD.DE ha pubblicato un articolo a firma dello storico Ralf Georg Reuth intitolato “Bild mostra i documenti dell’atrocità che sono stati trovati ora a Berlino. I disegni costruttivi di Auschwitz(1), che in Italia ha provocato eccitazione e commenti tracotanti contro i “negazionisti”.
Sebbene l’importanza della scoperta sia già stata drasticamente ridimensionata da due storici ebrei, Israel Gutman e Robert Jan van Pelt (2), vale comunque la pena di approfondire la questione, se non altro a beneficio di quei creduloni sempre pronti ad ingoiare senza battere ciglio qualunque panzana - si tratti di testimonianze, come quella di Shlomo Venezia (3), o di documenti, come quelli in oggetto - purché porti acqua al mulino olocaustico.
Reuth informa che «a quanto pare (angeblich)[!] nello sgombero di un appartamento di Berlino» sono state trovate 28 piante originali risalenti agli anni 1941-1943.
«Sono documenti dell’atrocità. Accuratamente disegnati. Planimetrie, piante e viste laterali di edifici, tutto su carta ingiallita, generalmente in scala 1:100. Sono piante del campo di sterminio nazionalsocialista di Auschwitz».
Tra questi documenti ci sono anche «un impianto di disinfestazione (Entlausungsanlage) con camera a gas (Gaskammer(4) e un crematorio (5). Viene anche dato risalto al fatto che
«una delle planimetrie è stata siglata personalmente, con matita verde, dall’allora Reichsführer-SS e capo organizzatore del genocidio Heinrich Himmler»,
ma senza specificare di quale planimetria si tratti.
Il direttore archivista dell’Archivio Federale (Bundesarchiv) di Berlino, Hans-Dieter Kreikamp ha attribuito un’ «importanza straordinaria» ai documenti, dichiarando al giornale che
«i piani sono le testimonianze autentiche del genocidio degli Ebrei europei sistematicamente progettato».
Dal canto suo lo storico aggiunge che«i documenti confutano inoltre gli ultimissimi negatori dell’Olocausto». Indi descrive le due terribili “prove”.
«Il documento dell’atrocità più sconvolgente: la pianta di un “impianto di disinfestazione” (Entlausungsanlage). Da uno “spogliatoio” (Auskleideraum) delle porte conducono ad una “sala lavaggio e doccia” (Wasch- und Brauseraum) e di lì ad un “vestitoio” (Ankleideraum). Ma dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” [locali di compensazione della pressione] in una “camera a gas”. Sulla pianta è scritto nero su bianco: “Gaskammer”.
Il fatto che nella grossa “camera a gas” di 11,66 x 11,20 metri (6) non si dovessero disinfestare capi di vestiario coll’agente a base di acido cianidrico solitamente usato dalle SS, bensì gasare esseri umani, dev’essere considerato molto probabile (sehr wahrscheinlich). Infatti (denn) la pianta, che fu disegnata ad Auschwitz da un “detenuto n. 127” (7), risale all’8 novembre 1941. In questo periodo il comandante del campo Rudolf Höss faceva già esperimenti coll’agente a base di acido cianidrico “Zyklon-B”, col quale nel campo principale di Auschwitz fece uccidere detenuti malati e prigionieri di guerra russi».
Reuth rileva poi che il presunto sterminio sistematico degli Ebrei europei non fu deciso alla conferenza di Wannsee, ma ben prima, e commenta:

«Non è noto se l’“impianto di disinfestazione” di Auschwitz-Birkenau fu costruito esattamente come fu disegnato nei piani. Certo è che le gasazioni in massa di Ebrei europei ad Auschwitz cominciarono nella primavera del 1942 in una ex casa colonica, la cosiddetta “casa rossa” ».
La seconda “prova” riguarda ovviamente il crematorio.
«Gli Ebrei uccisi furono cremati inizialmente in fosse scavate nel terreno. Già nell’ottobre dell’anno precedente fu presa in considerazione la costruzione di un grosso crematorio. Nel novembre furono poi realizzati i primi disegni. Il piano in possesso di BILD.DE mostra un primo schizzo con viste laterali e piante sempre in scala 1:100.
Particolarmente istruttivo: il disegno del piano interrato. Esso mostra i basamenti per i forni crematori, che furono successivamente forniti dalla ditta “Topf und Söhne” di Erfurt. Nella pianta è schizzato anche il “L-Keller” (Leichenkeller: scantinato obitorio), che ha una larghezza di otto metri. I progettisti delle Waffen-SS non avevano stabilito la sua lunghezza. Vi si può leggere: “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” ».
Questo presunto «vero scoop storico», come lo definisce IL MESSAGGERO (8), è in realtà una vera bufala. I documenti in questione sono noti da anni agli specialisti, essendo stati pubblicati da Jean-Claude Pressac tra il 1989 e il 1993. Io stesso li ho consultati a Mosca nel 1995 nell’ Archivio russo di Stato della guerra (Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv: RGVA).
Nel suo studio Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers (9), il ricercatore francese dedicò un capitolo alle “Installazioni di spidocchiamento e disinfestazione nel KGL [campo per prigionieri di guerra] di Birkenau costruzioni BW (10) 5a e 5b” (pp. 53-62) nel quale presentò i progetti originali dell’ “Entlausungsanlage” summenzionata (pianta 801 dell’8 novembre 1941: “Entlausungsanlage für K.G.L., impianto di disinfestazione per il KGL”) (11), comprendenti anche la pianta dell’approvvigionamento idrico e della rete fognaria dell’impianto (pianta 1293 del 9 maggio 1942) (12), la pianta relativa all’installazione al suo interno di una sauna (pianta 1715 del 25 settembre 1942) (13) e quella riguardante la trasformazione della camera a gas del BW 5b in impianto di disinfestazione ad aria calda (pianta n. 2540 del 5 luglio 1943) (14).
Questi progetti si riferivano a due cosiddette “Entlausungsbaracken” (in realtà strutture in muratura) che furono costruite una nel settore femminile BIa di Birkenau (BW 5a), l’altra nel settore maschile BIb (BW 5b) esattemente secondo i piani. Una lettera redatta il 9 gennaio 1943 dal capo della Zentralbauleitung di Auschwitz, SS-Hauptsturmführer Karl Bischoff, con oggetto “Installazioni igieniche nel K.L. e nel K.G.L. di Auschwitz” elenca appunto tutte le installazioni igieniche presenti nei campi di Auschwitz e Birkenau, tra le quali le due summenzionate, descritte così:
«1 apparato di disinfezione [Desinfektionsapparat] (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda [Heissluftapparat] (ditta Hochheim), così pure una sauna [Saunaanlage] sono installati nella baracca di disinfestazione [Entlausungsbaracke] del campo maschile del KGL, BAI [il BW 5b] e sono in funzione dal novembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico [Kammer für Blausäurevergasung] che è già in funzione dall’autunno del 1942.
1 apparato di disinfezione (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda (ditta Hochheim), così pure una sauna sono installati nella baracca di disinfestazione del campo femminile del KGL, BAI [il BW 5a] e sono in funzione dal dicembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico che è già in funzione dall’autunno del 1942»
(15).
E una “Lista degli impianti di disinfestazione, bagni e apparati di disinfezione costruiti nel KL e nel KGL di Auschwitz” stilata dall’impiegato civile della Zentralbauleitung Rudolf Jährling il 30 luglio 1943, in riferimento ai «B.W. 5a und 5b» menziona una «Blau[säure]gaskammer», una camera a gas ad acido cianidrico (16). Il termine “Gaskammer” designava dunque una vera camera di disinfestazione e l’ Entlausungsanlage un vero impianto di disinfestazione.
Del resto, come risulta dal suo testo (17), Pressac non è stato sfiorato neppure lontanamente dall’idea balzana che queste due installazioni fossero state progettate a scopo omicida; e Robert Jan van Pelt, nel suo ponderoso The Case for Auschwitz. Evidence from the Irving Trial (18), non accenna nemmeno fugacemente a una tale possibilità, che non è mai stata avanzata da nessuno storico e da nessun testimone.
Reuth pretende invece che lo scopo criminale dell’impianto di disinfestazione sia «molto probabile» perché, a suo dire, nel novembre 1941 Höss faceva già esperimenti di gasazione omicida con lo Zyklon B. Il riferimento è alla storiella della prima gasazione omicida nel Bunker del Block 11 di Auschwitz, che ho già smantellato da anni (19).
Quanto alla descrizione della pianta secondo la quale «dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” in una “camera a gas”», bisogna rilevare che essa è a dir poco maliziosa, perché le parti destra e sinistra dell’impianto di disinfestazione erano simmetriche; e se è vero che dal vestitoio una sola porta conduceva in una sola anticamera e poi, attraverso un locale di compensazione della pressione, nella camera a gas, è altrettanto vero che il medesimo percorso era specularmente possibile anche dallo spogliatoio. Per poter insinuare che la pianta in questione mostri un impianto omicida, Reuth ha infatti taciuto il fatto essenziale che l’Auskleideraum, lo spogliatoio, è designato nella pianta “unreine Seite”, lato contaminato, l’Ankleideraum, il vestitoio, “reine Seite”, parte incontaminata. Ciò spiega chiaramente la finalità e il funzionamento dell’impianto. I detenuti contaminati (infestati da parassiti) entravano nell’Auskleideraum, si spogliavano nudi e poi entravano attraverso l’apposita porta nel Wasch- und Brauseraum, dove si lavavano; indi, uscendo dalla porta opposta, entravano nell’Ankleideraum, dove ricevevano e indossavano i vestiti disinfestati. Parallelamente, infatti, i vestiti contaminati lasciati dai detenuti nell’ l’Auskleideraum venivano raccolti e trasportati, attraverso il Vorraum e la Schleuse, nella camera a gas dove venivano disinfestati; poi, passando per la seconda porta che dava sull’altra Schleuse e sull’altro Vorraum, venivano riportati nell’Ankleideraum ai detenuti (20). Le due anticamere e le due camere di compensazione della pressione non comunicavano e non potevano comunicare l’una con l’altra, per evitare una eventuale contaminazione che avrebbe reso vano l’intero processo di disinfestazione. Per questo BILD.DE ha deciso maliziosamente di pubblicare soltanto la sezione della pianta che riguarda la camera a gas (21).
Passiamo alla pianta del crematorio. Anche qui nessuna novità. Essa era già stata pubblicata da Pressac nel libro Les crématoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse (22), documenti 10-11 fuori testo. Si tratta della pianta redatta nel novembre 1941 dall’archietto Werkmann, un impiegato civile che faceva parte della Sezione II/3/3 (Affari edilizi dei campi di concentramento e campi per prigionieri di guerra) [Abteilung II/3/3 (Bauangelegenheiten der KL und KGL)] dell’Hauptamt Haushalt und Bauten (Ufficio centrale bilancio e costruzioni).
Reuth richiama l’attenzione sul fatto che la lunghezza del Leichenkeller non è menzionata, ma al suo posto appare l’indicazione “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno”. Nel suo resoconto già citato, IL MESSAGGERO a questo punto, tagliando e rimettendo insieme a casaccio spezzoni del testo di BILD.DE, commenta:
«La lunghezza esatta del forno crematorio non viene ancora definita e sarà fissata “a seconda delle esigenze”. Un particolare, questo, decisamente macabro che secondo il direttore dell'Archivio federale tedesco Hans Dieter Kreikamp “è una prova autentica del genocidio degli ebrei europei sistematicamente progettato dal regime nazista”».
La pianta in discussione era la revisione da parte di Berlino del progetto eseguito ad Auschwitz dall’SS-Untersturmführer Walter Dejaco il 24 ottobre 1941 su suggerimento dell’ingegnere della Topf Kurt Prüfer, parimenti pubblicato da Pressac (documento 9), in cui il Leichenkeller, al pari della pianta di Werkmann, è disegnato solo in parte, ma reca l’indicazione delle misure: m 8 x 60. Dato che la scala del progetto è di 1:100, si comprende facilmente perché il Leichenkeller non sia stato disegnato per intero. La pianta di Werkmann ha solo l’indicazione della larghezza, 8 metri, sicché la scritta “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” fa pensare più a una riduzione che a un aumento della lunghezza di 60 metri. In effetti, nei crematori di Birkenau questo locale divenne il Leichenkeller 2, che era lungo 49,49 metri.
Il bello è che il libro di Pressac fu prontamente tradotto anche in tedesco (23), sicché BILD.DE non ha alcuna giustificazione.
Il contesto storico reale nulla concede all’ipotesi che il crematorio di questo progetto servisse a scopo di sterminio. Pressac afferma esplicitamente che «il fabbricato concepito da Prüfer e migliorato da Werkmann, non era stato progettato a questo scopo», con riferimento ai «trattamenti omicidi col gas» (24).
Nel mio studio Genesi e funzioni del campo di Birkenau (25) ho documentato che il Kriegsgefangenenlager di Birkenau fu progettato il 30 ottobre 1941 per 125.000 prigionieri di guerra sovietici che dovevano essere impiegati in lavori di costruzione nel quadro del “Generalplan Ost” (“progetto generale Est”), un piano di colonizzazione tedesca dei territori orientali incorporati dalla Germania (soprattutto i Reichsgaue Danzica-Prussia orientale e Wartheland) per mezzo di manodopera coatta - prigionieri di guerra sovietici, poi Ebrei - concentrata nei campi di Birkenau, di Lublino e di Stutthof. In tale contesto rientra anche la decisione di costruire il crematorio in oggetto, che è spiegata così in una lettera di Bischof, all’epoca Bauleiter di Auschwitz, al Rüstungskommando (comando degli armamenti) di Weimar del 12 novembre 1941:
«La ditta Topf & Söhne, impianti tecnici di combustione, Erfurt, ha ricevuto da questo ufficio l’incarico di costruire il più presto possibile un impianto di cremazione, perché al campo di concentramento di Auschwitz è stato annesso un campo per prigionieri di guerra che in brevissimo tempo sarà occupato da circa 120.000 Russi. La costruzione dell’impianto di cremazione è diventata perciò assolutamente necessaria per prevenire epidemie e altri pericoli». [«Die Firma Topf & Söhne, feuerungstechn. Anlagen, Erfurt hat von der hiesigen Dienststelle den Auftrag erhalten, schnellstens eine Verbrennungsanlage aufzubauen, da dem Konzentrationslager Auschwitz ein Kriegsgefangenenlager angegliedert wurde, das in kürzester Zeit mit ca. 120 000 Russen belegt wird. Der Bau der Einäscherungsanlage ist deshalb dringend notwendig geworden um Seuchen und andere Gefahren zu verhüten»] (26).
Himmler, in qualità di «Commissario del Reich per il consolidamento del germanesimo» (Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums), era responsabile del “Generalplan Ost” e dunque della progettazione e costruzione del campo di Birkenau, perciò c’è poco da stupirsi se qualche pianta fu siglata da lui personalmente «con matita verde».

In questa gigantesca bufala chi fa la figura più grama sono Hans-Dieter Kreikamp e Ralf Georg Reuth. Si stenta a credere che uno storico e un «direttore archivista dell’Archivio Federale di Berlino» abbiano dato prova di un’ignoranza storica così grottesca.
E se questi sono gli storici e gli archivisti tedeschi, i DILETTANTI ALLO SBARAGLIO italiani sono in ottima compagnia.

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Carlo Mattogno
12 novembre 2008

NOTE

(1) Die Baupläne von Auschwitz, in: http://www.bild.de/BILD/news/vermischtes/2008/11/08/auschwitz-die-bauplaene/bild-zeigt-dokumente-des-grauens-die-jetzt-in-berlin-gefunden-wurden.html. Torna al testo.
(2) Auschwitz expert: Blueprints found in Berlin not of death camp, in: http://www.haaretz.com/hasen/spages/1035958.html. Expert: Uncovered Auschwitz plans important, in: http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3619600,00.html Torna al testo.
(3) Vedi al riguardo il mio studio «La verità sulle camere a gas»? Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia. 2008. In: http://www.aaargh.com.mx/fran/livres8/CMVENEZIA.pdf. Torna al testo.
(4) Vedi documento 1, qui riprodotto:

Da: http://www.bild.de/BILD/news/vermischtes/2008/11/08/auschwitz-die-bauplaene/imagemaps/gaskammer.html. Torna al testo.
(5) Vedi documento 2, qui riprodotto:

Da: http://www.bild.de/BILD/news/vermischtes/2008/11/08/auschwitz-die-bauplaene/imagemaps/keller.html. Torna al testo.
(6) Si tratta delle misure esterne; quelle interne sono m 9,90 x 10,90. Torna al testo.
(7) Il detenuto polacco Josef Sikora, che lavorava come disegnatore nell’ufficio di progettazione della Bauleitung di Auschwitz. Torna al testo.
(8) Olocausto, un inferno pianificato dal ’41, in: http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=10992. Torna al testo.
(9) The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989. Torna al testo.
In web: http://www.holocaust-history.org/auschwitz/pressac/technique-and-operation/.
(10) Bauwerk: costruzione o cantiere. Torna al testo.
(11) Vedi documento 3.

Da: http://www.holocaust-history.org/auschwitz/pressac/technique-and-operation/, al pari dei documenti 3a, 4, 5 e 6. Torna al testo.
(12) Vedi documento 4.

Torna al testo.
(13) Vedi documento 5.

Torna al testo.
(14) Vedi documento 6.

Torna al testo.
(15) RGVA, 502-1-332, p. 47. Torna al testo.
(16) RGVA, 502-1-332, p. 9. Torna al testo.
(17) J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., pp. 53-54. Torna al testo.
(18) Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 2002. Torna al testo.
(19) C. Mattogno, Auschwitz: la prima gasazione. Edizioni di Ar, Padova, 1992. Traduzione riveduta, corretta e ampliata: Auschwitz: The First Gassing. Rumor and Reality. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005. Torna al testo.
(20) Vedi documento 3a.

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(21) Vedi documento 1.

Torna al testo.
(22) CNRS Editions, Parigi, 1993. Trad. it.: Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945. Feltrinelli, Milano, 1994. Torna al testo.
(23) Die Krematorien von Auschwitz. Die Technik des Massenmordes. Piper, Monaco-Zurigo, 1994. Torna al testo.
(24) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 74. Torna al testo.
(25) Consultabile in: http://vho.org/aaargh/fran/livres8/CMGeneralplanOst.pdf. Torna al testo.


PARTE TERZA

Carlo Mattogno

«L’irritante questione» delle camere a gas
ovvero
Da Cappuccetto Rosso ad… Auschwitz
Risposta a Velentina Pisanty

Edizione riveduta, corretta e aggiornata

Sommario: Presentazione. – Introduzione. – Capitolo Primo: I metodi di lavoro di Valentina Pisanty. – 1. Da Cappuccetto Rosso ad Auschwitz. – 2. I «Riferimenti bibliografici» generali. – 3. Il titolo. – 4. La bibliografia revisionistica: preselezione del campo di indagine. – 5. Le citazioni. – 6. I documenti. – Capitolo Secondo: Le fonti di Valentina Pisanty. Anatomia di un plagio. – 1. Il plagio storico-critico e argomentativo. – Segue: a) I negazionisti americani e inglesi; b) La storia di Mel Mermelstein; c) Robert Faurisson critico “letterario”; d) Il diario di Anna Frank; e) Il diario del dottor Kremer; f) Il rapporto Gerstein; g) Rassinier; h) Butz; i) Stäglich; k) The Myth of the Six Million; l) Harwood. – 2. Il plagio metodologico e interpretativo. – Capitolo Terzo: Gli argomenti e le strategie ermeneutiche di Valentina Pisanty: 1. La «premessa indiscussa». – 2. Il diario di Anna Frank. – 3. Il diario del dottor Kremer. – 4. Le testimonianze «in presa diretta». – Segue: a) I “Protocolli di Auschwitz”; b) I manoscritti dei membri del Sonderkommando; c) Le fotografie. – Capitolo Quarto: 1. Premessa generale. – 2. La mia critica strutturale al rapporto Gerstein. – 3. La critica di Valentina Pisanty: i metodi. – 4. La critica di Valentina Pisanty: gli argomenti. – Segue: a) Il primo gruppo; b) Il secondo gruppo; c) Il terzo gruppo; d) Le obiezioni di carattere tecnico. – 5. I punti meritevoli di considerazione. – 6. Un punto immeritevole di considerazione. 7. Le critiche indirette. – 8. Il documento “Tötungsanstalen in Polen”. – 9. I garanti di Gerstein. – Segue: a) Il barone von Otter; b) Il vescovo Dibelius; c) Wilhelm Pfannenstiel; d) Rudolf Reder. – 10. Le altre testimonianze «non trattate da Mattogno». – Segue: a) Jan Karski; b) I testimoni SS; c) Chaim Hirszman. – Capitolo Quinto: Rudolf Höss e il “campo di setrminio” di Auschwitz. – 1. Considerazioni generali. – 2. La critica di Valentina Pisanty al mio studio Auschwitz le “confessioni” di Höss. – Segue: a) La visita ad Auschwitz di Eichmann; b) La prima gasazione omicida; c) «La prima gasazione a cui Höss assistette»; d) «La prima operazione di sterminio ebraico»; e) Le inesattezze; f) L’ordine di Himmler di sospendere le gasazioni; g) Statisctiche e cifre; h) La visita di Höss a Chelmno [Kulmhof]; i) Il grasso umano; l) I “Gasprüfer” di Auschwitz. – 3. Il plagio di Filip Müller. – Capitolo Sesto: I sofismi epistemologici di Valentina Pisanty. – 1. Testimonianza contro documento. – 2. L’omicidio del signor Rossi: un tragico errore giudiziario. – 3. La «cospirazione giudaica mondiale». – 4. Dall’antinegazionsimo al visionarismo. – EpilogoNoteBibliografiaBibliografia revisionistica essenzialeRivisteOpere di Carlo MattognoAbbreviazioni

PRESENTAZIONE

La prima edizione di quest’opera è stata data alle stampe dall’Editore Graphos di Genova nel 1998. Come avevo previsto, dopo la sua pubblicazione la dottoressa Valentina Pisanty, non sapendo che cosa replicare, si è ritirata in silenzio dalla scena, ritornando ad occuparsi del suo Cappuccetto Rosso, salvo qualche occasionale incursione mediatica in cui ha sproloquiato le sue fantasie semiotiche sul revisionismo.
Ma ormai il seme velenoso aveva attecchito. E se ora si sentono persone di cultura italiane – che non hanno mai visto un libro revisionistico – asserire con supponenza che il revisionismo storico è scientificamente e metodologicamente nullo – lo si deve in massima parte a Valentina Pisanty.
La mia demolizione sistematica dei suoi sofismi è valsa a ben poco, data l’immensa sproporzione mediatica che è sempre esistita tra il suo libro e il mio. Non resta dunque che diffondere la mia risposta in rete. Ciò è tanto più necessario in quanto – in tempi in cui gli istigatori della Pisanty minacciano anche la libertà di espressione revisionistica – è importante mostrare che il revisionismo è ben altra cosa dall’immagine distorta e parodistica di esso che la Pisanty ha creato con le sue interpretazioni cavillose e truffaldine.
Il testo che presento è ovviamente riveduto, corretto e aggiornato.
Dicembre 2008.

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INTRODUZIONE

Nel settembre 1996 su Le Nouveau Quotidien di Losanna sono apparsi due importanti articoli dello storico e romanziere francese Jacques Baynac, intitolati Come gli storici delegano alla giustizia il compito di far tacere i revisionisti (1) e In mancanza di documenti probanti sulle camere a gas, gli storici schivano il dibattito (2), nei quali l’Autore espone una lucida analisi del marasma in cui si dibatte la storiografia ufficiale.
Nel primo articolo, dopo aver denunciato il clima isterico acutizzato in Francia dall’affare Garaudy-abbé Pierre, Baynac rileva:
«In mezzo a questo tohu-bohu [caos] disastroso, si è levata una voce, chiara, netta. Senza dubbio, soltanto Simone Veil, ex deportata ed ex presidente del Parlamento europeo, poteva permettersi di guardare le cose in faccia e di violare un tabù senza rischiare l’ostracismo. “I negazionisti - ella dichiara a L’Evénement du Jeudi - hanno approfittato dei nostri errori. Non si può imporre una verità storica con la legge, anche se è lampante, qualunque siano i secondi fini di coloro che cercano di negare la Storia. La Storia dev’essere libera. Essa non può essere sottomessa a versioni ufficiali. La legge Gayssot permette ai negazionisti di apparire come martiri, vittime di una verità ufficiale. Grazie ad essa, i negazionisti possono far deviare il dibattito sulla libertà di espressione. Questa legislazione ha spinto l’abbé Pierre a prendere le difese di Garaudy, e vi si ostina. Senza questa legge, non ci sarebbe alcun affare abbé Pierre”.
Perché è stata promulgata questa legge che, secondo lo scrittore Dominique Jamet, “trasforma i magistrati in inquisitori”? E come si è giunti a fare, secondo lo stesso autore, come “gli Stati totalitari di tipo moderno o arcaico dove il partito o la Chiesa, dopo aver fissato una dottrina ufficiale, affidano alla polizia e alla giustizia la missione di difenderla e di dare la caccia agli eretici”?
Perché, fin dall’inizio, si rifiuta il dibattito. Lo si rifiuta nell’aula di tribunale. Il giovane avvocato Arno Klarsfeld confessa ingenuamente che la legge Gayssot è stata fatta “onde evitare dei dibattiti scabrosi tra storici e pseudostorici” (Libération, 17.7.96). Lo si rifiuta fuori dell’aula di tribunale. Il gran rabbino Sitruk, che l’aveva accettato il 28 aprile, ha dovuto rifiutarlo due giorni dopo. La Chiesa cattolica lo rifiuta col pretesto che il dibattito ha avuto luogo più volte. La LICRA (3
) lo rifiuta. Il MRAP (4) lo rifiuta. La Lega dei diritti dell’uomo lo rifiuta. In breve, nessuno lo vuole e tutti imitano quelli che di primo acchito hanno dato l’intonazione: gli storici».
Baynac cita poi la conclusione dell’appello dei 34 storici francesi apparso su Le Monde il 21 febbraio 1979 – secondo la quale non bisogna chiedersi se lo sterminio ebraico è stato tecnicamente possibile: esso è stato possibile perché ha avuto luogo, e questo è il punto di partenza obbligato di qualunque indagine storica su questo argomento, sicché «non può esserci dibattito sulle camere a gas» –, e commenta:
«Se non si discerne bene ciò che ci sarebbe di “scabroso” nel rispondere per le rime ai revisionisti distruggendo le loro arguzie con degli argomenti e liquidando i loro cavilli con prove materiali, documenti solidi e cifre verificabili, se si vede ancora meno come il delicato fiore dell’etablishment universitario ha potuto decretare che non bisogna interrogarsi su un oggetto storico, in compenso si vede bene che è il defilamento degli storici che ha costretto la società a rifilare il bebè mostruoso ai tribunali, poi – avendo certi giudici avuto la malaugurata idea di recalcitrare, perfino di scrivere nei loro consideranda che la questione dell’esistenza delle camere a gas era una questione di opinione – a fare una legge che permettesse di condannare automaticamente gli pseudostorici.
La questione è dunque di sapere perché gli storici si sono defilati» (5
).
Baynac risponde a questa domanda nel secondo articolo. Dopo aver accennato allo scompiglio suscitato da Jean-Claude Pressac nella storiografia ufficiale con la sua drastica riduzione dei “gasati” di Auschwitz (470.000-550.000 nelle traduzioni italiana e tedesca del suo ultimo libro) (6), egli affronta il nodo cruciale della questione:
«Bisogna essere grati a Pierre Bourez per aver finalmente osato porre la questione chiave, quella dell’estensione del campo scientifico di investigazione e, di conseguenza, quella della natura della storia scientifica e del suo metodo.
È qui, e da nessun’altra parte, che i negazionisti hanno teso la trappola agli storici, i quali l’hanno identificata fin dal 1979, ma, non sapendo come evitarla, si sono sottratti al loro dovere di accertare la realtà incaricando la Giustizia di dire la Verità. Tutto il resto fu soltanto una conseguenza, e oggi ci ritroviamo con un problema che supera di gran lunga quello dell’esistenza delle camere a gas omicide nei campi nazisti. Ora è in gioco la questione della conoscibilità del passato. Quella della Storia.
Trarsi da questo passo falso sarà difficile e doloroso. Ma tergiversare ancora espone a vedere tutto il passato dissolversi dietro di noi, una eventualità poco piacevole quando l’avvenire è già così imprevedibile e il presente così inquietante.
Per salvare la Storia, bisogna partire dalla realtà... e restarvi. Le camere a gas sono esistite e hanno ucciso una quantità enorme di persone, omosessuali, ebrei, malati, zingari, slavi.
Questa certezza si fonda su due pilastri: le testimonianze dei superstiti e i lavori degli storici. Su tali basi, in questo dominio come in tutti gli altri, si sono sviluppati due discorsi, paralleli ma di natura diversa.
L’uno, ascientifico, in cui la testimonianza ha il primo posto. Leggere uno o più racconti, a fortiori una recensione seria sull’argomento, porta alla convinzione. Anche se un testimone ha dimenticato un dettaglio, un altro esagerato un fatto, l’avvenimento resta valido: è esistito. [...].
Per lo storico scientifico, la testimonianza non è realmente la Storia, è un oggetto della Storia. E una testimonianza non ha molto peso, e pesa ancora meno se nessun solido documento la conferma. Il postulato della storia scientifica, si potrebbe dire forzando appena la mano, è: niente documento/i, niente fatto accertato.
Questo positivismo che conferisce una tale importanza al documento ha i suoi aspetti positivi e negativi. Quello positivo, è che la storia deve a questo metodo rigoroso di non essere una pura fiction, ma una scienza. In quanto tale, essa è revisionista per natura, ossia negazionista. La Terra è stata ritenuta a lungo piatta, ora lo si nega. Ne consegue che decretare l’arresto delle ricerche su un punto qualunque del campo scientifico è negare la natura stessa della scienza. Si vede dunque già apparire ciò che mette gli storici in una situazione insostenibile ponendo i negazionisti in buona posizione: dal momento in cui si è sul terreno scientifico, è vietato vietare di rivedere o negare. Farlo, significa uscire dal campo scientifico. Significa abbandonarlo. Abbandonarlo a chi? Ai negazionisti.
L’aspetto negativo della storia scientifica consiste nel fatto che, in mancanza di documenti, di tracce o di altre prove materiali, è difficile, se non impossibile, stabilire la realtà di un fatto, anche se non c’è alcun dubbio che sia esistito, anche se è evidente. Il dramma è qui».
A questo punto J. Baynac si lascia sfuggire un’invettiva contro «queste carogne di nazisti» i quali non solo avrebbero perpetrato uno sterminio in massa, ma «hanno voluto uccidere sul nascere la possibilità di scrivere la sua storia». La totale mancanza di documenti su tale presunto sterminio sarebbe dunque il risultato di questa pretesa volontà nazista. Baynac presenta al riguardo alcune citazioni di storici ufficiali e continua:
«Si potrebbero moltiplicare le citazioni di storici, ma a che pro? Tutte dicono: non disponiamo degli elementi indispensabili per una pratica normale del metodo storico. Infine – e questa è la cosa più penosa da dire e da ascoltare, quando si sappia quale dolore e quale sofferenza sono così non negate, ma sospese – dal punto di vista scientifico non esiste testimonianza accettabile come prova indiscutibile. Non è una questione di legittimità o di credibilità. Dipende dalla natura stessa della testimonianza, natura di cui lo storico non può non tener conto senza negare la metodologia della sua disciplina. La vera trappola tesa dai negazionisti è qui, in questo dilemma davanti al quale hanno spinto a porsi gli storici. Volendo contraddirli sul terreno scientifico, li si induce a gridare: “Storici, i vostri documenti!” – e bisogna stare zitti per mancanza di documenti. Ma volendo opporsi ad essi adducendo delle testimonianze, li si sente sogghignare: “Niente documenti? Niente fatti. Voi fate della fiction, del mito, del sacro”».
Di fronte a questo dilemma, Baynac si chiede:
«Allora, che fare? Mobilitare ancora e sempre le divisioni pesanti mediatiche? I risultati si sono visti, e noi rischiamo di vedere i negazionisti vincere a questo sporco gioco esibendo improvvisamente un nuovo idolo mediatico e sostituendo il vecchio abate che hanno sfruttato fino all’osso. Sarebbe meglio imparare la lezione e constatare che, per vincere il negazionismo, bisogna scegliere tra due mali.
O si abbandona il primato dell’archivio a favore della testimonianza, e, in questo caso, bisogna squalificare la storia in quanto scienza per riqualificarla immediatamente in quanto arte. Oppure si mantiene il primato dell’archivio e, in questo caso, bisogna riconoscere che la mancanza di tracce [le manque de traces] comporta l’incapacità di stabilire direttamente la realtà dell’esistenza delle camere a gas omicide.
A partire da qui, riconquistare il terreno scientifico sarà possibile nel rispetto del lento, laborioso e difficile terreno scientifico. Perché stabilire che i negazionisti hanno torto è possibile. Essi hanno infatti dimenticato un “dettaglio”: se la storia scientifica, in mancanza di documenti, non può stabilire la realtà di un fatto, essa può, con dei documenti, stabilire che l’irrealtà di un fatto è essa stessa irreale. Stabilendo che l’inesistenza delle camere a gas è impossibile, si liquiderà definitivamente la pretesa del negazionismo di porsi come una scuola storica tra altre e lo si costringerà ad apparire per ciò che è sin dall’inizio: una ideologia, quella di una setta propugnatrice di una utopia reazionaria il cui mezzo e il cui fine sono di cambiare il passato escludendo il reale a vantaggio del virtuale» (7
) (corsivo mio).
*
Nel 1995 ho scritto che il revisionismo
«è essenzialmente una metodologia storiografica, la normale metodologia storiografica applicata da tutti gli storici a tutte le branche della storia, coll’unica eccezione della tematica olocaustica. La negazione della realtà storica delle camere a gas omicide ne è la logica conclusione, in quanto questa storia è basata su prove che non resistono ad una critica storica seria» (8).
Lo storico “antinegazionista” Jacques Baynac sottoscrive in via di principio questa definizione: egli dichiara che la storiografia è revisionistica per natura, riconosce che la testimonianza vale poco o nulla se non è confermata dal documento, ammette perfino che, sulla realtà delle camere a gas omicide, non esistono neppure “tracce” documentarie; tuttavia, sul piano pratico egli non solo afferma “ideologicamente” una realtà storica che non può essere provata né da testimonianze né da documenti, ma, sulla base di una metodologia storiografica fideistica, pretende addirittura di negare dignità scientifica al revisionismo perché ha il torto di mettere in atto «il postulato della storiografia scientifica», cioè «niente documenti, niente fatto accertato»!

Quanto poi la mancanza di documenti sia da attribuire, con perfetto circolo vizioso, alla perfidia nazista (i nazisti hanno sterminato gli Ebrei ma hanno distrutto i documenti sullo sterminio, sicché questo non può essere dimostrato documentariamente, ma c’è stato lo stesso) risulta chiaramente dalla enorme mole di documenti sequestrati dai Sovietici ad Auschwitz nel 1945, ora accessibili a Mosca nell’archivio di via Viborgskaja (9).

*
Il defilamento degli storici ufficiali ha avuto per gli “antinegazionisti” altri effetti collaterali non meno disastrosi di quelli esposti da Baynac: il terreno lasciato libero dalla loro coraggiosa ritirata è stato presto invaso da una masnada di gazzettieri – brillanti imitatori di idee altrui, acuti chiosatori di libri che non hanno mai letto, sagaci interpreti di stralci di documenti d’archivio di terza mano, profondi conoscitori di luoghi che non hanno mai visto – destinati inevitabilmente ad essere travolti dall’inconsistenza dei loro stessi postulati.


Di questi veri e propri dilettanti allo sbaraglio, tra i quali spiccavano le grandi teste pensanti di Pierre Vidal-Naquet e di Deborah Lipstadt, mi sono già occupato altrove (10).

Questo disperato assalto di sprovveduti è stato di recente affiancato da un subdolo attacco trasversale proveniente dal «delicato fiore dell’ etablishment universitario». Le grandi teste universitarie, volendo colpire il revisionismo restando al riparo dall’eventualità – tutt’altro che aleatoria – di perdere la faccia in un confronto personale – cominciano a mandare in avanscoperta un povero diavolo di studente, che fungerà da capro espiatorio, proponendogli una tesi di dottorato teleguidata. E il povero diavolo, vuoi per ambizioni carrieristiche, vuoi per vassallaggio adulatorio (il termine studentesco è molto più colorito), si trova sempre.

Questa nuova strategia, inaugurata nel 1996 in Francia da Florent Brayard sotto l’egida di Pierre Vidal–Naquet (11) , è apparsa ora anche in Italia, con il libro L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo (12) di Valentina Pisanty.

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CAPITOLO I

I METODI DI LAVORO DI VALENTINA PISANTY

1.
Da Cappuccetto Rosso ad Auschwitz

La prima iniziativa della nuova strategia messa in atto dal «fiore» universitario bolognese si rivela sin dalle prime pagine per ciò che realmente è: un tentativo pseudoscientifico di demolizione delle basi metodologiche del revisionismo. Vediamo perché.

L’irritante questione delle camere a gas, spiega l’Autrice,
«prende origine da una tesi di dottorato svolta sotto la supervisione di Umberto Eco, Patrizia Violi e Mauro Wolf» (p. 4) (13).
La terza pagina di copertina ci informa inoltre che la Pisanty
«ha conseguito il dottorato di ricerca in Semiotica presso l’Università di Bologna».
Ci si può chiedere che cosa abbia a che fare la semiotica con la questione storica dell’esistenza o inesistenza delle camere a gas omicide; la risposta è semplice: nulla. Infatti, come recita la dichiarazione programmatica dell’Autrice, il libro in questione non vuole essere un’opera storiografica:
«L’obiettivo principale di questo libro non è di confutare l’ipotesi cosiddetta revisionista con argomentazioni di tipo storico e con il supporto dei numerosissimi documenti a disposizione di chiunque li voglia consultare.
Ritengo che una simile operazione di smontaggio storico sia già stata effettuata con successo da vari autori, tra cui
Pierre Vidal–Naquet, i quali hanno a più riprese dimostrato l’infondatezza delle ipotesi interpretative di Rassinier e compagni se messe alla prova dell’evidenza documentaria.
Lo scopo che mi pongo è piuttosto di portare alla luce le strategie persuasive messe in atto dai negazionisti nella lettura dei documenti storici» (p. 2).
Questa dichiarazione è fin troppo scopertamente pretestuosa: la Pisanty pretende di analizzare una metodologia storiografica dal punto di vista puramente semiotico senza una preliminare analisi storica – che dà per scontata (Pierre Vidal–Naquet dixit) –, e senza una preliminare preparazione storica; ella pretende di giudicare in che modo uno storico interpreta un documento senza esaminare il valore storico del documento. Questo tipo di indagine, se fosse condotta sul serio, si esaurirebbe inevitabilmente in una sterile esercitazione retorica, senza alcun contatto con la realtà. Proprio qui sta la pretestuosità della dichiarazione summenzionata: per non restare sul piano nebuloso delle astratte categorie semiotiche, la Pisanty è costretta ad affrontare le problematiche storiche concrete avanzate dai revisionisti, ad esprimere un giudizio sul loro valore storico, dunque a far rientrare dalla finestra ciò che aveva finto di cacciare dalla porta.

L’irritante questione delle camere a gas è pertanto un tentativo di confutazione delle argomentazioni storiche revisionistiche sotto la copertura semiotica.

La necessità di questa copertura appare manifesta quando si consideri che questa «tesi di dottorato» sulle camere a gas è nata e si è sviluppata non già – come ci si sarebbe aspettati – in un Istituto di storia moderna e contemporanea, bensì in un Istituto di semiotica, in cui docenti e discenti hanno necessariamente una conoscenza della storia olocaustica pari a quella che i docenti e discenti di filosofia possono avere della fisica nucleare.

La necessità di questa copertura appare ancora più manifesta quando si consideri la competenza specifica della Pisanty, essendo ella una profonda esperta della storia di... Cappuccetto Rosso! In una nota ella rimanda al suo unico libro scritto prima di quello in esame – Leggere la fiaba – per delucidazioni, sicuramente importantissime, «sulle numerose letture (in chiave etnologica, psicoanalitica, mitologica, alchemica, ecc.) della fiaba di Cappuccetto Rosso» (p. 265, nota 29). Da Cappuccetto Rosso ad Auschwitz: quale mirabile travaglio interiore!

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2.
I «Riferimenti bibliografici» generali

Considerate la qualificazione e la competenza specifica dell’Autrice, non stupisce che nel suo libro l’aspetto semiotico sia di gran lunga preponderante su quello storico. Poiché a me interessa invece esclusivamente quest’ultimo, lascerò da parte le prolisse e tediose analisi semiotiche – esercitazioni dialettiche con finalità prettamente accademiche, spesso abilmente pilotate per poter esternare il doveroso atto di vassallaggio adulatorio ai docenti. Questo fastidioso groviglio di minuziose sofisticherie ha però anche uno scopo più pratico, rappresentando quello stratagemma che consiste nel «confondere l’avversario con un profluvio di parole» (p. 275) che la Pisanty attribuisce naturalmente ai revisionisti.

A questo riguardo, la pomposa bibliografia presentata dalla nostra dottoressa è particolarmente rivelatrice. Delle 100 opere (libri e articoli) relative alla storiografia ufficiale elencate alla fine del libro (pp. 279–285), appena 20 – mal lette e mal digerite – sono di storiografia olocaustica, una decina di critica antirevisionistica; il resto è costituito da un’accozzaglia di opere di argomento disparato, da Che cosa è il cinema a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, da Problemi di linguistica generale a i Falsi Protocolli (dei “Savi di Sion”), da Usi “politici” della preistoria indoeuropea a Sémiotique, da Contro l’antisemitismo a Introduzione alla filosofia della scienza, da Gli atti linguistici a Secret Societies and Subversive Movements, da L’analisi del discorso a Le pretese scientifiche del razzismo, da I formalisti russi a Retorica del complotto, da Lo spirito della narrazione a Le bouc émissaire, da Umberto Eco a Umberto Eco (la bibliografia elenca diligentemente 5 opere del “maestro” più una sesta in collaborazione) (14).

Completato il quadro della qualificazione e della competenza della Pisanty, passiamo all’esame del suo libro.

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3.
Il titolo

Cominciamo dal titolo del libro, L’irritante questione delle camere a gas. Nell’Introduzione la Pisanty spiega:
«Nella prefazione alla seconda edizione di Passage de la ligne, il revisionista Paul Rassinier si riferisce all’ “irritante questione” delle camere a gas. [...]. Perché la questione delle camere a gas è descritta come irritante? Per il semplice motivo che essa costituisce il maggiore ostacolo incontrato da chi, come lui, voglia riabilitare il regime nazista» (p. 1).
Il ragionamento sembra stringente come un sillogismo aristotelico: il revisionista vuole riabilitare il regime nazista; le camere a gas sono il maggior ostacolo a questa riabilitazione, dunque le camere a gas sono una questione irritante. È un vero peccato che le due premesse siano false! Per quanto concerne la frase incriminata di Rassinier, non esiste alcuna “seconda edizione” del Passage de la ligne; questo scritto fu ripubblicato da Rassinier in Le Mensonge d’Ulysse (1955) (15). D’altro canto nella prefazione a quest’opera Rassinier scrisse esattamente il contrario di ciò che pretende la Pisanty:
«Che degli stermini con i gas siano stati praticati mi pare possibile, se non certo: non c’è fumo senza arrosto» (16).
Non a caso la citazione della nostra dottoressa è priva di riferimento alla fonte: niente editore, niente anno di pubblicazione, niente pagina.

Quanto poi alla seconda premessa, si tratta della ignobile calunnia di Deborah Lipstadt, alla quale ho già risposto per le rime altrove (17).

In realtà, proprio perché gli storici ufficiali non sono in grado di uscire dal dilemma metodologico prospettato da Baynac, proprio perché non sanno che cosa rispondere sul piano scientifico alla domanda dei revisionisti: «Storici, i vostri documenti!», proprio per queste ragioni la questione delle camere a gas omicide è divenuta per loro la questione più irritante, tanto irritante che anche la Pisanty finge di occuparsene senza neppure sfiorare il nocciolo della questione.

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4.
La bibliografia revisionistica:
preselezione del campo di indagine

Tra i rimproveri che la Pisanty muove ai revisionisti c’è quello secondo il quale essi «operano una preliminare selezione del materiale storico» (p. 13). Vedremo poi quanto questo rimprovero sia fondato. Qui rilevo che questo è in realtà proprio il principio metodologico generale che condiziona la struttura stessa del libro in oggetto. L’esame della bibliografia “negazionista” addotta dalla dottoressa Pisanty è sufficiente per mostrare apertamente quale sia la buona fede dell’Autrice.

La bibliografia contiene 32 titoli (pp. 285–286).

Per quanto riguarda l’aspetto qualitativo, la bibliografia è un’accozzaglia di libri, opuscoli e articoletti vari. Tra i titoli citati figurano:
– 4 opere letterarie (!) di Robert Faurisson,
– 2 opere di Maurice Bardèche che non hanno nulla a che vedere con il revisionismo,
– 3 opuscoli che sono da relegare nell’angolo delle curiosità storiografiche (The Myth of the Six Million e gli scritti di R. Harwood e di Th. Cristophersen),
– 1 scritto del “NOI (Nation of Islam)” che non ha niente a che fare con il revisionismo,
– 1 articolo apparso in forma anonima nelle Annales d’Histoire Révisionniste che formula ipotesi insensate le quali mettono in causa solo l’autore,
– 1 articolo molto modesto sul film Shoah apparso parimenti nelle Annales d’Histoire Révisionniste.

Dal punto di vista cronologico, le opere citate sono ripartite così:

– 16 titoli sono anteriori al 1980 (dal 1948 al 1978),
– 14 titoli sono anteriori al 1990 (dal 1980 al 1988),
– 2 titoli si riferiscono agli anni Novanta (1991 e 1995).

Gli unici due scritti apparsi negli anni Novanta menzionati dalla Pisanty sono il già menzionato libro (?) del “NOI” (The Secret Relationship between Blacks and Jews: il titolo è tutto un programma!) e il libro di Roger Garaudy, che si limita a divulgare qualche tesi revisionistica.

Quanto alla lingua, i titoli citati dalla Pisanty sono quasi tutti in italiano, francese ed inglese. I due soli autori tedeschi menzionati nella bibliografia sono citati in traduzione francese (Wilhelm Stäglich) o inglese (Udo Walendy) – e già da ciò si può desumere quale sia la conoscenza del tedesco dell’ Autrice. Particolarmente comica poi è la sua attribuzione del rapporto Leuchter – in tedesco! – a Udo Walendy (18).

Che cosa significano questi dati? Per rispondere a questa domanda confrontiamo la finta bibliografia della Pisanty con la vera bibliografia revisionistica essenziale che ho riportato nel libro già citato Olocausto: dilettanti allo sbaraglio (pp. 308–309) e che rispecchiava abbastanza bene lo status delle conoscenze revisionistiche fino al 1995.

Dal punto di vista qualitativo, la bibliografia contiene tutti i più importanti contributi di ricercatori o divulgatori di buon livello: Enrique Aynat, John Ball, Jean–Marie Boisdefeu, Arthur Butz, Robert Faurisson, Jürgen Graf, Pierre Guillaume, Michael Hoffman, Robert Lenski, Pierre Marais, Germar Rudolf, Walter Sanning, Wilhelm Stäglich, Steffen Werner.

Per quanto concerne la data di pubblicazione, delle 30 opere menzionate:
– 2 sono anteriori al 1980,
– 9 sono anteriori al 1990,
– 19 opere sono apparse tra il 1990 e il 1995.
Quanto alla lingua:
– 10 opere sono in francese,
– 9 sono in tedesco,
– 6 in inglese,
– 3 in spagnolo,
– 2 in italiano (questa bibliografia non comprende le mie opere).

I testi anteriori al 1980 (A. Butz, W. Stäglich) e dell’inizio degli anni Ottanta (R. Faurisson) sono ormai ampiamente superati e, in generale, hanno importanza più per i problemi che sollevano che per le soluzioni che propongono.

Tornando alla nostra dottoressa in semiotica, risulta evidente che l’esame critico del revisionismo che ella vuole presentare al lettore è inficiato e falsato già in partenza da una disonesta delimitazione del campo di indagine che esclude a priori l’80% quantitativo e qualitativo della letteratura che dovrebbe costituire l’oggetto della sua indagine.

Il trattamento che la Pisanty infligge alle 4 riviste revisionistiche più importanti è ancora più spietato:
– la rivista Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung (19) – all’epoca la più importante rivista revisionistica – viene liquidata direttamente senza neppure una menzione;
– la stessa sorte tocca alla Revue d’Histoire Révisionniste, che contiene parecchi articoli di buon livello;
– la rivista Annales d’Histoire Révisionniste subisce una drastica selezione: su una trentina di articoli che appaiono nei suoi 8 numeri, la Pisanty ne sceglie 2: i peggiori;
– la rivista The Journal of Historical Review subisce una selezione ancora più drastica: tra le centinaia di articoli pubblicati (il primo numero è apparso nel 1980) la Pisanty ne sceglie ben tre! Inutile dire che si tratta di scritti del tutto marginali rispetto alla questione centrale delle camere a gas omicide, alla quale sono invece specificamente dedicati vari articoli.

Naturalmente neppure i miei scritti sfuggono alla regola metodologica della dottoressa Pisanty: anche nel mio caso ella opera una spietata selezione liquidando senza mezzi termini tutti i miei scritti più importanti – le 5 opere apparse dal 1991 al 1996; inoltre, dei 9 scritti precedenti (dal 1985 al 1988) la Pisanty ne selezione solo 3. In pratica, ella prende in considerazione solo 3 delle mie 14 opere apparse in italiano fino al 1996.

La cosa più grave è che la Pisanty, che riprende le metodologie truffaldine e le argomentazioni capziose dei suoi maestri, evita accuratamente di menzionare proprio l’opera che le demolisce sistematicamente: Olocausto: dilettanti allo sbaraglio. Certo, è più facile fare finta di niente piuttosto che rispondere, soprattutto quando non si hanno argomenti.

La strategia della Pisanty è dunque semplice. Ella opera anzitutto una selezione preliminare nella quale scarta i testi che espongono le tesi fondamentali revisionistiche (di carattere soprattutto storico–tecnico), alle quali la povera dottoressa in semiotica non saprebbe che cosa controbattere. Il restante 20% che ella prende in considerazione è per di più alquanto datato; come ho accennato sopra, si tratta di testi (Rassinier, Butz, Faurisson, Stäglich) il cui merito maggiore consiste nell’aver additato una direzione di ricerca che successivamente si è sviluppata raggiungendo livelli incommensurabilmente superiori. In questi testi la Pisanty opera una ulteriore selezione isolando quattro temi generali (20), all’interno dei quali isola di nuovo le argomentazioni revisionistiche che ritiene di poter confutare (vedremo poi come).

In particolare ella tralascia tutte le questioni tecniche – che sono l’aspetto essenziale della struttura argomentativa revisionistica –, a cominciare dal rapporto Leuchter, che evidentemente neppure conosce (21). Ma anche ciò è comprensibile: qui non si tratta di disquisire su Cappuccetto Rosso. E infatti quando talvolta ella azzarda qualche spiegazione tecnica, fa delle figure come questa. Confutando l’affermazione (errata) di J. Gillot (il cui unico merito è di aver scritto un mediocre articolo sul film di Claude Lanzmann “Shoah”) secondo la quale era impossibile accedere nelle camere a gas di Treblinka se non dopo una ventina di ore di aerazione, la Pisanty spiega:
«Ciò è semplicemente falso. Il gas letale impiegato a Treblinka era il monossido di carbonio e non lo Zyklon B (come invece sostiene questo negazionista minore e decisamente poco informato): pochi minuti di areazione [sic!] sono ampiamente sufficienti affinché il CO si trasformi in CO2» (p. 188).
Dunque il CO non si trasforma in CO2 per combustione, come si insegna erroneamente in tutti gli Istituti di chimica (22), ma per aerazione! Sulle altre cantonate di questo calibro prese dalla nostra dottoressa (tra cui quella tragico-comica del recupero del grasso umano) mi soffermerò successivamente. Per amor del vero, la Pisanty prende enormi cantonate anche in campo storico, come quando scrive che
«anche il lager di Dachau stava per essere fornito di una camera a gas (come risulta dalla corrispondenza tra Berlino e la Topf)» (p. 182, corsivo mio),
ignorando che l’unico contatto della ditta Topf con questo campo riguardò l’installazione del forno crematorio a 2 muffole costruito nel vecchio crematorio.

Riprendiamo l’analisi della strategia della Pisanty. Alla letteratura dei precursori del revisionismo ella mescola una serie di libelli e articoletti di personaggi insignificanti che pone più o meno sullo stesso piano di coloro che all’epoca erano i rappresentanti del revisionismo nascente, infierendo su personaggi assolutamente irrilevanti, come l’anonimo articolista delle Annales d’Histoire Révisionniste (p. 26 e 193), W. Grimstadt (p. 229), L. Stielau (chi era costui?) (p. 53) – il che è come dire: mettere sullo stesso piano V. Pisanty e Raoul Hilberg.

Questo volgare trucco metodologico, che costituisce la condicio sine qua non dell’esistenza stessa del libro, ne infirma dunque a priori il valore scientifico. L’operazione compiuta dalla Pisanty è analoga a quella che effettuerebbe chi, volendo confutare la tesi dello sterminio ebraico ad Auschwitz, prendesse di mira il Dizionario del Nazismo di Gustavo Ottolenghi (23) invece dei libri di Pressac. In breve, il campo d’indagine della Pisanty è una minima parte del campo d’indagine revisionistico e l’oggetto dell’indagine della Pisanty non è il revisionismo, ma una parodia di esso.

Il ricorso a questo volgare trucco non dipende soltanto da qualche enorme lacuna nell’onestà intellettuale dell’Autrice, ma ha inoltre una spiegazione pratica: sfortunatamente la grossa testa pensante della polemica antirevisionistica – Pierre Vidal-Naquet – ha pensato fino al 1987 (e ormai non penserà più) (24), perciò, per il periodo successivo, gli umili adepti del Verbo del Maestro si trovano spiazzati, non essendo in grado di pensare da soli. La cosa migliore, dunque, è tacere. Unica eccezione, le critiche che la Pisanty rivolge alle mie argomentazioni. Trovatasi senza guida, l’Autrice ha dovuto improvvisare e creare, grazie alle sue indubbie capacità semiotiche, dei sofismi passabili. Vedremo nei capitoli successivi quanto valore abbia questa simulazione di pensiero.

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5.
Le citazioni

Nel profluvio delle disquisizioni semiotico–metodologiche addotte dalla Pisanty apparentemente allo scopo di mettere al riparo il lettore dalle perfide insidie revisionistiche, l’Autrice menziona la seguente:
«Al lettore del saggio storico è richiesto un atto di fiducia basato sul riconoscimento dell’autorità dello scrittore in quanto soggetto competente nella materia di cui il saggio tratta. Solo così è possibile arrestare momentaneamente la continua richiesta di prove supplementari (tipica di un’interpretazione sospettosa) che inibirebbe lo svolgersi della narrazione storica» (p. 202).
Al lettore di questo libro sulle camere a gas è dunque richiesto un atto di fiducia basato sulla competenza dell’Autrice in ... Cappuccetto Rosso.

La Pisanty prosegue.
«Tale riconoscimento di una competenza autoriale è accompagnato dalla possibilità, offerta al lettore, di verificare da sé se la sua fiducia sia stata saggiamente riposta: grazie alla citazione delle fonti documentarie, infatti, egli può ricostruire il percorso interpretativo intrapreso dallo storico per valutarne l’appropriatezza, ovvero l’adesione o meno a principi epistemologici generalmente accettati» (p. 202, corsivo mio).
L’Autrice rileva inoltre che
«così come l’insufficienza di indicazioni bibliografiche, anche l’eccesso informativo (in quanto fonte di “rumore”) blocca l’iniziativa personale del destinatario, costringendolo a ripiegare sul metodo dell’autorità per ricavare un senso dal testo» (p. 276).
Vediamo dunque se la Pisanty offra sempre al lettore la possibilità di questa verifica e se il lettore possa riporre «saggiamente» la propria fiducia in lei.
Le citazioni della Pisanty si dividono in due grandi categorie: quella dei testi che ha letto e che indica con il riferimento esatto (autore, titolo, anno di pubblicazione e pagina) e quella dei testi che non ha letto ma che finge di aver letto e spaccia per sue. La seconda categoria comprende parecchie citazioni di seconda o di terza mano per le quali l’Autrice non sa indicare il riferimento completo.
Come ho già rilevato nel § 3, il titolo stesso del libro si fonda già su questo trucco che mira evidentemente ad un «eccesso informativo» per bloccare «l’iniziativa personale del destinatario»: la finta citazione è introdotta con la formula «nella prefazione alla seconda edizione di Passage de la ligne» e questo è tutto. Naturalmente quest’opera di Rassinier non appare neppure nella bibliografia della Pisanty, sicché per il lettore che non sia uno specialista della materia la verifica è impossibile. Già il titolo stesso del libro richiede perciò un cieco atto di fede da parte del lettore.
A p. 53 la Pisanty presenta una citazione di tal fatta con questa sola indicazione:
«Sempre nel 1958, l’insegnante Lothar Stielau di Lubecca, che vanta un passato di dirigente della Hitlerjugend, scrive un saggio teatrale in cui inserisce la seguente frase: ...» (p. 53).
La citazione della pagina seguente viene presentata così:
«Questa è la posizione sostenuta da Teresa Hendry in un articolo pubblicato nel 1967 dalla rivista The American Mercury. La Hendry scrive: ...» (p.54).
Si tratta di una citazione di terza mano alla quale la Pisanty è giunta tramite Deborah Lipstadt, la quale, pur non citando direttamente il testo in questione, fornisce le seguenti indicazioni blibliografiche:
«Teressa Hendry, “Was Anne Frank’s Diary a Hoax?” American Mercury (Summer 1967), reprinted in Myth of the Six Million, pp. 109–111» (25).
Questo libretto contiene effettivamente la ristampa dell’articolo in questione, insieme ad altri quattro articoli tratti da The American Mercury e con il riferimento cronologico (Summer 1967) (26), ma non è la fonte della citazione in questione, perché la Pisanty lo conosce solo attraverso la Lipstadt (27) e Mattogno (28).
A p. 55 la Pisanty cita Irving con questa semplice spiegazione:
«Nel 1975 lo storico revisionista/negazionista David Irving scrive, nell’introduzione al suo Hitler and His Generals: ...».
Quest’opera non appare neppure nella bibliografia della Pisanty.
Nella stessa pagina l’Autrice offre un’altra citazione che introduce così:
«Anche Faurisson, in un primo tempo, si riallaccia all’ipotesi Levin per screditare il diario di Anne Frank: in una lettera inviata a Jean–Marc Théolleyre nel settembre 1975 a proposito di un’opera di Hermann Langbein su Auschwitz, egli scrive: ...» (p. 55).
La fonte? Non si sa.

A p. 153 appare una citazione di Stäglich senza indicazione del numero di pagina.
La stessa cosa vale per la citazione di Höss a p. 157.

A p. 178 la Pisanty scrive:
«Nonostante dichiari, come tutti gli antisemiti, di non essere un antisemita, Bardèche sostiene che gli ebrei sono stranieri e dunque non si vede il motivo per cui un francese si debba preoccupare del loro destino: “Non mi sento tenuto a prendere particolarmente la difesa degli ebrei, non più di quella degli slavi o di quella dei giapponesi. [...]. Non sento una preferenza particolare nei confronti degli ebrei che abitano in Francia e non vedo perché dovrei averne”» (p. 178).
Qui la Pisanty ha fornito tutti i dati per la verifica. Verifichiamo dunque. Ecco il testo originale del passo di M. Bardèche:
«Je ne me sens pas tenu de prendre particulièrement (29) la défense des juifs, pas plus que celle des Slaves ou celle des Japonais: j’aimerais autant qu’on cesse de massacrer sans raison les juifs, les Slaves et les Japonais, et aussi les Malgaches, les Indochinois ou les Allemands des Sudètes. C’est tout. Je ne me sens pas d’élection spéciale à l’égard des juifs qui habitent la France et je ne vois pas pourquoi il faudrait que j’en aie» (30).
Come si vede, la Pisanty, con una pia omissione, ha falsato completamente il senso del testo. Il passo omesso suona: «vorrei tanto che si cessi di massacrare senza ragione gli Ebrei, gli Slavi e i Giapponesi, e anche i Malgasci, gli Indocinesi o i Tedeschi dei Sudeti. Tutto qui».

Il bello è che la nostra dottoressa, la quale dedica pagine e pagine alla correttezza metodologica, scrive indignata:
«Le citazioni tratte dai discorsi degli avversari vengono spesso decontestualizzate, amputate selettivamente o accompagnate da espressioni come “sorprendentemente”, “inspiegabilmente”, “sic”, volte a screditare la figura dell’enunciatore» (p. 232, corsivo mio).
Così sappiamo anche che lo scopo della sua «amputazione selettiva» è quello di «screditare la figura dell’enunciatore»: Maurice Bardèche.

A pagina 185 la Pisanty presenta due citazioni di miei testi senza indicazione della pagina e a p. 234 una citazione di Faurisson precisando che si tratta di «un brano, tratto da Faurisson»!
Nella discussione su Höss, ella finge di conoscere il testo tedesco e di citarlo a beneficio del lettore secondo la traduzione italiana:
«Le nostre informazioni sulla storia personale di Höss ci giungono per lo più dalla sua autobiografia (Kommandant in Auschwitz, d’ora in poi KiA) redatta nella prigione di Cracovia tra il gennaio e il febbraio 1947 mentre Höss attendeva la sua esecuzione» (p. 132).
Per questo – e per la sua profonda ignoranza dell’aspetto tecnico della questione, citando il passo relativo al “processo di sterminio” ad Auschwitz, neppure si accorge degli svarioni della traduttrice italiana. Il testo tedesco dice:
«Die Tür wurde nun schnell zugeschraubt und das Gas sofort durch die bereitsstehenden Desinfektoren in die Einwurfluken durch die Decke der Gaskammer in einen Luftschacht bis zum Boden geworfen» (31), cioè:
«Allora la porta veniva rapidamente serrata a vite (32) e il gas veniva gettato immediatamente dai disinfettori negli abbaini di versamento attraverso il soffitto della camera a gas in un pozzo di ventilazione (33) fino al pavimento».
Nella traduzione italiana (34) citata da V. Pisanty il passo viene reso così:
«Quindi si chiudevano rapidamente le porte e il gas veniva immediatamente fatto uscire dagli appositi serbatoi e immesso, attraverso fori praticati nel soffitto, in un pozzo d’aerazione che li faceva arrivare fino al pavimento» (p. 140).
Dunque la sprovveduta traduttrice (35) scambia i Desinfektoren («disinfettori»), cioè il personale del Desinfektionskommando (squadra di disinfestazione) diretto dall’ SS–Oberscharführer Joseph Klehr, un servizio dei Sanitätsdienstgrade (personale sanitario ausiliario) addetto all’impiego dello Zyklon B a scopo di disinfestazione, con dei «serbatoi» e la Pisanty non se ne accorge neppure!

Chiudo questa rapida carrellata con la citazione fantasma di Rassinier che la Pisanty riporta a p. 62:
«“Questo Kurt Gerstein non ha decisamente il compasso nell’occhio, e per un ingegnere non è molto lusinghiero” (Rassinier, 1964: 63)».
Qui il riferimento sembra completo: ma a quale opera si riferisce? Nella bibliografia la Pisanty menziona solo due opere di Rassinier, ma nessuna delle due è del 1964:
«Rassinier, Paul.
1950 Le mensonge d’Ulysse. Éditions Bressanes (tr. It. 1966, La Menzogna di Ulisse, Milano, Le Rune)
1967 Les responsables de la seconde guerre mondiale. Paris, Nouvelles Éditions Latines» (p. 286).
L’unica opera di Rassinier apparsa nel 1964 è Le Drame des Juifs européens, che però la Pisanty non menziona. Come si spiega questo piccolo mistero? In modo molto semplice: la Pisanty ha copiato Brayard. All’inizio di p. 101 l’Autrice riporta infatti una citazione del suddetto libro del 1964 traendola da p. 336 del libro di Brayard più volte menzionato, ma sbagliando perfino il numero di pagina: «Rassinier, 1964: 225» (p. 268). In realtà Brayard cita da p. 62 de Le Drame des Juifs européens.

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6.
I documenti

Le osservazioni precedenti mettono già in chiaro che l’onestà intellettuale della dottoressa Pisanty non è poi così cristallina come vorrebbe far credere al lettore. Ma c’è di peggio. L’Autrice non fornisce i riferimenti esatti neppure dei documenti che cita. La cosa non stupisce, perché essa li trae quasi sempre dai testi revisionistici, e dover ammettere ciò, per una olo–ricercatrice universitaria, sarebbe troppo imbarazzante.

Ella dedica parecchie pagine all’analisi del diario del dottor Kremer (pp. 68–84) e presenta perfino il testo tedesco di alcuni brani di esso (pp. 266–267), ma senza mai indicare la fonte del documento. L’unico indizio si trova nella bibliografia: «Kremer, Johann Paul, 1971 Hefte von Auschwitz, Oswiecim, Staatliches Auschwitz–Muzeum» (p. 282). Ma la Pisanty conosce questo testo solo tramite le citazioni di Faurisson (36).

Il testo del rapporto Gerstein del 26 aprile 1945 che la Pisanty offre alle pp. 253–262 è tratto senza indicazione dalla tesi di laurea di Henri Roques (37).

La citazione del documento in olandese Tötungsanstalten in Polen è una mia traduzione che la Pisanty ha tratto senza riferimento da uno dei miei libri (38). Segnalerò successivamente altri casi di questa disinvolta metodologia dell’Autrice (39).

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CAPITOLO II

LE FONTI DI VALENTINA PISANTY: ANATOMIA DI UN PLAGIO

1.
Il plagio storico-critico e argomentativo

Nel libro della Pisanty l’appropriazione indebita (senza riferimento alla fonte) di fonti o documenti di altre opere non è un fenomeno sporadico, ma una vera e propria metodologia. Non è esagerato dire che il suo intero libro è, in massima parte, il risultato di un inverecondo saccheggio di testi altrui, revisionistici e non revisionistici, dalle chiavi interpretative alle argomentazioni, dalle obiezioni agli inquadramenti storici, fino alle osservazioni e alle spiegazioni più minute.
Passiamo dunque all’esame di questo aspetto poco edificante del libro della Pisanty.
Per dimostrare le presunte strategie ingannatrici dei revisionisti, l’Autrice seleziona quattro temi fondamentali: il diario di Anna Frank, il diario del dott. Kremer, il rapporto Gerstein e le “memorie” di Höss. Alla discussione di questi temi ella dedica quasi la metà del libro; il resto è costituito da una tediosa congerie di disquisizioni metodologiche e di sottigliezze semiotiche.
Vediamo anzitutto da quali testi sia tratta la struttura argomentativa storico-critica del libro.


a) I negazionisti americani e inglesi

L’intero paragrafo (pp. 12-14) è un collage di elementi tratti da Denying the Holocaust della Lipstadt senza alcun riferimento alla fonte. Elenco nell’ordine i saccheggi della Pisanty:
- F. P. Yockey dalle pp. 146-147, inclusa la citazione che comincia con le parole «l’Ebreo è spiritualmente logorato...», la quale è tratta da p. 147 («The Jew is spiritually worn out...»).
- H. R. Barnes dalle pp. 67-76, in particolare:
The Struggle against Historical Blackout da p. 69;
Blasting the Historical Blackout da p. 73;
Revisionism: A Key to Peace da p. 76;
The Myth of the Six Million da p. 105.
Segue un’informazione falsa tratta da Vidal-Naquet che la Pisanty cita a senso («...l’opera di Thies Christophersen, citata invariabilmente da tutti i negazionisti..»: p. 13) (40), indi riprende il saccheggio del libro della Lipstadt:
- D. Hoggan dalle pp. 71-73;
- W. Carto da p. 146, inclusa la citazione relativa agli Ebrei come «Nemico Pubblico n.1» («The Jews were “Public Enemy No.1”»: p. 147).
- Il plagio continua con le otto asserzioni di A. App che espongo nel paragrafo seguente;
- R. Harwood da p. 105 e seguenti.
Il paragrafo L’Institute for Historical Review (pp. 17-19) è tratto dall’omonimo capitolo della Lipstadt (pp. 137-156), ma la storia di M. Mermelstein, di cui mi occuperò subito, è presa da Vidal Naquet.
Il paragrafo La propaganda nelle università (pp. 19-20) è tratto dal capitolo 10 del libro della Lipstadt (pp. 183-208).
Il paragrafo I processi canadesi (pp. 20-21) è ripreso dal capitolo 9 del medesimo libro (pp. 157-182), dove, tra l’altro, la Pisanty si appropria (p. 20) anche della citazione iniziale di «The Hitler We Loved and Why» (Lipstadt, p. 157).


b) La storia di Mel Mermelstein

Al riguardo la Pisanty riferisce quanto segue:
«Nel 1981 l’Institute of Historical Review annuncia che pagherà una ricompensa di 50.000 dollari a chiunque possa dimostrare inequivocabilmente l’esistenza delle camere a gas. Naturalmente si tratta di una mossa pubblicitaria, basata sull’assunto che, se le uniche testimonianze irrefutabili sono quelle dirette, è improbabile che chi abbia avuto l’esperienza diretta della camera a gas possa essere vivo per raccontarla. La commissione è composta da Faurisson, Butz, Felderer, ecc. Mel Mermelstein, ex detenuto di Auschwitz la cui famiglia è stata massacrata dai nazisti, manda un plico di documenti che l’ IHR rifiuta come non validi. Mermelstein fa ricorso legale, e nel 1985 la Corte Suprema di Los Angeles ordina all’Istituto di pagare 90.000 dollari a Mermelstein” (pp. 262-264, corsivo mio).
La storia è tratta da Vidal-Naquet (41), con un altro prestito dalla Lipstadt per quanto riguarda la cifra (42).
L’onestà della Pisanty è pari a quella del suo Maestro. Vediamo come si sono svolti i fatti. Dopo il ricorso alla magistratura di Mermelstein, che aveva inviato all’Institut una semplice dichiarazione, il giudice T. Johnson della Corte Superiore della California prese judicial notice dello sterminio ebraico ad Auschwitz, cioè lo assunse come un dato di fatto dimostrato, ponendo Mermelstein nella condizione di aver ragione a priori in un eventuale processo. Per evitare ciò, l’Institut scelse la via del patteggiamento, e il 22 luglio 1985, di fronte al giudice della Corte Superiore R.L. Wenke, i due contendenti concordarono un risarcimento di 90.000 dollari (Mermelstein ne aveva chiesti 500.000). Nell’agosto 1986 Mermelstein tornò all’attacco pretendendo di essere stato diffamato dall’Institut. Nel 1991 egli riuscì ad ottenere una seconda judicial notice delle gasazioni omicide ad Auschwitz, ma perdette comunque il processo successivo e anche il suo ricorso alla Corte di Appello (28 ottobre) fu respinto (43).
La «Dichiarazione di Melvin Mermelstein» in virtù della quale il testimone pretendeva di “dimostrare” la realtà delle gasazioni omicde ad Auschwitz, si articola in 21 punti, di cui solo due forniscono la fatidica “prova”:
«10. Osservai il crematorio con i suoi quattro alti camini che vomitavano fumo e fiamme.
11. Il 22 maggio 1944 osservai gli edifici usati come camere a gas e vidi una colonna di donne e bambini che furono spinti nel tunnel che portava alle camere a gas, che, come accertai successivamente, era la camera a gas numero 5» (44).
Ma nessun crematorio di Birkenau aveva quattro camini: i crematori II e III ne avevano uno ciascuno, i crematori IV e V due ciascuno. Inoltre l’uscita di fiamme dai camini dei crematori era tecnicamente impossibile (45). La presunta «camera a gas numero 5» era il crematorio V, che però non aveva alcun «tunnel», essendo completamente al livello del suono.
Dunque un volgare falso testimone “risarcito” a peso d’oro!

c) Robert Faurisson critico “letterario”

A mo’ di introduzione generale ai temi storici da lei trattati, la Pisanty premette un’indagine su «Faurisson critico letterario». A questo tema, che riguarda esclusivamente la critica letteraria, l’Autrice dedica oltre dieci pagine (pp. 33-44). Non starò a tediare il lettore con le profonde disquisizioni della nostra dottoressa sull’ interpretazione di «Voyelles» da parte di Faurisson o sul suo «fondamentalismo» o «ermetismo». Mi limito soltanto a segnalare che qui la Pisanty si è appropriata in modo inverecondo dell’analisi e delle tesi di Brayard (46), che ella, tralasciando la bibliografia, cita una sola volta, così:
«Per una bibliografia dettagliata di Rassinier, v. Brayard, 1996»! (p. 263)

d) Il diario di Anna Frank

L’inquadramento storico presentato dalla Pisanty è tratto essenzialmente, come al solito senza riferimento alla fonte, dal libro di Deborah Lipstadt (47) (che, in questo contesto, l’ Autrice cita marginalmente ed esclusivamente riguardo a Ditlieb Felderer, cui del resto dedica dieci righe) e dal libro sul quale la Lipstadt basa le sue affermazioni (citandolo correttamente): «Attacks on the Authenticity of the Diary», Diary of Anne Frank di D. Barnouw. Il plagio è particolarmente evidente nel paragrafo «Gli attacchi all’autenticità dei diari di Anne Frank», che si apre con queste parole:
«Il primo a mettere in dubbio l’autenticità dei diari è il danese Harald Nielsen che, in un articolo pubblicato in Svezia nel 1957 (nel giornale Fria Ord), sostiene che il vero autore del testo sia Levin. Come prova a sostegno della sua tesi Nielsen afferma che Anne e Peter non sono tipici nomi ebraici» (p. 53).
La Lipstadt, attingendo da D. Barnouw, scrive:
«Il primo attacco documentato apparve in Svezia nel 1957. Un critico letterario danese sosteneva che il diario era stato in realtà redatto da Levin, cirando come “prova” il fatto che i nomi come Peter e Anne non erano nomi ebraici» (48).

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Il diario del dottor Kremer

Gli argomenti che la Pisanty oppone a Faurisson e a Jean-Gabriel Cohn-Bendit sono in massima parte un plagio di Pierre Vidal-Naquet, anche qui senza riferimento alla fonte, tranne che a p. 76, dove però ella non indica le pagine che cita. Adduco alcuni esempi di tali appropriazioni cominciando da una di cui è vittima Faurisson stesso:
A p. 69 l’Autrice scrive che «Kremer presenzia a un totale di quindici azioni speciali», precisando in nota quanto segue:
«Kremer partecipa a quindici azioni speciali: non undici come dice Vidal-Naquet, e nemmeno quattordici, come hanno erroneamente sostenuto Wellers e Cohn-Bendit» (p. 266).
Questa “scoperta” è tratta da un passo della Mémoire en defense di Faurisson, che del resto la Pisanty cita a p. 72:
«Il dottor Kremer dovette ugualmente partecipare a quindici riprese ad azioni speciali».
Passiamo ad altre scorrerie dell’Autrice negli argomenti di Vidal-Naquet.

Pisanty: «L’interpretazione ufficiale di questi testi consiste nell’attribuire all’espressione cifrata “azione speciale” il significato di gassazione di prigionieri sfiniti (che nel gergo del lager venivano chiamati “musulmani”) e dei nuovi arrivi, selezionati per le camere a gas» (pp. 69-70).

Vidal-Naquet: «L’interpretazione solita di questi testi sta nel dire che una “azione speciale” corrisponde precisamente alla selezione, selezione per quelli che arrivavano dall’esterno, selezione anche per i detenuti stremati» (49).

Pisanty: «Nel suo diario, Kremer talvolta racconta di avere assistito a una fucilazione; tuttavia, simili esperienze non sembrano intaccare minimamente la sua placidità, e infatti vengono menzionate distrattamente, alla stregua di episodi scarsamente rilevanti. Evidentemente sotto l’espressione in codice di azione speciale si nascondeva qualcosa di ben più ignominioso di una semplice fucilazione» (p. 70).

Vidal-Naquet: «Stessa calma il 13 e 17 ottobre, sebbene allora le esecuzioni siano state molto più numerose [...]. Il tono non cambia che in una sola serie di circostanze, per assumere allora (non sempre) un accento emotivo notevole. Si tratta di quel che il testo chiama azioni speciali, Sonderaktionen» (50).

Pisanty: «Nel contesto di Auschwitz [...] è abbastanza normale che il medico impiegasse l’espressione correntemente usata nel lager per designare le gassazioni» (p. 75).

Vidal-Naquet: «A Auschwitz, Kremer si esprime in un linguaggio semi-cifrato, quello che dominava nel campo in seno all’amministrazione SS» (51).

Pisanty: «Nel farlo, egli [Faurisson] incorre inoltre in alcuni errori o distorsioni palesi: ad esempio, affermando che lo stesso Kremer si sia ammalato di tifo, egli sorvola sul fatto che la “malattia di Auschwitz”, che Kremer dichiara di avere contratto il 3.9.1942 e il 14.9.1942, non è affatto il tifo (nelle sue due forme - esantematica e addominale - contro le quali Kremer viene vaccinato), bensì una banalissima dissenteria» (p. 76).

Vidal-Naquet: «Infine, argomento che ricordo per mostrare come Faurisson legge i testi, è falso che Kremer abbia avuto il tifo (52) e che quella che chiama la malattia di Auschwitz sia il tifo. Le indicazioni date nel Diario il 3 settembre, il 4 settembre e il 14 settembre mostrano con perfetta chiarezza che la malattia di Auschwitz è una diarrea con febbre moderata (38,7 il 14 settembre). Kremer è stato, di fatto, vaccinato contro due forme di tifo: esantematico e addominale» (53).

Pisanty: «Sebbene si proclami “sterminazionista”, Jean-Gabriel Cohn-Bendit nega l’esistenza delle camere a gas e dunque può essere agevolmente inserito nel novero degli autori negazionisti» (p. 83).

Vidal-Naquet: «Per esempio il candido Jean-Gabriel Cohn-Bendit che si proclama, contrariamente ai suoi amici, “sterminazionista”, ma non crede all’esistenza delle camere a gas» (54).
Pisanty: «Ciò significherebbe che non sono le persone (musulmani o 1600 persone) a essere messe in relazione diretta, bensì sono i luoghi di provenienza, segnalati dalla presenza di “aus”, a entrare in rapporto con le Sonderaktionen» (p. 82).

Vidal-Naquet: «Per J.-C. Cohn-Bendit, la parola essenziale è aus, “da” ...» (55).

Pisanty: «In particolare, rimangono irrimediabilmente aperti alcuni quesiti: perché un convoglio dovrebbe essere definito azione o operazione? Perché un dottore dovrebbe assistere a un convoglio? Perché l’azione speciale dovrebbe riguardare anche donne provenienti dal campo stesso? Cohn-Bendit sostiene che tali donne vengano indirizzate verso altri campi. Ma allora, perché trasferire delle “musulmane”, visto che stanno per morire di inedia?» (p. 83).

Vidal-Naquet: «Ma allora, perché bisogna essere presenti (zugegen) a un convoglio? Perché un convoglio è un’azione? E perché un’ “azione speciale” si eserciterebbe anche su donne provenienti dal campo stesso? Cohn-Bendit supera quest’ultima difficoltà immaginando che le donne vengano trasferite a un altro campo. Ma per quale ragione trasferire a un altro lager donne giunte alla cachessia - questo il senso della parola “musulmani” usata da Kremer - quando la logica dell’uccisione finale è, essa, coerente?» (56).

f) Il rapporto Gerstein

In questo capitolo la Pisanty plagia sfrontatamente non solo le mie indicazioni storiografiche relative alla storia processuale dei documenti, ma addirittura le critiche da me rivolte agli altri autori revisionisti nell’omonimo libro (57), appropriandosi di esse senza il minimo riferimento alla fonte e spacciandole per proprie.
Nel paragrafo 2.5.2., «Il documento Gerstein dopo la morte dell’autore», ella riprende ciò che ho scritto nei paragrafi «Il documento PS-1553 al processo di Norimberga» (58) e «Il documento PS-1553 nei processi successivi» (59). In particolare, l’Autrice scrive:
«La versione T II [il PS-1553] del rapporto Gerstein venne scoperta negli archivi della delegazione americana durante il primo grande processo di Norimberga e presentata alla corte il 30.1.1946 dal procuratore generale aggiunto della Repubblica francese, Charles Dubost. Quella mattina, il documento venne rifiutato dal presidente del tribunale in quanto mancava un certificato che ne stabilisse l’origine: dunque, si trattava di un vizio di forma. Difatti, il pomeriggio stesso il procuratore generale britannico produsse l’affidavit per l’identificazione dell’originale e il documento fu accettato come autentico, con le scuse del presidente.
Inutile dire che alcuni negazionisti hanno invocato questo piccolo incidente giuridico quale prova definitiva della presunta inautenticità del documento in questione» (p. 98).
Ciò è giustissimo, ma la Pisanty dimentica di aggiungere di aver tratto l’intera questione dal mio libro summenzionato, dove ho narrato la storia di questo piccolo equivoco legale:
«Il 30 gennaio 1946, il procuratore generale aggiunto della Repubblica francese, Charles Dubost, presentò al Tribunale di Norimberga il documento PS-1553 come RF-350. Esso era stato trovato da un collaboratore di Dubost tra i documenti sequestrati dagli Americani. In tale occasione, il documento PS-1553 RF-350 fu al centro di una controversia di carattere puramente formale tra il Presidente del Tribunale e Dubost. Questa controversia, che verteva sull’ammissibilità del documento, ha fatto nascere la tesi, largamente diffusa nella letteratura revisionista, che esso sia stato respinto dal Tribunale come falso o apocrifo ... [segue la citazione del verbale dell’udienza del mattino].
Nell’udienza pomeridiana, Sir David Maxwell-Fyfe, procuratore generale aggiunto britannico, fornisce la dichiarazione giurata richiesta dal Presidente chiudendo la controversia...[
segue la relativa citazione del verbale dell’udienza].
Il documento PS-1553 RF-350 è stato dunque ammesso dal Tribunale, che ne ha preso atto» (60).

Ben più grave è il plagio delle mie critiche dirette a vari autori revisionisti che si erano occupati del rapporto Gerstein prima di me, come risulta dal seguente confronto di testi.

g) Rassinier
«Il primo negazionista a occuparsi del rapporto Gerstein è Paul Rassinier [...].
Rassinier indugia sul mistero che circonda le circostanze della stesura del rapporto e della morte di Gerstein ma, nel farlo, avvolge di segretezza alcuni elementi che in realtà sono perfettamente limpidi. [...].
La seconda argomentazione impiegata da Rassinier riguarda prevedibilmente il rifiuto del Tribunale di Norimberga di includere il rapporto Gerstein tra le testimonianze formalmente valide, la mattina del 30.1.1946. Come abbiamo visto, l’incidente fu risolto poche ore dopo senza molto clamore. Ciò nonostante, secondo Rassinier, “il documento Gerstein era un falso storico così falso che lo stesso Tribunale di Norimberga l’aveva escluso come non probante, il 30 gennaio 1946”» (pp. 99-100).
(Seguono altre argomentazioni tratte - parimenti senza riferimento alla fonte - dal libro di Brayard) (61).
Nel mio libro sul rapporto Gerstein ho riconosciuto il valore di alcune delle critiche mosse a Rassinier da Georges Wellers e ne ho aggiunte altre mie, tra l’altro, al riguardo ho rilevato:
«In secondo luogo, obietta Wellers, Rassinier si è limitato a fare varie supposizioni sul mistero della fine di Kurt Gerstein invece di ricercare quei documenti che lo hanno almeno in parte chiarito, come ha fatto Poliakov rivolgendosi alla Giustizia Militare francese.
Wellers ha ancora ragione a rimproverare a Rassinier di aver scritto che “il documento Gerstein era un falso storico, talmente falso che il Tribunale di Norimberga stesso l’aveva respinto come non probante, il 30 gennaio 1946”» (62).
La Pisanty ha ripreso persino la mia osservazione finale adattandola opportunamente alla sua tesi. Io ho scritto:
«La letteratura revisionista successiva non ha fatto registrare progressi sostanziali nella critica del rapporto Gerstein, limitandosi a riprendere in varia misura le critiche di Rassinier».
La nostra dottoressa ha chiosato:
«Nonostante la fragilità di questa ipotesi, la lettura di Rassinier rimane per anni il riferimento principale di tutti i negazionisti che intendano smantellare la credibilità del rapporto Gerstein» (p. 102).
h) Butz
«Arthur Butz (1976) riporta la versione T II del rapporto in appendice al suo libro e commenta: “Risulta difficile credere che chicchessia intendesse che questo “rapporto” venisse preso sul serio. Alcuni punti specifici vengono esaminati qui ma, nel complesso, lascio che sia in lettore a meravigliarsene”. Le obiezioni avanzate [...] sono le seguenti [...];
• il grado esatto del professor Pfannenstiel, che in un punto del rapporto è identificato come Obersturmbannführer, mentre altrove è definito Sturmführer, dimostrerebbe che l’autore del testo non può essere un membro delle SS. In realtà Pfannenstiel non viene mai chiamato Sturmführer nel testo di Gerstein, ma semmai Sturmbannführer, e comunque non si vede come un errore commesso da Gerstein a proposito dell’esatto grado di una persona che ha conosciuto superficialmente per pochi giorni, tre anni prima di redigere il suo rapporto, possa influire sulla credibilità complessiva del rapporto stesso;
• l’affermazione secondo la quale i detenuti dovevano marciare nudi in inverno sarebbe in evidente contrasto con il fatto che la visita di Gerstein a Belzec abbia avuto luogo in agosto. Qui Butz è fuorviato da un errore di omissione nella traduzione inglese di T II (naturalmente egli si guarda bene dal controllare il testo originale): “On me dit; aussi en hiver nus!” (“Mi si dice; nudi anche in inverno”) è reso in inglese come “Somebody says me: Naked in winter!” (pp. 102-103, corsivo mio).
Riguardo a Butz io ho rilevato:
«Arthur Butz pubblica la traduzione integrale del rapporto del 26 aprile (PS-1553) effettuata dalla delegazione americana a Norimberga. Egli riprende alcune critiche di Rassinier e rileva inoltre la contraddizione interna che “consiste nel riferire avvenimenti che ebbero luogo in agosto come se avessero avuto luogo d’inverno”. Tuttavia nel PS-1553 si legge: “On me dit: (63) aussi en hiver nus!” (“Mi si dice: anche d’inverno nudi!”) (64). La contraddizione segnalata da Butz deriva da un errore di traduzione della delegazione americana: “Somebody says me: ‘Naked in winter!’” (“Qualcuno mi dice: ‘Nudi d’inverno’!”). Lo stesso errore si trova nell’estratto del rapporto pubblicato nei “Trials of War Criminals”.
L’attribuzione del grado di SS-Sturmführer al prof. Pfannenstiel è invece un errore di Butz: sia il testo francese sia la traduzione americana del PS-1553 presentano in questo passo il grado di SS-Sturmbannführer, che è comunque in contraddizione, come abbiamo rilevato, con la successiva attribuzione del grado di “obersturmbannfuehrer” [sic]» (65).
Al plagio del mio testo la Pisanty aggiunge una falsificazione delle conclusioni di Butz, il quale non ha dedotto dal presunto errore di grado summenzionato «che l’autore del testo non può essere un membro delle SS», ma che Gerstein non avrebbe potuto commettere un simile errore se avesse redatto spontaneamente il suo rapporto:
«È poco probabile che Gerstein avrebbe fatto un tale errore se avesse redatto questa “dichiarazione” volontariamente» (66).
Il fatto che questa conclusione sia a sua volta falsa nulla toglie alla falsificazione della Pisanty.

i) Stäglich
«Le obiezioni di Wilhelm Stäglich (1979) - negazionista tedesco con un passato di collaborazione con il nazismo - sono dello stesso tenore scientifico. La sua grande innovazione rispetto ai negazionisti precedenti consiste nell’osservare che, nel rapporto Gerstein, il lager di Auschwitz-Birkenau è assente dall’elenco dei campi di sterminio esistenti nel 1942 [...]» (p. 103).
Anche questa osservazione è tratta dal mio libro:
«Wilhelm Stäglich fa un breve riferimento al rapporto Gerstein seguendo Rassinier e Butz. Data la natura del suo libro, egli si interessa in particolare al campo di Auschwitz, che non compare nel testo del documento pubblicato da Poliakov nel 1951 solo perché si tratta di una versione parziale» (67).
k) The Myth of the Six Million
«Altri esempi lampanti di mislettura del rapporto Gerstein ci giungono da The Myth of the Six Million (1969), in cui l’autore sostiene che Gerstein affermò che erano stati gassati non meno di 40 milioni di prigionieri nei lager nazisti. L’errore in questo caso è duplice: prima di tutto, Gerstein non parla di detenuti gassati ma del numero complessivo delle vittime del sistema concentrazionario; inoltre, la cifra che egli fornisce è di 20 (o 25, a seconda delle versioni) milioni» (p. 106).
Qui, stranamente, la Pisanty si accontenta di una sola delle critiche che ho mosso allo scritto in questione:
«L’anonimo autore del libro The Myth of the Six Million scrive che “Gerstein affermò di sapere che erano stati gasati non meno di quaranta milioni di prigionieri nei campi di concentramento”. Tuttavia questa dichiarazione, priva peraltro di riferimento alla fonte, non compare in nessuno dei documenti in nostro possesso ed è quasi certamente falsa» (68).
È inoltre falso che «Gerstein non parla di detenuti gassati ma del numero complessivo delle vittime del sistema concentrazionario» (69) .

l) Harwood
«Nel suo pamphlet del 1974, l’inglese Richard Harwood riprende gli errori di Hoggan (70) (40 milioni) e di Butz (inverno/agosto), e ve ne aggiunge uno di propria fattura. L’obiettivo di Harwood è di delegittimare il testimone Gerstein facendolo passare per psicolabile: “La sorella di Gerstein era congenitamente malata di mente e morì di eutanasia: questo potrebbe ben suggerire che anche in Gerstein scorresse una vena di instabilità mentale” (Harwood, 1974:7). Qui Harwood confonde i gradi di parentela: Bertha Ebeling non era la sorella, bensì la cognata di Gerstein, e difficilmente si può sostenere che vi sia un legame genetico-ereditario tra parenti acquisiti» (p. 106).
Anche qui la Pisanty ripete quasi alla lettera la mia critica del 1985:
«Richard Harwood riprende tutte queste obiezioni e critiche infondate e vi aggiunge la falsa contraddizione segnalata da A. Butz e l’osservazione relativa all’ammissione di Gerstein “che nella sua famiglia corre una vena di pazzia”. È certamente vero che Gerstein, parlando dell’uccisione dei malati di mente a Grafenek, Hadamar, ecc. asserisce di aver avuto un caso simile nella sua famiglia (PS-1553, p. 4), ma nel T-1310 (VfZ, p. 187) egli chiarisce che si tratta di una cognata, che Harwood trasforma incomprensibilmente in sorella» (71).
La Pisanty mi plagia persino in nota:
«Alcuni negazionisti statunitensi (Hoggan) e inglesi (Harwood) hanno erroneamente sostenuto che lo studio di Rothfels sia giunto alla conclusione che il rapporto non è autentico» (p. 268, nota 61).
L’informazione è tratta da un mio passo relativo all’autore di The Myth of the Six Million (Hoggan):
«L’autore continua: “È interessante notare che Hans Rothfels in Augenzeugenbericht zu den Massenvergasungen (Rapporto di un testimone oculare sulle gasazioni in massa), in Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte, aprile 1953, si preoccupò di dichiarare che il vescovo evangelico di Berlino Wilhelm Dibelius denunciò i memorandum di Gerstein come inattendibili (untrustworthy)”. In realtà Rothfels dice esattamente il contrario: Dibelius ha confermato di essere convinto dell’ “attendibilità” (Zuverlässigkeit) politica e umana di Gerstein. [...]. Harwood riprende tutte queste obiezioni e critiche infondate...» (72) .
La Pisanty giunge fino ad usare contro di me una informazione plagiata da un mio testo!
«“L’autenticità formale dei rapporti attribuiti a Kurt Gerstein non è mai stata irrefutabilmente dimostrata sulla base di una perizia calligrafica, tuttavia, alla luce della documentazione esistente, non c’è a nostro avviso motivo di dubitarne” (Mattogno, 1985:33). Mattogno sorvola sul fatto che la moglie di Gerstein ha riconosciuto nelle note manoscritte e nella firma la calligrafia di suo marito» (p. 269, corsivo mio).
Qui la nostra dottoressa aggiunge al plagio la malafede, perché non solo non ho “sorvolato” su tale fatto, ma ella l’ha appreso proprio da me!
«La vedova di Kurt Gerstein ha inoltre riconosciuto in una dichiarazione giurata la calligrafia del marito nei documenti PS-1553 e T-1310» (73).
Questo è proprio uno degli elementi per i quali non dubitavo dell’autenticità dei documenti in questione!
Concludo segnalando un plagio di argomento diverso. Discutendo gli elementi testuali di una mia critica a Filip Müller, la Pisanty scrive che uno di questi è «il discorso del “dajan”» (p. 184). In nota l’Autrice spiega: “Dajjân in ebraico significa giudice...”. Ciò suscita l’impressione che io abbia citato una parola ebraica - per di più traslitterata male - senza conoscerne il significato. In realtà la Pisanty si è semplicemente appropriata della mia spiegazione:
«La parola ebraica “dajjân” significa “giudice” (specialmente di tribunale rabbinico) (M.E. Artom, Vocabolario ebraico-italiano, Roma 1965, voce indicata)» (74).
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2.
Il plagio metodologico e interpretativo

La metodologia che la Pisanty attribuisce ai revisionisti è tratta essenzialmente da Vidal-Naquet e dalla Lipstadt. Ciò che l’Autrice vi ha aggiunto di suo, sono soltanto delle osservazioni semiotiche decisamente insulse o cavillose (vedi in particolare le pp. 214-239). La sua acuta disquisizione giunge fino ad analizzare minuzie come il tendenzioso uso revisionistico delle virgolette (p. 236), che qualche pagina dopo adotta ella stessa parlando dei «negazionisti “ricercatori” » (p. 239). Dei sofismi metodologici della Pisanty mi occuperò nel capitolo VI. Ora voglio solo mostrare che anche riguardo alla critica delle metodologie e delle finalità dei revisionisti la Pisanty ha saccheggiato a piene mani i suoi maestri. Ecco un piccolo florilegio delle prede.
Cominciamo dai presunti otto “assiomi” della metodologia revisionistica. Questi
«otto assiomi (formulati nel 1973) che tuttora fungono da princìpi-guida di quell’ Institute for Historical Review che oggi coordina le attività di tutti i principali negazionisti» (p. 13),
di cui sarebbe autore Austin J. App e che la Pisanty riporta a p. 14 sono tratti di sana pianta dal “classico” della Lipstadt (75), la quale riassume il paragrafo di A.J. App intitolato «Eight Incontrovertible Assertions On The Six Million Swindle» (76) presentando correttamente le sue asserzioni come «assertions» (77); meno scrupolosa della maestra, l’allieva le trasforma invece in «assiomi». Gli otto argomenti rispecchiano le conoscenze storiche di allora e vincolano soltanto il loro autore.
Da Vidal-Naquet invece la Pisanty copia i sei “princìpi” dei revisionisti, ma apportando un suo personale contributo: pone le lettere al posto dei numeri ed elimina il punto 5. Trattandosi di un saccheggio molto esteso, riporto solo le righe iniziali.

Pisanty: «(a) Non vi è stato alcun genocidio programmato e le camere a gas non sono mai esistite ...» (p. 24).

Vidal-Naquet: «1. Non c’è stato genocidio, e lo strumento che lo simboleggia, la camera a gas, non è mai esistito» (78) .

Pisanty: «(b) La “soluzione finale” di cui parlano molti documenti nazisti non era che l’espulsione degli ebrei verso l’est...» (p. 24).

Vidal-Naquet: «2. La “soluzione finale” non è mai stato altro che l’espulsione degli ebrei verso l’est europeo...» (79).

Pisanty: «(c) Il numero di ebrei uccisi dai nazisti è di gran lunga inferiore a quello dichiarato» (p. 24).

Vidal-Naquet: «3. La cifra delle vittime ebraiche del nazismo è molto inferiore a quella che si è detta» (80) .

Pisanty: «La Germania hitleriana non è la maggiore responsabile per lo scoppio del conflitto» (p. 25).

Vidal-Naquet: «4. La Germania hitleriana non ha la maggiore responsabilità della seconda guerra mondiale...» (81).

Pisanty: «Il genocidio è un’invenzione della propaganda alleata, principalmente ebraica e particolarmente sionista» (p. 25).

Vidal-Naquet: «6. Il genocidio è un’invenzione della propaganda alleata, specialmente ebraica, e in particolare sionista...» (82).

Con sottile finezza semiotica, nel punto (d) la Pisanty interpola un altro passo che Vidal-Naquet, meno fine di lei, ha collocato altrove:

Pisanty: «In genere, i negazionisti si riferiscono a una presunta dichiarazione di guerra rivolta alla Germania nel 1939 dal portavoce dell’organizzazione sionista, Chaim Weizmann, a nome della popolazione ebraica mondiale» (p. 25).

Vidal-Naquet: «Inventare di sana pianta una immaginaria dichiarazione di guerra da parte di un immaginario presidente del Congresso mondiale ebraico...» (83).

Oltre ai «princìpi» generali, la Pisanty plagia anche “metodi” singoli. Qualche esempio.
- Sull’ estorsione delle testimonianze SS:

Pisanty, parlando delle testimonianze rese dalle SS (Broad, Höss) nel dopoguerra: «Naturalmente i negazionisti ritengono che queste ultime testimonianze siano state estorte durante la prigionia dei loro autori...» (p. 68).

Vidal-Naquet: «Ogni testimonianza nazista posteriore alla fine della guerra [...] è considerata come ottenuta sotto tortura o intimidazione» (84).

- Sull’ assunzione aprioristica dell’inattendibilità delle testimonianze:

Pisanty, in riferimento alla «lettura che i negazionisti forniscono delle testimonianze dei sopravvissuti ai lager nazisti» rileva che «per loro tali testimonianze sono da scartare a priori...» (p. 129); in fondo alla pagina ella parla inoltre di «una testimonianza aprioristicamente bollata come inattendibile».

Vidal-Naquet attribuisce ai revisionisti il metodo di «respingere, per principio, tutte le testimonianze dirette per ammettere come decisive le testimonianze di coloro che, a quanto essi dicono, non hanno visto niente...» (85).

La Pisanty copia anche la seconda parte della frase di Vidal-Naquet, adattandola ad un contesto diverso come segue:
«A meno che questi [le testimonianze in quanto documenti storici: p. 92] non vadano incontro alla loro tesi, nel qual caso i criteri applicati per determinarne la validità si fanno molto meno severi» (p. 268, nota 58).

- contraffazione dei documenti:
Pisanty: «Infatti, Faurisson ritiene che tutto il materiale documentario risalente al dopoguerra sia il frutto di un’abile contraffazione storica» (p. 73).

Vidal-Naquet, con riferimento a Faurisson: «Ogni documento, in generale, che ci dà informazioni di prima mano sui metodi dei nazisti è un falso o è un documento truccato» (86).

Anche le finalità che la Pisanty attribuisce ai revisionisti sono copiate dai due maestri, in particolare, l’insinuazione che il revisionismo miri esclusivamente a riabilitare il regime nazista (p. 1, 241 e 247) rappresenta la tesi di fondo della Lipstadt.
Non c’è bisogno di dire che questi «princìpi» sono stati inventati da Vidal-Naquet e non trovano la minima applicazione nella storiografia revisionistica.

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CAPITOLO III

GLI ARGOMENTI E LE STRATEGIE ERMENEUTICHE DI VALENTINA PISANTY


1.
La «premessa indiscussa»

Una delle accuse più ricorrenti che la Pisanty muove ai revisionisti è quella di un presunto fondamentalismo che li indurrebbe a «scartare a priori» le testimonianze, a bollare «aprioristicamente» ogni testimonianza «come inattendibile» (p. 129). In pratica i revisionsti partirebbero dalla convinzione aprioristica dell’inesistenza delle camere a gas per dedurre poi sillogisticamente l’inattendibilità delle testimonianze ad esse relative.
In realtà questo principio dogmatico - mutatis mutandis - sta alla base proprio della forma mentis e del libro della Pisanty, che non esita a proclamarlo apertamente:
«Per questo motivo, l’esistenza del genocidio è la premessa indiscussa di ogni serio studio storico su questo argomento, e non la tesi da dimostrare. Si potrà discutere sul come, sul perché, sul dove, sul quando e perfino sul chi, ma non sul fatto in sé, poiché è proprio su questo fatto che tutte le testimonianze si dimostrano concordi» (p. 191).
Da questa «premessa indiscussa» scaturiscono due princìpi ermeneutici aberranti che infirmano radicalmente gli argomenti dell’Autrice: il primato della testimonianza sul documento (in senso stretto) e l’accettazione aprioristica dell’attendibilità della testimonianza. Il primo principio comporta gravi implicazioni metodologiche che vedremo nel capitolo VI. Il secondo porta inevitabilmente alla negazione del più elementare senso critico, alla fede cieca nella veridicità delle testimonianze (87) e, alla fine, al loro travisamento sistematico. Partendo dal presupposto dogmatico che tutte le testimonianze siano veridiche, la Pisanty si lambicca il cervello nel tentativo di spiegare razionalmente le assurdità e le contraddizioni di cui esse sono cosparse, minimizzandole (88), arrampicandosi sugli specchi per escogitare una spiegazione plausibile, appellandosi all’ ignoranza generale delle circostanze (che è in realtà soltanto sua), tacendole semplicemente, quando sono troppo assurde e troppo contraddittorie. Sulla base di questo principio l’Autrice si accinge a confutare le argomentazioni revisionistiche.

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2.
Il diario di Anna Frank

La Pisanty introduce la sua “confutazione” con la seguente osservazione:
«Forse perché per molti lettori il diario di Anne Frank rappresenta il primo contatto con la storia del genocidio, i negazionisti si sono sempre sforzati di dimostrarne l’inautenticità. Da un punto di vista puramente storico, nessuno ha mai pensato di considerare questo diario come un documento che provasse l’esistenza dei campi di sterminio o delle camere a gas, e ciò per il semplice motivo che, come è noto, Anne Frank redasse i suoi diari durante gli anni della sua reclusione nell’ alloggio segreto, in Prinsengracht 263, ad Amsterdam. Sorprende dunque la veemenza con la quale i negazionisti si sono accaniti contro questo resoconto della vita quotidiana e dei pensieri di una adolescente che dovette conoscere la realtà dei lager nazisti solamente dopo aver cessato di scrivere il suo diario» (p. 44, corsivo mio).
Condivido pienamente lo stupore dell’Autrice. Al riguardo, non posso che confermare ciò che ho già scritto altrove, cioè che
«non ho mai compreso la tenacia con cui certi revisionisti si sono occupati di questo scritto che non ha alcuna relazione con la questione delle camere a gas e che, sia esso autentico o no, nulla aggiunge e nulla toglie a tale questione» (89).
Ma il mio accordo con la Pisanty finisce qui, perché ella passa immediatamente ad una abusiva generalizzazione che vorrebbe, non alcuni, bensì i (tutti!) revisionisti sempre intenti a tramare contro l’autenticità di questo scritto. In realtà il problema dell’ autenticità del diario di Anna Frank è un falso problema di cui nessun ricercatore revisionista si occupa più da una quindicina d’anni. La generalizzazione della Pisanty ha una precisa funzione tattica che appare chiara qualche pagina dopo:
«La contestazione dell’autenticità del diario di Anne Frank gioca un ruolo di un certo rilievo nell’ambito delle strategie impiegate dai negazionisti per suscitare incertezze circa l’esistenza della Shoah. L’obiettivo è di insinuare dubbi attorno a quello che, per vari motivi, col passare del tempo è diventato un documento paradigmatico nella storia della persecuzione ebraica e, facendo ciò, di sperare che il lettore - disilluso e stizzito per essere stato ingannato per tutti questi anni - estenda il proprio scetticismo a ogni altro aspetto della storia ufficiale dello sterminio nazista. La logica è quella del “Falsus in Uno, Falsus in Omnibus” (titolo di un articolo diffuso nelle università americane dal negazionista californiano Bradley Smith (90)): se il paradigma ufficiale cede anche in un solo punto della sua formulazione, allora bisogna considerarlo complessivamente mendace» (p. 67).
Il valore di questa affermazione risulta chiaro proprio dal fatto che tale questione è caduta nel dimenticatoio revisionistico da parecchi anni.
Tuttavia la Pisanty si occupa del diario di Anna Frank non solo per inventare un falso obiettivo che si possa colpire facilmente, vale a dire una finta strategia revisionistica - e questo è il motivo fondamentale -, ma anche per poter sfoggiare le sue sottigliezze semantiche sul «Lettore modello nei diari» (pp. 45-48) o sulla «topologia diaristica» (p. 265). Si tratta pur sempre di una tesi di «dottorato»!

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3.
Il diario del dottor Kremer

Come ho già rilevato nel capitolo precedente, nella trattazione del diario del dott. Kremer, la Pisanty saccheggia gli argomenti di Vidal-Naquet. Non voglio ripetere ciò che ho risposto al maestro in un libro che la Pisanty ha preferito fingere che non esista (91). Qui mi limiterò a segnalare un paio di strafalcioni supplementari della nostra dottoressa e ad aggiungere un sintetico inquadramento storico.
L’Autrice dedica un intero paragrafo alla Sprachregelung (§ 2.4.3), che sarebbe «il codice cifrato impiegato dalla burocrazia nazista» (p. 71). La citazione del termine tedesco è truffaldina, perché lascia intendere che si tratti di un termine nazista; in realtà esso è stato creato dalla storiografia olocaustica tedesca (92). Che i nazisti usassero un linguaggio burocratico è cosa ovvia, ma che questo linguaggio fosse «cifrato» è tutto da dimostrare.
Disquisendo se le Sonderaktionen significassero soltanto le gasazioni omicide o anche le selezioni per le camere a gas (fermo restando il significato criminale), la Pisanty si appella a Pressac (93), il quale ammette però che il termine «non è tuttavia specificamente criminale potendosi applicare ad un’operazione che non lo era» (p. 72).
Nell’interpretazione del diario del dott. Kremer, la Pisanty adotta la medesima metodologia di Vidal-Naquet: entrambi presuppongono a priori la prassi, ad Auschwitz, di una politica di sterminio ebraico, entrambi pressuppongono a priori l’esistenza dei cosiddetti Bunker di gasazione, entrambi forniscono una spiegazione puramente linguistica - il maestro filologica (94), l’allieva semiotica, ma entrambe le spiegazioni non hanno alcuna connessione con la realtà storica di Auschwitz quale risulta dai documenti.
Poiché le Sonderaktionen menzionate nel diario significherebbero direttamente o indirettamente la gasazione delle vittime nei cosiddetti “Bunker”, questi rappresentano il presupposto immediato della validità dell’interpretazione omicida. Al riguardo ho già scritto che
«non esiste nessun documento tedesco sui Bunker 1 e 2, sebbene negli archivi di Mosca vi siano decine di migliaia di documenti su ogni costruzione del campo, dai crematori alle stalle» (95).
Qui voglio approfondire questo punto.
La Pisanty, riferendosi, senza menzionarlo, a Pressac, scrive:
«Il comandante polacco parla dei Bunker I e II che, come risulta dai documenti del campo, furono messi in funzione tra il maggio e il giugno 1942...» (p. 181, corsivo mio).
In realtà nessun documento tedesco menziona direttamente o indirettamente i “Bunker” (come dichiara Pressac), tantomeno la loro entrata in funzione (come chiosa la Pisanty). L’Autrice, confrontando «la tecnica interpretativa adottata da Mattogno con quella di un negazionista mancato come Pressac» (p. 167) oppone «la sostanziale onestà scientifica di Pressac» (p. 167) alla - secondo la logica del discorso - sostanziale disonestà pseudoscientifica mia. Ho già dimostrato altrove quale sia la metodologia scientifica di Pressac (96). Ora vedremo questa «sostanziale onestà scientifica» in azione riguardo alla questione dei Bunker. A questo fine, bisogna anzitutto portare l’attenzione sul documento in cui, secondo Pressac, apparirebbe un (l’unico!) riferimento ai Bunker. Pressac scrive:
«Himmler aveva scaricato vigliaccamente un abominevole compito criminale su Höss che, per quanto carceriere indurito fosse, non apprezzava per nulla il dubbio onore del quale veniva gratificato. Per finanziare questo “programma” e l’estensione del campo, furono accordati dei fondi considerevoli. Giusto prima della visita del capo delle SS, Bischoff aveva steso un rapporto esplicativo, pronto il 15 luglio, sui lavori da svolgere nello Stammlager, e il cui costo previsto ammontava a 2.000.000 di RM. Il passaggio di Himmler mandò tutto all’aria. Bischoff rielaborò per intero il suo rapporto in funzione dei desideri del Reichsführer, che vedeva in grande, molto in grande, e lo monetizzò in 20.000.000 di RM, e cioè dieci volte di più, un importo accettato il 17 settembre dall’SS-WVHA (97)» (98).
Il rapporto esplicativo preparato da Bischoff si riferisce ai lavori eseguiti nel primo e secondo anno finanziario di guerra, come viene spiegato chiaramente alla fine del documento:
«L’ampliamento del campo di concentramento descritto in precedenza è stato eseguito nel primo e secondo anno finanziario di guerra» [«Der vorstehend beschriebene Ausbau des Konzentrationslagers wurde im 1. und 2. Kriegswirtschaftsjahr durchgeführt»] (99).
Secondo le disposizioni dell’Amt II dello Hauptamt Haushalt und Bauten (Ufficio Centrale Bilancio e Costruzioni), il secondo anno finanziario di guerra terminava il 30 settembre 1941 (100). Ciò è tanto vero che, ad esempio, per il crematorio viene indicata l’installazione di due soli forni (101), sebbene il terzo fosse stato montato tre mesi e mezzo prima della redazione del rapporto.
Il secondo rapporto di Bischoff, quello pretesamente «corretto» su indicazioni di Himmler, è invece semplicemente il rapporto esplicativo esteso anche al terzo anno finanziario di guerra, come si legge anche qui alla fine del documento:
«Già nel secondo anno finanziario di guerra è stato eseguito un gran numero di lavori, gli altri vengono iniziati nel terzo anno finanziario di guerra e portati avanti con il massimo impiego possibile dell’intera Bauleitung e dei mezzi che sono a sua disposizione» [«Bereits im 2. Kriegswirtschaftsjahr wurden eine Anzahl von Bauten durchgeführt, die anderen werden im 3. Kriegswirtschaftjahr begonnen und unter grösstmöglichstem Einsatz der gesamten Bauleitung und der ihr zur Verfügung stehenden Mittel vorangetrieben»] (102).
Appunto perché qui è compreso il programma di costruzioni del terzo anno finanziario di guerra, per il crematorio dello Stammlager, tornando all’esempio di prima, è menzionata l’installazione del terzo forno (103).
Il fatto che Pressac non si sia accorto di questa differenza elementare ha veramente dell’incredibile. Quanto infine il nuovo rapporto esplicativo risenta della visita ad Auschwitz di Himmler del 17 e 18 luglio, si può giudicare dal fatto che il programma era già stato approvato nelle sue linee essenziali dall’Hauptamt Haushalt und Bauten fin dal giugno 1941, perché nella lettera già citata del 18 giugno 1941 ne sono elencate venti voci.
Le conclusioni che Pressac trae da questo documento sono ancora più incredibili. Egli scrive:
«Col favore di questa insperata manna, e dato che Himmler aveva trovato che lo spogliarsi degli ebrei all’aperto creava disordine, Bischoff chiese nel suo secondo rapporto il montaggio, nei pressi dei due Bunker, di quattro baracche-scuderie in legno quali spogliatoio per gli inabili. Ogni baracca costava 15.000 RM. La richiesta venne formulata così: “4 Stück Baracken für Sonderbehandlung der Häftlinge in Birkenau/ 4 baracche per [il] trattamento speciale dei detenuti a Birkenau”. Era la prima volta in assoluto che appariva il termine “trattamento speciale”, e questo alla fine del luglio 1942. Ma la categoria di persone che riguardava e la sua finalità erano conosciute con precisione soltanto dalle SS di Berlino e di Auschwitz» (104).
È bene precisare subito che le frasi della citazione che ho sottolineato non hanno nulla a che vedere con il documento, ma sono arbitrari commenti di Pressac. Il testo integrale del passo in questione è il seguente:
«BW 58 5 Baracken für Sonderbehandlung u. Unterbringung von Häftlingen, Pferdestallbaracken Typ 260/9 (O.K.H.)
4 Stück Baracken für Sonderbehandlung der Häftlinge in Birkenau
1 Stk. Baracken zur Unterbringung v. Häftl. in Bor
Kosten für 1 Baracke: RM 15.000,--
mithin für 5 Baracken: Gesamtkosten z.b.N RM 75.000».
«BW 58 5 baracche per trattamento speciale e alloggiamento di detenuti, baracche scuderia tipo 260/9 (Comando supremo dell’Esercito)
4 baracche per trattamento speciale dei detenuti a Birkenau
1 baracca per alloggiamento di detenuti a Bor
Costo di una baracca: RM 15.000
perciò per 5 baracche costo complessivo con la migliore approssimazione RM 75.000» (105).
L’interpretazione di Pressac è dunque chiaramente capziosa: questo testo non solo non suffraga la tesi della finalità criminale delle quattro baracche «per trattamento speciale», ma la esclude: la menzione della baracca per alloggiamento dei detenuti (immatricolati), che fa parte dello stesso Bauwerk delle quattro baracche presuntamente destinate agli Ebrei (non immatricolati), dimostra che anche queste baracche erano realmente destinate ai detenuti (immatricolati) e che questo termine di «Häftlinge» non era una parola “cifrata”, ma indicava proprio i detenuti immatricolati. È chiaro che Pressac, troncando la citazione, ha voluto appunto evitare che il lettore giungesse a questa conclusione. Un fulgido esempio di «sostanziale onestà scientifica»!
La correttezza di questa conclusione è confermata da un documento che Pressac ignorava e che demolisce da solo la sua intera tesi storiografica di fondo: una lista di tutti i Bauwerke (BW) (106) di Auschwitz - progettati o realizzati - datata 31 marzo 1942. Il BW 58 è descritto così:
«5 Pferdestallbaracken (Sonderbehandlung) 4 in Birkenau 1 in Budy» [«5 baracche scuderia (trattamento speciale) 4 a Birkenau 1 a Budy»] (107).
Nella prima stesura di questo documento, recante la stessa data, la consistenza del BW è spiegata con la seguente nota manoscritta:
«5 Pferdestallbaracken/Sonderbehandlung 4 in Birkenau 1 in Bor-Budy» (108).
Si tratta evidentemente delle stesse baracche menzionate nel rapporto esplicativo di Bischoff del 15 luglio 1942, ma esse appaiono - insieme al termine Sonderbehandlung, con buona pace dell’affermazione di Pressac secondo cui «era la prima volta in assoluto che appariva il termine “trattamento speciale”, e questo alla fine del luglio 1942» - in un documento del 31 marzo 1942, due mesi prima della presunta convocazione di Höss a Berlino (109) nel corso della quale «Himmler lo informò della scelta del suo campo come centro per l’annientamento di massa degli ebrei» (110) . Se dunque il 31 marzo 1942 l’ordine di sterminio non era ancora stato impartito a Rudolf Höss, è chiaro che la Sonderbehandlung menzionata nei due documenti citati non ha nulla a che vedere con lo sterminio ebraico.
In conclusione, l’unico documento (sulle 88.000 pagine dei documenti di Mosca!) che dimostrerebbe l’esistenza dei Bunker 1 e 2 non dimostra nulla, di conseguenza bisogna interpretare il diario del dott. Kremer in base a questo dato di fatto, non già in base ad ipotesi aprioristiche di comodo.

I due presupposti dell’interpretazione olocaustica del diario del dott. Kremer, la presunta equivalenza tra Sonderaktion e gasazione omicida e l’esistenza dei “Bunker” di Birkenau come impianti di sterminio, sono storicamente infondati. A questi temi ho dedicato due studi specifici. Il primo, “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato (111), dimostra su base documentaria, tra l’altro, che il termine Sonderaktion aveva vari significati, nessuno dei quali riconducibile allo sterminio (aspetto igienico-sanitario, internamento dei trasporti ebraici, trasporto e immagazzinamento degli effetti ebraici) (112). In tale contesto rientrano anche le Sonderaktionen menzionate dal dott. Kremer, che ho analizzato e spiegato in dettaglio (113).
Il secondo studio, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History (114), fornisce la prova documentaria e fotografica che i cosiddetti Bunker di Birkenau non esistettero mai come impianti di sterminio.

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4.
Le testimonianze «in presa diretta»

a) I “Protocolli di Auschwitz”

La Pisanty comincia la trattazione del documento noto agli specialisti come “Protocolli di Auschwitz” con queste parole:
«Nell’aprile 1944 due ebrei slovacchi - Vrba e Wetzler - riescono a evadere da Birkenau. Giunti a Zilina (in Slovacchia), redigono un rapporto in cui descrivono le varie tappe della loro esperienza del sistema concentrazionario, a partire dalla deportazione (avvenuta il 13.4.1942 per il primo, e il 14.1.1942 per il secondo), attraverso le procedure di immatricolazione (Vrba viene trasportato ad Auschwitz e poi a Birkenau, mentre Wetzler soggiorna a Lublino prima di essere trasferito ad Auschwitz-Birkenau, nel giugno 1942), fino al lavoro forzato nel lager e all’evasione» (p.1 79).
La nostra dottoressa offre subito un saggio delle sue profonde conoscenze storiche scambiando i due personaggi l’uno per l’altro: il 13 aprile 1942 fu deportato Alfred Wetzler, non Rudolf Vrba (che all’epoca si chiamava Walter Rosenberg); d’altro canto quest’ultimo non fu deportato il 14 gennaio 1942, bensì il 14 giugno; infine al KL Lublino (Majdanek) non soggiornò Wetzler, ma Vrba.
La Pisanty prosegue:
«Il rapporto venne tradotto dallo slovacco e spedito in Ungheria, in Palestina e in Svizzera» (p. 179, corsivo mio).
Un altro svarione. Come ogni specialista della materia sa, il rapporto in questione fu redatto in tedesco:
«Quello stesso giorno, Krasznyansky, coll’aiuto dei due fuggiaschi, preparò un dettagliato rapporto in tedesco che fu dattiloscritto dalla signora Steiner» (115) (corsivo mio).
La successiva menzione di «un comandante polacco» redattore di un altro rapporto su Auschwitz è un altro esempio delle conoscenze dell’ Autrice. Come tutti gli specialisti sanno, questo «comandante» era un “maggiore” (116) e si chiamava Jerzy Wesolowski, alias Jerzy Tabeau. La Pisanty osa anche scrivere che
«Il WRB report, e in particolare la prima parte scritta da Vrba, colpisce per la puntualità delle informazioni che contiene» (p. 179),
e ha l’ardire di aggiungere che
«i negazionisti hanno tentato (senza successo) di smantellare la credibilità di quest’ultimo documento» (p. 173).
Tali giudizi non possono che derivare da ignoranza o malafede. Del rapporto Vrba-Wetzler - semplice propaganda nera confezionata dal movimento di resistenza clandestino di Auschwitz - mi sono occupato altrove (117) e non è il caso di ripetere quanto ho scritto soltanto perché la Pisanty ha ignorato volutamente le mie critiche. Quale sia la «puntualità delle affermazioni» che esso contiene risulta già dal disegno e dalla descrizione dei crematori II e III che vi appare, in cui non c’è nulla, ma proprio nulla che corrisponda alla pianta originale dell’impianto! (118).

b) I manoscritti dei membri del Sonderkommando

A questa “prova”, nonostante la sua «grande importanza», la Pisanty dedica tre righe:
«Dei diari sotterrati clandestinamente dai membri dei Sonderkommandos i negazionisti non fanno cenno, nonostante la grande importanza documentaria di questi testi» (p. 181).
Questa laconicità in un’Autrice affetta da sproloquio semiotico è solo apparentemente strana: Vidal-Naquet ha a sua volta liquidato la questione in sette righe, sicché la Pisanty non poteva fare di meglio. Da Vidal-Naquet l’Autrice trae, generalizzandola, l’affermazione riportata sopra. La grande testa pensante si è accontentato più modestamente di questa osservazione:
«Butz o Rassinier ignorano completamente, per esempio, i documenti scritti da alcuni componenti del Sonderkommando di Auschwitz...» (119).
La Pisanty dimentica però di citare la relativa indicazione bibliografica, sicché qualche lettore non troppo incline a riporre la sua fiducia nell’Autrice potrebbe pensare che tali diari non esistano. Rassicuro tutti: i diari esistono (120) ed esiste anche il libro revisionistico che «fa cenno» di essi (121).
Un’osservazione a proposito dei Sonderkommandos. La Pisanty scrive che
«per quanto riguarda il prefisso Sonder- (speciale) che i nazisti anteponevano ad alcuni termini tecnici relativi alla gestione dei lager (Sonderaktionen, Sonderbehandlung), l’interpretazione quasi unanimamente accettata è che esso designasse dei casi di esecuzioni collettive che in qualche modo si distinguessero dalle ordinarie fucilazioni» (pp. 71-72).
Donde la designazione di Sonderkommando per il gruppo di detenuti addetto al servizio nei crematori. La povera dottoressa ignora persino che la denominazione ufficiale era Sonderkommando, al singolare (che esso venisse sterminato periodicamente è una storiella senza alcun fondamento documentario) (122).
Nell’opera che ho dedicato a questo specifico argomento citata sopra ho dimostrato che in nessun documento il termine Sonderkommando si riferisce al personale dei crematori, che viene sempre chiamato Krematoriumspersonal o indicato con il numero del relativo Kommando (ad es. «206 B Heizer Krematorium I und II», «206 B Fuochisti crematorio I e II»); ad Auschwitz esistettero invece almeno 11 Sonderkommandos che non avevano la minima relazione con i crematori (123).
Quanto al termine Sonderbehandlung (trattamento speciale), basti solo dire che nella lista dei progetti di costruzione del campo di Birkenau del 28 ottobre 1942, la cui funzione viene spiegata nel sottotitolo come «Durchführung der Sonderbehandlung» (Esecuzione del trattamento speciale), l’unico impianto previsto «für Sonderbehandlung» (per il trattamento speciale), è l’Entwesungsanlage, cioè la Zentralsauna, l’impianto di docce, di disinfezione e disinfestazione del campo (124), dunque non un crematorio o un “Bunker”, ma un impianto igienico-sanitario!

c) Le fotografie

Disquisendo su questo argomento, la Pisanty trova il modo di “svelare” un’altra presunta tattica revisionistica:
«Per quanto riguarda le fotografie della resistenza polacca, queste di per sé non costituiscono una grave minaccia per i negatori della Shoah, i quali possono sempre ripiegare sul trattamento che riservano abitualmente a ogni documento fotografico che attesti qualche aspetto dello sterminio: se non riescono a ricontestualizzare la fotografia (ad esempio, sostenendo che i cadaveri raffigurati appartengono alla popolazione civile di Dresda dopo i bombardamenti alleati), essi asseriscono che si tratta di fotomontaggi realizzati da consumati professionisti dello show business» (pp. 181-182).
Attualmente nessun ricercatore revisionista sostiene queste tesi. La storia dell’uso da parte alleata di fotografie delle vittime tedesche di Dresda è menzionata da Harwood, che rimanda ad una presunta falsificazione apparsa nel giornale Catholic Herald del 29 ottobre 1948 (125), che non conosco. La tesi dei fotomontaggi è stata sostenuta da Walendy in un libretto apparso nel 1973 (126), in cui si tratta però in massima parte di ritocchi fotografici e di didascalie errate (127).
Inutile dire che la Pisanty si guarda bene dal menzionare le fotografie aeree pubblicate e analizzate da J.-C. Ball che smentiscono la tesi dello sterminio (128).
A p. 173 la Pisanty accenna alle fotografie relative a una «fossa di incinerazione a cielo aperto» (129) e menziona anche una fotografia che mostrerebbe «una fila di donne nude che si dirigono verso la camera a gas». Pressac, più sagace degli altri storici, riesce ad accertare (non si sa come) che queste donne non corrono verso le camere a gas, ma aspettano di entrarvi! (130).
Delle fotografie di Birkenau mi sono occupato nello studio Auschwitz: Open Air Incinerations (131), nel quale, tra l’altro, ho analizzato anche le due fotografie in questione (132). Per quel che riguarda le donne ritratte nella fotografia, come risulta da ingrandimenti, esse né si dirigono verso la camera a gas né aspettano di entrarvi, ma sono intente a fare un bagno all’aperto con tinozze piene d’acqua e recipienti vari! (133)
Quanto alla fotografia di una «fossa di incinerazione a cielo aperto», escludendo la possibilità di «fotomontaggi» e di fotoritocchi, prego gentilmente la dottoressa Pisanty di spiegarci da quale pianeta proviene l’essere ritratto in questo ingrandimento.

(immagine da aggiungere)

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CAPITOLO IV

IL RAPPORTO GERSTEIN E IL “CAMPO DI STERMINIO” DI BELZEC


1.
Premessa generale

Nel capitolo 2.5. la Pisanty si occupa del mio libro più volte menzionato Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso (134). Qui la tattica argomentativa dell’allieva di Eco si affina. Prima di esaminare le sue critiche, è necessaria una premessa.
A differenza dei miei predecessori, che hanno formulato singole critiche slegate tra di loro, in questo libro io ho presentato una confutazione organica del rapporto Gerstein, ritracciando la sua narrazione sulla base di tutti i testi disponibili e mettendo in rilievo le contraddizioni, le assurdità e le inverosimiglianze che pullulano in essi e che lo rendono del tutto inattendibile. Perché l’inattendibilità del rapporto Gerstein non è episodica, ma strutturale: è la struttura stessa della narrazione - i suoi presupposti, il suo svolgimento, la sua conclusione, ossia proprio l’ “essenziale” di questa testimonianza - che non resiste ad un’analisi critica seria.
In un’opera che la Pisanty ha ignorato intenzionalmente ho delineato sommariamente una tale critica strutturale (135); la ripropongo di nuovo qui (con qualche considerazione ulteriore), in modo da inquadrare meglio e meglio valutare le critiche della Pisanty (136).

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2.
La mia critica strutturale al rapporto Gerstein

Il 10 marzo 1941 Gerstein si arruola nelle SS (137) e viene assegnato all’SS-Führungshauptamt, Amtsgruppe D, Sanitätswesen der Waffen-SS, Abteilung Hygiene (138). In virtù dei suoi successi nel campo della disinfestazione, egli viene presto promosso Leutnant e Oberleutnant (139), gradi inesistenti nelle Waffen-SS (140). Nel gennaio (141) o nel febbraio (142) 1942 egli viene nominato capo del servizio tecnico di disinfezione delle Waffen-SS. In tale qualità, l’8 giugno 1942, Gerstein riceve la visita dell’SS-Sturmbannführer Günther, del RSHA (143), il quale gli affida l’incarico di procurare immediatamente, per una missione del Reich segretissima, 100 kg (144) e in pari tempo 260 kg (145) di una sostanza che è sia acido cianidrico (Blausäure, acide prussique) (146), HCN, sia cianuro di potassio (cyanure de potassium) (147), KCN, e di portarla con un’automobile («mit einem Auto») (148) e nello stesso tempo con un autocarro («cammion») (149) in un luogo sconosciuto, noto soltanto all’autista. L’incarico di Günther offre a Gerstein l’opportunità di visitare i campi di sterminio orientali. Ma secondo il documento Tötungsanstalten in Polen Gerstein non viene prescelto inopinatamente dal RSHA per la sua missione segretissima, ma prende egli stesso l’iniziativa: cerca di mettersi in contatto con ufficiali SS in Polonia, guadagna la loro fiducia e riesce ad ottenere il consenso («toestemming te krijgen») per visitare due «stabilimenti dell’uccisione» (150).
L’8 giugno Gerstein riceve dunque da Günther un ordine di missione verbale confermato per iscritto 48 ore dopo (151), cioè il 10 giugno. Nove settimane dopo, Gerstein e l’autista partono alla volta di Kolin, presso Praga, per caricare la sostanza tossica. Gerstein porta con sé il prof. Pfannenstiel, che è in pari tempo SS-Sturmbannführer (152) Obersturmbannführer (153), «più casualmente» («mehr zufällig») (154), il che significa che Pfannenstiel non aveva nulla a che vedere con la missione di Gerstein.
A questo punto le cose si complicano. Gerstein deve infatti prelevare (155) e in pari tempo trasportare (156) a Kolin 100/260 kg di acido cianidrico/cianuro di potassio; la località del prelievo/trasporto è sia imposta (157) a Gerstein, sia scelta (158) da Gerstein; il quantitativo di sostanza tossica viene ordinato a Gerstein dal RSHA (159) e in pari tempo fissato da Gerstein (160).
Qui bisogna rilevare che i metodi di lavoro del RSHA, per quanto concerne lo sterminio ebraico, erano a dir poco bizzarri: Günther affidò a Gerstein l’incarico di procurare «immediatamente» («sofort») la sostanza tossica «per una missione del Reich estremamente segreta» («für einen äusserst geheimen Reichsauftrag») (161) , ma Gerstein partì tranquillamente dopo oltre due mesi senza che nessun funzionario del RSHA avesse avuto nulla da eccepire; non solo, ma il RSHA aveva curiosamente rivelato il segreto della destinazione del viaggio di Gerstein ad un autista, ad un estraneo (Pfannenstiel), ma non al diretto interessato: Gerstein stesso!
Lo scopo della missione di Gerstein era di trasformare il sistema di funzionamento delle camere a gas omicide introducendo l’acido cianidrico al posto del gas di scappamento di motori Diesel (162); ma in contraddizione con ciò Gerstein dichiara:
«Io comprendevo la mia missione, aggiunge Gerstein. Mi si chiedeva di scoprire un mezzo di soppressione più rapido e più efficace di questo sterminio di genere primitivo. Proposi l’impiego di gas più tossici, e specialmente di quelli che sprigiona l’acido prussico» (163).
Dunque egli doveva scoprire proprio quel mezzo di soppressione che gli era stato precedentemente indicato dal RSHA e propose proprio quella sostanza che gli era stata precedentemente ordinata dal RSHA!
A Kolin, Gerstein non prelevò Zyklon B - che vi si produceva regolarmente - ma acido cianidrico liquido in 45 bottiglie, «dietro presentazione di un buono di requisizione del RSHA» (164), dunque per ordine del RSHA, cosa alquanto singolare, dato che, per la sua pericolosità, in Germania, l’acido cianidrico liquido non era più usato nella disinfestazione dall’introduzione del Bottich-Verfahren e dello Zyklon B (165).
Qui sorge un altro problema: perché il RSHA ordinò a Gerstein di portare con sé un quantitativo così ingente di acido cianidrico? Considerato il volume effettivo delle 6 presunte camere a gas di Bełżec – circa 145 m3 tenuto conto del volume occupato dai corpi di 1.500 vittime (166) - 500 grammi di acido cianidrico sarebbero stati sufficienti a produrre in ciascuna di esse una concentrazione teorica di gas 10 volte superiore a quella immediatamente mortale. I 100 kg di acido cianidrico presuntamente trasportati da Gerstein sarebbero dunque bastati a uccidere 300.000 persone in 200 gasazioni! Decisamente un po’ troppo per dei semplici esperimenti. Per questi sarebbero stati sufficienti una decina di barattoli di Zyklon B, che Gerstein, visto che si doveva recare a Lublino, avrebbe potuto comodamente prelevare al campo di Majdanek, al quale, appena due settimane prima, il 30 luglio 1942, la ditta Tesch und Stabenow aveva consegnato 360 barattoli di Zyklon B da 1,5 kg ciascuno, per complessivi 540 kg di acido cianidrico (167).
Invece il RSHA, incomprensibilmente, costrinse Gerstein a fare un viaggio di circa 700 km da Kolin a Lublino con questo carico pericoloso.
A Lublino, Globocnik affidò a Gerstein due compiti: la disinfestazione della raccolta di tessuti (stracci e vestiario), che ammontavano a «circa 40 milioni di kg = 60 treni merci completamente pieni»! (168). Facciamo un piccolo calcolo. Dal documento NO-1257 risulta che 2.700 tonnellate di stracci occupavano 400 vagoni. Ne consegue che 40.000 tonnellate richiedevano circa 5.925 vagoni (sicché ciascuno dei 60 treni di Gerstein aveva la bellezza di 98 vagoni!). Curiosamente però, alla conclusione dell’ “azione Reinhard”, il 15 dicembre 1943, Globocnik era riuscito a mettere insieme soltanto 3.400 vagoni di tessuti (per la precisione:«vestiario, biancheria, piume da letto e stracci»), cioè 2.525 vagoni meno di quanto avesse fatto fino al 17 agosto 1942! Non è poi molto chiaro per quale ragione Globocnik avesse affidato proprio a Gerstein questo compito, dato che a Lublino esistevano «lavanderie e impianti di disinfestazione», oltre a ditte specializzate nella disinfestazione (169), né come questo compito si conciliasse con la missione segretissima (un segreto di Stato) di trasformare le camere a gas funzionanti con i gas di scappamento di un motore Diesel in camere a gas ad acido cianidrico. Ma procediamo.
Gerstein, come è noto, si recò con il suo carico letale a Belzec, ma non adempì la sua missione, e poi se ne tornò tranquillamente a Berlino, senza che nessuno gli chiedesse conto di questa missione, che, ricordo, era un segreto di Stato. A questo riguardo il giudice istruttore francese Mattei gli chiese:
«A chi avete reso conto dell’esecuzione della vostra missione?
[Gerstein] - Al mio ritorno a Berlino da un viaggio che è durato circa due settimane, non ho reso conto a nessuno dell’esecuzione della mia missione. Nessuno mi ha chiesto nulla» (170).
Un’altra bizzarria dei metodi di lavoro del RSHA!
Circa la sorte dell’acido cianidrico prelevato a Kolin, Gerstein racconta di aver portato al campo di Belzec 44 delle 45 bottiglie (171) e in pari tempo di averle nascoste a 1.200 metri dal campo (172).
Giunto in Polonia, Gerstein visita i campi di Belzec, Treblinka e Majdanek (173), e in pari tempo di Belzec, Sobibór e Treblinka (174) e nello stesso tempo soltanto di Belzec e Treblinka (175). La cronologia di questi viaggi è a dir poco sorprendente. Egli menziona due date precise, il 17 agosto 1942, giorno del suo arrivo a Lublino (176), e il 19 agosto 1942, giorno del suo arrivo a Treblinka (177): tra queste due date Gerstein fornisce due cronologie diverse ed entrambe contraddittorie.
Il 17 agosto è a Lublino, il giorno dopo (178) va a Belzec: 18 agosto; il mattino seguente (179) egli assiste alla famosa gasazione omicida: 19 agosto; «il giorno dopo, il 19 agosto» («am nächsten Tage, den 19. August») (180) va a Treblinka: in realtà si tratta del 20 agosto. Seconda cronologia: il 17 agosto a Lublino, un altro giorno (181) va a Belzec: 18 agosto; un’altra mattina (182) assiste alla gasazione: 19 agosto; un altro giorno (183) le fosse comuni vengono riempite di sabbia: 20 agosto; un altro giorno (184) Gerstein va a Treblinka: 21 agosto. Inoltre Gerstein ha trascorso nei campi di Globocnik «soltanto tre giorni» (185) e in pari tempo due giorni, cioè «il 17 e 18 agosto» 1942 (186), il che è in ulteriore contraddizione con la cronologia esposta sopra.
A Belzec, Gerstein vede entrare nel campo un treno merci di 45 vagoni, cosa alquanto improbabile, dato che il binario di raccordo all’interno del campo di Belzec era lungo 260 metri (187) mentre 45 carri bestiame sono lunghi circa 498 metri (188).
La gasazione omicida alla quale Gerstein pretende di avere assistito avviene nello stesso tempo a Belzec e a Majdanek (189).
Essa si svolge in una installazione che conteneva 5 (190) camere a gas e nello stesso tempo 6 (191), le quali misuravano in pari tempo m 4 x 5 (192) e m 5 x 5 (193). Sorprendentemente, queste camere a gas, pur misurando m 4 x 5 x 1,90 (194), avevano una superficie di 25 mq2e un volume di 45 m3! (195)
Le camere a gas si riempiono. «Gli uomini stanno gli uni sui piedi degli altri, 700-800 in 25 metri quadrati, in 45 metri cubi!» (196), ossia 28-32 persone per metro quadrato! Ma queste 700-800 persone si trovavano nello stesso tempo nell’intero edificio (197). L’uccisione degli Ebrei avviene il giorno stesso dell’arrivo del treno e in pari tempo «il giorno seguente o alcuni giorni dopo» (198). Il gas tossico viene prodotto da un vecchio motore Diesel smontato dal veicolo (199) e nello stesso tempo da «un grosso trattore» (200). Dopo la gasazione i cadaveri vengono portati via su «carri di legno» («auf Holzwagen») (201) e nello stesso tempo su «barelle di legno» («auf Holztragen») (202) alle fosse comuni, dove Gerstein vede dei lavoratori ebrei impegnati a spogliare dei cadaveri che vi erano stati gettati vestiti: ciò avviene a Belzec (203)e in pari tempo a Treblinka (204). Il numero totale dei gasati dei due soli campi di Belzec e di Treblinka è di 25 milioni di persone! (205).
È importante sottolineare che tutte le affermazioni di Gerstein devono essere prese alla lettera, come egli dichiara sotto giuramento:
«Tutte (alle) le mie affermazioni sono vere alla lettera (wörtlich wahr) Sono pienamente consapevole davanti a Dio e all’umanità della straordinaria portata di queste mie annotazioni e giuro che nulla di tutto ciò che ho registrato è immaginario o inventato (erdichtet oder erfunfen), ma che tutto è esattamente così (genau so)» (206) [corsivo mio].
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3.
La critica di Valentina Pisanty: i metodi

Prima di esporre gli argomenti della Pisanty, è necessario esaminare i suoi metodi di lavoro. Anzitutto, ella preseleziona come al solito il campo di indagine. Dopo aver preselezionato il libro, escludendo dal suo campo di indagine le mie pubblicazioni più recenti, preseleziona in questo libro alcuni capitoli nei quali preseleziona alcune obiezioni, quasi sempre marginali ed isolate dal contesto. Con questa tecnica ella frantuma la struttura argomentativa che ho esposto sommariamente sopra in una congerie di episodi marginali; indi critica in modo capzioso questi episodi marginali e conclude che in ogni caso essi non toccano la «qualità» della «testimonianza oculare» di Gerstein.
La preselezione della Pisanty elimina alcuni capitoli non certo irrilevanti nell’economia generale dell’opera - il capitolo dedicato al mistero di Kurt Gerstein (207), quello che mostra la genesi storica della storia dello sterminio a Belzec (208) e a Treblinka (le famose “camere a vapore”!) (209), infine quello sulle conoscenze del presunto sterminio da parte del Vaticano (210).
La critica della nostra dottoressa alle mie argomentazioni si basa su due presupposti metodologici fondamentali:
1) a Belzec (Treblinka e Sobibór) sono esistite camere a gas omicide, dunque
2) Il rapporto Gerstein è necessariamente veridico.
In altri termini, poiché, per la storiografia ufficiale, il rapporto Gerstein è la prova essenziale dell’esistenza di camere a gas omicide a Belzec, ne consegue che esso è veridico perché è veridico. Sulla base di questi presupposti la Pisanty pretende di spiegare le innumerevoli contraddizioni e assurdità del rapporto Gerstein, ma non sul piano storico e tecnico, bensì su quello meramente semiotico.

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4.
La critica di Valentina Pisanty: gli argomenti

Non resta dunque che esaminare ad uno ad uno gli argomenti della Pisanty. Ella distingue le mie obiezioni in tre gruppi: i «cavilli irrilevanti», gli «errori di comprensione/traduzione» e le «obiezioni inesistenti» (p. 117). Cominciamo dal primo gruppo.

a) Il primo gruppo

Sebbene l’intento di Gerstein sia quello di descrivere un evento tragico, il suo racconto abbonda di elementi comici, che ho spesso sottolineato con una sottile ironia. La Pisanty finge di non capire il tono ironico di certe obiezioni e mi attribuisce ferree deduzioni logiche che sono ancora più comiche. Se ironizzo su certi «errori di battitura», come li chiama l’Autrice, è perché, se un indiziato redige un memorandum a propria discolpa per il giudice istruttore, mi attendo che mediti bene il testo, soppesi ogni parola, legga e rilegga accuratamente il documento valutando l’effetto di ogni elemento; da Gerstein mi sarei atteso una attenzione ancora maggiore - dato che era consapevole che poteva rischiare la condanna a morte come criminale di guerra -, sicché la presenza non solo di questi «errori di battitura», ma soprattutto delle assurdità e delle contraddizioni pullulanti nel suo rapporto appare inspiegabile, a meno che non si faccia l’ipotesi - che per me è certezza - che Gerstein, nella redazione dei vari testi, non fosse nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Per questa ragione, riallacciandomi ad una osservazione di Saul Friedländer, ho scritto che, se Gerstein è davvero l’autore di questi testi - cosa di cui non dubito - «non si può non ricercarne l’origine nell’ “aspetto schizoide della personalità di Gerstein”» (211).
Per questa ragione, nella trama strutturalmente insensata del rapporto Gerstein, ho esposto anche delle minuzie - che la Pisanty liquida sbrigativamente come «cavilli irrilevanti» (e tali ella stessa li fa diventare estrapolandoli dal contesto) - per mostrare, per così dire, l’atmosfera mentale del rapporto. Su tali questioni la dottoressa in semiotica scrive:
«Non ritengo che valga la pena controllare a uno a uno questi presunti errori in quanto non è chiaro quale interesse essi possano avere una volta che si sia abbandonata l’ipotesi della contraffazione del documento in esame».
La cosa appare dunque alla Pisanty inspiegabile
«a meno di non condividere il parere di Mattogno secondo il quale “non è da escludere che egli [Gerstein] abbia ‘visto’ la ‘gasazione’ di Belzec in uno [degli] ‘stati precomatosi’ ” - dovuti al diabete - cui era soggetto» (p. 118).
La Pisanty ha amabilmente manipolato la mia citazione facendola apparire come una mia malignità; in realtà, citando a mia volta S. Friedländer, ho scritto:
«Al riguardo, non è senza importanza il fatto che già nel 1941 egli [Gerstein] fosse stato costretto ad interrompere frequentemente il corso di addestramento militare a causa di una malattia che provocava in lui “degli stati precomatosi che spiegherebbero i suoi mancamenti psichici e alcune delle sue strane reazioni”, come il dott. Nissen scrisse alla vedova di Gerstein. Non è da escludere che egli abbia “visto” la “gasazione” di Belzec in uno di questi “stati precomatosi”» (212).
Dunque la Pisanty ha capito benissimo, ma ha fatto finta di non capire. E che abbia fatto finta di non capire risulta anche da come presenta questi «cavilli irrilevanti». Ecco due esempi significativi:
«l’età del bambino ebreo che distribuisce pezzi di spago: 3 o 4 anni» (p. 118).
Naturalmente la Pisanty si guarda bene dal riferire che, secondo Gerstein, questo bambino di 3 o 4 anni doveva distribuire pezzi di spago a 5.000 persone per legare insieme le scarpe, «poiché nessuno poi avrebbe potuto ritrovare le scarpe giuste nel mucchio di 35 o 40 metri di altezza» (213). Ora, far distribuire 5.000 pezzi di spago da un bambino di 3 o 4 anni a 5.000 persone non mi sembra propriamente l’apice della razionalità, ma - si sa - le SS erano irrazionali! Riguardo alle fantomatiche montagne di scarpe, invece, la Pisanty inveisce contro Felderer, che ne ha mostrato l’assurdità con un calcolo trigonometrico, e contro di me perché ho «elogiato» lo scrittore svedese, scrivendo che
«le argomentazioni di un Felderer, del tutto incapace di accettare l’iperbole come una caratteristica di molte testimonianze (è peraltro molto difficile stimare ad occhio nudo l’altezza di una forma conica), rasentano la follia» (pp. 106-107).
Qui la Pisanty finge di ignorare che Gerstein ha garantito con un giuramento la veridicità alla lettera di tutte le sue affermazioni: dunque o esse non contengono «iperboli», oppure Gerstein è un mentitore spergiuro! Quanto alla stima dell’altezza di una forma conica, un ingegnere (come Gerstein), prendendo come punto di riferimento gli alberi circostanti, poteva farla con un margine di errore accettabile. Del resto l’affermazione di Gerstein resterebbe assurda anche con un margine di errore di 5 o 10 metri.
Un altro «cavillo irrilevante» riguarda quelle assurdità che la Pisanty liquida in modo sbrigativo come semplici «errori di calcolo», di cui fornisce due esempi:
«4 x 5 = 25 m2; 750 x 30 = 25.250 ecc.» (p. 118).
In realtà in entrambi i casi l’«errore di calcolo» supera di gran lunga la portata meramente matematica, essendo connesso con la questione essenziale della gasazione omicida.
Riguardo al primo caso, l’affermazione che dei locali che misuravano metri 5 x 4 x 1,90 avessero una superficie di 25 m2 e un volume di 45m3, soprattutto se fatta da un ingegnere, è quantomeno sorprendente, tanto più se su questa superficie e in questo volume l’ingegnere suddetto pretende di aver visto accalcate - alla lettera - 700-800 persone. E se poi lo stesso ingegnere tenta di giustificare matematicamente questa assurdità, con un calcolo del tutto strampalato che, pur partendo da dati contraddittori (214), giunge sempre al medesimo risultato (215), bisogna ammettere che la cosa è ancor più sorprendente! (216)
Come si vede, non si tratta propriamente di «cavilli irrilevanti». Naturalmente ella relega in questo gruppo - senza menzionarli minimamente - anche tutti gli argomenti essenziali di fronte ai quali la sua scienza semiotica non può nulla.
Chiudo con un ultimo «cavillo irrilevante» piuttosto comico che dà il senso dell’acume mentale di Gerstein. In un campo di sterminio, quando gli viene detto che le future vittime delle camere a gas devono attendere il loro turno di gasazione nude anche d’inverno, egli commenta intelligentemente: «Sì, ma possono morire!» (PS-2170, p. 5: «Ja, aber sie können sich ja den Tod holen! - sage ich...»)!

b) Il secondo gruppo

Riguardo a questo gruppo di obiezioni, la Pisanty rileva:
«L’inefficacia del secondo gruppo di obiezioni è dovuta a errori interpretativi commessi da Mattogno nella sua lettura delle versioni tedesche del rapporto Gerstein.
A proposito della proposta di seppellire tavole di bronzo nelle fosse dove venivano interrati i cadaveri, a beneficio delle generazioni future, Mattogno dice che non è chiaro chi sia il soggetto di questa enunciazione (se Globocnik o Gerstein stesso). Secondo Mattogno, infatti, nella versione tedesca del 6.5.1945 (T VI) è Gerstein che lancia la proposta a Globocnik durante la sua visita a Lublino. L’equivoco nasce dalla traduzione del brano di T VI: “Darauf habe ich Globocnec gesagt: Meine Herren...” ecc. (corsivo mio), dove Mattogno scambia il nominativo “Allora io Globocnec ho detto” con il dativo “Allora io ho detto a Globocnec” e aggiunge “questo passo è assurdo. Gerstein si inserisce in una conversazione (pretesamente) avvenuta due giorni prima e Hitler risponde a Globocnik!”. L’errore in cui si imbatte Mattogno è indicativo dell’eccesso di meraviglia che egli dimostra nella sua lettura dei documenti - eccesso che, combinato con un’insufficiente dimestichezza della lingua tedesca, crea l’humus ideale per lo sviamento interpretativo tipicamente negazionista» (pp. 118-119).
Questa interpretazione è un altro tipico esempio della metodologia capziosa adottata dalla Pisanty. Anzitutto, poiché il “rapporto” è stato redatto da Gerstein e non da Globocnik, tale interpretazione avrebbe senso soltanto se la frase in questione si trovasse in un discorso diretto dipendente da una reggente di Gerstein, ad esempio:
«Globocnik affermò: “Allora io Globocnik ho detto: “Signori...”». Tale frase costituisce invece la reggente di Gerstein, come risulta chiaro dall’intero passo, che riporto con tutti gli errori:
«Darauf fragte Pfannenstiel: “Was hat denn der Führer zu dem ganzen gesagt?”
Darauf Globocnec:“Die ganze Aktion soll raschestens durchgeführt werden!”
Inseiner (217) Begleitung befand sich noch der Ministerialrat Dr. Herbert Linden vom Reichsministerium. Der meinte, ob es nicht besser sei, die Leichen zu verbrennen, anstatt sie einzuscharren. Es könnte doch mals nach uns eine Generation kommen, die das ganze nicht verstände. Darauf habe ich Globocnec gesagt:“Meine Herren, wenn je eine Generation nach uns kommen sollte, die unsere große und so dankbare und nötige Aufgabe nicht verstehen sollte, dann allerdings, ist unser ganzer Nationalsozialismus vergeblich gewesen. Ich bin im Gegenteil der Anscith (218), daß man Broncetafeln (219) versenken sollte, auf denen geschrieben ist, daß wir, daß wir es waren, die den Mut gehabt haben, dieses so notwendige und wichtige Werk durchzuführen. -- Darauf Hitler: Gut Globocnec, das ist allerdings auch meine Ansicht.-» (220),
cioè:
«Al che Pfannenstiel chiese:“Che cos’ha detto il Führer sull’intera questione?”.
Al che Globocnec:“L’intera azione dev’essere eseguita rapidissimamente!”.
In sua compagnia si trovava anche il consigliere ministeriale Herbert Linden, del ministero del Reich [sic], il quale pensava se non fosse stato meglio bruciare i cadaveri invece di seppellirli. Dopo di noi potrebbe venire una generazione che non capirà l’intera questione. Al che io ho detto a Globocnec: “Miei signori, se mai dopo di noi dovesse venire una generazione che non dovesse capire il nostro grande compito così grato e necessario, allora certamente tutto il nostro nazionalsocialismo sarebbe stato vano. Io sono al contrario del parere che bisognerebbe sotterrare tavole di bronzo con sopra scritto che fummo noi, noi, ad avere il coraggio di eseguire quest’opera così necessaria e importante. - Al che Hitler: Bene, Globocnec, questo è certamente anche il mio parere.-».
Dunque l’interpretazione della Pisanty è carente già sul piano logico e contestuale.
In secondo luogo, la mia interpretazione è avvalorata dalla traduzione ufficiale in inglese del documento PS-2170 fatta eseguire dall’Office of U.S. Chief of Counsel for the prosecution of the Axis criminality il 26 ottobre 1945; in questo documento il traduttore giurato Charles E. Bidwell rende la frase in oggetto in questo modo: «Whereupon I told Globocnec: Gentlemen...» (221).
Come si vede, anche questo traduttore giurato aveva una «insufficiente dimestichezza della lingua tedesca»! (222).
Un tale rimprovero è del resto piuttosto comico, in quanto proviene da una dottoressa che nel suo saggio non cita una sola opera in tedesco, evidentemente perché ignorava completamente la lingua tedesca. Altro che «insufficiente dimestichezza»!
Naturalmente la Pisanty sorvola prudentemente sul fatto che in un altro documento del rapporto Gerstein la proposta di seppelire le tavole di bronzo viene fatta da Hitler stesso:
«Hitler stesso, visitando Belcic, aveva detto: “Noi sotterreremo qui delle lapidi di bronzo affinché i nostri discendenti conoscano la nostra opera di disinfestazione biologica del pianeta» [«Hitler lui-même, visitant Belcic, avait dit:“ Nous enterrerons ici des plaques de bronze afin que nos descendants connaissent notre oeuvre d’assainissement biologique de la planète”»] (223).
Sottopongo umilmente la traduzione alla nostra esperta di semiotica, la quale forse scoprirà che, a causa della mia «insufficiente dimestichezza» della lingua francese, ho scambiato il nominativo “Globocnik” con il nominativo “Hitler”!
Resta dunque confermato che, nel rapporto Gerstein, la proposta in questione viene fatta nello stesso tempo da Gerstein e da Hitler.
La Pisanty passa poi ad esporre il mio secondo ed ultimo «errore interpretativo», su 103 obiezioni che oppongo al rapporto Gerstein:
«Un analogo errore interpretativo riguarda il passo in cui Gerstein racconta come, a gassazione terminata, i cadaveri venissero intimamente ispezionati alla ricerca di oro, brillanti e oggetti di valore. Nel brano in questione in T VI (p. 6), tuttavia, troviamo un errore di battitura: la parola “Brillanten” (brillanti), peraltro ripetuta correttamente meno di tre righe dopo, viene scritta “Brillen” (occhiali). Piuttosto che ammettere la possibilità di una svista tipografica, Mattogno scrive: “Gli uomini dell’Arbeitskommando cercano ‘occhiali’ (Brillen) nei genitali delle vittime”» (p. 119).
Si tratta di uno degli «errori di battitura» di cui sono infarciti i testi del rapporto Gerstein e che fanno comprendere - come dicevo sopra - il clima mentale di Gerstein (224). È certo possibile e anche probabile che il termine «Brillen» sia una «svista tipografica», però sta di fatto che il testo dice appunto «Brillen», e tra «Brillen» e «Brillanten» non c’è solo una differenza formale, ma, soprattutto, di significato (225). Il fatto che Gerstein non abbia corretto l’errore è ancora più grave dell’errore stesso.

c) Il terzo gruppo

Passiamo al terzo gruppo delle mie critiche, che la Pisanty definisce così:
«Per obiezioni inesistenti intendo tutti punti in cui Mattogno tenta di fare apparire come inverosimili dettagli che non lo sono affatto, sperando che il lettore non sia sufficientemente analitico da rendersi conto della parzialità della sua interpretazione» (p. 119).
Questa volta il rimprovero della Pisanty è dimostrato in modo sovrabbondante, con ben tre esempi.
Primo esempio:
«Ad esempio, egli ironizza sul fatto che gli ebrei che entravano nella camera a gas implorassero Gerstein di intercedere per loro: “Alcuni si rivolgono a Gerstein implorandolo:’O signore, ci aiuti, ci aiuti’, avendo evidentemente notato la sua faccia da “buono”, perché egli era in divisa da ufficiale SS! (Mattogno, 1985: 63).
Lungi dall’apparire inverosimile, questo dettaglio semmai aggiunge credibilità al resoconto di Gerstein: solo un negazionista può pretendere la razionalità assoluta nel contegno di coloro che sanno di stare per essere gassati» (p. 119).
Immaginiamo la scena: le future vittime delle camere a gas sfilano davanti al loro carnefice - il capitano Wirth - e a Gerstein, in divisa da SS, che esse, non sapendo che era un “buono”, non possono non ritenere un altro carnefice: che cosa fanno dunque le future vittime? Inveiscono contro questo “sporco SS”? Gli sputano addosso? Tentano di aggredirlo? No: gli chiedono aiuto! Solo un’ “antinegazionista” può pretendere l’irrazionalità assoluta nel contegno di coloro che sanno di stare per essere gasati! È come se un detenuto condannato a morte negli Stati Uniti, prima di entrare nella camera a gas chiedesse al boia: «O signore, mi aiuti, mi aiuti!».
Secondo esempio:
«Altrove, traendo spunto dalla richiesta di Wirth a Gerstein di non proporre alle autorità di Berlino un nuovo metodo di gassazione per rimpiazzare quello vigente a Belzec, Mattogno vede in ciò il segno che Wirth fosse un personaggio poco influente in quanto temeva Gerstein come se fosse un suo superiore, e questo sarebbe in contrasto con l’affermazione di Gerstein secondo cui Wirth era ammanicato con Himmler. In verità, la richiesta di Wirth a Gerstein non presuppone affatto che il primo avesse paura del secondo, ma semmai indica che egli non voleva fastidi dalle autorità berlinesi alle quali Gerstein avrebbe dovuto fare rapporto (informandole dello spiacevole incidente col motore Diesel a cui aveva assistito a Belzec). Dunque, si tratta di un falso problema» (pp. 119-120).
Più che di un falso problema, qui si tratta di una falsa spiegazione. Che cosa mai può significare che Wirth «non voleva fastidi dalle autorità berlinesi» dato che proprio queste «autorità» - il RSHA, cioè Himmler - avevano ordinato a Globocnik di cambiare il sistema di funzionamento delle camere a gas omicide? E in che modo Gerstein avrebbe mai potuto «non proporre alle autorità di Berlino» proprio quel metodo che queste autorità gli avevano ordinato di introdurre a Belzec?
Terzo esempio:
«Inoltre, osserva Mattogno, “da Treblinka Gerstein va a Varsavia senza neppur aver salutato Globocnik, che scompare dalla scena dopo averlo presentato a Obermayer”. Secondo questo ragionamento, dovremmo concludere che durante l’intero soggiorno in Polonia Gerstein non si sia fatto la barba nemmeno una volta, visto che il testo non ne parla mai» (p. 120).
Questa penosa ironia è del tutto fuori luogo. Naturalmente la Pisanty si guarda bene dal citare il presupposto che rende comprensibile questa osservazione, cioè che lo sterminio ebraico era un affare segreto del Reich (geheime Reichssache) (226), per cui «Globocnik per ragioni di sicurezza aveva ricevuto l’ordine di accompagnare personalmente coloro che dovevano visitare le installazioni» di sterminio (227); di conseguenza, senza Globocnik, Gerstein non poteva entrare né a Treblinka né a Sobibór. Dunque non si può negare che la scomparsa di Globocnik nel seguito del racconto sia quantomeno singolare.

d) Le obiezioni di carattere tecnico

Indi la Pisanty passa ad esaminare le mie obiezioni di carattere tecnico. Vediamo quali sceglie e come risponde.
Prima obiezione:
«Gerstein sostiene di avere visto le vittime stipate dentro la camera a gas da una finestrella: “dato l’estremo ammassamento umano nelle ‘camere a gas’, dalla finestrella non si sarebbe potuto vedere nulla, essendo la visuale impedita dal corpo di colui che era schiacciato contro di essa, senza considerare l’appannamento del vetro” (Mattogno, 1985: p. 67).
Gli spioncini nella porta, attraverso i quali i responsabili del lager potevano verificare l’andamento della gassazione, erano ovviamente situati all’altezza degli occhi di chi stava fuori dalla camera a gas. Di conseguenza, sarebbe stato possibile scorgere l’interno della camera a gas attraverso gli interstizi tra le teste delle vittime: oltretutto, è presumibile che l’ammassamento umano si concentrasse verso l’alto (e non contro la porta), man mano che l’ossigeno cominciava a scarseggiare e le vittime cercavano di guadagnare centimetri di altezza, arrampicandosi sui corpi degli altri» (pp. 122-123).
La Pisanty non tiene conto del particolare non certo irrilevante che in ogni camera a gas, su 20 o 25 m2, in 45 m3, c’erano 700-800 persone, sicché sul solo metro quadrato dietro allo spioncino c’erano 28-32 teste, e forse non era troppo agevole osservare «attraverso gli interstizi» di queste teste le 28-32 teste del secondo metro quadrato dietro alla porta della camera a gas! Devo inoltre confessare che mi riesce difficile immaginare come queste 700-800 persone potessero, non dico arrampicarsi le une sulle altre, ma soltanto muoversi. Senza contare che le camere a gas erano alte m 1,90: la Pisanty dovrebbe inoltre spiegare in che modo le future vittime potessero «concentrarsi verso l’alto». Quale «alto»?
A questo riguardo devo segnalare un altro sproposito della nostra dottoressa. Ella ha copiato la storiella della ricerca di ossigeno «verso l’alto» da parte delle vittime da un racconto fittizio di Miklos Nyiszli (poi plagiato da Filip Müller) (228), trasferendone per di più l’ambientazione da una gasazione con Zyklon B ad una gasazione con ossido di carbonio (229).
La nostra esperta in semiotica sorvola ancora su un’altra contraddizione del rapporto Gerstein:
«“I primi morti caddero” - nota Gerstein, precisando nel contempo che nelle “camere a gas” i morti stavano in piedi come colonne di basalto, non avendo spazio neppure per piegarsi!» (230).
Riguardo all’osservazione conclusiva del mio brano citato sopra («senza considerare l’appannamento del vetro»), la Pisanty scrive:
«è sufficiente ricordare che la gassazione a cui assistette Gerstein ebbe luogo in agosto, quando la temperatura esterna era sufficientemente elevata da non provocare fenomeni di condensazione all’interno della camera a gas» (p. 123).
La Pisanty è proprio sfortunata. L’unica volta che argomenta con una parvenza di fondatezza, viene smentita categoricamente da un altro testimone oculare. In effetti Wilhelm Pfannenstiel (vedi sotto, paragrafo 9.5) dichiarò:
«La spia che si trovava in ogni porta si era appannata dall’interno in modo relativamente rapido, sicché dal di fuori non si poteva vedere più nulla» (231).
Seconda obiezione:
«Come potevano 700-800 persone rimanere in vita per 2 ore e 49 minuti in camere a gas di 25 m2 ermeticamente chiuse? Molte di esse, infatti, morirono ancora prima che la gassazione cominciasse (secondo la testimonianza di Rudolf Reder, superstite di Belzec che raccontò lo stesso episodio narrato da Gerstein, ovviamente da una diversa angolazione). È vero che Gerstein dice che “fino a quel momento le vittime, nelle quattro camere già stipate, ancora vivono, vivono...”, ma è piuttosto evidente che l’orrore della situazione lo induca a generalizzare la constatazione che all’interno della camera a gas vi fosse ancora del movimento dopo tutto quel tempo» (p. 123).
Questa sottile interpretazione “semiotica” si basa su una spudorata falsificazione: passi la falsificazione dei testi altrui (è più difficile scoprirla), ma falsificare i miei stessi testi è veramente troppo! Sì, perché tutto ciò che la Pisanty sa di Rudolf Reder è ciò che ha letto nel mio libro. Al riguardo io ho scritto che, secondo questo testimone,
«una volta la “macchina dell’uccisione” si guastò. Informato di ciò, il comandante del campo, un Obersturmführer di cui Reder non ricordava il nome, giunse immediatamente a cavallo e ordinò di riparare la macchina, lasciando nel frattempo nelle “camere a gas” le vittime, le quali dovettero attendere “pare godzin” (un paio d’ore) prima di essere uccise» (232),
ma ho anche precisato che
«egli non menziona affatto la visita di Gerstein, la quale avrebbe dovuto restargli particolarmente impressa nella memoria sia perché sarebbe avvenuta il giorno successivo a quello del suo arrivo al campo, sia per la presenza - non certo consueta - di Globocnik e di Wirth» (233).
In particolare, è falso che Reder abbia raccontato «lo stesso episodio narrato da Gerstein» ed è ancora più falso che egli abbia dichiarato che in questa occasione molte persone «morirono ancora prima che la gassazione cominciasse».
Che cosa sarebbe accaduto se la scena descritta da Gerstein fosse reale? Facciamo un piccolo conto. Il tempo di occupazione dei rifugi antiaerei a tenuta di gas si poteva calcolare con questa formula:

t = v / (20 n)(10 - 0,4) = 0,48 (v / n), dove

v rappresenta la capacità del ricovero in m3,
n il numero degli occupanti il ricovero e
t il tempo di occupazione del ricovero.
«Per l’interpretazione di detta formula, si rammenta che:
il numero 20 rappresenta i litri orari d’anidride carbonica eliminati da ogni uomo;
il numero 4 rappresenta l’anidride carbonica presente nel locale (l./m.3);
il numero 10 rappresenta la massima concentrazione ammissibile (l/m.3) nel locale di carbonica» (234).
Assumendo una media delle vittime di [(700 + 800) : 2 =] 750 e un peso medio delle vittime di 35 kg (menzionato da Gerstein insieme a 30 e 65), che è sicuramente molto basso nonostante la presenza dei bambini; dimezzando infine per questo motivo l’eliminazione di anidride carbonica, risulta che:

a) il volume effettivo di una camera a gas è di {45 - [(35 x 750): 1000] =} 18,75 m3;
b) l’emissione oraria di anidride carbonica è di (5 x 750 =) 3.750 litri,
c) in 2 ore e 49 minuti o 169 minuti l’emissione è di [(3.750 : 60) x 169 =] 10.562,5 litri.

Quest’ultimo valore rappresenta una concentrazione del [(10.562,5 : 18.750) X 100 =] 56,33%, ma una concentrazione del 20% è sufficiente per provocare la morte «nel giro di pochi secondi» (235). In pratica tutte le vittime delle camere a gas sarebbero morte in un’ora: [(3.750 : 18.750) x 100 =] 20% di anidride carbonica.

Ciò premesso, si può valutare bene quanto valga la spiegazione “semiotica” della Pisanti relativa alla «constatazione che all’interno della camera a gas vi fosse ancora del movimento dopo tutto quel tempo».
Quale sia l’onestà polemica dell’allieva di Eco risulta chiaramente dal fatto che ella schiva elegantemente una questione ancora più importante: come era possibile stipare 700-800 persone in 25 m2? Per i difensori d’ufficio di Gerstein questa è proprio un’ «irritante questione», forse la più irritante. Come ho già accennato, Brayard, uno dei maestri della nostra studentessa, si è spaccato la testa per cercare di dare una risposta sensata a questo quesito, ma è riuscito ad architettare solo un banale trucco aritmetico (236).
Terza obiezione:
«Mattogno si sorprende del fatto che l’RSHA affidi il compito di installare camere a gas a Gerstein anziché ad un esperto di Auschwitz, dove era già stato adottato lo Zyklon B. Il suo stupore è immotivato se si considera che l’uso dell’inviato speciale dalla sede di Berlino faceva parte della prassi abitualmente seguita dal regime nazista, anche in quei casi in cui sarebbe stato più economico adottare i tecnici già disponibili in loco» (p. 123).
Ma, di grazia, da dove risulta che «l’uso dell’inviato speciale dalla sede di Berlino faceva parte della prassi abitualmente seguita dal regime nazista»? Forse la Pisanty confonde con gli «inviati speciali» dei telegiornali?
Ecco un’altra dimostrazione della metodologia capziosa della nostra dottoressa. Prima inventa nel rapporto Gerstein la storia dell’ «inviato speciale», indi la erige arbitrariamente a prassi ordinaria del regime nazista, infine deduce che la missione di Gerstein, rientrando in questa prassi ordinaria, non aveva nulla di stupefacente!

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5.
I punti meritevoli di considerazione

Dopo aver liquidato sbrigativamente con questi metodi truffaldini le «obiezioni facilmente confutabili», la Pisanty si accinge ad esaminare «qualche punto meritevole di essere presso in considerazione». A questo riguardo ella rileva:
«Si tratta per lo più di osservazioni su quei brani del rapporto, già segnalati in precedenza, in cui la figura di Gerstein appare un po’ ambigua, tanto che il lettore ha l’impressione che l’autore tralasci qualche anello importante del suo racconto. Ad esempio, non è chiaro come sia conciliabile l’affermazione secondo cui la destinazione del viaggio in Polonia fosse nota solo all’autista con il fatto che Gerstein, pur ignorando la sua destinazione, abbia imbarcato il dottor Pfannenstiel (che evidentemente doveva sapere dove stava andando). Inoltre, il racconto del seppellimento del veleno fuori del lager di Belzec sembra contraddittorio: non si capisce se Gerstein abbia nascosto l’acido cianidrico prima (di sua iniziativa) o dopo avere incontrato Wirth a Belzec. Osservo incidentalmente che tali ambiguità furono notate dal giudice istruttore Mathieu Mattei durante il suo interrogatorio a Gerstein del 19.7.1945 (237), e che in quell’occasione Gerstein rispose che l’acido non fu mai portato dentro il campo di Belzec, ma che fu nascosto a duecento metri da esso dall’autista e da Gerstein stesso, col pretesto che esso si fosse danneggiato e fosse divenuto pericoloso. Giunto al campo (sempre secondo la deposizione), Gerstein informò il comandante Wirth dell’accaduto e quest’ultimo gli diede il permesso di sotterrare l’intera partita di acido a duecento metri dal lager. La spiegazione fornita da Gerstein non è del tutto soddisfacente (altrove si ha l’impressione che la distruzione dell’acido cianidrico sia stata un’iniziativa esclusivamente sua), così come può apparire insufficiente la giustificazione che egli fornisce al giudice sul perché a Berlino nessuno gli abbia chiesto un resoconto della sua missione (Wirth, che aveva una grossa influenza a Berlino, avrebbe sollevato Gerstein dal suo incarico di rendere conto alle autorità centrali dell’esito della missione). Premesso che può sempre darsi che le cose siano andate proprio come Gerstein le racconta, è legittimo sospettare che al resoconto di Gerstein manchi qualche elemento e ci si potrebbe domandare se Gerstein avesse un qualche interesse a fornire un rendiconto incompleto. Ciò nonostante, simili obiezioni non hanno nulla a che vedere con la qualità della sua testimonianza oculare e riguardano piuttosto le circostanze periferiche del viaggio di Gerstein a Belzec e a Treblinka» (pp. 120-121, corsivo mio).
Bisogna apprezzare l’arduo sforzo semiotico con cui la Pisanti tenta di minimizzare le contraddizioni insuperabili del rapporto Gerstein o addirittura di eliminarle insinuando che «può sempre darsi» che il racconto di Gerstein sia veritiero. Ma quale racconto, dato che Gerstein di tale episodio ha fornito due racconti che non sembrano, ma sono contraddittori?
Di fronte a tali contraddizioni, il giudice Mattei ha incalzato :
«Stamattina ci avete dichiarato che quarantaquattro bottiglie di cianuro - il vostro intero carico, una delle bottiglia essendo stata vuotata - non erano arrivate al campo di Belzec perché erano state nascoste dall’autista e da voi stesso a circa 1.200 metri dal campo, poco fa ci avete detto di essere arrivato al campo con il vostro carico. Quando dite la verità?» (238)
Quanto alla pretesa che queste obiezioni non abbiano «nulla a che vedere con la qualità» della «testimonianza oculare» di Gerstein, ho mostrato sopra quanto sia fondata.
Per quanto riguarda la conclusione della missione di Gerstein, solo chi non ha la più pallida idea delle procedure e delle gerarchie delle SS può credere seriamente che forse le cose sono andate proprio come le ha descritte Gerstein. Ampliamo dunque il ristretto orizzonte della Pisanty. Globocnik era all’epoca SS- und Polizeiführer (Capo delle SS e della Polizia) del distretto di Lublino e, in quanto tale, dipendeva dallo Höhere SS- und Polizeiführer (Alto Capo delle SS e della Polizia) del Governatorato generale, SS-Obergruppenführer Krüger. Tuttavia, come capo dell’ “azione Reinhard”, il presunto nome in codice dello sterminio degli Ebrei orientali (239), Globocnik dipendeva direttamente da Himmler. Se la storia raccontata da Gerstein fosse vera, l’ordine di cambiare il sistema di funzionamento delle camere a gas dei campi di sterminio orientali (un «segreto di Stato») non sarebbe potuto venire che da Himmler, il quale lo avrebbe comunicato direttamente da un lato al RSHA per la scelta dell’ufficiale SS da incaricare di questo compito (e, in ottemperanza a quest’ordine, il RSHA si sarebbe rivolto a Gerstein), dall’altro a Globocnik, affinché lo facesse eseguire dall’ufficiale in questione. Come si può dunque credere che Gerstein possa essere ritornato tranquillamente a Berlino senza aver eseguito la sua missione e senza che né Himmler personalmente, né l’ufficiale superiore che aveva dato l’incarico a Gerstein gli chiedesse nulla?
Un altro punto che la Pisanty considera meritevole di attenzione è la cronologia della visita di Gerstein a Belzec e a Treblinka, beninteso, specificando che tale questione rientra semplicemente nella «classe di obiezioni di per sé legittime, ma non rilevanti dal punto di vista negazionista» (p. 121). La Pisanty, non trovando nessun cavillo semiotico da opporre ad essa, deve prendere atto che la contraddizione è reale. Dopo aver ipotizzato che «al momento di scrivere il suo rapporto, Gerstein fosse in stato di agitazione e di offuscamento mentale» (p. 121, corsivo mio), ella riporta la mia presunta conclusione che «allora la giornata della gasazione non è mai esistita» (pp. 121-122) e commenta:
«Ancora una volta, vi è un’enorme sproporzione tra l’elemento dissonante e le conclusioni che ne vengono tratte. Dovendo scegliere tra l’ipotesi che (a distanza di quasi tre anni) Gerstein si sia sbagliato sulle date e quella che egli abbia solo immaginato di vivere una giornata così traumatica come quella descritta nel rapporto, Mattogno opta per la soluzione meno economica» (p. 122).
Ancora una volta la nostra dottoressa dà un saggio della sua capziosità, sia isolando l’argomento dal contesto generale, sia fingendo di non capirne il significato. Al riguardo ho scritto.
«Riassumendo, Gerstein è andato a Treblinka al tempo stesso il 19, il 20 e il 21 agosto e la “gasazione” non è mai avvenuta, perché egli è andato a Belzec il 18 agosto, giorno in cui non vide alcun morto, e il 19 agosto, che è il giorno successivo a quello della “gasazione”, egli è andato a Treblinka! Questa “gasazione” per di più ha avuto luogo al tempo stesso a Belzec e a Lublino! Ma non è tutto. Gerstein ha trascorso nei campi di Globocnik tre giorni secondo il T-1313-b, due giorni, cioè il 17 e 18 agosto, secondo W, il che è ulteriormente in contraddizione con la data della visita a Treblinka, la quale è a sua volta contraddittoria. Infine, siccome la visita di Gerstein ai “campi di sterminio” è durata al massimo tre giorni ed egli ha fatto un viaggio che è durato circa due settimane, è chiaro che egli ha impiegato circa 11 giorni per andare da Berlino a Lublino e per tornare da Treblinka a Berlino!» (240).
A tutto ciò bisogna aggiungere l’ulteriore contraddizione di Gerstein sui campi da lui visitati all’interno di questa cronologia, che sono in pari tempo Belzec e Treblinka; Belzec, Treblinka e Sobibór, ma non Majdanek; Belzec, Treblinka e Majdanek, ma non Sobibór (241).
Di fronte a questo intricato groviglio di contraddizioni insuperabili, è la Pisanty che opta per la soluzione meno economica, tentando di spacciare per un banale errore di date una cronologia chiaramente fittizia.

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6.
Un punto immeritevole di considerazione

Come ho accennato sopra, la Pisanty passa sotto silenzio non solo interi capitoli del mio studio, ma anche gli argomenti più irritanti all’interno dei capitoli che esamina. Uno dei tanti che l’Autrice non ritiene meritevoli di considerazione è il seguente. Supponiamo che Gerstein abbia realmente assistito ad una gasazione omicida a Belzec e che volesse informare gli Alleati di questo mostruoso massacro. Poiché, purtroppo, non tutti hanno il candore della nostra dottoressa, ma taluni, affetti dalla «sindrome del sospetto», non sono disposti a credere a una tale storia senza prove, cosa di cui Gerstein era ben consapevole, ci si attenderebbe che egli abbia raccolto e custodito gelosamente tutte le prove documentarie relative, in originale o in copia, ad esempio, l’ordine di missione scritto del 10 giugno 1942, l’ordine di prelievo dell’acido cianidrico a Kolin, il biglietto ferroviario Varsavia-Berlino, un rapporto sulla sua attività di disinfestazione a Lublino (40.000 tonnellate di tessuti!), insomma, una qualunque traccia del suo viaggio. Ora, quali documenti Gerstein consegnò ai due ufficiali americani insieme al suo rapporto? Nell’ordine:
- una lettera della DEGESCH del 9 giugno 1944,
- 12 fatture della DEGESCH indirizzate a Kurt Gerstein relative alla consegna di 1.185 kg di Zyklon B a Oranienburg e di 1.185 kg ad Auschwitz. E questo è tutto. Perché egli non addusse nessun documento che dimostrasse la realtà del suo viaggio a Belzec? Prevengo la solita insulsa scappatoia della Pisanty relativa all’ignoranza delle circostanze: forse Gerstein ha distrutto questi documenti per timore di essere scoperto dalla Gestapo! In realtà, dopo la presunta visita, egli non solo non aveva nulla da temere dalla Gestapo, ma godeva di tale prestigio presso l’Istituto di Igiene delle Waffen-SS da meritare la pubblica gratitudine del dott. Walter Dötzer nella prefazione di una pubblicazione tecnica ufficiale del suddetto Istituto (242).

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7.
Le critiche indirette

Nella mia analisi del rapporto Gerstein ho ripreso gli argomenti dei critici precedenti che ho ritenuto fondati (scartando quelli infondati) e li ho inseriti in un contesto generale che conferisce loro una forza dimostrativa maggiore. La Pisanty ha esaminato alcuni di questi argomenti nella critica di altri autori revisionisti. Rispondo dunque anche a questi.
1) «Rassinier ironizza inoltre sulla visita di Hitler e Himmler a Lublino il 15 agosto 1942, evidente falso storico. Ma Wellers ha giustamente osservato che non si tratta di una affermazione di Gerstein stesso, bensì di una dichiarazione fatta da Globocnik durante la sua conversazione con Gerstein e Pfannenstiel: dunque, Gerstein si limita a riportare ciò che gli è stato detto e non vi è motivo di supporre che egli stia mentendo consapevolmente» (p. 101).
In realtà, come io ho osservato ancora più giustamente (243), qui non si tratta di una dichiarazione di Globocnik, ma di una dichiarazione di Gerstein che attribuisce tale dichiarazione a Globocnik, e questa non lieve sfumatura non dovrebbe sfuggire a una dottoressa in semiotica. Ovviamente, se si parte dal presupposto che l’incontro descritto da Gerstein sia reale e che egli riporti fedelmente le parole di Globocnik, la cosa cambia, ma soltanto in quanto si assume a priori ciò che deve essere dimostrato.
La spiegazione di Wellers è una semplice arrampicata libera sugli specchi, perché egli pretende che «Globocnik così fa sentire ai suoi interlocutori l’alto grado della sua intimità con i due personaggi onnipotenti del regime» (p. 101).
E perché mai, di grazia, l’onnipotente SS- und Polizeiführer del distretto di Lublino, un SS-Brigadeführer (244) (generale di brigata) presuntamente incaricato da Himmler stesso dello sterminio degli Ebrei orientali e responsabile dei campi di sterminio dell’ “azione Reinhard” avrebbe dovuto far «sentire» con una sciocca vanteria ciò che un misero SS-Untersturmführer (sottotenente) avrebbe sentito naturalmente per la differenza abissale di grado?
Del resto, come ho già rilevato (245), questa non è l’unica sciocchezza che Gerstein mette in bocca a Globocnik, attribuendogli degli spropositi ancora più gravi:
- il rendimento giornaliero degli impianti di sterminio: 15.000 uccisioni a Belzec, 20.000 a Sobibór e 25.000 a Treblinka (246), cifre decisamente assurde sia in considerazione del numero sia della superficie delle rispettive “camere a gas”;
- l’utilizzazione media (durchschnittliche Ausnutzung) degli impianti di Belzec: 11.000 uccisioni dal mese di aprile (seit April) sino ad allora (bisher) (247), il che corrisponde alla gasazione di circa un milione e mezzo di persone, mentre la cifra ufficiale delle vittime è 600.000;
- l’impossibile ignoranza da parte di Globocnik della posizione di Sobibór («Sobibor, bei Lublin, ich weiss nicht genau wo», «Sobibor, presso Lublino, non so esattamente dove»), con lo sproposito supplementare che, trovandosi Gerstein e Globocnik a Lublino, in Polonia, questi senta il bisogno di precisare che tale campo si trovava «presso Lublino in Polonia»: e a quale altra Lublino avrebbe potuto pensare Gerstein?
- il rendimento degli impianti di sterminio in fatto di tessuti: 10 o 20 volte più dell’intera raccolta fatta fino al 17 agosto 1942 (248), ossia 400.000-800.000 tonnellate, l’equivalente di 59.250-118.500 vagoni merci, che in realtà erano stati complessivamente 3.400.
2) «la cifra di 25 milioni di vittime dei lager (e non “i 25 milioni di vittime delle camere a gas”, come sostiene Butz) è eccessiva: ma l’esagerazione numerica è una costante di quasi tutte le testimonianze sui lager nazisti...» (p. 102, corsivo mio).
Rilevo anzitutto che qui la Pisanty mentisce sapendo di mentire, affidandosi forse alla stupidità o alla scarsa memoria del suo lettore. Infatti, nella sua traduzione del rapporto Gerstein, si legge:
«A Belzec e a Treblinka non ci si è presi la briga di calcolare con un minimo di esattezza il numero degli uomini uccisi. Le cifre diffuse dalla British Broadcasting Co. Radio senza filo non sono giuste. In realtà si tratta complessivamente di circa 25.000.000 di uomini. Non soltanto ebrei, ma polacchi e cèchi biologicamente senza valore, secondo l’opinione dei nazisti. Delle commissioni di pseudomedici, in realtà semplici giovani delle SS con camici bianchi e limousines, percorrevano i villaggi e le città della Polonia e della Cecoslovacchia per indicare i vecchi, i tubercolotici, i malati da far sparire, qualche tempo dopo, nelle camere a gas» (p. 89, corsivo mio).
Come si vede, la cifra di 25.000.000 milioni, si riferisce proprio alle vittime delle camere a gas, come sostiene Butz.
Inoltre la Pisanty, come al solito, finge di ignorare il giuramento di Gerstein secondo il quale tutte le sue affermazioni sono vere alla lettera, e ciò vale anche per la seguente spiegazione:
«Analogamente, egli non ha contato a una a una le persone sui convogli, ma ha tradotto in cifre (6700) una generica impressione di moltitudine, magari riportando i dati fornitigli da qualche borioso responsabile del campo» (p. 101).
Un’ultima osservazione sulla freddezza di Gerstein.
«I negazionisti obiettano che in altre occasioni, come quando cronometra la durata esatta della gasazione a Belzec, Gerstein si dimostra freddo e impassibile. Non ritengo che l’impulso a cronometrare il supplizio sia di per sé segno di imperturbabilità: al contrario, esso potrebbe essere dettato dallo sgomento di fronte alla disumana durata della gasazione» (p. 115).
Vediamo il comportamento di Gerstein nella traduzione presentata dalla Pisanty:
«L’ SS-Unterscharführer Heckenholt fa fatica a far funzionare il motore Diesel. Ma non funziona. Arriva lo Hauptmann Wirth. Si vede, ha paura perchè io vedo il disastro. Sì, io vedo tutto, e aspetto. Il mio cronometro “stop” ha segnato tutto, 50 minuti, 70 minuti, il Diesel non funziona [...].
Lo Hauptmann Wirth, furioso, sferra 11, 12 scudisciate sul viso dell’ucraino che è l’aiutante di Heckenholt [...].
Dopo 2 ore e 49 minuti - l’orologio stop ha registrato tutto - il Diesel si mette in moto [...].
Passano altri 25 minuti. Molti, è vero, sono già morti [...].
Dopo 28 minuti pochi sopravvivono ancora. Dopo 32 minuti, infine, tutti sono morti» (pp. 87-88).
E questo sarebbe un atteggiamento «dettato dallo sgomento»? A me sembra invece l’atteggiamento di un bravo burocrate dello sterminio che col suo cronometro - “stop” - controlla attentamente la messa in moto del motore, senza lasciarsi sfuggire nel frattempo in numero esatto delle scudisciate inferte da Wirth, indi - “stop” - controlla tutte le fasi dell’agonia delle vittime.

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8.
Il documento “Tötungsanstalten in Polen”

Nella critica della mia analisi di questo documento la Pisanty fornisce un altro glorioso esempio della sua onestà intellettuale:

«Se il rapporto stilato da von Otter nel 1942 è andato perduto, lo stesso non si può dire di quello redatto da un membro della resistenza olandese (Cornelius van der Hooft) che, venuto a conoscenza della testimonianza di Gerstein tramite l’amico comune Ubbink, nel marzo 1943 scrisse un testo di tre pagine intitolato Tötungsanstalten in Polen (Stabilimenti dell’uccisione in Polonia) in presenza di un uomo di collegamento con l’Inghilterra. Il rapporto fu nascosto in un pollaio e ritrovato dopo la guerra. Esso riprende molte delle informazioni presenti nel rapporto di Gerstein, con qualche minima differenza (cifre, ortografia dei nomi, esatta cronologia, ecc.), che non fa altro che rassicurarci circa la sua autenticità. Infatti non dovrebbe sorprendere che, nel passaggio da Gerstein a Ubbink e da questi a van der Hooft, il racconto originario abbia subìto qualche alterazione - oltretutto, non è nemmeno detto che Gerstein abbia riferito all’amico olandese esattamente gli stessi dettagli che poi ha registrato nel suo rapporto del 1945. Questo documento crea un problema per i negazionisti per via della sua data di stesura in quanto rende difficile ripiegare sull’abituale scappatoia di dichiarare manomessa ogni testimonianza registrata dopo la fine della guerra. Mattogno non si scoraggia di fronte a un simile ostacolo e costruisce la sua argomentazione a partire dalla dichiarazione di apertura del testo olandese:
“Il racconto che segue qui sotto in tutto il suo orrore, la sua incredibile brutalità e atrocità, ci è giunto dalla Polonia con la pressante preghiera di volerne informare l’umanità. La sua veridicità è garantita da un ufficiale SS tedesco di alto grado, il quale, sotto giuramento e con preghiera di pubblicazione, ha reso la seguente dichiarazione...”.
Secondo Mattogno, il riferimento alla dichiarazione resa sotto giuramento e con preghiera di pubblicazione implica che l’ufficiale SS stesso abbia redatto il documento in questione, e che il testo olandese non sia altro che una traduzione di tale dichiarazione scritta. Il fatto che il rapporto sia la traduzione di una stesura originale tedesca sarebbe confermato dalla presenza nel testo di varie locuzioni tedesche.
Se l’ufficiale SS autore del documento fosse veramente Gerstein, allora le discrepanze riscontrate nel testo olandese rispetto al rapporto del 1945 non sarebbero più attribuibili a deformazioni dovute al passaggio orale delle informazioni ivi contenute. Un simile salto logico non viene reso esplicito da Mattogno, ma è necessario per conferire una certa coerenza interna alla sua argomentazione (secondo un principio di carità interpretativa che peraltro Mattogno stesso non applica nella sua lettura dei testi).
Mattogno non sembra molto sicuro circa le conclusioni da trarre da tale presunta anomalia. Inizialmente sostiene che il testo olandese “potrebbe essere un falso elaborato nel 1945 e retrodatato”. Appena tre pagine dopo viene avanzata l’ipotesi che il rapporto del 25 marzo 1943 costituisca “un primo aborto della fantasia di Gerstein, che si è scatenata fino al ridicolo e all’assurdo nelle successive rielaborazioni dell’aprile e del maggio 1945”.
In realtà, l’anomalia non sussiste poiché la premessa dell’argomentazione falsificante è traballante. Non vi è motivo di ritenere che il fatto che la dichiarazione sia stata resa sotto giuramento significhi che essa è stata scritta direttamente dall’ufficiale tedesco di cui parla il testo olandese» (pp. 124-126, corsivo mio).
Premetto che io sono il primo studioso che si sia procurato (con grande fatica), abbia tradotto dall’olandese e abbia analizzato questo “ostacolo”, del quale prima non si sapeva neppure se esistesse davvero.
La Pisanty solleva tre questioni essenziali. Comincio dalla prima.

1) Chi è l’autore del rapporto contenuto nel documento?
La struttura argomentativa della nostra dottoressa è basata su un errore di Louis de Jong, secondo il quale il documento in questione - che evidentemente, all’epoca, egli non aveva letto - fu redatto da Cornelius van der Hoof su racconto di Ubbink. Ciò è impossibile, perché il rapporto è interamente redatto in prima persona singolare. O forse il resistente olandese era riuscito a penetrare a Belzec travestito da ufficiale SS? Questo fatto risulta chiarissimamente dagli ampli stralci del documento che ho pubblicato, dopo la lettura dei quali solo in perfetta malafede si può continuare a sostenere che l’autore del rapporto sia Cornelius van der Hoof.
In polemica con l’indicazione errata di de Jong, ho scritto appunto ciò:
«Tuttavia in tale rapporto si parla di una “dichiarazione” (verklaring) fatta “sotto giuramento” (onder eede) da un “ufficiale SS tedesco di alto grado” (een hooggeplaats Duitsch s.s. officier), il che significa che il testo del rapporto è stato redatto direttamente da questo ufficiale. Esso non può dunque essere un resoconto di terza mano, tanto più che è scritto in prima persona. Ciò fa pensare che il rapporto in questione sia la traduzione di una stesura originale tedesca, come è testimoniato dalle varie locuzioni tedesche - a cominciare dal titolo - e dai vari germanismi che vi ricorrono» (249).
Non menzionando il fatto essenziale che il documento è redatto in prima persona, la Pisanty dimostra tutta la disonestà della sua metodologia argomentativa.

2) Chi è l’ufficiale SS autore della stesura originale del rapporto?
Nel 1985 su tale questione non ho preso una posizione precisa. Trovandomi di fronte a due possibilità ho rilevato che, nel caso che il documento fosse un falso antidatato, il falsario sarebbe stato un incapace - cosa che consideravo alquanto improbabile:
«Che tale stesura originale sia da attribuire a Gerstein è perlomeno dubbio, perché in realtà non esiste alcuna prova conclusiva dell’autenticità del documento. Esso potrebbe essere un falso elaborato nel 1945 e retrodatato. In tal caso, comunque, sarebbe opera di un falsario alquanto maldestro. Infatti, accanto alle indubbie affinità, peraltro piuttosto generiche, con le successive versioni del rapporto Gerstein, esso presenta però rispetto ad esse discrepanze e contraddizioni rilevanti» (250).
Nel caso invece che Gerstein ne fosse stato l’autore, il rapporto, con le sue ulteriori contraddizioni inspiegabili sul piano razionale, avrebbe aggravato ulteriormente il valore e il significato dei rapporti del 1945 - concetto che nel 1985 ho espresso con un tono un po’ acceso:
«Il rapporto del 25 marzo 1943 costituirebbe dunque soltanto un primo aborto della fantasia di Gerstein, che si è scatenata fino al ridicolo e all’assurdo nelle successive rielaborazioni dell’aprile e del maggio 1945» (251).
La Pisanty, con la sua tipica onestà intellettuale, trasforma dunque l’esame di due ipotesi diverse in una contraddizione!
Escludendo l’ipotesi insostenibile del falso antidatato (perfino un bambino avrebbe fatto un riassunto dei rapporti del 1945 migliore del racconto che appare nel documento in questione), resta una sola conclusione: il rapporto contenuto nel documento è stato redatto da Gerstein stesso. Ciò è dimostrato dal seguente particolare nel testo:
«In occasione di conversazioni che feci con ufficiali tedeschi che prestavano servizio in Polonia e in Russia, ascoltai i più incredibili racconti di atrocità e quando poi fu ricevuta la notizia della morte improvvisa della mia cognatina pazza, decisi che non avrei avuto pace finché non avessi scoperto che cosa ci fosse di vero nei racconti di atrocità e nelle morti dei pazzi» (252).
Nel 1945 Gerstein narra lo stesso episodio:
«Quando appresi del massacro dei malati mentali che iniziava a Grafenek e Hadamar e altrove, decisi di tentare in ogni modo di guardare dentro a questi forni e a queste camere e di sapere che cosa vi accadesse, tanto più che una [mia] cognata sposata, Bertha Ebeling, fu uccisa a Hadamar» (253).
Chi può essere la «cognatina pazza» summenzionata se non Bertha Ebeling?
L’unica conclusione che si può trarre da quanto ho esposto è che Kurt Gerstein è l’autore del rapporto contenuto nel documento del 25 marzo 1943 e che egli ha redatto di suo pugno un testo in tedesco intitolato, appunto in tedesco, Tötungsanstalten in Polen, che fu poi tradotto in olandese con l’aggiunta di qualche riga di presentazione.

3) Il rapporto del 25 marzo 1943 rispecchia il rapporto Gerstein del 1945?

La Pisanty sostiene - falsamente - che il rapporto fu reddatto da van der Hooft in base alle informazioni che Ubbink aveva ricevuto da Gerstein; in questo «passaggio» il «racconto originario» avrebbe subìto «qualche alterazione», tuttavia esso presenterebbe solo «qualche minima differenza (cifre, ortografia dei nomi, esatta cronologia, ecc.)» rispetto al rapporto del 1945. Qui ci troviamo di fronte a una patetica menzogna: i due rapporti presentano in realtà contraddizioni sostanziali, in particolare:

a) sulle circostanze della visita ai presunti campi di sterminio:
1943: Gerstein prende l’iniziativa, si mette in contatto con ufficiali SS in Polonia, guadagna la loro fiducia e riesce infine ad «ottenere il consenso» a visitare due «Tötungsanstalten»;
1945: Gerstein viene prescelto inopinatamente dal RSHA per una missione tanto segreta che non gli viene comunicata neppure la destinazione;
b) sui campi visitati:
1943: Gerstein non è riuscito ad «ottenere l’accesso» a Majdanek e a Sobibór;
1945: Gerstein ha ottenuto l’accesso a Majdanek e a Sobibór (254);
c) sul trattamento delle vittime:
1943: al loro arrivo, le vittime vengono rinchiuse in apposite baracche;
1945: al loro arrivo, le vittime vengono lasciate all’aperto,
d) sulla disposizione delle vittime nelle camere a gas:
1943: 700-800 persone vengono ammassate nell’intero edificio;
1945; 700-800 persone vengono ammassate in una sola camera a gas di 20 o 25 m2;
e) sulla tecnica di gasazione:
1943: la gasazione avviene con l’ausilio di un grosso trattore;
1945: la gasazione avviene con un vecchio motore Diesel;
f) sulla durata dell’agonia delle vittime:
1943: le vittime muoiono tutte «nel giro di un’ora»; nessun inconveniente di funzionamento;
1945: le vittime muoiono dopo 32 minuti; il motore si mette in moto dopo 2 ore e 49 minuti;
g) sulla procedura di registrazione delle vittime:
1943: a Belzec e a Treblinka viene registrato statisticamente il numero delle vittime,
1945: a Belzec e a Treblinka non viene registrato statisticamente il numero delle vittime;
h) sul rendimento massimo di Belzec:
1943: 3.200 vittime al giorno;
1945: 15.000 vittime al giorno.

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9.
I garanti di Gerstein

Nel mio studio su Gerstein ho raccolto ed analizzato le testimonianze dei presunti garanti della sua narrazione: il barone von Otter, il vescovo Dibelius, Wilhelm Pfannenstiel e Rudolf Reder.

a) Il barone von Otter

La Pisanty riassume così il capitolo che dedico a questo personaggio (255):
«In una lettera del 1948, il diplomatico svedese von Otter ha confermato di avere incontrato Gerstein su un treno nell’estate 1942, e di averne raccolto la testimonianza e l’accorato appello, così come risulta dal rapporto. Dopo l’incontro, von Otter si mise in contatto col vescovo Otto Dibelius a Berlino per informarsi sull’attendibilità di Gerstein e poi redasse un rapporto dettagliato del suo colloquio con Gerstein. Tale rapporto (andato perduto) non è mai stato spedito in quanto, dovendo recarsi di persona a Stoccolma poco dopo, von Otter decise di riferire oralmente al governo svedese del suo colloquio. Sfortunatamente (o fortunatamente, a seconda della tesi che si vuole sostenere) manca la trascrizione del rapporto orale di von Otter ai funzionari del governo svedese. Nonostante von Otter abbia successivamente confermato che i contenuti del rapporto Gerstein coincidono con ciò che egli apprese durante il suo dialogo in treno, Mattogno ritiene che, siccome non esiste traccia scritta del rapporto di von Otter al governo svedese, “è lecito perlomeno dubitare della realtà della comunicazione orale di von Otter al suo governo”. Mattogno afferma inoltre che non esiste alcuna prova dell’incontro di von Otter con Gerstein, ma che - se anche tale incontro fosse avvenuto - evidentemente esso apparve talmente insignificante al diplomatico svedese da non indurlo nemmeno a stilare un rapporto scritto.
Qui Mattogno fa un uso improprio dei dati di cui dispone: siccome non rimane più traccia del rapporto di von Otter, egli balza alla conclusione (tutta da dimostrare) che tale rapporto non sia mai stato steso» (p. 124).
In realtà è la Pisanty che fa un «uso improprio dei dati». Tutta la sua argometazione si fonda infatti sul presupposto «tutto da dimostrare» che tale rapporto sia esistito.
Con un abile gioco di prestigio, l’allieva di Eco gira le carte in tavola e pretende che non spetti a lei dimostrare l’esistenza del rapporto, ma spetti a me dimostrarne l’ inesistenza!
Ricapitoliamo:
- l’incontro Gerstein-von Otter sarebbe avvenuto sul treno Varsavia-Berlino alla fine di agosto del 1942: il barone von Otter non ha mai dimostrato di essersi trovato a Varsavia in quel periodo e di aver fatto quel viaggio;
- del presunto rapporto scritto redatto da von Otter a Berlino non esiste alcuna traccia documetaria nel Riksarkivet di Stoccolma;
- del presunto rapporto orale di von Otter al governo svedese non esiste parimenti alcuna traccia documentaria.
Nonostante ciò, la Pisanty non solo assume come un fatto indubitabilmente certo che il rapporto in questione sia esistito, ma pretende addirittura che sia io a dimostrare la sua inesistenza!
Eppure il «postulato della storia scientifica» esposto da Baynac parla chiaro: «niente documento, niente fatto accertato».

La lettera del barone von Otter non è del 1948 (come afferma la nostra dottoressa), ma del 23 luglio 1945. Si tratta di una lettera in svedese indirizzata al barone Lagerfelt che ho tradotto e riassunto nel mio libro. Essa, più che confermare il presunto incontro del diplomatico svedese con Gerstein, fa nascere ulteriori dubbi. Anzitutto essa riporta le presunte dichiarazioni di Gerstein in modo estremamente scarno:
«La relazione sulla “fabbrica dei cadaveri” di Belzec è vaga e generica e non raggiunge le sei righe: non si parla di Ebrei né degli altri tre “campi di sterminio”» (256).
In secondo luogo, essa contiene una stridente contraddizione :
«Nella lettera von Otter dichiara che Gerstein aveva proposto “la cosa” (saken) a Dibelius. “La cosa”, come risulta dal contesto, si riferisce al progetto di Gerstein di far diffondere e confermare da una potenza neutrale “la conoscenza dello sterminio umano” (kännedom om människoutrotningen), cioè dello “sterminio” perpetrato nei campi polacchi. La dichiarazione è dunque necessariamente falsa, perché Gerstein si trovava ancora sul treno Varsavia-Berlino e non poteva perciò aver già parlato al riguardo con Dibelius» (257).
La Pisanty pretende che von Otter «abbia successivamente confermato che i contenuti del rapporto Gerstein coincidono con ciò che egli apprese durante il suo dialogo in treno», in realtà, nella sua “conferma”, risalente al 1964(!), come ho dimostrato con un confronto di testi, egli trasse questi «contenuti» da un articolo di Poliakov dell’inizio di quell’anno, plagiando perfino le falsificazioni testuali apportate da costui al rapporto Gerstein! (258)
Ciò mi pare sufficiente per mostrare quale sia l’attendibilità di questo testimone.

b) Il vescovo Dibelius
«Altre persone - scrive la Pisanty - sono state contattate da Gerstein prima del 1945. Tra queste, il vescovo Dibelius e Wilhelm Pfannenstiel. Dibelius, con il quale Gerstein aveva avuto contatti negli anni della guerra, nel 1955 ha a sua volta confermato i contenuti del rapporto. L’unica differenza riguarda il motivo della missione di Gerstein a Belzec, che secondo Dibelius riguardava i metodi di incenerimento dei cadaveri. Tale divergenza è per Mattogno motivo sufficiente di rifiuto della testimonianza di Dibelius» (p. 126).
La questione non è così semplice come la prospetta la Pisanty. Bisogna premettere che il vescovo Dibelius testimoniò al processo di appello contro Gerhard Peters nel 1955 e il caso Gerstein era già stato discusso nel processo del 1949. Poiché era stato convocato a questo processo proprio per il fatto che Gerstein lo aveva chiamato in causa nel suo rapporto, Dibelius, quando rese la sua testimonianza, conosceva già, almeno per sommi capi, il contenuto di tale rapporto. La cosa più strana è che Dibelius, sebbene avesse asserito di aver incontrato nel 1942 Gerstein, il quale gli avrebbe descritto il presunto sterminio a Belzec, pur essendo in possesso di informazioni tanto gravi, abbia parlato per la prima volta del fatto a tredici anni di distanza. Egli avrebbe comunicato le informazioni ricevute da Gerstein al vescovo di Upsala, con preghiera di farle conoscere al mondo, ma di ciò non esiste traccia neppure negli archivi vaticani. Un altro rapporto fantasma. Per conoscere queste informazioni bisogna attendere il 1963. Se al processo Peters Dibelius dichiarò che lo scopo della missione di Gerstein era quello di trovare un modo per eliminare «l’odore pestilenziale» provocato dall’arsione in massa dei cadaveri (il che è in contraddizione non solo con il rapporto Gerstein, ma anche con la storiografia ufficiale (259)), nel 1963 egli aggiunse particolari molto eloquenti: Gerstein era stato testimone di un’ «azione di cremazione» (Verbrennungsaktion) e la gasazione era avvenuta in un... «forno di gasazione»! (Vergasungsofen).
Altrettanto eloquenti sono i rapporti intercorsi tra Dibelius e von Otter. Nella lettera del 23 luglio 1945, il diplomatico svedese scrive che, dopo il presunto colloquio con Gerstein, egli incontrò il vescovo Dibelius dal quale ricevette conferma «dell’attendibilità e dell’identità dell’uomo». Tuttavia nel 1966, al giornalista Pierre Joffroy, von Otter dichiarò:
«La coincidenza ha voluto che incontrassi, alcune settimane dopo, Otto Dibelius alla chiesa svedese di Berlino, in occasione della cerimonia di insediamento di un pastore luterano. Avrei potuto verificare allora se Gerstein mi avesse mentito se non fossi stato già convinto del suo racconto» (260).
Dunque Dibelius non gli aveva confermato un bel nulla. Vediamo ora la versione di Dibelius come viene riportata in un articolo del 1955:
«Alcuni giorni dopo, continuò il dott. Dibelius, von Otter gli si avvicinò con una richiesta di informazioni su Gerstein. Quando anche lo svedese gli parlò della conversazione sul treno espresso, il dott. Dibelius disse che i suoi dubbi venivano meno» (261),
perché egli non aveva creduto alla storia di Gerstein.
Ricapitolando, von Otter prima dichiara di aver ricevuto da Dibelius conferma dell’attendibilità di Gerstein, poi smentisce di aver parlato con il vescovo; questi a sua volta dichiara di aver ricevuto conferma dell’attendibilità di Gerstein da von Otter in un incontro che quest’ultimo afferma e nega e afferma solo per dire il contrario di ciò che dice Dibelius.
Come si vede, queste testimonianze sono estremamente attendibili!

c) Wilhelm Pfannenstiel

La discussione delle dichiarazioni di questo testimone richiede un breve inquadramento storico. Al dottor Wilhelm Pfannenstiel la giustizia alleata contestò esclusivamente la sua presunta partecipazione alla visita ai campi di sterminio orientali in compagnia di Gerstein. Friedländer pubblica la fotocopia di un mandato di cattura spiccato alla fine della guerra dalle autorità francesi in cui, sulla base del rapporto Gerstein, egli stesso considerato sospetto («Kurt Gerstein, che pretende di aver combattuto questa politica di atrocità...»), il dottor Pfannenstiel viene annoverato (262) tra coloro «che hanno preso parte in qualche modo alle atrocità commesse nei campi di concentramento tedeschi». L’imputazione era la violazione dell’articolo 302 del codice penale, che prevedeva la pena di morte (263). Arrestato dagli Alleati, Pfannenstiel fu interrogato in veste di imputato nell’ambito del processo IG-Farben (agosto-1947-giugno 1948) sui suoi rapporti con Gerstein, il cui rapporto del 26 aprile aprile 1945 (PS-1553) era già stato presentato come prova a carico e ammesso dal Tribunale nel processo dei medici (16 gennaio 1947). Per salvarsi la pelle, egli cercò di barcamenarsi in qualche modo confermando di aver assistito ad una gasazione omicida con gas di scarico di un motore Diesel, ma negando di essere mai stato a Belzec e a Treblinka (264). Nel 1949 la storia di Gerstein fu dibattuta al processo contro Peters ed ebbe una larga eco nella stampa tedesca (265). Ma Pfannenstiel, sebbene prosciolto da ogni imputazione dalla giustizia alleata, doveva ancora affrontare lo scoglio finale della giustizia tedesca. Il 6 giugno 1950, quando fu interrogato dal Tribunale provinciale di Darmstadt, egli era ancora un imputato, ma all’interrogatorio successivo (9 novembre 1959) era già divenuto un semplice testimone. In questo periodo egli iniziò la sua carriera di garante ufficiale della veridicità del rapporto Gerstein a beneficio della nascente storiografia olocaustica tedesca. I risultati non si fecero attendere: Pfannenstiel fu prosciolto per mancanza di prove da tre istruttorie intentate contro di lui dal pubblico ministero di Marburg/Lahn (un piccolo atto di gratitudine da parte della magistratura) e tutti i passi relativi a lui, che lo ponevano in cattiva luce, furono espunti nella pubblicazione del rapporto Gerstein del 4 maggio 1945 curata dallo storico Hans Rothfels nel 1953 (un piccolo atto di gratitudine da parte della storiografia) (266). Non stupisce dunque che, a partire dal 1950, Pfannenstiel, ufficialmente, abbia garantito in generale l’attendibilità del rapporto Gerstein (ad eccezione dei passi relativi a lui). In privato, invece, egli poteva permettersi di dire ciò che pensava realmente. Così fece in una lettera a Rassinier datata 3 agosto 1963, nella quale, tra l’altro, scrisse:
«I Suoi sospetti sulla realizzazione (Zustandekommen) del suo rapporto, una letteratura dozzinale (Kolportage (267)) in effetti estremamente inattendibile (höchst unglaubwürdigen) in cui la “finzione” (Dichtung) prevale di gran lunga sulla verità, come pure su come egli è morto, sono probabilmente esatti anche a mio parere» (268).
Poiché Rassinier sospettava che il rapporto Gerstein fosse non veridico e non autentico, essendo opera dei due militari americani che incontrarono per primi Gerstein, è chiaro che Pfannenstiel smentiva completamente la veridicità del rapporto. Nel seguito della lettera Pfannenstiel spiegava che la menzione del suo nome in questa «letteratura dozzinale» gli aveva già causato un grave pregiudizio, perciò egli voleva evitare a tutti i costi un dibattito pubblico sulla sua persona e chiedeva a Rassinier di mantenere il massimo riserbo sul suo nome.
E ciò si capisce benissimo.
D’altra parte la “conferma” di Pfannenstiel del rapporto Gerstein è chiaramente ricalcata su di esso, anche se egli trovò il modo di inserirvi (intenzionalmente?) contraddizioni e assurdità supplementari. Tanto per dirne una, Pfannenstiel, al pari di Gerstein, ha “osservato” il colore «bluastro» (bläulich) dei volti di alcuni cadaveri; in realtà il colorito delle vittime di un avvelenamento da ossido di carbonio è «rosso ciliegia chiaro» (269).
Riguardo a questo testimone, la Pisanty rileva che
«il suo principale interesse è di ripulire la propria immagine imbrattata da quanto emerge dal rapporto Gerstein. A parte ciò, egli non mette in discussione quello che gli storici hanno definito l’ “essenziale” della testimonianza di Gerstein sulle camere a gas di Belzec».
Ciò è perfettamente vero, ma la Pisanty prende l’effetto per la causa: Pfannenstiel accettò il suo ruolo di garante dell’attendibilità di Gerstein proprio per «ripulire la sua immagine», cioè per essere lasciato in pace dalla giustizia e dalla storiografia tedesche. E, come si è visto, la cosa gli riuscì molto bene.
La Pisanty finge anche di non capire il senso della lettera di Pfannenstiel a Rassinier, insinuando:
«Pfannenstiel non specifica quale parte del rapporto Gerstein susciti i suoi sospetti, ma c’è da scommettere che egli si riferisca alla parte che lo riguarda direttamente, mentre le obiezioni circa gli altri dettagli della testimonianza servono a screditare la figura dell’autore...» (pp. 126-127).
Si tratta di un banale trucco interpretativo che la nostra dottoressa realizza da un lato omettendo la mia spiegazione (il fatto che Rassinier riteneva l’intero rapporto Gerstein apocrifo e falso), dall’altro tentando di circuire il lettore per fargli credere che Pfannenstiel non si riferisse all’intero rapporto, ma soltanto ad una «parte» di esso. Il trucco riesce tuttavia solo a metà, perché al lettore attento non può sfuggire ciò che la Pisanty scrive al riguardo a p. 102:
«Per questo autore [Rassinier], il rapporto Gerstein è stato estorto con la forza da due “minus habens” armati fino ai denti (che poi sarebbero gli ufficiali Haught e Evans) i quali, dopo averlo scritto, avrebbero costretto Gerstein a firmarlo, aggiungendovi due righe di suo pugno per conferire ad esso un’apparenza di autenticità».
Se dunque la Pisanty ha capito benissimo la natura dei sospetti di Rassinier, come può pretendere in buona fede che essi si riferissero soltanto ad una «parte» del rapporto Gerstein?

d) Rudolf Reder

Riguardo alla mia discussione su questo testimone, la Pisanty scrive che
«Mattogno osserva che vi sono dei brani nel testo di Reder che riprendono così da vicino le parole impiegate da Gerstein da suscitare il sospetto che che essi siano stati ricalcati, e pertanto conclude che “la ‘testimonianza’ di Rudolf Reder è completamente inattendibile”» (p. 128, corsivo mio).
Dopo aver elencato «i brani incriminati», l’Autrice prosegue:
«Premesso che alcune di queste corrispondenze non dovrebbero sorprendere nessuno, visto che Reder e Gerstein hanno visto gli stessi luoghi e dunque è naturale che li descrivano in maniera analoga, quand’anche Reder fosse venuto a conoscenza del rapporto Gerstein prima di registrare per iscritto la sua testimonianza e avesse impiegato un paio di espressioni usate da Gerstein nel suo testo, ciò non sarebbe motivo sufficiente per negare ogni valore alla sua testimonianza» (p. 128, corsivo mio).
La Pisanty chiude rimarcando che, per i revisionisti, le testimonianze dei sopravvissuti «sono da scartare a priori» (pp. 128-129).
Questa argomentazione è forse il miglior esempio di disonestà intellettuale dell’intero libro; in poche righe la Pisanty riesce a condensare tutta la sua metodologia capziosa.
Anzitutto, l’argomentazione presuppone come un dato di fatto ciò che è invece oggetto di discussione, vale a dire assume aprioristicamente la veridicità della testimonianza di Gerstein e di Reder, in base al principio che tutte le testimonianze dei sopravvissuti sono da accettare a priori. In pratica, il ragionamento della Pisanty si riduce a questo circolo vizioso: assumendo a priori che le testimonianze di Gerstein e di Reder siano vere, ne consegue che, se Reder ha plagiato Gerstein, ciò non infirma la deposizione di Reder, che resta vera.
In secondo luogo, per quanto riguarda i «brani incriminati» (testi praticamente identici che appaiono nelle due testimonianze), la Pisanty applica il nobile metodo dei due pesi e delle due misure: quando si tratta di inveire contro i “negazionisti” che mettono in rilievo le discordanze tra le varie testimonianze, ella sentenzia che
«le inevitabili discrepanze tra le testimonianze fino a un certo punto rafforzano, anziché compromettere, una certa visione dei fatti - se non altro perché allontanano il sospetto che esse emanino tutte da un unico soggetto storico» (p. 32).
Anzi, ella si spinge ancora oltre, facendo sua la seguente asserzione di Marc Bloch:
«la nostra ragione [...] si rifiuta di ammettere che due osservatori, necessariamente situati in punti diversi dello spazio e dotati di ineguali facoltà di attenzione, abbiano potuto notare, punto per punto, i medesimi episodi» (p. 264).
La mente della nostra dottoressa, invece, non solo non si è ribellata di fronte a due testimonianze che proferiscono la stessa assurdità (la presenza di 700-800 persone in locali di 20 o 25 metri quadrati di superficie), non solo non ha sospettato che esse emanino entrambe da «un unico soggetto storico», ma considera naturali «i medesimi episodi», perché entrambi i testimoni hanno visto le stesse cose!
Ella ha infine travisato la mia critica omettendo semplicemente qualunque riferimento alla questione - non certo irrilevante - di come e perché Reder al suo arrivo a Belzec, nonostante i suoi 61 (sessantuno) anni compiuti, non fosse stato gasato immediatamente (tanto più in quanto non aveva alcuna qualificazione specialistica che giustificasse il suo invio al campo); di come e perché egli fosse riuscito a sfuggire a 80 (ottanta) selezioni tra il personale del campo per la camera a gas; di come e perché non fosse stato gasato quando le sue condizioni di salute erano alquanto gravi («ero gonfio, pieno di chiazze blu e il pus [mi] usciva dalle piaghe») - tipico caso di umanitarismo dei carnefici SS! (270) -, delle mirabolanti vicende in cui riuscì a fuggire dal campo (271).
È in base a tutto ciò che ho concluso che la testimonianza di Reder è inattendibile (272).

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10.
Le altre testimonianze «non trattate da Mattogno»

Sfogliando l’opera di Yitzhak Arad sui campi dell’ “operazione Reinhard” (273), la Pisanty ha notato che esistono altre testimonianze di cui non mi sono occupato nello studio sul rapporto Gerstein e lo segnala prontamente:
«Altre testimonianze su Belzec, non trattate da Mattogno, sono quelle di Jan Karski (membro della resistenza polacca che riuscì a infiltrarsi nel lager fingendosi una guardia), di Erich Fuchs (SS-Scharführer), dell’SS Karl Alfred Schluch e di Chaim Hirszman (l’unico superstite di Belzec - oltre a Reder - ucciso nel 1946 da un polacco antisemita). È da osservare che dopo la guerra tutti coloro che furono interrogati su Belzec confermarono l’esistenza nel lager di installazioni per la gassazione per mezzo di gas di scarico (CO) e le descrizioni delle procedure di sterminio sono concordi tra di loro» (p. 269, corsivo mio).
Di Karski mi ero già occupato in dettaglio in uno degli studi che la Pisanty ha preferito escludere dal suo campo di indagine (274).
Nello studio Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia (275) ho ripreso e approfondito le dichiarazioni di Karski e degli altri testimoni invocati dalla Pisanty. Riassumendo in modo estremamente sintetico:

a) Jan Karski

La testimonianza di Karski non solo non conferma quella di Gerstein, come lascia intendere la Pisanty, ma la contraddice radicalmente.
In un rapporto del novembre 1942 egli menzionò dei “treni della morte” (col pavimento cosparso di calce viva) come strumenti di tortura per portare gli Ebrei del ghetto di Varsavia «in campi speciali a Treblinka, Belzec e Sobibor», dove venivano uccisi. Per quanto riguarda Belzec, egli gli attribuiva il metodo di sterminio allora in voga della folgorazione. Nel dicembre 1942 Karski riferì di una sua fantomatica visita - in divisa da poliziotto polacco - ad un “campo di smistamento” a cinquanta chilometri da Belzec, rielaborando il tema letterario dei treni della morte, che ora diventavano essi stessi strumento e metodo di sterminio, mentre a Belzec egli affibiava ancora i metodi di uccisione dei gas letali e della corrente elettrica. Infine, in un libro apparso nel 1944 Karski trasformò il “campo di smistamento” nel campo stesso di Belzec, che ora pretendeva di aver visitato in divisa da guardia estone: esso non era dotato di camere a gas, ma di “treni della morte”, sui quali i detenuti venivano caricati al campo e portati a morire a circa 80 miglia di distanza! (276).
Già da ciò si desume quale sia l’attendibilità del testimone e l’onestà della Pisanty che lo invoca.

b) I testimoni SS

Nel libro menzionato sopra ho esaminato le testimonianze del personale SS del campo, non solo quelle di Fuchs e di Schluch, ma anche di Josef Oberhauser, di Werner Karl Dubois e di Heinrich Gley, dimostrando che esse sono scialbi riassunti del materiale processuale precedente, rispetto al quale non apportano alcuna nuova conoscenza importante, e, al pari di esso, restano assolutamente prive di un qualunque riscontro oggettivo o documentario, sicché non hanno alcun valore storico (277).
Ho inoltre approfondito le testimonianze di Pfannenstiel, ribadendo le conclusioni che ho esposto sopra (278).

c) Chaim Hirszman

Questo testimone è considerato inattendibile da Michael Tregenza, il massimo storico olocaustico del campo di Belzec (279).
Anzi, sorprendentemente, Tregenza considera prive di valore anche le dichiarazioni di Reder e di Gerstein. Egli afferma che «questi rapporti sono contraddittori e contengono inesattezze»; aggiunge che,
«secondo lo stato attuale delle ricerche, bisogna dichiarare anche il materiale-Gerstein come fonte dubbia, anzi, in alcuni punti, bisogna considerarlo fantasticheria»
e conclude asserendo che questi rapporti «devono essere considerati tutti e tre inattendibili»! (280)
Così facendo, Tregenza ha riconosciuto la validità e la fondatezza della mia analisi storica delle testimonianze di Gerstein e di Reder, con buona pace della dottoressa Pisanty.
Chiudo questo capitolo con un’ultima osservazione. L’affermazione della Pisanty che ho messo in corsivo nella citazione riportata sopra, cioè che «dopo la guerra tutti coloro che furono interrogati su Belzec confermarono l’esistenza nel lager di installazioni per la gassazione per mezzo di gas di scarico (CO) e le descrizioni delle procedure di sterminio sono concordi tra di loro», è una grossolana menzogna.
La prima versione sul sistema di uccisione a Belzec che circolò durante la guerra è quella della folgorazione (in parecchie varianti) (281). Al processo di Norimberga questa storia valeva ancora come verità ufficiale. Le indagini condotte tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946 dal giudice istruttore distrettuale del tribunale di Lublino e dal pubblico ministero del tribunale di Zamosc, con l’escussione di decine di testimoni, non solo non avevano chiarito quale fosse stato il presunto metodo di sterminio, ma avevano creato al riguardo una confusione inestricabile. I testimoni indiretti, che parlavano per sentito dire, menzionarono infatti alla rinfusa vari presunti metodi di esecuzione senza essere tuttavia in grado di indicare quale fosse quello unico o prevalente. L’unico testimone diretto polacco, Reder, che aveva parlato di un motore a benzina (e non Diesel, come affermava Gerstein) creò una confusione ancora più inestricabile dichiarando:
«L’aria nelle camere, dopo la loro apertura, era pura, limpida e inodore. In particolare, in esse non si percepiva alcun fumo dei gas di combustione del motore. Questi gas erano convogliati dal motore direttamente all’esterno e non nelle camere (Gazy te były odprowadzane z motoru wprost na dwór a nie do komór)» (282).
Dunque per Reder i gas di scarico del suo motore a benzina venivano dispersi all’aria aperta ed egli ignorava come le vittime morissero, mentre per Gerstein i gas di scarico del suo motore Diesel venivano portati nelle camere e gas e provocavano la morte delle vittime!
Ma possiamo star certi che la dottoressa Pisanty troverà una spiegazione “semiotica” anche a questa lampante contraddizione.

Nella discussione del mio studio Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, la Pisanty ha mostrato tutto lo spirito puramente negazionista e distruttivo da cui era animata; ella, che tanto invocava il «principio di carità interpretativa», non ha voluto riconoscere neppure i meriti indubbi del libro summenzionato, indipendentemente dalla valutazione che si possa esprimere su di esso, cioè la scoperta, traduzione e analisi da parte mia di documenti fondamentali in precedenza ignoti alla storiografia olocaustica occidentale, come vari documenti del dossier Gerstein (pp. 15-31), il rapporto in polacco del 15 novembre 1942 sulla liquidazione del ghetto di Varsavia (pp. 169), il manoscritto in olandese Tötungsanstalten in Polen (pp. 99-107), la lettera in svedese di von Otter al barone Lagerfeldt del 23 luglio 1945 (pp. 89-90), il libretto Bełżec scritto da Rudolf Reder in polacco e la sua deposizione parimenti in polacco nel libro “Documenty i materiały”, entrambi apparsi nel 1946 (pp. 129-137). Il bello è che la Pisanty si è appropriata di questi documenti senza mai citare la fonte e tentando addirittura di usarli contro di me: plagiare un “negazionista” per lei sarebbe stato infatti il massimo del disonore. Allora, meglio plagiare in silenzio!

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CAPITOLO V

RUDOLF HÖSS E IL “CAMPO DI STERMINIO” DI AUSCHWITZ

1.
Considerazioni generali

Nel capitolo 2.6 la Pisanty vuole dimostrare la piena attendibilità delle dichiarazioni di Höss smascherando le perfide trame di tre revisionisti: Faurisson, Stäglich e Mattogno. Mi occuperò dunque soprattutto delle critiche che l’Autrice rivolge alle mie argomentazioni, ma senza trascurare le problematiche generali.
Partendo, come al solito, dal principio dell’attendibilità e veridicità aprioristica di tutte le testimonianze, la Pisanty, nelle dichiarazioni di Höss, non può trovare che «passi ambigui», «qualche zona confusa» (p. 132), «qualche incongruenza» (p. 133), «grinze» e «anomalie» (p. 141), «alcuni anacronismi netti» (p. 142), «piccole inesattezze» e addirittura «un reale problema di datazione» (p. 160) che però si risolve facilmente con una forte dose di «buona volontà». La questione delle torture subìte da Höss è invece per l’Autrice una menzogna revisionistica:
«In genere, la tesi sostenuta dai negazionisti per quanto riguarda le dichiarazioni di Höss è che queste gli sono state estorte durante la sua prigionia, dapprima dagli inglesi che lo interrogarono dopo la cattura, e poi dai polacchi che lo processarono. I mezzi impiegati per ottenere la testimonianza includerebbero varie forme di tortura fisica e mentale e un vero e proprio lavaggio del cervello, alla fine del quale Höss sarebbe diventato un inerme burattino nelle mani degli Alleati» (p. 144).
Evidentemente la Pisanty ignora che questa è proprio la tesi sostenuta da Pressac nell’udienza del 9 maggio 1995 del processo contro Faurisson in base alla famigerata legge antirevisionistica Fabius-Gayssot (13 luglio 1990) per aver pubblicato il libro Réponse à Jean-Claude Pressac sur le problème des chambres à gaz (283):
«Il presidente ha interrogato J.-C. Pressac sulle “confessioni” relative alle gasazioni che Rudolf Höss, ex comandante del campo di Auschwitz, aveva fatto in successione, prima ai suoi guardiani britannici, poi ai suoi guardiani polacchi. “Höss è stato torturato?” ha chiesto il presidente. J.-C. Pressac ha risposto che Höss era stato incontestabilmente torturato e che, “sfortunatamente”, invece di ricredersi sulle assurdità che i Britannici “gli avevano messo nella testa”, egli si era talmente persuaso di queste assurdità che le aveva ripetute ai suoi guardiani polacchi!» (284).
Di fronte al presidente del tribunale, Pressac non ha fatto altro che completare l’argomento che aveva lasciato a metà nel libro del 1993:
«Fermato dagli inglesi nel marzo 1946, [Höss] viene più volte violentemente picchiato e malmenato, fino a sfiorare la morte. Comprendendo di essere perduto essendosi fatto esecutore di ordini criminali, e che sarebbe stato il capro espiatorio dello sterminio ebraico, firma delle confessioni complessivamente veridiche, ma infarcite di esagerazioni imposte e di errori volontari: pensa, a torto, che saranno rapidamente notati, ciò che allora gli darà la possibilità di rettificarli e di precisare il proprio ruolo, attenuandolo, in quel massacro» (285).
Inutile dire che la Pisanty ha “dimenticato” di citare questo passo.

A beneficio del lettore ignorante, la nostra dottoressa premette diligentemente alla sua disquisizione una cronologia degli eventi nella quale non si lascia sfuggire l’occasione per sfoggiare la sua crassa ignoranza storica.
Ella ci informa che nel luglio 1942
«per la seconda volta, Himmler ispeziona il lager, e visita il campo degli zingari (dando l’ordine di annientarli dopo aver selezionato gli abili al lavoro: l’operazione durerà due anni)» (p. 135).
Una visita alquanto improbabile, dato che il campo degli zingari (Zigeunerlager BIIe) fu istituito alla fine di febbraio del 1943 e accolse il primo trasporto il 26 febbraio (286).
Nel 1944, spiega l’Autrice, Höss ritornò ad Auschwitz «per occuparsi dell’evacuazione del lager» (p. 135), mentre, per la storiografia ufficiale, ciò avvenne per occuparsi dello sterminio degli Ebrei ungheresi.
Qualche riga dopo apprendiamo che, nel maggio 1946, Höss «viene interrogato in relazione al processo Pohl e al processo IG-Farben» (p. 135), ma anche questi interrogatori sono alquanto improbabili, perché il processo Pohl iniziò l’8 aprile 1947, il processo IG-Farben nell’agosto 1947 (287), dopo la morte di Höss (16 aprile 1947).
L’Autrice è talmente disinformata che ironizza goffamente sul «dogma negazionista» secondo il quale «durante il triennio 1942-44 nel lager di Auschwitz-Birkenau imperversava l’epidemia di tifo la quale, unita agli stenti della guerra mondiale, sarebbe l’unica responsabile del numero elevato di decessi tra i detenuti» (p. 153).
Singolare affermazione, per chi cita i libri di Pressac. Ma forse l’Autrice, per distrazione, ha dimenticato di leggere il capitolo 7 dell’ultima opera dello storico francese, che è intitolato «L’inizio dell’assassinio in massa degli ebrei e l’epidemia di tifo» (288). Dopo aver legicchiato qua e là cose per lei troppo indigeste, non c’è da stupirsi che la Pisanty, stremata, abbia rinunciato a leggere il «Riepilogo cronologico» che Pressac presenta alla fine del libro, dove sono riportate informazioni come queste:
«7-11 settembre [1942]. La prima epidemia di tifo di Auschwitz raggiunge il suo punto culminante (375 decessi al giorno)» (289).
«8 febbraio [1943]. Con lo Standortbefehl n. 2/43, Höss comanda una “Lagersperre” essendosi sviluppata una seconda epidemia di tifo...» (290).
A p. 139 la Pisanty mostra un’altra grave lacuna nella lettura di Pressac:
«Per risolvere il problema delle cremazioni all’aperto, che diffondono un’inconfondibile odore di carne bruciata per un raggio di chilometri, vanificando i tentativi della propaganda nazista di occultare la vera natura della soluzione finale della questione ebraica, nell’inverno 1942-43 vengono costruiti i grandi crematori I e II (II e III secondo un diverso sistema di numerazione che consideri anche il Crematorio I di Auschwitz) di Birkenau; questi ultimi entrano in funzione nella primavera 1943».
Pressac scrive invece che i crematori II e III furono progettati e costruiti per far fronte all’epidemia di tifo che imperversava ad Auschwitz (291). Sorvolo sull’errore cronologico della Pisanty sull’entrata in funzione del crematorio III (24 giugno 1943) (292).
Passiamo ora agli argomenti della Pisanty.

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2.
La critica di Valentina Pisanty al mio studio Auschwitz le “confessioni” di Höss (293)

La Pisanty introduce le sue osservazioni critiche con la seguente premessa:
«Carlo Mattogno si propone di attaccare la testimonianza di Höss attraverso una strategia argomentativa nuova e ben più sofisticata di quelle precedentemente esaminate» (p. 157).
Ringrazio sentitamente (almeno io non sono un plagiario!).
«In risposta alle accuse lanciate da Nadine Fresco (1980) ai negazionisti di rifiutare a priori qualunque prova dello sterminio nazista e dell’esistenza delle camere a gas, egli ribatte che “la metodologia revisionista non solo non esclude a priori l’esistenza delle camere a gas, ma può tranquillamente partire da questo presupposto per confutare i singoli testimoni oculari” (Mattogno, s.d.: 6).
Indi la Pisanty riassume lo scopo del mio studio, che io ho espresso così:
«Nel caso presente, analizziamo dunque la testimonianza di Rudolf Höss da un punto di vista rigorosamente sterminazionista e dimostriamo - da questo stesso punto di vista - che essa è essenzialmente un’accozzaglia di falsificazioni e contraddizioni, per cui - da un punto di vista rigorosamente sterminazionista - essa è da respingere come falsa; e poiché - da questo stesso punto di vista - essa è falsa, avendola accettata come vera, la storiografia ufficiale ha dimostrato di obbedire alla regola fondamentale che qualunque prova dello sterminio in massa degli Ebrei nelle camere a gas - anche chiaramente falsa - è in sé accettabile» (294).
Come abbiamo visto sopra, a questa regola fondamentale obbedisce anche la Pisanty con la sua «premessa indiscussa».
Considerata la prospettiva dalla quale è scritto, il mio studio è un laconico confronto tra le affermazioni di Höss e i dogmi della storiografia ufficiale al quale la Pisanty riconosce perfino «un certo valore scientifico» (quale onore!):
«Se alla prima parte del suo saggio si poteva ancora riconoscere un certo valore scientifico - basato sulla segnalazione di alcune “anomalie” con cui una storiografia dello sterminio deve misurarsi per inserire la testimonianza di Höss nel sistema probatorio di cui dispone - in questa seconda parte conclusiva traspare la vocazione più propriamente negazionista di questo autore» (p. 166).
Che cos’è questa «seconda parte» sulla quale la Pisanty non dice una parola? Una semplice «Nota sulla polemica Wellers-Faurisson» (295) che, essendo di carattere tecnico, deve essere apparsa troppo indigesta all’Autrice.
Veniamo ora al nocciolo della questione.
Nelle sue dichiarazioni, Höss presenta una cronologia fittizia piena di contraddizioni inestricabili e senza alcun riscontro documentario. Il punto di partenza di questa cronologia fittizia è la presunta convocazione di Höss a Berlino al cospetto di Himmler. Al riguardo, la Pisanty, parafrasando (male) le obiezioni revisionistiche, rileva:
«Ad esempio, il primo colloquio con Himmler sulla soluzione finale, che Höss fa risalire all’estate 1941, presenta delle contraddizioni piuttosto evidenti. Quando Himmler si lamenta del fatto che “i centri di sterminio attualmente esistenti non sono assolutamente in condizione di far fronte alle grandiose azioni previste”, non è chiaro a quali centri egli si possa riferire in quella data. Infatti, il campo di Belzec fu costruito nel marzo 1942, quello di Treblinka tra il gennaio e il giugno 1942, Sobibor fu inaugurato tra il marzo e l’aprile 1942, Lublino tra il 1942 e il 1943 e Chelmno (o Kulmhof), sebbene fosse stato aperto già prima, nell’estate del 1941 non aveva ancora cominciato ad attuare una vera e propria politica di sterminio su base industriale» (p. 142) (corsivo mio).
C’è da chiedersi dove l’Autrice abbia preso questi dati sballati. Secondo la storiografia ufficiale, Treblinka fu costruito tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1942 e fu inaugurato il 23 luglio (296), Sobibór fu inaugurato il 3 maggio (297), Chelmno all’inizio di dicembre del 1941 (298); la costruzione del campo di Lublino iniziò nell’ottobre 1941 (299).
La Pisanty continua:
«A questo punto i casi sono due: o Höss si è confuso sulla data del colloquio, oppure ricorda male le parole di Himmler. In effetti, altri riferimenti fanno dubitare della esattezza della data in cui Höss colloca l’inaugurazione del piano per la soluzione finale. Jean-Claude Pressac, così come Gerald Reitlinger, ritengono che la data del colloquio con Himmler vada spostata di un anno, e quindi collocata nel giugno 1942. In questo modo l’intera cronologia si ricompone, questo episodio “fa sistema” con altri elementi a nostra disposizione e l’anomalia viene risolta» (pp. 142-143).
In realtà questo spostamento di datazione non «fa sistema» proprio per niente, ma crea soltanto ulteriori contraddizioni.
La questione dibattuta qui dalla Pisanty è organicamente connessa ad altre questioni fondamentali che l’Autrice tratta separatamente, isolandole dal contesto generale, perciò, per capire il senso delle mie obiezioni e quello delle sue risposte, è necessario delineare anzitutto questo contesto sulla base delle citazioni essenziali delle dichiarazioni di Höss:
«[Höss] Nell’estate del 1941 - al momento non potrei citare la data esatta - venni improvvisamente convocato a Berlino presso il Reichsführer [Himmler], tramite il suo aiutante» (300).
«[Himmler] Il Führer ha ordinato la soluzione finale della questione ebraica, e noi SS dobbiamo eseguire quest’ordine».
«Apprenderà ulteriori particolari dallo Sturmbannführer Eichmann, del RSHA, che le invierò tra brevissimo tempo».
«[Höss] Poco dopo venne da me ad Auschwitz Eichmann (301), che mi espose il piano delle azioni per i diversi paesi».
«Quindi passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il mezzo non poteva essere che il gas [...]».
«Eichmann promise che si sarebbe informato sull’esistenza di qualche gas di facile produzione e che non richiedesse installazioni particolari, e che mi avrebbe riferito in proposito».
«Andammo a ispezionare il terreno per stabilire il posto più indicato, e stabilimmo che era senz’altro la fattoria [il futuro Bunker 1] situata all’angolo nord-occidentale del futuro terzo settore di edifici, Birkenau [la futura Bauabschnitt III o BIII]».
«Eichmann fece quindi ritorno a Berlino, per riferirgli [a Himmler] il contenuto del nostro colloquio».
«A fine novembre si tenne a Berlino, presso l’ufficio di Eichmann, una conferenza dell’intera sezione per gli Ebrei, alla quale venni invitato a partecipare [...]. Non ci fu comunicato il momento dell’inizio delle azioni né Eichmann era ancora riuscito a trovare il gas appropriato».
«Nell’autunno del 1941, mediante un ordine segreto impartito a tutti i campi di prigionieri di guerra, la Gestapo separò tutti i politruks, i commissari e alcuni funzionari politici e li inviò al campo di concentramento più vicino, perché fossero liquidati. Ad Auschwitz arrivavano di continuo piccoli trasporti di questi uomini, che venivano poi fucilati nella cava di ghiaia presso gli edifici del monopolio, o nel cortile del Block II [Block 11] ».
«In occasione di un mio viaggio di servizio, il mio sostituto, Hauptsturmführer Fritzsch, di sua iniziativa, usò il gas per sterminare questi prigionieri di guerra; fece stipare di Russi le celle situate nella cantina e, proteggendosi con maschere antigas, fece immettere il Cyklon B [Zyklon B], che provocava la morte immediata delle vittime».
«Alla successiva visita di Eichmann, gli riferii sull’impiego del Cyklon B, e decidemmo che quello sarebbe stato il gas da adoperare per le imminenti stragi in massa».
«L’uccisione dei prigionieri di guerra russi mediante Cyklon B, cui ho accennato sopra, continuò, ma non più nel Block II, perché dopo la gasazione l’intero edificio dovette essere arieggiato per almeno due giorni. Venne perciò utilizzata, come camera a gas, la camera mortuaria del crematorio presso l’ospedale, dopo che le porte furono rese a prova di gas e nel tetto vennero aperti dei buchi per l’immissione del gas».
«Non saprei stabilire in quale epoca cominciò lo sterminio degli ebrei, probabilmente già nel settembre 1941, ma forse anche solo nel gennaio 1942» (302).
«Nel giugno 1941 mi fu ordinato di incontrare Himmler a Berlino ed egli mi disse, approssimativamente, quanto segue:
“Il Führer ha ordinato la soluzione della questione ebraica in Europa. Nel Governatorato generale esistono alcuni cosiddetti Vernichtungslager (303) (Belzec, presso Rawa Ruska, Polonia orientale, Tublinka [Treblinka], presso Malina [Malkinia] sul fiume Bug, e Wolzek (304), presso Lublino). Questi campi dipendono dall’Einsatzkommando (Commando operativo) della Sicherheitspolizei (Polizia di Sicurezza) sotto la direzione di alti ufficiali del SIPO e di compagnie di guardie. Questi campi non sono molto efficienti (305) e non possono essere allargati”.
Visitai il campo di Treblinka nella primavera del 1942 per informarmi sulle [sue] condizioni. [...]. Secondo il comandante del campo di Treblinka, nel corso di un semestre erano state gasate 80.000 persone» (306).
«Visitai Treblinka per vedere come vi venissero eseguiti gli stermini. Il comandante del campo di Treblinka mi disse di aver liquidato 80.000 persone nel corso di un semestre. Egli si occupava principalmente della liquidazione di tutti gli Ebrei del ghetto di Varsavia. Egli usava gas monossido [monossido di carbonio] e, a suo parere, i suoi metodi non erano molto efficaci. Quando io costruii ad Auschwitz l’edificio di sterminio [il Bunker 1], usai dunque lo Zyklon B, un acido cianidrico cristallizzato [sic!] che gettavamo nelle camere della morte attraverso una piccola apertura» (307)».
Ricapitoliamo:
1) nell’estate del 1941 Himmler ordina a Höss di attuare lo sterminio ebraico ad Auschwitz;
2) poco dopo Eichmann giunge ad Auschwitz;
3) Höss e Eichmann scelgono il Bunker 1 per lo sterminio ebraico con un gas ancora da trovare;
4) a fine novembre i due non hanno ancora trovato il gas appropriato;
5) nell’autunno del 1941 Fritzsch impiega per la prima volta lo Zyklon B a scopo omicida (prima gasazione ad Auschwitz);
6) nella primavera del 1942 Höss visita Treblinka per vedere il metodo di sterminio impiegato, ma, al suo ritorno ad Auschwitz, opta per lo Zyklon B.
Una cosa è chiara e inequivocabile: la convocazione di Höss a Berlino è necessariamente anteriore alla prima gasazione omicida con lo Zyklon B.
Per superare le contraddizioni esposte dalla storiografia revisionistica e riportate dalla Pisanty, Pressac sposta d’autorità la presunta convocazione di Höss a Berlino all’inizio di giugno del 1942 (308). Ciò porta però ad uno sfacelo cronologico totale.
Anzitutto, la convocazione di Höss a Berlino diventa posteriore alla prima gasazione con lo Zyklon B - che Pressac colloca nel dicembre 1941 (309) (vedremo poi su quale base), il Museo di Auschwitz in settembre (310).
In secondo luogo, l’installazione del Bunker 1, che è posteriore al presunto ordine di Himmler (essendone la conseguenza), diventa anteriore a quest’ordine. Infatti tale installazione, destinata espressamente, secondo Höss, allo sterminio ebraico, avvenne nel maggio 1942 secondo Pressac (311), nel marzo 1942 secondo il Museo di Auschwitz (312).
Tra queste due contraddizioni insuperabili si inseriscono le altre contraddizioni che ne conseguono, in particolare:
• la visita di Eichmann ad Auschwitz, che è anteriore alla scelta del Bunker 1 e dello Zyklon B, diventa ad essa posteriore;
• la visita di Höss a Treblinka, che è anteriore all’installazione del Bunker 1, diventa parimenti posteriore .
Dunque l’artificio di posticipare di un anno la presunta convocazione di Höss a Berlino, non solo non risolve le contraddizioni esistenti nelle dichiarazioni di Höss, ma le aggrava ulteriormente (313).
D’altra parte, se ci si attiene al giugno 1941, oltre alle contraddizioni riportate dalla Pisanty, ne scaturiscono altre ancora, in particolare, la prima gasazione, che il Museo di Auschwitz, sulla base di alcune testimonianze, incurante della posticipazione di Pressac, colloca tuttora al 3-5 settembre 1941 (314), diventerebbe posteriore al novembre dello stesso anno. Sulla questione ritornerò successivamente.
Se dunque la cronologia basata sul 1941 comporta inevitabilmente contraddizioni inestricabili (e quella basata sul 1942 le aggrava ancora di più) è chiaro che qui abbiamo a che fare con una cronologia fittizia che non descrive eventi reali.
Inquadrato il problema, passiamo alle soluzioni della Pisanty.
Dopo aver spostato la presunta convocazione di Höss a Berlino al 1942, la Pisanty tenta di eliminare così le contraddizioni che ne risultano:
«Quanto al punto c), è probabile che il Bunker 1, inaugurato nel maggio 1942, venisse inizialmente impiegato per liquidare i malati del campo, mentre le gassazioni degli ebrei ebbero luogo successivamente. Non c’è dunque alcun motivo per ritenere che la costruzione del Bunker 1 debba essere avvenuta dopo l’ordine di Himmler”» (p. 159).
La Pisanty tenta vanamente di gettare fumo semiotico negli occhi del lettore. In effetti,

• poiché il Bunker 1 fu scelto da Höss e Eichmann per eseguire l’ordine di Himmler di sterminare tutti gli Ebrei;
• poiché lo sterminio ebraico cominciò, secondo Höss, al più tardi nella primavera del 1942,
• poiché i primi trasporti ebraici destinati allo sterminio, secondo il Kalendarium di Auschwitz, giunsero al campo il 20 marzo 1942, data di inaugurazione del Bunker 1 (315),

la costruzione del Bunker 1 deve essere avvenuta necessariamente dopo il presunto ordine di sterminio ebraico di Himmler e in sua esecuzione.
Riguardo alla presunta visita di Höss a Treblinka (non attestata da alcun documento), la Pisanty rileva:
«Ci troviamo qui di fronte a un reale problema di datazione, non risolvibile in base a un riferimento esclusivo alla testimonianza di Höss, che su questo punto è contraddittoria. L’unica certezza è che la visita di Höss a Treblinka non può essere avvenuta nell’estate [nella primavera] 1942 (inaugurazione del lager, liquidazione del ghetto di Varsavia); d’altra parte, se veramente Höss assistette a una cremazione a Treblinka (316), allora la data è ulteriormente spostata in avanti, in quanto lo svuotamento delle fosse comuni e le cremazioni a Treblinka iniziarono nel marzo 1943. Certo, la descrizione delle cremazioni potrebbe riferirsi a un resoconto che gli venne fornito successivamente, anziché a una sua esperienza diretta (317). Ciò nonostante, rimane il fatto che la prima gassazione per mezzo dello Zyklon B ad Auschwitz avvenne comunque prima dell’estate 1942 e, sebbene questo primo esperimento non fosse stato pienamente soddisfacente (non era ancora stata calcolata la dose ideale per sterminare gli esseri umani con questo veleno), la tecnica di gassazione per mezzo del gas di combustione impiegata a Treblinka era comunque meno promettente di quanto non fosse quella usata all’epoca ad Auschwitz: dunque, Höss non aveva molto da apprendere dagli altri campi di sterminio per quanto riguardava questo aspetto del processo di sterminio. Forse lo scopo della visita a Treblinka era, più in generale, di tenersi al corrente delle modalità pratiche della Soluzione finale così come venivano attuate negli altri lager, in particolare per quanto riguarda le tecniche di cremazione.
Come si vede, in mancanza di ulteriori indizi è molto difficile giungere a un’ipotesi soddisfacente per risolvere l’anacronismo presente nel documento in questione. Ma simili punti di arresto momentaneo del progresso conoscitivo sono proprio ciò che fa della “scienza normale” un complesso lavoro di soluzione di rompicapo, e non una semplice opera di compilazione di dati preconfezionati» (pp. 160-161, corsivo mio).
Qui la Pisanty, con un piccolo trucco di sostituzione, sposta l’attenzione del lettore dal problema della data a quello dello scopo della presunta visita di Höss a Treblinka, travisando inoltre ciò che a questo riguardo ha scritto il comandante di Auschwitz.
Il problema essenziale, come ho rilevato sopra, è il fatto che la visita di Höss a Treblinka è inestricabilmente contraddittoria, perché nella sua cronologia è anteriore all’installazione del Bunker 1, ma nella realtà sarebbe necessariamente posteriore ad essa, essendo stato il campo di Treblinka inaugurato il 23 luglio 1942.
Per quanto concerne lo scopo della visita, essa è spiegata da Höss in modo inequivocabile: «Visitai Treblinka per vedere come vi venissero eseguiti gli stermini».
La contraddizione è e resta irremovibile - e non certo per la «mancanza di ulteriori indizi» - e segna un arresto definitivo del «progresso conoscitivo» olocaustico.
Passiamo ora all’esame delle singole questioni.

a) La visita ad Auschwitz di Eichmann

Riguardo ai problemi relativi alla visita di Eichmann ad Auschwitz, la Pisanty scrive:
«Problema: se l’incontro con Himmler avvenne nell’estate 1941, allora i Gaswagen ai quali si riferiva Eichmann non erano ancora stati adottati. Infatti, questo mezzo primitivo di sterminio per mezzo di gas di scappamento fu introdotto solo verso la fine del 1941.
Ma se la data dell’incontro a Berlino va spostata di un anno, in quella data (giugno 1942) erano già cominciate ad Auschwitz e a Birkenau (Bunker 1 e 2) le prime gassazioni con lo Zyklon B, mentre dal resoconto che Höss fornisce dell’incontro con Eichmann risulta che la scelta del gas non fosse ancora stata fatta.
Forse Höss condensa in un’unico ricordo due diversi incontri con Eichmann (o con altri membri delle alte gerarchie naziste): il primo per ispezionare il terreno e parlare dei diversi gas letali (facendo riferimento non ai Gaswagen bensì all’operazione Eutanasia - sospesa nell’agosto 1941 - fino ad allora praticata sui malati di mente), e il secondo per discutere delle esatte modalità della Soluzione finale. Si può ipotizzare che, avendo collocato erroneamente l’incontro a Berlino con Himmler nel giugno 1941, Höss cerchi di ricostruire con il ragionamento gli avvenimenti che non ricorda bene nella loro successione cronologica.
In SF (318) (tr. It.: 174), ci viene detto che “alla successiva visita di Eichmann [dopo le prime gassazioni sperimentali], gli riferii sull’impiego del Cyklon B, e decidemmo che quello sarebbe stato il gas da adoperare per le imminenti stragi in massa”. È possibile che fosse in questa occasione, e non durante l’incontro precedente (avvenuto nell’estate 1941), che i due discussero per la prima volta gli ordini impartiti da Himmler circa lo sterminio degli ebrei.

Anche in questo caso, ogni ipotesi storiografica che possiamo avanzare è fallibile e va accertata in base a ulteriori elementi documentari” (p. 162, corsivo mio).

Di grazia, quali «ulteriori elementi documentari»? Sull’intera questione non esiste un solo documento (319) e, per di più, l’unica persona che avrebbe potuto confermare il racconto di Höss - Eichmann - l’ha smentito categoricamente (320).
Anche in questo caso la Pisanty tenta di deviare l’attenzione dal problema principale: se la presunta convocazione di Höss a Berlino viene attribuita al giugno 1942, tutto il racconto delle visite di Eichmann ad Auschwitz diventa assurdo e l’installazione del Bunker 1, che è una diretta conseguenza dell’ordine di Himmler, avviene prima dell’ordine stesso. Con le sue ipotesi, la Pisanty tortura le dichiarazioni di Höss più di quanto gli Inglesi abbiano torturato il comandante di Auschwitz: con tali cavilli sofistici si può certo spiegare tutto, ma la spiegazione si basa pur sempre su cavilli sofistici. La Pisanty se ne rende ben conto, perché ammette che la sua «ipotesi» è «fallibile», perciò non le resta che rifugiarsi nel solito trucco della mancanza di «ulteriori elementi documentari».

b) La prima gasazione omicida.

Allo studio della prima gasazione omicida ad Auschwitz nello scantinato del Block 11 ho dedicato un libro di 190 pagine che dimostra, con abbondanza di prove, l’infondatezza storica di questo presunto evento (321). L’opera ha scatenato le ire dilettantesche di Liliana Picciotto-Fargion, alle cui basse insinuazioni metodologiche (non sapendo che cosa opporre agli argomenti, questi dilettanti si appigliano disperatamente ai metodi) ho risposto a tono altrove (322). Ho citato questa dilettante perché il suo nome appare - nella pagina che la Pisanty dedica ai rituali ringraziamenti - tra le persone che hanno fornito all’Autrice «preziosi spunti teorici e utili indicazioni bibliografiche» (p. 4), sicché è difficile credere che le nostre due “esperte” in camere a gas non abbiano dibattuto sul mio libro. Fatto sta, comunque, che la Pisanty non lo cita neppure di sfuggita. E la ragione di ciò si capisce benissimo.
Sulla prima gasazione omicida ad Auschwitz la Pisanty scrive:
«Secondo la ricostruzione proposta da Pressac (1993: 34,43), la prima gassazione omicida, effettuata su un gruppo di prigionieri russi e malati giudicati irrecuperabili, avvenne sì nel Block 11 di Auschwitz, ma non nel settembre 1941 come ricorda Höss, bensì nel dicembre dello stesso anno» (p. 271, corsivo mio).
Come ho rilevato altrove (323), Pressac qui non ha «ricostruito» un bel niente: egli si è soltanto appropriato di una mia osservazione polemica (compresi i documenti da me citati) la quale sposta semplicemente la contraddizione dal piano cronologico a quello testimoniale; infatti, premesso che questa presunta gasazione non è attestata da alcun documento d’archivio, ma soltanto da testimonianze, lo spostamento di data in questione equivale alla distruzione dell’attendibilità proprio di quelle testimonianze che, secondo il Museo di Auschwitz, dimostrano la realtà del fatto, poiché alcune di esse indicano con precisione la data del 3-5 settembre e lo spostamento della data a dicembre comporterebbe contraddizioni insuperabili. Appunto per questo, come ho anticipato sopra, il Museo di Auschwitz ha respinto l’interpretazione di Pressac e mantiene tuttora la data del 3-5 settembre 1941.
Segnalo un altro piccolo trucco della Pisanty: Höss non «ricorda» affatto il mese di settembre, come l’Autrice sa bene, perché introduce il racconto del comandante di Auschwitz sulla prima gasazione con le seguenti parole:
«In una data imprecisata dell’autunno 1941, arrivano al campo dei contingenti di prigionieri di guerra russi per essere liquidati» (p. 137).
Lo scopo di questo trucco è chiaro: poiché Höss, come dice Pressac, «non può essere attualmente considerato un testimone affidabile sulle date e sulle cifre» (p. 143, corsivo mio), se si fa credere che la data della prima gasazione riposi esclusivamente sulla testimonianza di Höss, è facile concludere che egli si è sbagliato sulla data e che, fortunatamente, Pressac ha «ricostruito» la data esatta!
Da Pressac la Pisanty ha tratto anche lo sproposito secondo il quale, nella prima gasazione,
«non era ancora stata calcolata la dose ideale per sterminare gli esseri umani con questo veleno [lo Zyklon B]» (p. 160).
Ho confutato questa sciocchezza altrove (324) e non vale la pena di ritornarci sopra. Mi limiterò a segnalarne successivamente una delle implicazioni più importanti.

c) «La prima gasazione a cui Höss assistette»

Nel mio studio su Höss (325) ho rilevato, tra le altre, questa contraddizione nelle dichiarazioni del comandante di Auschwitz:
«La gasazione venne effettuata nelle celle di detenzione del block II [Block 11]. Io stesso (ich selbst), proteggendomi il viso con una maschera antigas, assistetti (habe ...angesehen) all’uccisione. La morte sopravveniva nelle celle stipate, subito dopo l’immissione del gas. Un breve grido, subito soffocato, e tutto era finito. Durante la prima esperienza di gasazione cui assistetti, non riuscii a realizzare appieno ciò che accadeva, forse perché troppo impressionato dall’insieme delle operazioni».
Qualche riga dopo, riguardo alla gasazione immediatamente successiva di 900 Russi nel crematorio I, Höss si dimentica di ciò e dichiara:
«Allora per la prima volta vidi (da sah ich nun zum ersten Mal) in grande quantità i cadaveri di individui gasati, e ciò provocò in me un malessere, un brivido, benché mi fossi figurata peggiore la morte col gas» (326).
La Pisanty argomenta:
«Secondo Mattogno, quest’ultimo brano è contraddittorio rispetto al primo poiché ci costringe ad accettare che Höss abbia assistito a una gasazione “per la prima volta nel Block 11 e al tempo stesso nel vecchio crematorio”. In realtà, la contraddizione non sussiste in quanto è l’autore stesso a fornirci l’elemento per risolverla, ossia il suo stato di turbamento durante l’operazione del Block 11 che gli impedì di registrare accuratamente gli stimoli visivi in entrata.
C’è anche da dire che le prime gassazioni, avvenute nel Block 11, furono molto meno asettiche di quanto non traspaia dalla testimonianza di Höss: durante la prima gasazione sperimentale, infatti, le vittime impiegarono due giorni a morire perché era stata calcolata male la dose letale del gas. Non sorprende allora che Höss sia riluttante ad ammettere il proprio coinvolgimento diretto con le operazioni di sterminio eseguite nel Bunker 11» (p. 163, corsivo mio).
Che cosa significa che il turbamento impedì a Höss «di registrare accuratamente gli stimoli visivi in entrata»? Semplicemente che egli «era presente, senza vedere»! (p. 166).
La Pisanty ha proprio ragione quando scrive: «Qualsiasi interpretazione è buona, purché neghi» (p. 84), e in effetti adotta ella stessa questo principio aberrante che attribuisce alla metodologia revisionistica. Ma questa non è l’unica aberrazione ermeneutica che l’Autrice ci propina in ossequio a tale principio. Eccone un’altra: per risolvere la contraddizione di Höss secondo la quale i trasporti ebraici dall’Alta Slesia di 1.000 persone ciascuno destinati allo sterminio si risolsero nell’uccisione di «centinaia» di persone, la Pisanty ricorre alla... «vena poetica» di Höss. Dunque pur di trarsi d’impaccio ella non rifugge dall’attribuire una «vena poetica» a colui che considera uno spietato massacratore!
Torniamo alla questione della gasazione. Perfino il Museo di Auschwitz, commentando i passi sopra riportati, conferma alla lettera la realtà della contraddizione che ho segnalato:
«Secondo le ricerche attuali, il primo tentativo di uccisione mediante gas ebbe luogo nei sotterranei [scantinati] del Block 11. Non è risultato un secondo caso di gasazione di persone nei sotterranei di questo Block. Sebbene Höss neghi in questa frase di aver assistito al primo esperimento di sterminio con gas, qualche frase dopo conferma la sua presenza a questo esperimento scrivendo quanto segue...[il passo citato sopra]» (327).
Come si vede, ciò complica ulteriormente la questione, perché a tutt’oggi il Museo di Auschwitz afferma che nel Block 11 avvenne una sola gasazione, quella fatta da Fritzsch, durante un viaggio di servizio di Höss, il quale dunque assistette miracolosamente a questo evento in propria assenza!
Per quanto riguarda l’interpretazione della Pisanty, ella scrive sì che (secondo alcune testimonianze), «le vittime impiegarono due giorni a morire», ma dimentica di riferire la testimonianza di Höss:
«La morte subentrò nelle celle stipate [di persone] immediatamente dopo il versamento [dello Zyklon B]» (328).
Riassumendo, nella prima gasazione omicida, alla quale Höss assistette in propria assenza, le vittime morirono in due giorni e nello stesso tempo immediatamente dopo l’introduzione dello Zyklon B. Lascio anche questa piccola «grinza» all’interpretazione semiotica della Pisanty.
Segnalo infine un altro strafalcione della nostra dottoressa, la quale menziona «le prime gassazioni, avvenute nel Block 11», ignorando perfino che - secondo la sua storiografia - in tale Block avvenne una sola gasazione omicida.

d) «La prima operazione di sterminio ebraico»

Su questo punto, la Pisanty riporta come segue le mie osservazioni sulle dichiarazioni di Höss:
«- in PS-3868 Höss dice che “le esecuzioni in massa mediante gasazione cominciarono nel corso dell’estate 1941”;
- in NO-1210 leggiamo: “Nel 1941 arrivarono i primi afflussi di Ebrei dalla Slovacchia e dall’alta Slesia. Le persone inabili al lavoro furono gasate in un locale del crematorio conformemente ad un ordine che Himmler mi diede personalmente”;
- in SF (tr. It.: 174): “Non saprei stabilire in quale epoca cominciò lo sterminio degli Ebrei; probabilmente già nel settembre 1941, ma forse anche solo nel gennaio 1942. La prima operazione riguardò gli Ebrei dell’Alta Slesia orientale”;
- Kia (tr. It.: 130): “nella primavera del 1942 giunsero i primi trasporti di ebrei dall’Alta Slesia, tutti individui da sterminare”» (pp. 163-164, corsivo di V. Pisanty).
Indi l’Autrice commenta:
«La prima citazione è chiaramente dissonante rispetto ad altri frammenti della testimonianza di Höss, e in particolare al fatto che la prima gassazione sperimentale avvenne ad Auschwitz nel settembre (o dicembre?) 1941. D’altronde, ho già aderito alle accuse di scarsa attendibilità rivolte ai documenti PS-3868 e NO-1210. Al momento della stesura del suo memoriale sulla Soluzione finale, invece, Höss sembra meno sicuro della data di inizio dello sterminio ebraico, mentre in KiA essa è decisamente spostata in avanti di qualche mese.
Ancora una volta, non si può fare affidamento sul ricordo di Höss circa la successione cronologica degli eventi: per raggiungere un grado soddisfacente di certezza, occorre riferirsi ad altri documenti meno soggetti all’azione erosiva del tempo. Certo, il margine di incertezza riguardante questo punto storiografico non è poi così drammatico: in fondo, Höss oscilla tra diverse date che ricoprono un lasso di pochi mesi, tale scarto temporale essendo del tutto in linea con i limiti della memoria media di un essere umano (p. 164, corsivo mio)».
In realtà la questione non è solo quantitativa, come finge di credere la Pisanty, ma qualitativa: in mezzo a questo «lasso di pochi mesi» Höss colloca infatti la seguente dichiarazione che ho già riportato sopra:
«A fine novembre [1941] si tenne a Berlino, presso l’ufficio di Eichmann, una conferenza dell’intera sezione per gli Ebrei, alla quale venni invitato a partecipare [...]. Non ci fu comunicato il momento dell’inizio delle azioni né Eichmann era ancora riuscito a trovare il gas appropriato» (corsivo mio).
Ciò è in contrasto con quanto dichiarato da Höss durante la prigionia inglese:
«Le esecuzioni in massa cominciarono nel corso dell’estate del 1941 e durarono fino all’autunno del 1944» (329).
«Io ho organizzato personalmente su ordini ricevuti da Himmler nel maggio [sic] 1941 la gasazione di due milioni di persone tra il giugno-luglio 1941 e la fine del 1943, tempo durante il quale fui comandante di Auschwitz» (330).
La Pisanty concede generosamente che questi documenti hanno una «scarsa attendibilità»: ma per quale ragione se non perché ella stessa ritiene che le dichiarazioni che contengono siano state estorte a Höss con la tortura? (331). Ecco dunque un trucco molto elegante per tentare di eliminare alcune contraddizioni: basta liquidare i documenti che le fanno sorgere come scarsamente attendibili!
La Pisanty inoltre si appella sempre a mo’ di scappatoia ad «altri documenti» che dovrebbero risolvere le contraddizioni di Höss, ma non li cerca mai, e non li menziona neppure quando li ha sotto il naso. In una nota alla sua edizione delle annotazioni del comandante di Auschwitz, Martin Broszat rileva:
«La deportazione ad Auschwitz degli Ebrei dell’Alta Slesia avvenne all’inizio del 1942. Così, ad esempio, secondo una comunicazione del Servizio Internazionale di Ricerca [di Arolsen] all’Istituto di Storia contemporanea [di Monaco] del 27.3.1958 gli Ebrei di Beuthen furono deportati il 15.2.1942» (332).
Ma a questo punto sorge un altro problema: se lo sterminio ebraico, in esecuzione di un ordine di Himmler, è cominciato all’inizio del 1942, come è possibile che Himmler abbia impartito quest’ordine nel giugno 1942?
La Pisanty risponde così:
«Inoltre, non c’è discrepanza nel fatto che qualche convoglio di ebrei slovacchi o provenienti dall’Alta Slesia possa essere stato selezionato per la gassazione prima dell’estate del 1942, ovvero della data in cui potrebbe essere partito l’ordine di Himmler di procedere con la Soluzione finale della questione ebraica. Già prima di questa data, infatti, la politica nazista nei confronti degli ebrei (e in particolare degli ebrei orientali) era mirata alla loro eliminazione fisica, come dimostrano i massacri di Riga, la formazione delle Einsatzgruppen in Lituania, le uccisioni a Vilna e l’impiego di camere a gas mobili a Chelmno. La decisione di eliminare tutti gli ebrei d’Europa non arrivò come un fulmine a ciel sereno ma venne maturata per gradi» (p. 164).
La Pisanty cambia le carte in tavola con il solito trucchetto semiotico. Al riguardo la mia obiezione era un’altra. Esaminiamo la sequela dei presunti avvenimenti.
Nel giugno 1941 Himmler trasmette a Höss il seguente ordine:
«Tutti [alle] gli Ebrei su cui possiamo mettere le mani in questo tempo di guerra, devono essere ammazzati, senza eccezione [ohne Ausnahme]» (333).
In ottemperanza a quest’ordine, tutti gli Ebrei provenienti dall’Alta Slesia vengono uccisi:
«Nella primavera del 1942 giunsero i primi trasporti di ebrei dall’Alta Slesia, tutti individui da sterminare [die alle zu vernichten waren]» (334).
«In origine, secondo le disposizioni di Himmler, tutti i trasporti di Ebrei condotti ad Auschwitz per incarico dell’ufficio di Eichmann, avrebbero dovuto essere sterminati senza eccezione. Così avvenne infatti per gli Ebrei dell’Alta Slesia: ma già coi primi trasporti di Ebrei tedeschi, venne l’ordine di scegliere tutti gli Ebrei, uomini e donne, abili al lavoro e di impiegarli nelle fabbriche di armi. Questo accadeva ancora prima della creazione del campo femminile, poiché la necessità di creare ad Auschwitz un campo femminile sorse appunto da quest’ordine» (335).
In contraddizione con ciò, Höss ha dichiarato.
«Nel 1941 arrivarono i primi afflussi di Ebrei dalla Slovacchia e dall’Alta Slesia. Le persone inabili al lavoro furono gasate in un locale del crematorio conformemente ad un ordine che Himmler mi diede personalmente» (corsivo mio) (336).
Dunque gli Ebrei dell’Alta Slesia furono sterminati tutti e nello stesso tempo in parte.
Con ciò passiamo alla risposta della Pisanty. La questione essenziale, qui, è che, per Höss - e noi ci stiamo occupando delle dichiarazioni di Höss - queste gasazioni non erano il frutto di una sua iniziativa personale (come se avesse pensato: «Dato che gli Ebrei all’Est vengono massacrati, quasi quasi li massacro anch’io!»), ma costituiscono la precisa applicazione di due ordini specifici: uno di sterminio totale, l’altro di sterminio limitato (agli inabili al lavoro). Dunque senza ordine di sterminio, niente sterminio. Ma allora, di nuovo, se lo sterminio ebraico è cominciato all’inizio del 1942, come è possibile che Himmler abbia impartito quest’ordine nel giugno 1942?
Riguardo agli Ebrei slovacchi, che avrebbero dovuto essere sterminati senza eccezione, Höss dichiara:
«Fin da quando cominciarono a giungere i contingenti di Ebrei dalla Slovacchia, in pochi giorni l’affollamento divenne tale che le baracche si riempirono fino al soffitto, mentre i servizi igienici e sanitari avrebbero potuto bastare al massimo per un terzo del numero dei detenuti» (337),
dunque all’inizio gli Ebrei slovacchi non furono “selezionati” per le “camere a gas”, come del resto ammette anche il Kalendarium di Auschwitz (338).

e) Le «inesattezze»

Poiché gli inquirenti inglesi non avevano eccessiva dimestichezza con la storia del campo di Auschwitz, le dichiarazioni di Höss redatte sotto la loro - diciamo - “supervisione” contengono degli spropositi enormi che i Polacchi, più smaliziati, hanno in parte corretto. Così egli «si è sbagliato» (come direbbe la Pisanty: p. 166), tra l’altro, sul numero totale delle vittime, sull’inizio della cremazione all’aperto dei cadaveri dei gasati, sulla data in cui entrarono in funzione i crematori di Birkenau, sul numero dei forni crematori e delle muffole, sulla capacità massima di cremazione di questi impianti, sul numero e la capienza delle camere a gas, sulla tecnica di sterminio nelle camere a gas - come si vede, problemi assolutamente marginali (339).
Qualche esempio significativo. Gli Inglesi, alquanto sprovveduti, fanno “confessare” a Höss che eseguiva le gasazioni omicide con le docce, aprendo il gas tossico invece dell’acqua! (340)
Dal canto loro i Polacchi, privi del senso della misura, hanno fatto “confessare” a Höss che i crematori di Birkenau potevano cremare complessivamente 7.000 cadaveri al giorno! (341)
La Pisanty riporta alcune di queste «inesattezze» e commenta:
«La presenza di simili inesattezze viene giustificata come segue da Pressac:
“Höss partecipava alle “azioni speciali” attenendosi strettamente alle sue mansioni e si occupava solo dei compiti pressoché insormontabili derivanti dalla crescita esponenziale del suo campo, evitando di soffermarsi su considerazioni di ordine morale [e, aggiungerei, nemmeno su quelle di ordine tecnico]. Era presente, senza vedere. Secondo l’autore, tale atteggiamento spiega gli errori involontari riscontrabili in tutta la sua autobiografia” (Pressac,1989: 128)» (p. 166, corsivo mio).
Ecco dunque che, con un altro piccolo trucco, la Pisanty si appoggia all’autorità di Pressac per fargli dire ciò che egli non ha mai detto. Sarebbe perfino offensivo attribuire una tale idea a Pressac, il quale sapeva bene che uno dei compiti del comandante del campo era il controllo delle attività della Zentralbauleitung - e, se Auschwitz era un campo di sterminio, il suo compito maggiore, di cui doveva rispondere personalmente a Himmler, era appunto il controllo accurato di tutto l’apparato dello sterminio, dalle camere a gas ai forni crematori.

f) L’ordine di Himmler di sospendere le gasazioni

A questo riguardo ho rilevato la seguente contraddizione nelle dichiarazioni di Höss:
«... nell’autunno 1944 Himmler ordinò di sospendere immediatamente lo sterminio degli Ebrei» (342).
«Il mio ultimo e importante viaggio di ispezione fu nel marzo 1945 coll’Obergruppenführer Pohl e col dottor Lolling. Visitammo i seguenti campi: Neuengamme, Bergen Belsen, Buchenwald, Dachau e Flossenburg. Io andai insieme coll’Obergruppenführer Pohl e col dottor Lolling e visitai Leitneritz presso Aussig, e un altro grande campo sull’Elba. L’ordine per questo viaggio era per l’Obergruppenführer Pohl. Egli doveva portare personalmente ai vari comandanti dei campi l’ordine che non si doveva uccidere più nessun Ebreo e bisognava fare il possibile per arrestare il tasso di morte dei prigionieri» (343).

La Pisanty commenta:
«Secondo Mattogno, vi è un’insormontabile discordanza tra questi due frammenti. Ma se si tiene conto che i campi citati non erano campi di sterminio veri e propri (bensì campi di concentramento) e soprattutto che nello stato di confusione totale in cui si trovava la Germania alla fine della guerra dovette per forza passare del tempo tra l’emissione dell’ordine di Himmler e la sua diffusione capillare, allora la contraddizione non sussiste» (p. 165).
Un brillante esempio di sofismi semiotici! In effetti, se a questi campi di concentramento Pohl portò l’ordine di Himmler di non «uccidere più nessun Ebreo», ciò significa “semioticamente”
a) che prima vi venivano uccisi degli Ebrei (anche se non in modo sistematico), e
b) che vi venivano uccisi per ordine di Himmler.
Il secondo punto dell’argomentazione della Pisanty è decisamente comico: poiché il presunto ordine di Himmler che poneva fine allo sterminio risalirebbe al periodo «tra la metà di settembre e la metà di ottobre del 1944» (344), - epoca in cui la Germania non si trovava minimamente in uno «stato di confusione totale» - la «diffusione capillare» dell’ordine avrebbe richiesto cinque o sei mesi!
Ma, stranamente, ad Auschwitz sarebbe stato comunicato il 2 novembre 1944 (345), e non certo personalmente dall’Obergruppenführer Pohl.

g) Statistiche e cifre

Su questo punto la Pisanty è piuttosto sbrigativa:
«Nelle sue prime testimonianze, Höss si dimostra impreciso circa il numero degli ebrei immatricolati e gassati ad Auschwitz e le statistiche ebraiche riferitegli da Eichmann. D’altra parte, in SF egli dichiara apertamente la sua ignoranza in merito alle statistiche dei decessi nel lager, e ciò per via della sistematica distruzione da parte delle autorità del campo di tutti i documenti che avrebbero potuto consentire un calcolo di questo tipo» (p. 166).
Esaminiamo anzitutto le affermazioni di Höss al riguardo (346):
«Comandai Auschwitz fino al 1° dicembre 1943 e stimo che vi furono sterminate e giustiziate mediante gasazione e cremazione almeno 2.500.000 vittime; almeno un altro mezzo milione morirono di fame e di malattia, il che dà una cifra totale di circa 3.000.000».
A Norimberga Höss confermò questa cifra a G. Gilbert, lo psicologo della prigione, in una nota redatta il 24 aprile 1946 nella quale, in base al numero e all’entità dei trasporti ebraici, calcolò 2.430.000 vittime.
Nel documento NO-1210 R. Höss affermò che tale cifra risultava da documenti ufficiali:
«Credo che ad Auschwitz siano state messe a morte circa 3.000.000 di persone, circa 2.500.000 mediante camera a gas. Queste cifre sono state ufficialmente messe per iscritto dall’ Obersturmbannführer Eichmann in un rapporto a Himmler».
Dopo la sua estradizione in Polonia, Höss dichiarò:
«In interrogarori precedenti, ho fatto ammontare a due milioni e mezzo il numero degli ebrei condotti ad Auschwitz per essere sterminati. Questa cifra deriva da Eichmann, che la riferì a Glücks, il mio superiore, quando fu chiamato a rapporto da Himmler, poco prima che Berlino fosse accerchiata».
Höss parla poi della distruzione dei documenti relativi allo sterminio e continua:
«Quanto a me, non ho mai conosciuto la cifra complessiva, né ho documenti che permettano di calcolarla. Ricordo soltanto le cifre delle azioni più vaste, che mi sono state ripetutamente citate da Eichmann o dai suoi incaricati:
250.000 Alta Slesia e General Gouvernement
100.000 Germania e Theresienstadt
95.000 Olanda
20.000 Belgio
110.000 Francia
65.000 Grecia
400.000 Ungheria
90.000 Slovacchia.
Non ricordo più le cifre delle azioni minori, ma erano insignificanti rispetto a queste. Ritengo, ad ogni modo, che la cifra di due milioni e mezzo sia eccessiva. Anche ad Auschwitz le possibilità di sterminio erano limitate» (347).
Rilevo anzitutto che Höss fornisce una cifra di vittime tra i detenuti immatricolati (500.000) superiore alla cifra totale dei detenuti immatricolati, che è di 400.207 (348). Si può credere seriamente che egli non conoscesse questa cifra? Aggiungo che Glücks era il capo dell’Amtsgruppe D del WVHA, «Campi di concentramento», che si occupava esclusivamente della gestione dei detenuti immatricolati: perché mai Eichmann avrebbe dovuto fare rapporto a Glücks sul presunto sterminio di detenuti non immatricolati che era di pertinenza esclusiva del RSHA? (349)
Procediamo. Höss si appella ad un rapporto scritto di Eichmann a Himmler per giustificare la cifra di 3.000.000 di vittime (di cui 2.500.000 gasate), indi si appella a dichiarazioni di Eichmann per smentire questa cifra e ridurre il numero delle vittime a meno della metà (1.130.000 più azioni minori «insignificanti»). Poiché la fonte di queste cifre è sempre Eichmann, come si spiega questa enorme divergenza?
In via di principio, nell’ipotesi della realtà dello sterminio ebraico, il fatto che Höss, durante la sua prigionia, non disponesse di documenti relativi alla cifra degli sterminati è più che comprensibile, ma che egli non conoscesse esattamente questa cifra è decisamente assurdo, dato che lo sterminio degli Ebrei era il suo compito fondamentale.
Sorvolo sulle cifre presuntamente comunicate a Höss da Eichmann (350).
Secondo Pressac, il numero degli Ebrei gasati non immatricolati oscilla tra 470.000 e 550.000 (351). Dunque Höss avrebbe aumentato questa cifra da 2 a 4,5 volte: bisogna convenire che si tratta di una strategia difensiva molto singolare!

h) La visita di Höss a Chelmno [Kulmhof]

A questo riguardo ho rilevato la seguente contraddizione nelle dichiarazioni di Höss (352):
«Blobel stava già facendo esperimenti sui diversi modi di cremazione a Kulmhof. Per incarico di Eichmann, doveva mostrarmi le sue installazioni. Mi recai così con Hössler a Kulmhof, per prenderne visione».
La visita avvenne il 16 settembre 1942.
«Durante la visita a Kulmhof vidi anche le installazioni per lo sterminio su autocarri, attrezzati in modo da provocare la morte mediante i gas di scappamento».
«Ho conosciuto di persona soltanto (nur) Kulmhof e Treblinka, ma il primo, quando lo vidi, non era più in funzione (war nicht mehr in Betrieb)».
Dal confronto di questi passi ho concluso:
«Poiché il campo di sterminio di Kulmhof ha cessato di funzionare il 9 aprile 1943, Höss lo ha visitato in pari tempo il 16 settembre 1942 e dopo il 9 aprile 1943».
A questa conclusione la Pisanti obietta che la contraddizione «è solo apparente» e spiega:
«Infatti, verso l’inizio di settembre (cioè poco prima che Höss facesse visita al campo) ebbero ufficialmente fine i trasferimenti di Ebrei dal ghetto di Lodz e, da quel momento in poi, le camere a gas mobili furono adoperate ben poco. Quando ricorda di aver visto le installazioni per lo sterminio su autocarri a Chelmno, il comandante di Auschwitz non dice di averle viste in funzione: di conseguenza, l’affermazione non fa problema» (p. 161, corsivo mio).
L’argometazione è chiaramente sofistica: Höss dice che le installazioni di sterminio non erano in funzione proprio perché l’intero campo «non era più in funzione». Secondo la storiografia ufficiale, i trasporti a Kulmhof terminarono nel marzo 1943 (353), e anche se la prima ondata di deportazioni dal ghetto di Lodz cessò il 12 settembre 1942 (354), ciò non toglie che il campo sia rimasto in funzione fino al marzo 1943 (fino al 9 aprile secondo una fonte polacca).
Anche se, in questo periodo, «le camere a gas mobili furono adoperate ben poco», resta il fatto che il campo era in funzione. Höss infatti non dice di non aver osservato delle gasazioni omicide, ma dichiara
esplicitamente che il campo «non era più in funzione», di conseguenza quest’affermazione «fa problema», anzi fa un grosso problema.

i) Il grasso umano

L’obiezione, rivolta a Faurisson, è meritevole di attenzione perché rappresenta un caso esemplare di ignoranza tecnica, di incomprensione testuale e di tortuosità mentale. La Pisanty scrive:
«Finalmente, Faurisson passa a una nuova obiezione quando sottolinea l’inverosimiglianza presente nella descrizione che Höss fornisce delle cremazioni all’aperto. Anche questo punto diventerà un cavillo di battaglia di tutti i negazionisti che si occuperanno successivamente della testimonianza in questione. In Kia ci viene detto che i membri del Sonderkommando, per mantenere vivo il fuoco nelle fosse comuni, vi versavano sopra il grasso che colava (presumibilmente dai cadaveri). Faurisson ribatte che, così facendo, i cadaveri sarebbero stati arrostiti “allo spiedo come se fossero dei polli” anziché carbonizzati. Non potendo verificare empiricamente la validità dell’obiezione avanzata da Faurisson, posso solo ricordare che il riferimento al grasso umano impiegato per facilitare le cremazioni compare anche in altre deposizioni (autonome rispetto a quella di Höss): Paul Bendel, nel descrivere le fosse crematorie scavate dietro il Crematorio V di Birkenau, parla di una “conduttura per incanalare il grasso umano in una pozza di recupero”. Analogamente, Henryk Tauber - ritenuto da Pressac un testimone attendibile al 95% - ricorda che nel 1944 i cadaveri venivano inceneriti in fosse all’aperto “da cui il grasso fluiva verso un serbatoio a parte, scavato per terra. Questo grasso veniva versato sui cadaveri per accelerarne la combustione” (in Pressac, 1989: 494)(p. 151, corsivo mio)».
Esaminiamo anzitutto il ragionamento. La Pisanty non può verificare sperimentalmente la veridicità della (presunta) obiezione di Faurisson, ma poiché ciò che egli nega è affermato da altri due testimoni (presuntamente) autonomi, allora il fatto è reale! Come se un’assurdità tecnica non restasse tale per il fatto di essere asserita da più testimoni! È come dire che, poiché alcuni testimoni autonomi (ad es. Tauber, Dragon, Bimko) dichiararono che ad Auschwitz morirono 4 milioni di persone, questa cifra è reale!
Passiamo all’aspetto testuale, premettendo che la citazione della Pisanty è senza riferimento alla fonte. Rilevo anzitutto che l’obiezione di Faurisson non si riferisce a Höss, ma a Müller; in secondo luogo che la Pisanty non ha capito niente dell’obiezione. Faurisson riporta l’opinione di uno specialista francese in cremazioni da lui consultato riguardo alla storia delle fosse di cremazione:
«È assurdo edificare dei roghi nelle fosse; non ci si avvicina ad una fornace come ad un piccolo fuoco di legna; dei cadaveri ammucchiati per essere bruciati si carbonizzano lentamente e il grasso è il primo elemento a bruciare; i corpi non si arrostiscono come polli alla brace lasciando colare fiotti di grasso bollente che corre come l’acqua e che si raccoglie con spatole per essere versato sul mucchio...» (355).
La Pisanty, che, come tutti gli sprovveduti, beve senza battere ciglio questa assurdità, avrebbe fatto meglio a chiedere consiglio ai dottori e dottorandi dell’Istututo di Chimica, invece che a quelli dell’Istituto di Comunicazione. Allora avrebbe appreso che:
1. Il punto di infiammabilità dei grassi animali è di 184°C, la loro temperatura di accensione è di 343°C (356);
2. la temperatura di gasificazione delle sostanze combustibili di un cadavere è di 400-500°C; i gas meno infiammabili che si formano da essa, gli idrocarburi pesanti, hanno una temperatura di accensione di 650-700°C (357).
Se dunque nelle fosse di cremazione veniva eseguita l’arsione dei cadaveri, la temperatura del rogo doveva essere di 650-700°C, ma se era tale, l’eventuale grasso colato dai cadaveri sarebbe bruciato all’interno della fossa. Tanto per rendere l’idea, poiché il legno secco ha una temperatura di accensione quasi uguale a quella dei grassi animali, tra i 335 e i 350°C, sarebbe come dire che in un rogo (non si tratta di un focherello da giardino, ma di una supeficie ardente di 360 metri quadrati (358) con un carico di legna ardente di almeno 240 tonnellate!) era possibile recuperare intatti sul fondo della fossa i tronchi che vi cadevano dalla pira. Questo è il primo miracolo. Come il grasso potesse poi attraversare lo spesso strato di carboni ardenti e ceneri che si trovavano sul fondo della fossa per giungere nei serbatoi è il secondo miracolo. Come infine i membri del Sonderkommando, senza alcuna protezione, potessero restare per parecchi minuti sul ciglio della fossa esposti a temperature di 650-700°C tranquillamente intenti a raccogliere con secchi il grasso umano bollente e a versarlo sul roghi, è il terzo miracolo.
Tutto ciò è stato confermato praticamente da una serie di esperimenti di combustione di grasso animale che ho condotto personalmente (359).
La straordinaria incompetenza della Pisanty traspare inoltre dal fatto che, nel suo fallace riassunto dell’argomento di Faurisson, ella considera come scopo della cremazione non già l’incenerimento, bensì la carbonizzazione dei cadaveri!

l) I “Gasprüfer” di Auschwitz

La Pisanty afferma che
«i negazionisti isolano ogni documento che pretendono di analizzare dal suo contesto più ampio, trascurando il fatto che il significato di un corpus di testi come quello costituito dai documenti storiografici attorno a un certo avvenimento non consiste nella somma, bensì nel prodotto dei singoli testi che lo compongono e che si completano e si confermano a vicenda» (p. 67).
Questo trucco metodologico non si può certo imputare alla Pisanty (ma solo perché non conosce i documenti ed è del tutto incapace di un qualunque inquadramento storico), ma a certi storici ufficiali sì. Poiché l’Autrice si appella incautamente a Pressac per puntellare le sue barcollanti elucubrazioni su Höss, mi occuperò di un punto specifico al quale i chiosatori di Pressac danno tanto più peso quanto più sono ignoranti. La Pisanty scrive:
«Per quanto riguarda i dispositivi per la rilevazione del gas a operazione avvenuta, la cui assenza è avvertita da Faurisson come una grave anomalia, Pressac riporta una lettera del 2 marzo 1943 inviata dai tecnici della Topf agli amministratori di Auschwitz avente come oggetto un ordine di 10 rilevatori di gas destinati al Crematorio II. Questa lettera, oltre a replicare alla perplessità espressa da Faurisson, costituisce una di quelle “sbavature” di cui parla Pressac a proposito del tentativo nazista di insabbiare tutto ciò che riguardava lo sterminio degli ebrei. Infatti, osserva Pressac, se il Crematorio II fosse veramente stato ciò che i nazisti (e i negazionisti) pretendevano che fosse - ossia, un innocuo edificio provvisto di forni e di un obitorio - non si capisce che motivo ci fosse di equipaggiarlo di spie per rilevare i resti di acido cianidrico nell’aria, come recita esplicitamente la missiva» (p. 150, corsivo mio).
Prima di procedere, segnalo i soliti spropositi della Pisanty. Anzitutto per Pressac questo documento non è una semplice “sbavatura”, bensì (molto meno modestamente) «la prova definitiva dell’esistenza di una camera a gas omicida nel crematorio II» (360) di Birkenau (corsivo mio). In secondo luogo, questi «rilevatori» non erano delle «spie» che si potesso installare da qualche parte, ma delle semplici cartine reattive (361). Secondo Faurisson, questi “Gasprüfer” o “Anzeigegeräte für Blausäure-Reste” erano destinati alle camere mortuarie del crematorio che dovevano essere disinfestate con lo Zyklon B a causa dell’epidemia di tifo che infuriava al campo (362).
Vediamo dunque il contesto storico in cui si inserisce il documento.
La lettera della Topf summenzionata faceva seguito ad un telegramma inviato dalla Zentralbauleitung di Auschwitz alla Topf il 26 febbraio 1943 che diceva: «Inviate immediatamente 10 Gasprüfer come stabilito. Presentare successivamente il preventivo di costo (Kostenangebot) (363)» (364).
Questo telegramma si colloca in un periodo di forte recrudescenza dell’epidemia di febbre petecchiale (Fleckfieber) che era scoppiata ad Auschwitz all’inizio di luglio del 1942.
L’8 febbraio 1943 Höss, promulgò lo Standortbefehl (ordine della guarnigione) n. 2/43 nel quale comunicò a tutti i suoi subalterni quanto segue:
«Per ordine del capo dell’Amtsgruppe D, SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen-SS Glücks, sul KL Auschwitz viene di nuovo decretata una completa Lagersperre (365). L’ordine trasmesso per telescrivente dal capo dell’Amtsgruppe dice tra l’altro quanto segue: “A causa dell’insorgenza reiterata di casi di febbre petecchiale presso membri delle SS, le concessioni fatte finora nel rilascio delle licenze devono essere annullate”» (366).
Il 12 febbraio l’SS-Sturmbannführer Karl Bischoff, capo della Zentralbauleitung, inviò una lettera all’Amtsgruppenchef C dell’ SS-WVHA, l’SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen SS Hans Kammler, per informarlo del provvedimento ordinato da Glücks. Bischoff scrisse:
«In conseguenza del forte aumento dei malati di febbre petecchiale (367) nella truppa di guardia, il 9 febbraio è stato decretata dall’SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen-SS Glücks la totale Lagersperre sul KL Auschwitz. In relazione a ciò, a partire dall’ 11 febbraio 1943, tutti i detenuti saranno disinfestati e non potranno lasciare il campo (368), il che avrà come conseguenza che i Bauwerke, nei quali sono impiegati prevalentemente detenuti, dovranno fermarsi. La ripresa dei lavori sarà comunicata dalla Zentralbauleitung» (369).
Il 13 febbraio Bischoff, a integrazione della lettera del giorno prima, comunicò al capo della Hauptabteilung C/VI dell’ SS-WVHA, l’SS-Standartenführer Eirenschmalz che
«aumentano sempre di più i casi in cui anche operai civili (370) si ammalano di febbre petecchiale. Per quegli operai civili che hanno abitato insieme ai malati viene regolarmente ordinata dallo Standortarzt (medico della guarnigione) una quarantena di tre settimane» (371).
Nello Standortbefehl n. 3/43 del 14 febbraio, Höss definì esattamente i limiti dello Sperrgebiet (l’area isolata interdetta) e comunicò le disposizioni dell’SS-Standortarzt (il medico della guarnigione):
«Le disinfestazioni vengono eseguite in diretto accordo con l’SS-Standortarzt. [...]. Le disposizioni dell’SS-Standortarzt riguardo alla disinfestazione del reparto di pronto impiego (372) nei trasporti devono essere attuate nel modo più preciso» (373).
Il 18 febbraio Bischoff, con riferimento alla lettera del giorno 12, informò Kammler che
«la disinfestazione dei detenuti è stata eseguita e i lavori sono ripresi il 16 febbraio 1943» (374).
Il 25 febbraio l’SS-Standortarzt di Auschwitz, in una lettera al Chef des Amtes D III dell’SS-WVHA, riassunse così la situazione che esisteva al campo:
«Come già riferito, dopo che nei mesi di novembre e dicembre l’epidemia di febbre petecchiale nel KL Auschwitz era praticamente cessata, a causa dei trasporti arrivati dall’ Est si è verificato di nuovo un aumento dei casi di febbre petecchiale sia tra i detenuti del KL Auschwitz, sia tra i membri della truppa SS. Malgrado i provvedimenti di lotta contro di essa presi immediatamente, fino ad oggi non si è riusciti ad ottenere la cessazione totale dei casi di febbre petecchiale».
L’SS-Standortarzt intendeva adottare dei provvedimenti drastici per eliminare una volta per sempre l’epidemia, il più importante dei quali era una disinfestazione generale:
«Ad accezione dei pochi Kommandos di importanza vitale (aziende alimentari, operai agricoli addetti ad accudire il bestiame e personale d’ufficio) bisognerebbe sospendere per la durata di tre settimane tutto l’impiego lavorativo [dei detenuti] nei grossi campi del KL Auschwitz, cioè nello Stammlager, nel campo maschile e nel campo femminile di Birkenau e nel KGL (375), Bauabschnitt 2. In questo periodo sarà eseguita una radicale duplice disinfestaztione e disinfezione di questi campi, sicché al termine del periodo di quarantena di tre settimane non si potrà più parlare di una infestazione del campo da parte dei pidocchi e verrà eliminato il pericolo di nuovi casi di febbre petecchiale» (376).
Il giorno dopo, il 26 febbraio 1943, la Zentralbauleitung inviò alla ditta Topf il telegramma menzionato all’inizio:
«Absendet sofort 10 Gasprüfer wie besprochen. Kostenangebot später nachreichen» (377).
Se dunque questi Gasprüfer fossero stati realmente degli Anzeigegeräte für Blausäure-Reste (indicatori per resti di acido cianidrico), come dice la lettera della Topf del 2 marzo 1943, la richiesta della Zentralbauleitung rientrerebbe più nel contesto storico reale di una epidemia di tifo combattuta in tutto il campo con l’impiego di Blausäure (Zyklon-B) che nel contesto puramente ipotetico dell’ installazione di una camera a gas omicida nel Leichenkeller 1 del crematorio II. Parlo di contesto puramente ipotetico perché la lettera della Topf del 2 marzo 1943, in sé e per sé, non dimostra nulla: come ho rilevato altrove (378), Pressac presenta qui un classico esempio di petitio principii: i Gasprüfer hanno una funzione criminale perché nel crematorio II esiste una camera a gas omicida, e, inversamente, nel crematorio II esiste una camera a gas omicida perché i Gasprüfer hanno una funzione criminale!
Il contesto storico avvalorerebbe dunque l’interpretazione di Faurisson. A sostegno di questa interpretazione si potrebbe aggiungere che, secondo le disposizioni generali dell’SS-Standortartz, i 200 detenuti che lavoravano alla fine di febbraio 1943 nel crematorio II (379) avrebbero potuto riprendere la loro attività solo dopo una disinfestazione personale, e, conseguentemente, del luogo di lavoro, ossia, appunto, del crematorio II.
In conclusione, anche se i Gasprüfer del telegramma della Zentralbauleitung fossero gli Anzeigegeräte für Blausäure-Reste della lettera della Topf, il contesto storico darebbe ragione a Faurisson e non a Pressac (380).

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3.
Il plagio di Filip Müller

Nello studio Auschwitz: un caso di plagio (381) ho dimostrato che Filip Müller, nella descrizione degli aspetti essenziali del presunto procedimento di sterminio del suo libro già citato - la gasazione delle vittime e la cremazione dei loro cadaveri - ha plagiato sfrontatamente, tramite una traduzione tedesca, un’opera redatta nel 1946 da Miklos Nyszli (382), egli stesso un volgare impostore, come ho dimostrato nel libro “Medico ad Auschwitz”: anatomia di un falso (383), sul quale la Pisanty, non sapendo a che cosa appigliarsi, tace pudicamente. Ella tenta dunque di confutare le mie critiche in questo modo:
«Gli elementi testuali che inducono il principale negazionista italiano ad avanzare l’ipotesi del plagio sono i seguenti:
• il discorso del “dajan” (che secondo Nyiszli fu tenuto nel crematorio III di fronte a 460 uomini del Sonderkommando mentre per Müller avvenne nel Crematorio I) è molto simile nei due testi;
• Müller e Nyiszli forniscono cifre analoghe (circa 3000 cadaveri al giorno) a proposito della capacità di incinerazione dei forni di Birkenau, sebbene tali cifre non corrispondano alle statistiche ufficiali e siano probabilmente eccessive.
Non è da escludere che Müller si sia appoggiato ad altri testi, tra cui quello di Nyiszli, per rinfrescarsi la memoria circa i dettagli che il tempo ha reso imprecisi nel suo ricordo. Ciò non significa che egli abbia mentito ma solo che, presa da sola, la sua testimonianza non basta per giungere a certezze su tali dettagli» (pp. 184-185, corsivo mio).
Tanto per puntualizzare, il testo dei due discorsi non è «molto simile» ma praticamente identico, come risulta dal confronto tra i due testi che ho presentato nello studio summenzionato (384).
Riporto un solo brano tanto per rendere l’idea:
Nyiszli:
«Fürchtet euch nicht vor dem Tod! Welch einen Wert hätte für uns noch das Leben, wenn es uns durch Zufall erhalten bliebe?».
«Non temete la morte! Che valore avrebbe ancora per noi la vita se per caso sopravvivessimo?».
Müller:
«Fürchtet euch nicht vor dem Tod! Was für einen Wert hätte denn das Leben noch für uns, wenn wir es durch einen Zufall retten könnten?»:
«Non temete la morte! Che valore avrebbe ancora per noi infatti la vita se per un caso potessimo salvarci?».

Aggiungo poi che la durata di una cremazione (20 minuti) e il carico di una muffola (385) (3 cadaveri insieme) dei 5 forni a 3 muffole dei crematori II e III non sono «probabilmente eccessivi», ma tecnicamente impossibili. La capacità massima di cremazione di questi impianti, era di 300 cadaveri al giorno; considerando la presenza di corpi di bambini nell’ipotesi della realtà dello sterminio in massa la capacità di cremazione sarebbe salita a 360 (386), che è sempre abissalmente inferiore a quella addotta da Nyiszli-Müller.
Müller ha tratto da Nyiszli anche la capacità totale dei crematori di Birkenau - 10.000 cadaveri al giorno; il povero sprovveduto ignorava infatti che la cifra che appare nella traduzione tedesca (10.000) (387) è un “errore” di traduzione: il testo ungherese menziona infatti due volte 20.000, la prima volta in cifra araba, la seconda in lettere (húszezer) (388).
La Pisanty prosegue così la sua analisi critica:
«Mattogno inoltre osserva che
• la descrizione delle procedure di gassazione mostra molti punti consonanti, in particolare per quanto riguarda la descrizione dei cadaveri ammucchiati verso l’alto. Müller scrive che,
“quando i cristalli di Zyklon B entravano in contatto con l’aria, si sviluppava il gas letale e poi saliva sempre più in alto. Perciò i più grossi e i più forti stavano in cima al mucchio di cadaveri, mentre sotto c’erano soprattutto bambini, vecchi e deboli” mentre nel testo di Nyiszli la descrizione è la seguente:
“Si presenta uno spettacolo orrendo: i cadaveri non sono sparpagliati nel locale, ma sono ammucchiati gli uni sugli altri. Ciò è facilmente spiegabile: il Cyklon gettato dall’esterno sviluppa i suoi gas letali inizialmente all’altezza del pavimento. Solo a poco a poco raggiunge gli strati d’aria più alti. Perciò gli sventurati si calpestano reciprocamente, gli uni si arrampicano sugli altri”.
Secondo Mattogno, tale analogia non è spiegabile con il fatto che lo spettacolo al quale i due testimoni assistettero era lo stesso, perché a suo parere vi è una impossibilità fisica nel fatto che le vittime tendessero ad ammonticchiarsi durante la gasazione: dato che il peso specifico dello Zyklon B è leggermente inferiore a quello dell’aria, esso doveva diffondersi verso l’alto. Dunque, per cercare una via di salvezza, sarebbe stato più logico che le vittime si appiattissero verso il basso.
Tuttavia occorre ricordare che il veleno veniva gettato nelle camere a gas in forma solida e che si volatilizzava solo dopo aver toccato il pavimento. Di conseguenza, era naturale che gli strati inferiori del locale si impregnassero [sic!] di gas prima di quelli superiori» (pp. 185).
Questa argomentazione è un altro brillante saggio di ignoranza testuale e tecnica. Come ho spiegato in uno dei libri sui quali la Pisanty ha deciso saggiamente di tacere,
«il dottor Nyiszli ha inventato questa scena sul presupposto, errato, che lo Zyklon B fosse “cloro in forma granulosa” e il cloro gasoso ha una densità di 2,44 rispetto all’aria, perciò, in una eventuale camera a gas, esso salirebbe appunto dal basso verso l’alto; ma l’acido cianidrico gasoso ha una densità di 0,94, dunque è più leggero dell’aria, perciò ha una grande capacità di diffusione e tende a salire rapidamente verso l’alto, proprio dove, secondo Nyiszli, le vittime, con lotta affannosa, cercavano di ritardare la morte, ma sarebbero invece morte prima delle altre» (389).
Ora, Müller, oltre a plagiare la scena inventata da Nyiszli, plagia anche l’insensata spiegazione fornita da questi, asserendo che forse i più forti che stavano in alto «si erano anche accorti che il gas letale si diffondeva dal basso verso l’alto» (390) - riferimento che la Pisanty si guarda bene dal citare per evitare che il lettore intelligente si accorga che i «molti punti consonanti» non sono altro che un volgare plagio.
Per quanto riguarda il congegno di introduzione dello Zyklon B e di diffusione del gas, Nyiszli parla di tubi di lamiera perforata con sezione quadrata che attraversando il soffitto della “camera a gas” sbucavano all’esterno in appositi camini (391) (il locale misurava per Nyiszli 150 metri invece di 30, ma non stiamo a sottilizzare su questa «piccola incongruenza», come la definirebbe la Pisanty: Nyiszli non aveva mica «il compasso negli occhi»!). Dato l’ammassamento estremo delle vittime nella “camera a gas” - 3.000 persone su una superficie teorica di 210 metri quadrati (392) - i fori bassi del congegno sarebbero stati in massima parte ostruiti dai corpi delle vittime schiacciate contro i congegni, perciò il gas si sarebbe comunque diffuso dall’alto del locale.
Come poi i «forti» si potessero districare in un ammasso umano di 14 persone per metro quadrato per salire sulle teste dei loro compagni di sventura, la Pisanty ce lo spiegherà - senza dubbio semioticamente - alla prossima occasione.
Müller non si è limitato a plagiare le invenzioni termotecnicamente e fisicamente impossibili di Nyiszli. Ecco ad esempio come, da una informazione errata di quest’ultimo, egli fabbrichi una storiella edificante ed “eroica”. Nyiszli, con una terminologia piuttosto approssimativa, parla dei
«giganteschi ventilatori (óriási ventillátorokat) i quali attizzano il fuoco alla giusta temperatura nelle caldaie (kazánokban)» (393),
cioè nei gasogeni (394).
Sebbene Nyiszli pretenda di aver trascorso quattro mesi nei crematori di Birkenau, egli era pur sempre un medico, dunque, applicando quel principio di «carità interpretativa» che la Pisanty mi accusa di non avere - egli non poteva sapere che ciascuno dei 5 forni a tre muffole dei crematori II e III era dotato di un soffiante (Druckluftgebläse) collegato al rispettivo forno mediante apposita tubatura (Druckluftleitung) che sbucava sulla volta di ogni muffola in 4 aperture rettangolari (di cm 10 x 8) (395). Questi soffianti servivano ad apportare aria fredda di combustione alle muffole per la cremazione dei cadaveri, non ad attizzare il fuoco nei gasogeni. Anche i forni a 2 muffole del crematorio I erano dotati dello stesso dispositivo.
Su questo errore di Nyiszli, Müller ricama questa storiella: una volta, nel crematorio I, egli e i suoi compagni del Sonderkommando dimenticarono di spegnere «i ventilatori» di un forno (396), perciò il calore raggiunse una intensità tale che il forno bruciò (durchbrannte), il camino si danneggiò e crollò anche il condotto del fumo (397).
In realtà, se il soffiante fosse rimasto acceso in continuazione, la muffola si sarebbe raffreddata a tal punto che il coke del gasogeno si sarebbe spento per mancanza di tiraggio.
Un tale sproposito, proferito da un sedicente fochista (Heizer) dei forni crematori (398), è decisamente troppo.
Bisogna tuttavia dare atto a Müller che egli non è un mero plagiario: inventa anche in proprio. Egli racconta, tra le altre, questa gustosa storiella: durante l’incendio del crematorio IV, egli si calò nel condotto del fumo dei forni dopo aver aperto «uno dei coperchi di ferro battuto» (einen der gusseisernen Deckel) (399). Sfortunatamente questi «coperchi» non sono mai esistiti! (400)
Sorvolo sulla critica della Pisanty relativa ai plagi minori (dove però ella si guarda bene dal dire che Müller - per rinfrescarsi la memoria, s’intende! - ha plagiato anche il rapporto Gerstein) e vengo alla sua conclusione generale:
«La spiegazione più semplice per giustificare le corrispondenze tra le due testimonianze è che gli episodi riportati da entrambe sono veri. Secondo Mattogno, invece, la convergenza è indice di contraffazione, mentre il fatto che nel suo libro Müller tralasci di dire che conosceva Nyiszli è segno inequivocabile di cattiva coscienza» (p. 186).
La strategia argomentativa adottata dalla Pisanty è semplice: sulla base della sua «premessa indiscussa» che ho illustrato nel cap. III, ella, con un cieco atto di fede (o di malafede?) assume aprioristicamente che una testimonianza che non conosce neppure (iste maledictus ha scritto in tedesco!) sia assolutamente attendibile e veridica, dunque le «corrispondenze» tra le due testimonianze dipendono soltanto dal fatto che i due testimoni hanno visto gli stessi episodi. Peccato che queste «corrispondenze», relative all’aspetto essenziale della testimonianza di Müller, riguardino impossibilità termotecniche e fisiche, il che significa che nessuno dei due testimoni può aver visto gli episodi che narra, dunque il plagio di Müller (che è molto più articolato di quanto possa apparire da queste brevi note) è pienamente dimostrato.
Quanto al fatto che Müller non menzioni Nyiszli - sebbene questi fosse anche medico personale dei membri del Sonderkommando e sebbene Müller fosse amico di Fischer, uno dei tre assistenti del medico ungherese e sebbene, infine, egli nomini il predecessore di Nyiszli (401) - esso è esattamente «un segno inequivocabile di cattiva coscienza».
Quanto la coscienza di Müller fosse cattiva risulta dal fatto che, nella sua deposizione al processo della guarnigione del campo di Auschwitz (1947) egli non menzionò affatto la sua attività come membro del cosiddetto Sonderkommando nei crematori di Birkenau. Nella dichiarazione pubblicata da Kraus e Kulka (1958), Müller la menzionò, ma vi dedicò appena il 45% della sua narrazione, che contiene soltanto una serie di aneddoti fantasiosi, come ad esempio quello del prelievo di carne umana ai detenuti fucilati per la coltura dei batteri. Nel suo libro di memorie (1979), infine, Müller ha dedicato il 25% della narrazione ai fatti relativi al crematorio I e il restante 75% a quelli riguardanti i crematori di Birkenau: dallo 0% al 75%: uno sviluppo letterario sbalorditivo! (402)

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CAPITOLO VI

I SOFISMI EPISTEMOLOGICI DI VALENTINA PISANTY

1.
Testimonianza contro documento

Dall’inizio degli anni Novanta, a causa dell’incalzante pressione revisionistica e per merito di Pressac, il baricentro della storiografia olocaustica si è spostato decisamente dalle testimonianze al documento. In effetti, come ha rilevato Baynac - mi si consenta di citare di nuovo questa fondamentale regola metodologica che sta alla base della storiografia -,
«per lo storico scientifico, la testimonianza non è realmente la Storia, è un oggetto della Storia. E una testimonianza non ha molto peso, e pesa ancora meno se nessun solido documento la conferma. Il postulato della storia scientifica, si potrebbe dire forzando appena la mano, è: niente documento/i, niente fatto accertato».
Di fronte a questo «irritante» dilemma, la Pisanty preferisce fare marcia indietro e dispiega tutta la sua scienza semiotica dedicando pagine e pagine di sottili disquisizioni metodologiche al tentativo di capovolgere la regola summenzionata per conferire il primato assoluto alla testimonianza. Partendo da questo capovolgimento, ella elabora una teoria fittizia che parte da falsi presupposti per giungere a false conclusioni. Vale la pena di esaminare questo brillante esempio di cavillosità semiotica.
Partendo dal principio che:
1) tutte le testimonianze siano indipendenti,
2) tutte le testimonianze contengano solo errori marginali e involontari,
3) al di là di questi errori esse abbiano tutte un «nucleo essenziale» di verità,
la Pisanty costruisce anzitutto la sua metodologia storiografica su questo nucleo, che deve essere pertanto indiscutibile. In questo modo ella crea «il più chiuso dei fondamentalismi», per usare l’espressione che impiega poco avvedutamente contro gli avversari. Alla domanda (per lei) retorica di quale utilità possano avere le testimonianze per la storiografia olocaustica, la nostra dottoressa risponde:
«La risposta ovvia è che al di sotto delle discrepanze individuali rimane un nucleo essenziale al riparo da ogni negazione, e cioè il fatto che ad Auschwitz (e negli altri lager di sterminio) si praticavano sistematicamente uccisioni di massa. Per questo motivo, l’esistenza del genocidio è la premessa indiscussa di ogni serio studio storico su questo argomento, e non la tesi da dimostrare. Si potrà discutere sul come, sul perché, sul dove, sul quando, e perfino sul chi, ma non il fatto in sé, poiché è proprio su questo fatto che tutte le testimonianze si dimostrano concordi» (p. 191).
A questo punto, l’Autrice inserisce un paragone farsesco:
«Non credere al genocidio equivale dunque a negare che si sia consumato un omicidio anche qualora il colpevole sia stato udire chiaramente gridare “sto andando ad ammazzare Rossi” [ma non si poteva discutere perfino sul chi?] (dopo aver pubblicato un libro su come intendeva far fuori Rossi), Rossi sia scomparso, e decine di testimoni abbiano assistito alla sua uccisione. Se, durante il processo, due testimonianze si dimostrano discordanti circa il colore della cravatta dell’assassino, o se un testimone dice che l’uccisione è avvenuta alle 17:35 mentre l’altro giura che il suo orologio segnava le 17:40, se ne conclude forse che l’omicidio non ha avuto luogo e che Rossi se la sta spassando su qualche spiaggia delle Maldive, indifferente al dolore della moglie e dei figli che piangono la scomparsa? No di certo: per balzare a una simile conclusione ci vogliono ben altre anomalie. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che Rossi non è mai stato ucciso, bisognerà pur spiegare il motivo che ha indotto tutti i testimoni a mentire, concordando sulla medesima versione dei fatti» (p. 191, corsivo mio).
Donde la logica conclusione dell’invenzione revisionistica della “congiura” mondiale ebraica:
«Analogamente, per mettere in discussione l’esistenza del genocidio bisogna immaginare che da decenni sia in atto un progetto coerente e concertato di falsificazione storica di cui tutti i testimoni sono direttamente complici. I negazionisti, che spesso ventilano questa ipotesi, non arrivano mai a spiegare dettagliatamente come sia possibile una simile congiura e chi ne sia l’artefice supremo» (p. 191).
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2.
L’omicidio del signor Rossi: un tragico errore giudiziario

Dai giornali:
«Al processo di appello si è scoperto che il giudice di primo grado aveva commesso gravissime violazioni delle norme procedurali: le testimonianze dell’accusa presentavano ben altre anomalie. Un testimone aveva dichiarato che il signor Rossi era stato ucciso in una “camera a vapore”, un altro aveva giurato che era stato asfissiato con il cloro, un altro ancora aveva menzionato come arma del delitto una “sostanza nera” non meglio definita, un altro giurava che il signor Rossi era stato folgorato su una piastra metallica, suscitando le ire di un altro testimone che lo aveva visto con i propri occhi scendere in una cisterna riempita a metà di acqua ed essere folgorato lì, un altro ancora, aveva osservato che l’omicidio era stato consumato asfissiando il signor Rossi con ossido di carbonio, ma un altro testimone, più attento, aveva notato che la vittima era morta perché dalla sua stanza era stata pompata via l’aria. Il giudice si è giustificato affermando che le testimonianze oculari si dimostravano concordi su un “nucleo essenziale”: tutte dicevano che il signor Rossi era stato ucciso. Al giudice è stata riconosciuta l’attenuante di aver letto prima della sentenza il libro della Pisanty».
Traggo anch’io la morale della mia storiella, che è questa: ciò che la storiografia ufficiale definisce il «nucleo essenziale» di molteplici testimonianze discordanti o l’ «essenziale» (p. 127) di un’unica testimonianza contraddittoria, non è altro che l’astrazione irreale che risulta dall’eliminazione sistematica - o dalla fusione - delle contraddizioni. Un caso esemplare di questa metodologia è offerto da Danuta Czech nella creazione della storia ufficiale della prima gasazione ad Auschwitz con una ignobile manipolazione di testimonianze inestricabilmente contraddittorie (403).
Ecco infatti il “quadro storico” che si può ricostruire in base alle testimonianze:
Un giorno, tra la primavera del 1941 e il novembre-dicembre del 1942, ad Auschwitz, nel vecchio crematorio o nello scantinato del Block 11, oppure a Birkenau, fu eseguita la prima gasazione di persone. Alcune testimonianze menzionano la data esatta: il 14 agosto o il 15 agosto, il 3-5 settembre o il 5-6 settembre o il 5-8 settembre o il 9 ottobre 1941. La gasazione fu eseguita dopo l’appello serale, durante la chiusura dei blocchi (Blocksperre), in modo che nessun detenuto potesse vedere ciò che avveniva, oppure in pieno giorno, davanti agli occhi dei detenuti oziosamente sdraiati al sole. Già in precedenza le finestre dello scantinato erano state murate, o ricoperte di terra, o riempite di sabbia o sbarrate con assi di legno. Nel seminterrato del Block 11 furono rinchiusi soltanto prigionieri di guerra russi, che erano solo ufficiali, o ufficiali e sottufficiali, o soldati semplici, o partigiani, o commissari politici, oppure non erano affatto russi, ma polacchi, o erano prigionieri russi e detenuti polacchi. Le vittime della gasazione furono 60 o 200 o 400 o 500 o 600 o 680 o 700 o 850 o 1.473 prigionieri russi e 100-150 o 190 o 196 o 200 o 220 o 250 o 257 o 260 o 300 o 400 o 1.000 detenuti polacchi. Quel che è certo, comunque, è che il loro numero totale fu di 200 o 300 o 320 o 350 o 500 o 696 o 800 o 850 o 857 o 980 o 1.000 o 1.078 o 1.400 o 1.663. I detenuti malati erano stati selezionati nei blocchi ospedale dal dott. Schwela o dal dott. Jungen oppure dal dott. Entress. Questi malati furono portati nelle celle del Block 11 dagli infermieri oppure dai detenuti della compagnia di punizione. Palitzsch da solo o insieme a un SS soprannominato “Tom Mix” o insiema a un altro chiamato lo “strangolatore”, oppure Breitwieser gettarono nel corrodoio o nelle celle tre barattoli di Zyklon B in tutto, oppure 2 barattoli in ogni cella. Lo Zyklon B fu introdotto attraverso la porta o attraverso la presa d’aria di ventilazione (Lüftlungsklappe) o attraverso aperture al di sopra delle porte delle celle. La gasazione fu eseguita nelle celle, o in una sola cella o nel corridoio o nella “camera a gas” e le porte delle celle erano state chiuse ermeticamente oppure divelte.
Le vittime morirono immediatamente oppure erano ancora vive dopo 15 ore. I cadaveri furono evacuati il giorno dopo o la notte dopo o 1-2 giorni dopo o 2 giorni dopo o 3 giorni dopo o il quarto giorno o il sesto giorno, esclusivamente da infermieri, per l’esattezza oltre 20 o 30 o 80, oppure esclusivamente da 20 detenuti della compagnia di punizione. Il lavoro durò un giorno intero o una notte intera o 2 notti o 3 notti. I cadaveri furono svestiti nel corridoio del Block 11, o nel cortile esterno, oppure non furono svestiti affatto. I cadaveri delle vittime furono portati al crematorio e cremati, oppure portati a Birkenau e inumati in fosse comuni, oppure parte cremati e parte inumati (404).
Nonostante questo groviglio inestricabile di contraddizioni di tutte le testimonianze su tutti i punti essenziali della storia, secondo D. Czech, che applica l’aberrante principio esposto dalla Pisanty, la presunta gasazione è comunque un fatto reale, perché «è proprio su questo fatto che tutte le testimonianze si dimostrano concordi»!
Ho anche mostrato che le contraddizioni dei testimoni oculari riguardo ai presunti campi di sterminio orientali non si riferiscono propriamente al colore delle cravatte delle SS, ma presentano «ben altre anomalie» (405).
Per quanto riguarda il valore processuale delle testimonianze, la Pisanty si scaglia contro l’ovvia affermazione di Faurisson (di Baynac e di ogni storico serio) che «le testimonianze non sono prove», osservando melodrammaticamente che egli con ciò rivela «la scarsa considerazione in cui tiene gli stessi principi fondamentali del diritto, per cui le testimonianze hanno valore di prova» (p. 176, corsivo mio). Ma ciò dicendo, rivela essa stessa di non aver ben chiara la non lieve differenza tra giurisprudenza e storiografia.
Come ho ricordato altrove (406), le uniche due volte in cui due testimoni dell’omicidio del signor Rossi (Rudolf Vrba e Arnold Friedmann), in un processo (il processo Zündel del 1985), si sono trovati di fronte ad un vero avvocato difensore (Douglas Christie), libero dai fortissimi condizionamenti ideologici e politici cui avevano dovuto sottostare i loro predecessori, hanno fatto una figura talmente grama, talmente meschina che si sono rifiutati entrambi di comparire al secondo processo Zündel del 1988, al pari del resto del perito dell’accusa: Raoul Hilberg (407).
Come ho rilevato in un altro studio, messo alle strette dall’avvocato Christie, Vrba si è ridotto a fare appello alla «licentia poetarum», mentre Friedmann (che aveva dichiarato sotto giuramento non solo di aver visto con i propri occhi uscire dai camini dei crematori fiamme alte quattro metri, ma anche di riuscire a individuare la nazionalità delle vittime cremate in base al colore delle fiamme!) dovette ammettere che egli con i propri occhi non aveva visto un bel nulla e che le sue conoscenze si basavano sul sentito dire.

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3.
La «cospirazione giudaica mondiale».

La Pisanty è letteralmente ossessionata dall’idea monomaniacale che i revisionisti non solo credano ad una «cospirazione giudaica mondiale», ma che questa teoria sia addirittura il fondamento stesso del revisionismo: «l’ipotesi negazionista non sta in piedi senza l’ausilio di una vaga teoria della cospirazione sociale»! (p. 209). Come vedremo nel paragrafo seguente, questa posizione costituisce solo in apparenza un capovolgimento della tesi della maestra Lipstadt, la quale sostiene che il revisionismo è il risultato di una cospirazione nazista. L’intero libro è costellato di allusioni a questa teoria, che nelle conclusioni, come vedremo, la Pisanty sviluppa fino al visionarismo. Eccone una bella crestomazia (corsivo mio):
«Viene qui riproposta l’antica idea della cospirazione giudaica mondiale, compiuta attraverso la falsificazione dei documenti (compreso tutto il materiale fotografico relativo al genocidio)» (p. 12).
«Ma in questo caso sarebbe necessario chiamare in causa una qualche variante della teoria sociale della cospirazione» (p. 31).
«... oppure una determinazione precisa (che assume la forma canonica del complotto)» (p. 32).
«Il sospetto fine a sé stesso [...] diventa un sintomo della sindrome del complotto ...» (p. 67).
«...entrambi i modelli risentono infatti di una sindrome del sospetto (a sua volta influenzata da una teoria della cospirazione)...» (p. 79).
«... ansia demistrificatrice ed ermetismo complottardo...» (p. 81).
«Autore apertamente antisemita, nonché convinto sostenitore della teoria della cospirazione giudaica...» (p. 152).
«... per questo motivo vanno alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori che, nella loro ottica, non possono che ridurre a una qualche cospirazione» (p. 170).
«Dopodiché si potrà giudicare se tale ricostruzione risponda o meno ai criteri dell’economia e della coerenza interpretativa o se, piuttosto, essa non sia riconducibile a una teoria sociale della cospirazione» (p. 192).
«L’obiettivo è, evidentemente, di insinuare nel lettore il sospetto che sia in atto un complotto ordito da potenze occulte e inafferrabili (la lobby ebraica)...» (p. 234).
«... e cioè l’idea che il paradigma ufficiale sia il frutto di una cospirazione concertata dall’alto» (p. 235).
Come ho spiegato sopra, la teoria del «complotto giudaico mondiale» è la falsa conclusione di una falsa premessa: poichè infatti tutte le testimonianze sono autonome, poiché inoltre sono tutte concordanti sul «nucleo essenziale», allora se sono tutte false bisogna ammettere che esse siano il frutto di un complotto:
«Un qualche riferimento alla teoria del complotto è la condizione indispensabile per delegittimare o invalidare un corpus di testimonianze che, sebbene provengano da fonti diverse e fino a un certo punto autonome, concordino su una certa ricostruzione storica di eventi passati» (p. 32).
In conclusione, solo l’idea di un «complotto» come «progetto coerente e concertato di falsificazione storica» potrebbe rispondere alla legittima domanda del perché
«migliaia di testimoni, per giunta provenienti da sponde politiche contrapposte, abbiano accettato supinamente di mentire in favore della causa sionista ad essi estranea» (p. 209).
Dopo aver inventato questa teoria, la Pisanty si accinge a scalzare trionfalmente con essa il fondamento epistemologico stesso del revisionismo:
«Come abbiamo visto, le strategie interpretative impiegate dai negazionisti sono vistosamente carenti sul piano della costruzione coerente ed esaustiva di un paradigma alternativo a quello ufficiale: l’inesistenza della Shoah viene sempre presupposta dagli scritti in questione, ma non viene mai argomentata sulla base di documenti o testimonianze attendibili che attestino l’esistenza di un complotto di matrice sionista mirato a gabellare l’opinione pubblica circa il vero svolgimento della seconda guerra mondiale. La rivoluzione scientifica auspicata da questi autori è perciò incompleta» (p. 208).
«Malgrado le apparenze, dunque, quello proposto dai negazionisti non è un paradigma scientifico, ma è un aborto di paradigma, in cui il tentativo di realizzare una rivoluzione scientifica si limita all’individuazione delle presunte carenze della storiografia ufficiale. Dopo avere scompaginato le prove documentarie nel tentativo di insinuare dei dubbi nella mente del lettore sprovveduto, gli autori in questione sono incapaci di offrire alcun dato positivo sul quale il lettore stesso possa fondare la sua eventuale adesione alle tesi da essi proposte. Ne deriva che al destinatario degli scritti dei negazionisti è richiesto un atto di fede per essere ammesso nella cerchia eletta dei detentori della Verità storica» (p. 209, corsivo mio).
Tutta l’argomentazione si riduce a un volgare trucco: la creazione di un falso obiettivo da colpire poi trionfalmente al posto di quello vero.
Anzitutto la Pisanty mette insieme in un unico crogiuolo i testimoni (sedicenti) oculari e testimoni indiretti. Prendiamo il caso di Auschwitz. Delle centinaia e centinaia di testimonianze su questo campo soltanto una decina o meno sono assunte dalla storiografia ufficiale come “prova” del presunto sterminio in massa - quelle dei membri del Sonderkommando e quelle di Höss e di qualche altra SS del campo. Le centinaia e centinaia di testimonianze indirette parlano del presunto sterminio soltanto per “sentito dire”, come ben sa anche la Pisanty, che scrive:
«Spesso gli scrittori intrecciano le proprie osservazioni dirette con frammenti di “sentito dire” la cui diffusione nel lager era capillare. La maggior parte delle inesattezze riscontrabili in questi testi è attribuibile alla confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri occhi e ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento. Con il passare degli anni, poi, alla memoria degli eventi vissuti si aggiunge la lettura di altre opere sull’argomento, con il risultato che le autobiografie stese in tempi più recenti perdono l’immediatezza del ricordo in favore di una visione più coerente e completa del processo di sterminio» (p. 183, corsivo mio).
Con ciò la Pisanty risponde da sola già a metà alla falsa domanda del perché «migliaia di testimoni, per giunta provenienti da sponde politiche contrapposte, abbiano accettato supinamente di mentire in favore della causa sionista ad essi estranea».
Le «migliaia di testimoni» indiretti non hanno «accettato supinamente di mentire», ma, come ha spiegato bene la Pisanty, sono dei mentitori involontari: essi hanno visto qualcosa che hanno prima male intepretato sulla base del “sentito dire”, e che poi, dopo aver letto altre opere sull’argomento, perduta l’immediatezza del ricordo, hanno trasformato in una «visione più coerente e completa del processo di sterminio».
Ma che dire dei pochissimi testimoni oculari? La Pisanty dà per scontato che le loro testimonianze siano «autonome» e, ovviamente, che rispecchino pienamente la realtà. Naturalmente sarebbe troppo attendersi da una dottoressa in semiotica un’analisi storica sulla genesi e sullo sviluppo letterario delle testimonianze relative allo sterminio ebraico, a partire da quando - per restare in tema di Auschwitz - il campo di sterminio veniva collocato dai testimoni a Rajsko anziché a Birkenau, e le uccisioni, venivano eseguite mediante «martello pneumatico» (Hammerluft), «bagno elettrico» dotato di «camere elettriche», nastro trasportatore elettrico, docce a gas, bombole, o bombe o ampolle di acido cianidrico, fosse di gasazione, passando poi alla “Degasungskammer” (sic) omicida, deformazione delle “Begasungskammer”, le camere di disinfestazione ad acido cianidrico progettate nell’edificio di ricezione (Aufnahmegebäude), le quali, insieme agli impianti di doccia e disinfestazione dei Bauwerke 5a e 5b di Birkenau costituirono la base della storia dei Bunker di Birkenau; per finire con il rapporto Vrba-Wetzler, questa volgare impostura che fu redatta non già su informazioni del cosiddetto Sonderkommando dei crematori, bensì all’insaputa di esso da una cellula del movimento di resistenza clandestino del campo. Questo rapporto è servito poi da base per i lavori della Commissione di inchiesta sovietica che cominciò la sua attività nel febbraio 1945, le cui conclusioni, filtrate attraverso la Commissione di inchiesta polacca (il giudice Jahn Sehn) che subentrò ai sovietici qualche mese dopo, costituiscono l’ “essenziale” della storia delle camere a gas omicide di Auschwitz (408).
Successivamente il processo Belsen (17 settembre- 17 novembre 1945) e il processo Tesch (1° marzo-26 aprile 1946) confermarono e diffusero in Occidente il quadro propagandistico delineato dai Sovietici e perfezionato dai Polacchi, sicché già nell’immediato dopoguerra tutte le accuse sulle camere a gas erano già note a tutti.
Questo sintetico inquadramento storico è anche una risposta alla pretesa della Pisanty che le testimonianze fossero «autonome». Ma di quale autonomia parla?
All’interno del campo, i detenuti conoscevano già per “sentito dire” la storia che Vrba e Wetzler portarono poi all’esterno. Dopo la liberazione del campo, i detenuti vissero promiscuamente per più di tre mesi sotto il bombardamento propagandistico di due inchieste sul presunto sterminio in camere a gas; i testimoni “oculari” (409), in particolare, poterono non solo consultarsi tra di loro, ma esaminare perfino piante e documenti tedeschi sequestrati dai Sovietici e dai Polacchi.
All’esterno del campo la storia si diffuse sia nelle forme abortive note per “sentito dire” dai detenuti trasferiti in altri campi, sia nella forma canonica pubblicata dai Sovietici sulla Pravda il 7 maggio 1945 e pubblicizzata immediatamente dappertutto. I testimoni dunque, dopo aver reinterpretato tutte le loro esperienze personali in funzione di queste conoscenze, crearono quella «visione più coerente e completa del processo di sterminio» che rappresenta il «nucleo essenziale» delle loro testimonianze, una sorta di trama vaga e generica nella quale le contraddizioni e le assurdità prendono forma e crescono man mano che il discorso scende dall’astrazione vaga e generica al fatto particolare e circostanziato.
Per quanto concerne le testimonianze oculari, abbiamo già visto quanto siano veri alcuni aspetti importanti del loro «nucleo essenziale», la storia della capacità infernale dei forni crematori e la storia del grasso umano usato come combustibile. Adduco qualche altro esempio tratto dai testimoni oculari invocati dalla Pisanty. Le fosse di cremazione dietro al crematorio V nell’estate del 1944 (attenzione: stesso luogo e stesso tempo) erano 5 per Tauber (410) e Müller, che indica anche le misure: m. 40-50 x 8 (411); secondo Bendel, invece, erano 3, di m 12 x 6 (412); per Nyiszli queste fosse non sono mai esistite (413). Il Bunker 2/V possedeva per Müller 4 camere a gas e 4 fosse di cremazione (414); secondo Nyiszli invece nessuna camera a gas e due fosse di cremazione (415).
Secondo i testimoni, queste enormi fosse di cremazione erano state scavate nel maggio 1944 perché i crematori non potevano assorbire l’enorme afflusso degli Ebrei ungheresi. Che cosa c’è di vero in questa storia? Due fotografie aeree americane di Birkenau del 31 maggio 1944 dimostrano senza ombra di dubbio che:
a) nell’aerea del Bunker 2/V non esisteva alcuna fossa, né ardente né non ardente,
b) nel cortile del crematorio V c’era una sola esile colonna di fumo riportabile ad una superficie ardente al suolo dicirca 50 m2, ossia, se era una fossa di cremazione, quanto bastava per bruciare una cinquantina di cadaveri al giorno (416).
Ecco dunque dei testimoni oculari - tra i più importanti! - colti in flagrante menzogna nel loro «nucleo essenziale»!
Un’ultima osservazione. Fino al 1989 tutti gli Ebrei ungheresi deportati ad Auschwitz non immatricolati furono universalmente considerati come “gasati”. Ad esempio, Georges Wellers nel 1983, in un autorevole articolo sul numero delle vittime di questo campo, scrisse che dei 437.400 Ebrei ungheresi deportati ad Auschwitz 27.760 erano stati immatricolati e i restanti 409.640 erano stati gasati immediatamente all’arrivo (417). Nel 1989 (sotto le pressioni revisionistiche) il Museo di Auschwitz rivelò che parecchie migliaia di presunti gasati erano stati inviati senza immatricolazione nel cosiddetto Durchgangslager (campo di transito) di Birkenau, da dove poi furono trasferiti in altri campi. Tuttavia esso minimizzò il loro numero, parlando di 25.000. Dai documenti risulta infatti una cifra di almeno 98.600 persone, di cui almeno 79.200 Ebrei ungheresi (418) e circa 19.400 Ebrei di Lodz (419).
A questo punto appare chiaro che la teoria della «cospirazione giudaica mondiale» è soltanto un misero espediente per eludere questi problemi fondamentali.

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4.
Dall’antinegazionismo al visionarismo

Le conclusioni generali della Pisanty sull’essenza del revisionismo sono il degno coronamento del suo libro. L’Autrice vi si abbandona ad una sorta di visionarismo apocalittico che chiama in causa - tanto per essere originale - i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, altro tema che ossessiona la povera dottoressa. Finalmente la Pisanty mostra il vero significato delle sue elucubrazioni sul «complotto giudaico mondiale» e rientra nell’ortodossia della maestra solo apparentemente sovvertita: il revisionismo non è solo il risultato di una cospirazione nazista; peggio, molto peggio: è l’epigono di quell’«antisemitismo storico» che trova il suo culmine, appunto, nei Protocolli dei Savi Anziani di Sion!
«A ben vedere, il negazionismo non è che il capitolo più aggiornato della storia della teoria della cospirazione ebraica. Secondo questo mito, esiste un governo ebraico segreto che, avvalendosi di una rete mondiale di organizzazioni, nonché del supporto di vari esponenti del potere politico, controlla i governi, la stampa (dunque l’opinione pubblica) e l’economia mondiale allo scopo di ottenere la dominazione universale. Il mito ha origini remote, ma si cristallizza nella sua forma “matura” (la cui espressione più completa è costituita dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion) verso la fine dell’Ottocento» (pp. 247-248).
Dopo aver ripercorso le «tappe principali» del mito, dall’antico Egitto (!) fino alla pubblicazione dei Protocolli, la Pisanty sentenzia:
«I discorsi dei negazionisti possono essere agevolmente collocati in questo filone dell’antisemitismo storico. Lo scheletro delle loro argomentazioni rimane la logora trama della cospirazione ebraica, a dispetto delle cautele adottate dai più scaltri negatori della Shoah per rinnegare le proprie ascendenze ideologiche. Come ho ripetutamente osservato, infatti, l’idea che gli ebrei si siano inventati il genocidio nazista per promuovere la causa sionista non regge senza l’appoggio di una teoria del complotto» (p. 250).
Infine ella proclama solennemente:
«Dunque, i negazionisti raccolgono il testimone dell’ antisemitismo storico» (p. 251).
Alla luce di questo visionarismo si comprende anche la vera ragione delle analisi così tediosamente minuziose dei presunti metodi truffaldini che apparirebbero in tutti i testi revionionistici (il paratesto, i titoli, le epigrafi, le prefazioni, le fotografie, le citazioni, la rappresentazione dell’avversario, la punteggiatura, le presupposizioni: pp. 214-239): questi dèmoni di negazionisti, nella loro cospirazione mondiale antiebraica (420), hanno elaborato un sistema scientifico di falsificazione che i neofiti apprendono evidentemente nella loro iniziazione segreta operata sicuramente dal tenebroso Institute for Historical Review! Così la Pisanty si ricollega anche alla «sensazione» di Vidal-Naquet, «di un’unica e vasta iniziativa internazionale» revisionistica (421).

Da parte mia, ringrazio sentitamente la dottoressa Pisanty per avermi messo al corrente di questi risvolti segreti del “negazionismo”. Non essendo stato iniziato, non conoscevo ancora i trucchi svelati sagacemente dalla nostra solerte dottoressa. Sarà per le prossime pubblicazioni. Intanto chiedo venia agli altri «congiurati» e faccio pubblica ammenda per non aver mai scritto, né pensato, che l’Olocausto sia una invenzione ebraica con finalità sionistiche e, soprattutto (colmo del disonore), per aver redatto quattro articoli nei quali (da buon “negazionista”) ho negato l’autenticità e la veridicità dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion (422).

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Sebbene l’ Autrice de L’irritante questione delle camere a gas si sia prestata volontariamente alla compilazione di questa affannosa e penosa simulazione di saggio scientifico nella piena consapevolezza della sua crassa ignoranza storica - e per questo le ho riservato la risposta che meritava la sua pochezza intellettuale e morale - sarebbe ingiusto riversarne l’intera responsabilità su di lei. Come accennavo all’inizio, qui ci troviamo di fronte ad una nuova tattica del “fiore” universitario “antinegazionista”: la tattica del capro espiatorio. La cosa più indecorosa è proprio questa, che l’idea sia nata e si sia sviluppata in un ambiente universitario, fino a concretizzarsi in una tesi di dottorato!
È dunque giusto menzionare i nomi di tutti coloro che hanno istigato la sprovveduta studentessa a questa insana impresa o ad essa hanno cooperato, coloro che l’hanno consigliata, l’hanno guidata, l’hanno fuorviata, l’hanno coperta di ridicolo:
«Questo libro prende origine da una tesi di dottorato svolta sotto la supervisione di Umberto Eco, Patrizia Violi e Mauro Wolf.
Nel corso delle mie ricerche, varie altre persone mi hanno fornito preziosi spunti teorici e utili indicazioni bibliografiche. In particolare, ringrazio Furio Colombo, Arthur Hertzberg, Nadine Fresco, Maurice Olender, Liliana Picciotto Fragion, Adriana Goldstaub e Marcello Pezzetti del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Sarah Halperyn del Centre de Documentation Juive Contemporaine, Jamie McCarthy e Kenneth McVay del Nizkor Group, i bibliotecari dell’ YIVO Center (New York), Jeffrey Ross dell’ Anti-Defamation Legue, Alastair McEwen, Stefano Traini e gli amici dottori e dottorandi dell’Istituto di Comunicazione dell’Università di Bologna» (p. 4).
Quale straodinario consesso di luminari!
Non c’è alcun dubbio che la dottoressa Pisanty, dopo questa scorribanda in un campo a lei ignoto, e, soprattutto, dopo aver acquisito i suoi giusti meriti accademici, rientrerà nei ranghi semiotici: da Cappuccetto Rosso ad Auschwitz e ritorno. Ma che farà il “fiore” universitario che l’ha spinta a questo suicidio letterario? I “baroni” continueranno a nascondersi dietro ai loro studenti o verranno allo scoperto?
Una cosa è certa: per loro, ormai, la questione delle camere a gas sarà ancora più irritante!


* * *

La tattica della preselezione del campo di indagine è tipica di tutti i miei olo-critici. Essa viene da costoro attuata ignorando sistematicamente i miei studi fondamentali e prendendo in esame qualche passo delle mie pubblicazioni minori di dieci o vent’anni fa.
Oppure - come Francesco Rotondi (423) - appellandosi a qualche critico d’oltreoceano (John C. Zimmerman) senza menzionare la mia risposta che lo ha messo a tacere definitivamente (424).
A tutti questi critici, pisantyani, germineriani, vianelliani, rotondiani, sciacchiani ecc. ecc., rivolgo un invito: volete veramente confutare il “negazionista” Mattogno sull’ «irritante questione delle camere a gas»? Bene. Confutate gli studi essenziali e recenti che seguono. E possibilmente non una frase per ogni libro, ma ogni libro nel suo complesso. In fondo si tratta solo di 2.268 pagine.
In caso contrario, lasciate perdere: la critica al revisionismo non è cosa per voi.
Buon lavoro!

Sulle camere a gas di Auschwitz:
1) Auschwitz: la prima gasazione. Edizioni di Ar, Padova, 1992, 190 pp.
- Traduzione americana: Auschwitz: The First Gassing. Rumor and Reality. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005. Testo accresciuto, riveduto e corretto. 159 pp., 48 documenti e fotografie.
2) Auschwitz: Crematorium I and the Alleged Homicidal Gassing. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005. 138 pp., 35 documenti e fotografie.
3) The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004. 264 pp., 44 documenti e fotografie.
4) The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents, in: «The Revisionist»,
vol. 2, n. 3, agosto 2004, pp. 271-294, 10 documenti.
5) Auschwitz: Open Air Incinerations. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005. 131 pp., 48 documenti e fotografie.
6) The Elusive Holes of Death, in: Germar Rudolf, Carlo Mattogno, Auschwitz Lies. Legends, Lies, and Prejudices on the Holocaust. Theses & Dissertation Press. Chicago, 2005, pp. 279-394, 76 documenti e fotografie.
7) Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant’anni di propaganda. I Quaderni di Auschwitz, 5, 2005, 63 pagine, 3 documenti.
Edizione riveduta, corretta e aggiornata: http://vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMausch45.pdf
8) “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato. Edizioni di Ar, Padova, 2001. 188 pp., 26 documenti.
9) La “Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz”, Edizioni di Ar, Padova, 1998. 221 pp., 15 tavole, 53 documenti.

Sulle camere a gas di Belzec:
Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia. Effepi Edizioni, Genova, 2006. 191 pp., 18 documenti.

Sulle camere a gas di Treblinka:
(In collaborazione con J. Graf), Treblinka. Extermination Camp or Transit Camp? Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004. 365 pp., 35 documenti e fotografie.

Sulle camere a gas di Majdanek:
(In collaborazione con J. Graf), Concentration Camp Majdanek. A Historical and Technical Study. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003. 316 pagine, 60 documenti e fotografie.

Sulla camera a gas di Stutthof:
(In collaborazione con J. Graf), KL Stutthof. Il campo di concentramento di Stutthof e la sua funzione nella politica ebraica nazionalsocialista. Effepi Editore, Genova, 2003. 61 pp., 28 documenti e fotografie.

Sulle camere a gas mobili (“Gaswagen”) di Chelmno:
Il campo di Chełmno tra storia e propaganda di prossima pubblicazione.



(1) «Comment les historiens délèguent à la justice la tâche de faire taire les révisionnistes», in: Le Nouveau Quotidien, 2 settembre 1996, p. 16. Torna al testo.
(2) «Faute de documents probants sur les chambres à gaz, les historiens ésquivent le débat», in: Le Nouveau Quotidien, 3 settembre 1996, p. 14.
(3) Lega Internazionale contro il Razzismo e l’Antisemitismo.
(4) Movimento contro il Razzismo e per l’Amicizia tra i Popoli.
(5) J. Baynac, «Faute de documents probants sur les chambres à gaz, les historiens ésquivent le débat», in: Le Nouveau Quotidien, 3 settembre 1996, p. 14.
(6) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945. Feltrinelli, Milano, 1994, p. 173; Die Krematorien von Auschwitz. Die Technik des Massenmordes. Piper, Monaco, 1994, p. 202. L’edizione originale non contiene il relativo paragrafo: Les crématoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse. CNRS Editions, Parigi, 1993.
(7) J. Baynac, «Faute de documents probants sur les chambres à gaz, les historiens ésquivent le débat», in: Le Nouveau Quotidien, 3 settembre 1996, p. 14.
(8) Intervista sull’Olocausto. Edizioni di Ar, Padova, 1995, p. 11.
(9) In questo archivio sono conservate, tra l’altro, circa 88.000 pagine di documenti della Zentralbauleitung di Auschwitz, l’ufficio responsabile della costruzione dei crematori e delle presunte camere a gas omicide!
(10) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio. Pierre Vidal-Naquet, Georges Wellers, Deborah Lipstadt, Till Bastian, Florent Brayard et alii contro il revisionismo storico. Edizioni di Ar, Padova, 1996; Olocausto: dilettanti a convegno. Effepi Edizioni, Genova, 2002; Olocausto: dilettanti nel web. Effepi, Genova, 2005; Ritorno dalla luna di miele ad Auschwitz. Risposte ai veri dilettanti e ai finti specialisti dell’anti-“negazionismo”. Effepi, Genova, 2006; riedizione ampliata: Ritorno dalla luna di miele ad Auschwitz. Risposte ai veri dilettanti e ai finti specialisti dell’anti-“negazionismo”. Con la replica alla “Risposta a Carlo Mattogno” di Francesco Rotondi, 2007, in: http://www.aaargh.com.mx/fran/livres7/CMluna.pdf.; Negare la storia? Olocausto: la falsa “convergenza delle prove”. Effedieffe Edizioni, 2006.
(11) Florent Brayard, Comment l’idée vint à M. Rassinier. Naissance du révisionnisme. Fayard, Parigi, 1996. Vedi al riguardo il cap. VII (pp. 267-291) di Olocausto: dilettanti allo sbaraglio e l’opuscolo Rassinier, il revisionismo olocaustico e il loro critico Florent Brayard (Graphos, Genova, 1996) da esso tratto.
(12) Bompiani, Milano, 1998.
(13) Per ridurre il numero delle note, indico la pagina del libro della Pisanty alla fine di ogni citazione.
(14) La «tesi di dottorato» cita 9 volte Umberto Eco - il più importante “supervisore” - il quale, con il revisionismo e le camere a gas c’entra come i classici cavoli a merenda. La Pisanty trova il modo perfino di citare l’inizio del Nome della Rosa! (p. 198).
(15) Florent Brayard, Comment l’idée vint à M. Rassinier. Naissance du révisionnisme, op. cit., p. 33 e 449.
(16) Idem, p.282.
(17) Vedi Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 145-152.
(18) U. Walendy ha soltanto pubblicato la traduzione tedesca di un estratto del rapporto americano di Fred Leuchter (An engineering report on the alleged execution gas chambers at Auschwitz, Birkenau and Majdanek Poland. Prepared for Ernst Zündel. April 5, 1988 by Fred A. Leuchter, Jr. Chief Engineer. Fred A. Leuchter, Associates, 231 Kennedy Drive Unit # 110, Boston, Massachusetts 02148).
(19) Stiftung Vrij Historisch Onderzoek, Postbus 60, B-2600 Berchem, Belgio. Il primo numero è uscito nel marzo 1997, l’ultimo nel 2006.
(20) Il diario di Anna Frank, il diario del dott. Kremer, il rapporto Gerstein e le annotazioni di Höss. Vedi capitoli III-V.
(21) La Pisanty cita Fred Leuchter due volte: la prima come testimone al processo Zündel del 1988 (l’Autrice scrive erroneamente 1987)(p. 20), la seconda come titolare di un sito Internet (p. 22). Come ho già segnalato, nella bibliografia ella attribuisce il rapporto Leuchter - in lingua tedesca - a Udo Walendy!
(22) Michele Giua e Clara Giua-Lollini, Dizionario di chimica generale e industriale. Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1948, vol. I, p. 500: «L’anidride carbonica si forma: 1° Per combustione del carbonio o dell’ossido di carbonio:
C + O2 → CO2 2CO + O2 → 2CO2».
(23) Sugarco Edizioni, 1995. Non posso resistere alla tentazione segnalare almeno qualcuna delle enormi corbellerie che si possono leggere in questo libro: Il campo di Auschwitz era dotato di «10 forni crematori» (p. 8), quello di Birkenau di «12 crematori» (p. 12); i campi di Belzec e di Sobibór, dove non sono mai esistiti forni crematori, ne avevano ben 12 ciascuno (p. 11 e 93); «Abwanderung», che significa “emigrazione”, è spiegato come «Ufficio Alto Comando delle forze armate per la difesa all’estero (spionaggio e controspionaggio)» (p. 7), dove Ottolenghi confonde con “Abwehr”; le camere a gas non sono “Gaskammern” bensì «Gaszimmer» («stanze a gas»)! (p. 15 e 39), ecc. ecc.
(24) P. Vidal-Naquet è deceduto il 29 luglio 2006.
(25) Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust. The Growing Assault on the Truth and Memory. A Plume Book, New York, 1994, p. 270.
(26) Anonymous, The Myth of the Six Million. The Noontide Press, 1978, p.104 (il testo dell’articolo si trova alle pp. 109-111).
(27) Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust, op. cit., p. 105.
(28) Vedi cap. II,1.
(29) In corsivo nel testo originale.
(30) Maurice Bardèche, Nuremberg ou la terre promise. Les Sept couleurs, Parigi, 1948, p. 191.
(31) Kommandant in Auschwitz. Autobiographische Aufzeichnungen des Rudolf Höss. Herausgegeben von Martin Broszat. DTV Verlag, Monaco, 1981, p. 171.
(32) Il verbo “zuschrauben” qui si riferisce propriamente all’avvitamento del bullone a farfalla della leva di chiusura di una porta di legno a tenuta di gas.
(33) Il Leichenkeller 1 (presunta camera a gas omicida) dei crematori II e III, al quale si riferisce Höss, era collegato, attraverso due canali murati all’interno dei muri laterali, a due pozzi di aerazione e disaerazione (Be- und Entlüftungsschächte) verticali installati all’esterno del locale e che sbucavano in appositi comignoli sul tetto del crematorio. Höss allude invece alle presunte colonne di rete metallica (M. Kula) o di lamiera forata (M. Nyiszli) la cui parte superiore sbucava dal soffitto della “camera a gas” in un apposito camino. Un tale congegno, mai esistito, si sarebbe potuto chiamare “Vergasungsschacht”, pozzo di gasazione, ma non certo “Luftschacht”, pozzo di aerazione.
(34) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss. Einaudi, Torino, 1985, p.187.
(35) A p. 180 la traduttrice rende l’espressione «fünf 3-Kammer-Öfen» («cinque forni a tre camere di cremazione») con «cinque forni a tre stanze», e l’espressione «je zwei 4-Kammer-Öfen» («due forni a quattro camere di cremazione ciascuno», cioè un forno a 8 muffole in ciascuno dei crematori IV e V) con «due [forni] ogni quattro locali»! Cfr. Kommandant in Auschwitz, op. cit., pp. 164-165.
(36) R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz. La Vieille Taupe, Parigi, 1980, pp. 13-64 e 105-107.
(37) André Chelain, Faut-il fusiller Henri Roques? Polémiques, Parigi, 1986, pp. 289-294.
(38) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1985, p. 100.
(39) Vedi capitoli IV e V.
(40) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 41: «Th. Christophersen, il testimonio dei revisionisti...» (corsivo dell’Autore).
(41) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p.133.
(42) D. Lipstadt, Denying the Holocaust, op. cit., p.141.
(43) Theodore J.O’Keefe, «Best Witness”: Mel Mermelstein vs. the IHR», in: The Journal of Historical Review, n. 1, gennaio-febbraio 1994, pp. 25-32; IHR Newsletter n. 33, agosto 1985.
(44) Mel Mermelstein, By bred alone. The story of A-4685. Auschwitz Study Foundation, Inc. Huntington Beach, California, 1981, p. 277.
(45) Vedi al riguardo il mio articolo «Flammen und Rauch aus Krematoriumskaminen», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 7, n. 3-4, dicembre 2003, pp. 386-391.
(46) Florent Brayard, Comment l’idée vint à M. Rassinier. Naissance du révisionnisme, op. cit., pp. 422-448. In particolare, la Pisanty ha tratto l’interpretazione di «Voyelles» (pp. 34-35) dalle pp. 427-428 di Brayard; la tesi del «fondamentalismo» di Faurisson (pp. 36-38) dalle pp. 427-428 (dove Brayard disquisisce sulla «critique littéraire totalitaire» e sulla univocità semantica del linguaggio secondo Faurisson); la questione dell’ «ermetismo» di Faurisson (pp. 38-42) dalle pp. 434-435 (perizia sulla penna Bic), la questione della «mistificazione» (pp. 42-44) dalle pp. 431-432.
(47) D. Lipstadt, Denying the Holocaust, op. cit., pp. 229-235.
(48) Idem, p. 232. La Pisanty ha tratto i nomi (del critico e del giornale) dalla fonte citata dalla Lipstadt in nota (idem, p. 270).
(49) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 45.
(50) Idem, p. 44.
(51) Idem, p. 109.
(52) Per mostrare a mia volta come Vidal-Naquet e la Pisanty abbiano letto i testi, è falso che Faurisson abbia fatto una simile affermazione; egli riporta per di più il relativo passo del diario del dott. Kremer in francese, dove si parla esplicitamente di «crisi di diarrea» (crises de diarrhée). R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz, op. cit., p. 18.
(53) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 47. Vidal-Naquet dimentica di aver scritto poco prima: «Fin dal giorno del suo arrivo, Kremer è colpito dall’importanza del tifo esantematico» (p. 44).
(54) Idem, p. 110.
(55) Idem.
(56) Idem, p. 111.
(57) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit.
(58) Idem, pp. 19-25.
(59) Idem, pp. 25-27.
(60) Idem, pp. 19-23.
(61) F. Brayard, Comment l’idée vint à M.Rassinier, op. cit., pp. 337-338.
(62) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 177.
(63) Nel mio libro, per un errore tipografico, qui appare il punto e virgola in luogo dei due punti del testo originale. La Pisanty, che rimprovera a Butz di non aver controllato il testo originale del documento, fa di peggio: cita la mia citazione, errore tipografico compreso!
(64) Per il commento di Gerstein, vedi il capitolo IV, 3 a.
(65) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., pp. 182-183.
(66) A.R. Butz, The Hoax of the Ttwentieth Century. Historical Review Press, Chapel, Ascote, Ladbroke, Southam, Warwickshire, 1977, p. 256.
(67) Idem, p. 182.
(68) Idem, p. 183. Seguono altre critiche a p.184.
(69) Vedi capitolo IV,7.
(70) David Hoggan, presunto autore del libro The Myth of the Six Million.
(71) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p.184.
(72) Idem.
(73) Idem, p. 34.
(74) Auschwitz: un caso di plagio. Edizioni La Sfinge, Parma, 1986, p. 8, nota 5.
(75) D. Lipstadt, Denying the Holocaust, op. cit, pp. 99-100.
(76) A. J. App, The Six Million Swindle. Boniface Press, Takoma Park, Maryland, 1976, pp. 24-25.
(77) D. Lipstadt, Denying the Holocaust, op. cit., p. 99.
(78) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 19.
(79) Idem.
(80) Idem.
(81) Idem.
(82) Idem.
(83) Idem, p. 65. Vedi anche le pp. 37-38.
(84) Idem, pp. 22-23.
(85) Idem, p. 48.
(86) Idem, p. 22.
(87) Una fede tanto cieca che la Pisanty accetta come assolutamente attendibile persino la testimonianza di Pery Broad (p. 131), sulla quale il suo maestro esprime invece seri dubbi: «Nella documentazione su Auschwitz esistono testimonianze che danno l’impressione di adottare interamente il linguaggio dei vincitori. È il caso, ad esempio, della SS Pery Broad, che nel 1945 redasse per gli inglesi un memoriale su Auschwitz, dove era stato attivo come membro della Politische Abteilung, cioè della Gestapo. Egli parla di sé in terza persona». P.Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 27.
(88) Assurdità e contraddizioni diventano per la Pisanty irrilevanti «grinze», «anomalie» (p. 141), «anacronismi», «piccole incongruenze» (p. 176), «piccole zone grigie» (p. 209).
(89) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., p. 153.
(90) Il lettore si deve fidare della buona fede della Pisanty, che non si preoccupa affatto di dimostrare la veridicità di questa affermazione citando la fonte.
(91) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 68-76.
(92) Enzyklopädie des Holocaust. Die Verfolgung und Ermordung der europäischen Juden. Argon Verlag, Berlino, 1993, vol. III, p. 1361.
(93) Per conferire maggiore importanza a questa fonte, la Pisanty riprende la faceta storiella del Pressac «ex negazionista riconvertito» (p. 72, 167 e 246). Sfortunatamente per lei, san Pressac non ha mai avuto questa illuminazione sulla via di Auschwitz: fin dalla sua prima visita al campo e dal suo primo incontro con Pierre Guillaume e Robert Faurisson egli era convinto della realtà dello sterminio ebraico e non ne dubitò mai. Vedi al riguardo P. Guillaume, Droit et Histoire. La Vieille Taupe, Parigi, 1986, pp. 83-89.
(94) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 48.
(95) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., p. 72.
(96) Auschwitz: fine di una leggenda, op. cit. Per una critica radicale alle tesi di Pressac rimando al mio studio di prossima pubblicazione Le camere a gas di Auschwitz. Studio storico-tecnico sugli “indizi criminali” di Jean-Claude Pressac e sulla “convergenza di prove” di Robert Jan van Pelt.
(97) SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt, Ufficio centrale economico e amministrativo delle SS.
(98) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 55.
(99) Erläuterungsbericht zum prov. Ausbau des Konzentrationslager Auschwitz O/S. RGVA, 502-1-223, pp. 1-22, citazione a p. 9.
(100) Lettera dell’Hauptamt Haushalt und Bauten al comandante del campo di Auschwitz del 18 giugno 1941, contenente l’elenco dei Bauwerke autorizzati per il terzo anno finanziario di guerra (1° ottobre 1941- 30 settembre 1942). RGVA, 502-1-11, p. 37.
(101) Idem, p. 6 e 16.
(102) Erläuterungsbericht zum Bauvorhaben Konzentrationslager Auschwitz O/S. RGVA, 15 luglio 1942.502-1-220, pp. 1-52, citazione a p. 19.
(103) Idem, p. 10 e 23.
(104) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., pp. 55-56.
(105) Idem, p. 36.
(106) Il termine designava sia una singola costruzione, sia un cantiere con più costruzioni dello stesso tipo.
(107) Aufteilung der Bauwerke (BW) für die Bauten, Aussen- und Nebenanlagen des Bauvorhabens Konzentrationslager Auschwitz O/S del 21 marzo 1942. RGVA, 502-1-267, pp.3-13, citazione a p. 8.
(108) Aufteilung der Bauwerke (BW) für die Bauten, Aussen- und Nebenanlagen des Bauvorhabens Konzentrationslager Auschwitz O/S del 31 marzo 1942. RGVA, 502-1-210, pp. 20-29, citazione a p. 25.
(109) J.-C. Pressac colloca questo presunto evento all’inizio di giugno del 1942. Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, p. 51. Vedi capitolo V.
(110) Idem.
(111) Edizioni di Ar, Padova , 2001.
(112) “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato, op. cit., pp. 79-101.
(113) Idem, pp. 101-116, Le “Sonderaktionen” e il dottor Kremer.
(114) Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004.
(115) Randolph L. Braham, The Politics of Genocide. The Holocaust in Hungary. Columbia University Press, New York, 1981, vol. 2, p. 710.
(116) V. Pisanty ha sicuramente tratto l’informazione da un testo francese e ha tradotto il termine “commandant” con “comandante”.
(117) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 56-63.
(118) Idem, pp. 293 e 294. Il mio “smantellamento” (con successo) di questo documento si trova alle pp. 56-63. Vedi anche il mio studio Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant’anni di propaganda. I Quaderni di Auschwitz, 5, 2005, pp. 22-28 e documenti 2 e 3 a p. 62 e 63. Edizione in rete riveduta, corretta e aggiornata in:
http://vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMausch45.pdf
(119) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., pp. 21-22.
(120) Inmitten des grauenvollen Verbrechens. Handschriften von Mitgliedern des Sonderkommandos. Verlag des Staatlichen Auschwitz-Birkenau Museums, 1996.
(121) Sulla questione dei manoscritti del Sonderkommando vedi le pp. 63-68 di Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit.
(122) Carlo Saletti scrive al riguardo: «Sono innumerevoli i testi memorialistici in cui si sostiene che la durata della vita dei prigionieri del Sonderkommando non era superiore ai quattro mesi, e che una volta trascorso il termine essi venivano, regolarmente, eliminati. Nessuna delle due informazioni corrisponde a verità». C. Saletti (a cura di), Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945). Ombre corte, Verona, 2004, nota 12 a p. 16.
(123) “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato, op. cit., pp. 138-141.
(124) Idem, pp. 47-51.
(125) Richard Harwood, Auschwitz o della soluzione finale. Storia di una leggenda. Le Rune, Milano, 1978, p. 29.
(126) U. Walendy, Bild “Dokumente” für Geschichtsschreibung? Vlotho/Weser, 1973.
(127) Quella delle didascalie errate è una prassi ordinaria nei servizi giornalistici (come ho mostrato nell’articolo Didascalie rivelatrici, in: Intervista sull’Olocausto, pp. 51-53), ma talvolta anche i testi scientifici si concedono qualche svarione di questo genere: ad esempio, nel “classico” Faschismus Getto Massenmord (Röderberg-Verlag, Francoforte sul Meno, 1960), una fotografia del forno a 5 muffole H. Kori del KL Lublin (Majdanek) viene presentata come «Forni crematori nel KZ Auschwitz-Birkenau» (p. 364).
(128) John C. Ball, Air Photo Evidence. Auschwitz, Treblinka, Majdanek, Sobibor, Bergen Belsen, Belzec, Babi Yar, Katyn Forest. Ball Resource Services Limited, Delta, B.C., Canada, 1992.
(129) Vedi J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., documento 57 fuori testo.
(130) J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique ans operation of the gas chambers. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, p. 423.
(131) Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005
(132) Idem, pp. 34-42, Historical and Technical Analysis of Ground-Level Photos.
(133) Idem, pp. 39-41 e foto 12-15 alle pp. 98-99.
(134) Con questa espressione intendo l’intero corpus degli scritti e delle dichiarazioni di Kurt Gerstein.
(135) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 278-291.
(136) Per i riferimenti alle fonti utilizzo le sigle che ho adottato nello studio Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit.
(137) T-1310, p. 4.
(138) PS-2170, p. 2: Direzione centrale delle SS, gruppo di uffici D, sanità delle Waffen-SS, sezione igiene.
(139) T-1310, p. 5.
(140) PS-2164, Dienstrangabzeichen der Schutzstaffeln, IMG, vol.XXIX, pp. 276-277 (tavola fuori testo). I gradi di Leutnant e Oberleutnant appartenevano alla Wehrmacht.
(141) PS-1553, p. 4; T-1310, p. 5.
(142) PS-2170, p. 2; D6, p. 3.
(143) Reichssicherheitshauptamt, Ufficio centrale della sicurezza del Reich.
(144) T-1310, p. 5; PS-1553, p. 5.
(145) PS-2170, p. 2; D6, p. 3; W, p. 28; M6, p. 7.
(146) T-1310, p. 5; PS-1553, p. 5; PS-2170, p. 2.
(147) W, p. 28; B, p. 2. Il termine tedesco è Zyankali.
(148) T-1310, p. 5; M6, p. 7: «par moyen d’un auto».
(149) PS-1553.
(150) TP, p. 1.
(151) W, p. 29.
(152) PS-1553, p. 6.
(153) PS-1553, p. 7.
(154) T-1310, p. 6.
(155) PS-1553, p. 5; PS-2170, p. 2; T-1310, p. 6.
(156) B, p. 2.
(157) W, p. 28.
(158) W, p. 29.
(159) W, p. 29.
(160) W, p. 30.
(161) T-1310, p. 5.
(162) T-1310, p. 9.
(163) GK, pp. 1-2.
(164) W, p. 29.
(165) O. Lenz, L. Gassner, Schädlingsbekämpfung mit hochgiftigen Stoffen, Heft 1: Blausäure. Verlagsbuchhandlung von Richard Schoetz, Berlino, 1934, pp. 8-10. L’acido cianidrico liquido poteva essere trasportato soltanto refrigerato, di notte e con un veicolo speciale: Schwurgericht in Frankfurt am Main, Sitzung vom 28, März 1949, in: C. F. Rüter, Justiz und NS-Verbrechen. Sammlung deutscher Strafurteile wegen nationalsozialistischer Tötungsverbrechen, 1945-1966. Amsterdam, 1968-1981, vol. XIII, p. 137.
(166) La capacità di 1.500 vittime è menzionata nella motivazione della sentenza del processo contro Josef Oberhauser da parte della Corte di Assise di Monaco (gennaio 1965). A. Rückerl, NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 133.
(167) J. Graf e C. Mattogno, KL Majdanek. Eine historische und technische Studie. Castle Hill Publisher, Hastings, 1998, p. 205.
(168) T-1310, p. 8.
(169) Idem.
(170) W, p. 29.
(171) W, p. 31.
(172) W, p. 28.
(173) W, p. 28.
(174) D6, p. 4.
(175) PS-2170, p. 3.
(176) M26, p. 3; M6, p. 8; PS-1553, p. 5; D6, p. 4; PS-2170, p. 3; T-1310, p. 7.
(177) T-1310, p. 18; D6, p 9; PS-2170, p. 7.
(178) PS-2170, p. 4; T-1310, p. 10.
(179) PS-2170, p. 4; T-1310, p. 11.
(180) PS-2170, p. 7; T-1310, p. 18.
(181) PS-1553, p. 5.
(182) PS-1553, p. 5.
(183) PS-1553, p. 7.
(184) PS-1553, p. 7.
(185) B, p. 3.
(186) W, p. 34.
(187) Central Commission for Investigation of German Crimes in Poland. German Crimes in Poland. Varsavia, 1947, vol. II, Belzec extermination camp, pp. 89-96 (tavola fuori testo).
(188) Un carro merci chiuso UIC standard è lungo m 11,08 compresi i respingenti: Meyers Handbuch über die Technik. Bibliographisches Institut, Mannheim, 1964, p.443.
(189) B, p. 3.
(190) GK, p. 1.
(191) PS-1553, p. 5; PS-2170, p. 4.
(192) M26, p. 5; PS-1553, p. 5.
(193) T-1310, p. 11; D6, p. 5; PS-2170, p. 4.
(194) PS-1553, p. 5.
(195) PS-1553, p. 6.
(196) T-1310, p. 14; M26, p. 6; PS-1553, p. 6; D6, p. 7; PS-2170, p. 5.
(197) TP, p. 2.
(198) TP, p. 2.
(199) PS-1553, p. 6.
(200) TP, p. 3.
(201) PS-2170, p. 6.
(202) T-1310, p. 16.
(203) T-1310, pp. 16-17.
(204) PS-2170, p. 7.
(205) PS-1553, p. 7.
(206) T-1310, p. 24.
(207) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., cap. X, pp. 149-156.
(208) Idem, cap. XI, pp. 157-165.
(209) Idem, cap. XI, pp. 167-173.
(210) Idem, cap.VI, pp. 109-122.
(211) Idem, p. 231. La frase in corsivo è di Friedländer.
(212) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 106.
(213) Idem, p. 61.
(214) Il peso medio delle vittime, che è nello stesso tempo di 30, 35 e 65 kg.
(215) 750 x 30 = 25.250, in realtà 22.500; 750 x 35 = 25.250, in realtà 26.250; 750 x 65 = 25.250, in realtà 48.750.
(216) Brayard ha tentato di liquidare queste assurdità delle 700-800 persone in 20 o 25 metri quadrati con un volgare trucco. Vedi al riguardo Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 282-287, e Rassinier, il revisionismo olocaustico e il loro critico Florent Brayard, op. cit., pp. 38-44.
(217) In seiner.
(218) Ansicht.
(219) Bronzetafeln.
(220) PS-2170, pp. 3-4.
(221) Office of U.S. Chief of Counsel for the prosecution of Axis criminality. Doc. No. 2170 PS. Staff Evidence analysis. Partial translation of the document 2170 PS, p. 3. Il «certificato di traduzione» è firmato da Charles E.Bidwell S/SGT 13146054.
(222) La Pisanty applica nei miei confronti l’insano principio (che naturalmente attribuisce ai revisionisti) di screditare il tutto sulla base di una parte irrilevante; così il mio presunto errore di traduzione - un solo presunto errore nell’intero libro - è per lei motivo sufficiente per concludere che avrei avuto «una insufficiente dimestichezza della lingua tedesca»! Come ho accennato sopra, da tutto il suo libro risulta invece indubitabilmente che la nostra dottoressa in semiotica non ha nessuna dimestichezza con questa lingua e che l’argomento in questione le è stato suggerito da qualcuno dei suoi sprovveduti consulenti.
(223) Documento ufficiale del 2° Ufficio della 1a Armata francese. Vedi Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 56.
(224) Prevengo la facile ironia di chi rilevasse che anche Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso pullula di errori tipografici: ciò è dipeso dalle circostanze particolari in cui il libro è stato stampato, senza che io abbia potuto visionare le bozze.
(225) Sarebbe come scrivere, per un «errore di battitura», “brillo” invece di “brillante”!
(226) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 46.
(227) Idem, p. 47.
(228) Vedi capitolo seguente.
(229) La nostra sprovveduta dottoressa ignora che il CO ha una densità inferiore a quella dell’aria (0,9672), sicché in una camere a gas, se proprio non dovesse diffondersi più o meno uniformemente in tutte le direzioni, esso dovrebbe tendere a salire proprio verso l’alto!
(230) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 67.
(231) Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. Eine Dokumentation. Herausgegeben von Eugen Kogon, Hermann Langbein, Adalbert Rücklerl u.a. Fischer-Verlag, Francoforte sul Meno, 1983, p. 174.
(232) Idem, p. 133.
(233) Idem, pp. 132-133.
(234) Attilio Izzo, Guerra chimica e difesa antigas. Hoepli, Milano, 1935, pp. 246-247.
(235) Ferdinand Flury, Franz Zernik, Schädliche Gase, Dämpfe, Nebel, Rauch- und Staubarten. Verlag von Julius Springer, Berlino, 1931, p. 219.
(236) Vedi Rassinier, il revisionismo storico e il loro critico Florent Brayard, op. cit., pp. 36-43, e Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 282-287.
(237) Come la Pisanty ha letto nel mio libro; vedi Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 71.
(238) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., pp. 71-72.
(239) Per quanto risulta dai documenti, l’azione Reinhard consisteva nella raccolta di tutti i beni sottratti agli Ebrei che venivano deportati all’ Est. Il nome viene comunemente fatto derivare da Reinhard Heydrich, il capo della Sipo e del SD morto il 4 giugno 1942 in seguito alle ferite riportate in un attentato da parte di partigiani cechi. Come ha rilevato Uwe Dietrich Adam, «il nome evoca senza dubbio più verosimilmente quello del segretario di Stato alle Finanze Fritz Reinhardt, una ortografia che si ritrova precisamente in certi documenti dell’operazione Reinhard(t)». U. D. Adam, «Les chambres à gas», in: Colloque de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales, L’Allemagne nazie et le génocide juif. Gallimard-Le Seuil, Parigi, 1985, p. 259.
(240) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., pp. 59-60.
(241) Idem, p. 50.
(242) Arbeitsanweisungen für Klinik und Laboratorium des Hygiene-Institutes der Waffen-SS, Berlin. Herausgegeben von SS-Standartenführer Dozent Dr. J.Mrugowski. Heft 3. Entkeimung, Entseuchung und Entwesung. Von Dr. Med. Walter Dötzer. Verlag von Urban Schwarzenberg. Berlino e Vienna, 1943, p. III: «Qui vorrei esprimere il mio ringraziamento all’ SS-Obersturmführer (F)[specialista] ing. Gerstein per la sua consulenza in tutte le questioni tecniche».
(243) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, p. 281.
(244) Gerstein riesce a sbagliare persino il grado del suo superiore, attribuendogli quello di SS-Gruppenführer und General (sic!), mentre il giorno del presunto incontro Globocnik era SS-Brigadeführer und Generalmajor der Polizei; egli fu promosso SS-Gruppenführer und Generalleutnant der Polizei quasi tre mesi dopo, il 9 novembre 1942 (NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse. Herausgegeben von Adalbert Rückerl. DTV Dokumente, Monaco, 1979, p. 37).
(245) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., p. 281, nota 16.
(246) PS-2170, p.3.
(247) Idem.
(248) T-1310, p. 7.
(249) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p.103.
(250) Idem, p. 103.
(251) Idem, p. 106.
(252) Tötungsanstalten in Polen, p. 1; vedi: Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 100.
(253) T-1310, p. 4.
(254) Nel PS-2170 questo campo non è tra quelli visitati da Gerstein.
(255) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., capitolo IV, Il testimone Göran von Otter, pp. 87-97.
(256) Idem, p. 92.
(257) Idem.
(258) Idem, pp. 95-96.
(259) L’arsione dei cadaveri a Belzec cominciò nel novembre 1942, tre mesi dopo la visita di Gerstein. Nationalsozialistiche Massentötungen durch Giftgas, p. 188.
(260) Pierre Joffroy, L’espion de Dieu. Grasset, Parigi, 1969, p. 17.
(261) «Who knew of the extermination? Kurt Gerstein’s Story», in: The Wiener Library Bulletin, 9, 1955, p. 22.
(262) In ottima compagnia, essendo preceduto da Hitler, Himmler, Eichamm e Günther!
(263) Saul Friedländer, Kurt Gerstein o l’ambiguità del bene. Feltrinelli, Milano, 1967, pp. 12-13.
(264) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p.124.
(265) Vedi ad esempio l’articolo «Cyklon B gegen KZ-Häftlinge. Bericht über ersten deutschen Giftgasprozess», in: Die Neue Zeitung, n. 34, 22 marzo 1949.
(266) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p. 127.
(267) Il termine designa un «rapporto letterariamente scadente mirante a un facile effetto». Deutsches Universalwörterbuch. Dudenverlag, Mannheim/Vienna/Zurigo, 1983, p. 709.
(268) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., p.124.
(269) Vedi al riguardo Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., p. 144.
(270) R. Reder dichiara che le sue condizioni di salute erano talmente gravi che, dopo la fuga dal campo, dovette curarsi per 20 mesi!
(271) Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso, op. cit., pp.134-136.
(272) Per un approfondimento critico sulla testimonianza di R. Reder rimando al mio studio Un nuovo libro olocaustico su Belzec e la sua fonte. Considerazioni storico-critiche. Effepi, Genova, 2007.
(273) Yitzhak Arad, Belzec, Sobibor, Treblinka. The Operation Reinhad Death Camps. Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1987.
(274) La soluzione finale: problemi e polemiche. Edizioni di Ar, 1991, pp. 145-147; vedi anche Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., p. 52.
(275) Effepi, Genova, 2006.
(276) Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia, op. cit., pp. 30-44: Dalla folgorazione ai “treni della morte”.
(277) Idem, pp. 85-94: Il processo Bełżec.
(278) Idem, pp. 71-84: Il testimone Wilhelm Pfannenstiel.
(279) Idem, p. 70.
(280) Idem, pp. 69-70.
(281) Idem, pp. 15-30: Lo sterminio mediante elettricità.
(282) Idem, p. 51.
(283) Diffusion RHB, BP 122, Colombes, Cedex, 1993.
(284) «Procès Faurisson: compte rendu de l’audience du 9 mai 1995», in: VHO-Nieuwsbrief, n. 3, 1995, p. 20.
(285) J. C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 149.
(286) Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt-Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, p. 423.
(287) Telford Taylor, Die Nürnberger Prozesse. Europa Verlag, Zurigo, 1951, p. 69 e 91.
(288) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., pp. 51-54.
(289) Idem, p. 131.
(290) Idem, p. 133.
(291) Idem, pp. 59-60 e 64.
(292) Idem, p. 136.
(293) Edizioni La Sfinge, 1987.
(294) Auschwitz: le “confessioni” di Höss, op. cit., p. 6.
(295) Idem, pp. 33-39.
(296) Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. Eine Dokumentation, op. cit., pp. 162-163.
(297) Idem, p.177.
(298) NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 268.
(299) Józef Marszalek, Majdanek. The Concentration Camp in Lublin. Interpress, Varsavia, 1986, p. 31. Su questo campo vedi il mio studio in collaborazione con Jürgen Graf Concentration Camp Majdanek. A Historical and Technical Study. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003.
(300) Il fatto non è confermato da nessun documento.
(301) La visita di Eichmann ad Auschwitz non è confermata da alcun documento.
(302) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., pp. 171-174.
(303) Questo termine non appare in nessun documento tedesco.
(304) Questo campo non è mai esistito.
(305) Secondo il rapporto Gerstein, Belzec e Treblinka, da soli, avevano una capacità di sterminio di 40.000 persone al giorno!
(306) NO-1210 (dichiarazione di Höss del 14 marzo 1946).
(307) PS-3868 (dichiarazione giurata di Höss del 5 aprile 1946).
(308) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 51.
(309) Idem, p. 44.
(310) Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., pp. 117-119.
(311) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 49.
(312) Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 186. A questo riguardo Pressac sentenzia: «La data del 20 marzo, avanzata abitualmente per la sua entrata in attività, è inaccettabile, poiché è solo un’interpretazione abusiva dell’epoca in cui la situava Höss, e cioè la primavera del 1942, senza ulteriori precisazioni» (op. cit., p. 49). Ciò è verissimo, ma, dal canto suo, Pressac stesso non riesce a dimostrare documentariamente neppure che questo presunto Bunker di gasazione sia mai esistito.
(313) Quest’artificio è stato recentemente abbandonato da Robert van Pelt, che è tornato al giugno 1941, ma fornendo una interpretazione pisantyana della presunta convocazione di Höss a Berlino. D. Dwork, R.J. van Pelt, Auschwitz 1270 to the present. W.W. Norton & Company, New York, Londra, 1996, pp. 277 e seguenti.
(314) Franciszek Piper, «Gas Chamber and Crematoria», in: Yisrael Gutman and Michael Berenbaum Editors, Anatomy of the Auschwitz Death Camp. Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1994, p. 157. Quest’opera contiene anche un riassunto del libro di Pressac Les crématoires d’Auschwitz intitolato The Machinery of Mass Murder at Auschwitz, pp. 183-245, da lui redatto in collaborazione con van Pelt.
(315) Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 186, con indicazione delle fonti (soltanto testimonianze).
(316) Cfr. Auschwitz: le “confessioni” di Höss, op. cit., pp. 14-15.
(317) Ma Höss dichiara di aver assistito alla cremazione. Idem.
(318) Lo scritto La “soluzione finale della questione ebraica” nel campo di Auschwitz.
(319) Robert M.W.Kemper nell’opera più documentata sulle attività di A.Eichmann, riferisce la storia della visita di questi ad Auschwitz sulla base delle dichiarazioni di R. Höss! R.M.W. Kemper, Eichmann und Komplizen. Europa Verlag, Zurigo, 1961, pp. 101-102.
(320) Eichmann dichiarò di aver conosciuto Höss quando questi prestava servizio presso l’ SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt (Léon Poliakov, Auschwitz. Julliard, Parigi, 1964, p. 185), cioè dopo l’11 novembre 1943, data del trasferimento di Höss da Auschwitz a questo istituto e di essere stato ad Auschwitz tre volte, nel periodo della deportazione degli Ebrei ungheresi, cioè nel 1944. State of Israel. Ministry of Justice. The Trial of Adolf Eichmann. Record of Proceedings in the District Court of Jerusalem. Gerusalemme 1993, vol. VII, p. 220.
(321) Auschwitz: la prima gasazione. Edizioni di Ar, 1992. Seconda edizione, in inglese, riveduta, corretta e ampliata: Auschwitz: The First Gassing. Rumor and Reality. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005.
(322) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 223-230.
(323) Auschwitz: fine di una leggenda, Edizioni di Ar, 1994, pp. 39-40.
(324) Auschwitz: la prima gasazione, op. cit., pp. 28-29.
(325) Auschwitz: le “confessioni “ di Höss, op. cit., pp. 25-26.
(326) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., p. 129; Kommandant in Auschwitz, op. cit., p. 126.
(327) Auschwitz vu par les SS. Edition du Musée d’Etat à Oswiecim, 1974, p. 96 nota 113.
(328) Kommandant in Auschwitz, op. cit., p. 126. Nella traduzione italiana (p. 129) il passo è tradotto erroneamente.
(329) PS-3868.
(330) Dichiarazione manoscritta del 16 marzo 1946.
(331) O fabbricati direttamente dagli inquirenti inglesi montando spezzoni delle dichiarazioni verbali di Höss. Riguardo alla sua prima dichiarazione scritta, Höss dice: «Non so che cosa contenga la deposizione, sebbene l’abbia firmata. Ma l’alcool e la frusta furono troppo, anche per me» (Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., pp. 158-159). Costoro non si sono neppure preoccupati di salvare le apparenze: hanno redatto l’Affidavit del 5 aprile 1946 direttamente in inglese! (Fotocopia in: C. W. Porter, Made in Russia: the Holocaust. Historical Review Press, 1988, pp. 404-406). Il documento si chiude con la seguente formula: «I understand English as it is written above».
(332) Kommandant in Auschwitz, op. cit., p. 127, nota 3. Nella traduzione italiana questa nota viene riportata in forma abbreviata (Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., p. 130, nota 3).
(333) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., p. 171; Kommandant in Auschwitz, op. cit., p. 157.
(334) Idem, p. 130; Kommandant in Auschwitz, op. cit., p. 127.
(335) Idem, p. 177.
(336) NO-1210.
(337) Idem, p. 119.
(338) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., pp. 190-232: dal 26 marzo al 20 giugno 1942 giunsero ad Auschwitz 11 trasporti di Ebrei slovacchi che furono immatricolati tutti.
(339) Auschwitz: le “confessioni” di Höss, op. cit., pp. 18-22.
(340) Idem, p. 22: le vittime entravano nella camera a gas «aspettandosi di fare la doccia e, invece dell’acqua, noi aprivamo gas venefico».
(341) Vedi al riguardo quanto rilevo nel paragrafo seguente.
(342) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., p. 180.
(343) NO-1210.
(344) Secondo l’affidavit di Kurt Becher dell’8 marzo 1946, PS-3762.
(345) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 921.
(346) Auschwitz: le “confessioni” di Höss, op. cit., pp. 22-25.
(347) Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., pp. 182-183.
(348) Franciszek Piper, Die Zahl der Opfer von Auschwitz. Verlag Staatliches Muzeum in Oswiecim, 1993, p. 102.
(349) Nel corso della presunta convocazione di Höss a Berlino nel giugno 1941, Himmler gli disse: «Lei ha il dovere di mantenere il più assoluto silenzio riguardo a quest’ordine, anche con i Suoi superiori» (Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, op. cit., p. 171), tra cui, appunto, Glücks.
(350) Ad esempio, il numero totale degli Ebrei olandesi deportati ad Auschwitz è di 60.085, quello degli Ebrei francesi di 69.114 (F. Piper, Die Zahl der Opfer von Auschwitz, op. cit., pp. 128-129); inoltre varie decine di migliaia di Ebrei ungheresi furono trasferiti in altri campi. C. Mattogno, La deportazione degli Ebrei ungheresi nel maggio-luglio 1944. Un bilancio provvisorio. I Quaderni di Auschwitz, 6. Effepi, Genova, 6. 2007. Vedi sotto, capitolo VI.
(351) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 173.
(352) Auschwitz: le “confessioni” di Höss, op. cit., p. 18.
(353) Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. Eine Dokumentation, op. cit., p. 135.
(354) Idem, p. 132.
(355) R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz, op. cit., pp. 257-258.
(356) J. H. Perry, Chemical Engineer’s Handbook. Wilmington Delaware, 1949, p. 1584.
(357) Luigi Maccone, Storia documentata della cremazione presso i popoli antichi ed i moderni con speciale riferimento alla igiene. Istituto Italiano di Arti grafiche, Bergamo, 1932, p. 104. La temperatura di cremazione ottimale nei forni crematori civili riscaldati con coke era di 800-900°C.
(358) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz. Verlag Steinhausen, Monaco, 1979, p. 207, dove parla di fosse di m. 45-50 x 8. Vedi capitolo VI.
(359) «Verbrennungsexperimente mit Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen in den angeblichen Vernichtungskagern des 3. Reiches», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 7, n. 2, luglio 2003, pp. 185-194.
(360) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, op. cit., p. 83.
(361) Fotografia e descrizione in: Auschwitz: fine di una leggenda, op. cit., p. 80 e 96.
(362) R. Faurisson, Réponse à Jean-Claude Pressac sur le problème des chambres à gaz, op. cit., p. 49.
(363) Secondo la prassi burocratica, su richiesta della Zentralbauleitung, la Topf, come tutte le altre ditte, presentava un’offerta (Angebot) sotto forma di Kostenanschlag (preventivo di costo); se l’offerta era accettata, la Zentralbauleitung eseguiva l’ordinazione, anche verbale, che veniva sempre confermata per iscritto (Auftragerteilung). In questa prassi burocratica il termine Kostenangebot è raro e designa sicuramente il Kostenanschlag.
(364) APMO, BW 30/34, p. 48. Fotocopia in Auschwitz: fine di una leggenda, op. cit., p. 89.
(365) La chiusura del campo per isolarlo dall’esterno durante le epidemie.
(366) APMO, Standort-Befehl, D-AuI-1, p. 46.
(367) Letteralmente: malattie di febbre petecchiale (Fleckfiebererkrankungen).
(368) Si tratta dei distaccamenti di detenuti che lavoravano all’esterno (Aussenkommandos) del campo sotto la sorveglianza delle SS.
(369) RGVA, 502-1-332, p. 108.
(370) Gli operai delle ditte civili che lavoravano ad Auschwitz-Birkenau. Nel mio studio sulla Zentralbauleitung di Auschwitz (vedi Bibliografia) ho elencate 46 ditte. Queste ditte furono presenti ad Auschwitz e a Birkenau con centinaia di operai civili dal 1940 al 1945: una delle prime fu la ditta Friedrich Boos (settembre 1940), una delle ultime fu la ditta Conti Wasserversorgung (gennaio 1945). Nel “campo di sterminio” esisteva inoltre un Arbeitserziehungslager Birkenau (Campo di rieducazione al lavoro) in cui scontavano lievi pene (in genere di qualche mese) per infrazioni commesse sul lavoro gli operai non tedeschi dell’ Alta Slesia, che poi venivano rilasciati. Secondo i dati parziali che ho trovato a Mosca, almeno 355 di questi detenuti furono rilasciati tra il luglio 1943 e il dicembre 1944, di cui 155 durante il presunto sterminio degli Ebrei ungheresi. Con buona pace della storiella del “terribile segreto” di Auschwitz. RGVA, 502-1-436; 502-1-437.
(371) RGVA, 502-1-28, p. 221.
(372) Il reparto autisti, veicoli e trasporti (Fahrbereitschaft) della Zentralbauleitung.
(373) APMO, Standort-Befehl, D-AuI-1, pp. 48-49.
(374) RGVA, 502-1-332, p. 106.
(375) Kriegsgefangenenlager, campo per prigionieri di guerra: denominazione ufficiale del campo di Birkenau.
(376) RGVA, 502-1-68, pp. 115-116.
(377) APMO, BW 30/34, p. 48.
(378) Intervista sull’Olocausto, op. cit., p. 42.
(379) Lettera della Zentralbauleitung alla Kommandantur - Abteilung IIIa (Häftlingseinsatz) del 20 febbraio 1943. APMO, BW 30/34, p. 74.
(380) Per una discussione approfondita della questione rimando al mio studio I Gasprüfer di Auschwitz. Analisi storico-tecnica di una "prova definitiva”. I Quaderni di Auschwitz, 2. Effepi, Genova, 2004.
(381) Edizioni La Sfinge, 1986. La Pisanty cita sempre questo studio come una pubblicazione senza data (così anche nella bibliografia, p. 286). Non ci vuole un’acutezza straordinaria per leggere nell’ultima pagina, sotto all’indice: «Finito di stampare nel mese di aprile 1987»!
(382) Miklos Nyszli, Dr. Mengele Boncolóorvosa voltam az auschwitz-i krematóriumban (Fui medico anatomista del dott. Mengele al crematorio di Auschwitz). Copyright by Dr. Nyiszli Miklos, Oradea, Nagyvarad, 1946. La traduzione tedesca nella rivista “Quick” di Monaco nel 1961 (n.3-11) col titolo Auschwitz. Tagebuch eines Lagerarztes.
(383) Edizioni La Sfinge, Parma, 1988.
(384) Auschwitz: un caso di plagio. Edizioni La Sfinge, Parma, 1986, pp. 9-10 e 21 23 (fotocopie dei testi originali).
(385) Muffel o Einäscherungskammer: la camera di cremazione del forno.
(386) Vedi al riguardo il mio studio tecnico in collaborazione coll’ing. Franco Deana Die Krematoriumsöfen von Auschwitz-Birkenau, in: Ernst Gauss (Hrsg.) Grundlagen zur Zeitgeschichte. Ein Handbuch über strittige Fragen des 20.Jahrhunderts. Grabert Verlag, Tubinga, 1994, pp. 281-320, in particolare pp. 304-305. Versione riveduta, corretta e aggiornata: The Crematoria Ovens of Auschwitz and Birkenau, in: Dissecting the Holocaust. The Growing Critique of “Truth” and “Memory”. Edited by Ernst Gauss. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003, pp. 373-412.
(387) Auschwitz: un caso di plagio, op. cit., p. 13.
(388) Miklos Nyszli, Dr. Mengele Boncolóorvosa voltam az auschwitz-i krematóriumban, op. cit., p. 38.
(389) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 62-63. Per i riferimenti testuali e tecnici rimando alle relative note.
(390) Auschwitz: un caso di plagio, op. cit., p. 14.
(391) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz. Longanesi, Milano, 1977, p. 39.
(392) Nel locale c’erano 7 colonne di cemento armato che sostenevano il solaio, inoltre i presunti dispositivi di introduzione dello Zyklon B.
(393) M. Nyiszli, Dr. Mengele Boncolóorvosa voltam az auschwitz-i krematóriumban, op. cit., p. 32.
(394) Malgrado l’incertezza terminologica di Nyiszli («kazán» significa “caldaia”, ma egli usa il termine «égetókazán», “caldaia di cremazione”, come sinonimo di «égetókemence», “forno crematorio”), qui «kazán» designa il gasogeno del forno (Generator) , poiché egli descrive la fase di riscaldo a vuoto dei forni.
(395) Nyiszli ha “visto” invece 15 forni in 15 costruzioni singole con 15 ventilatori: un’altra quisquilia che lascio all’interpretazione “semiotica” della Pisanty. (M. Nyiszli, Dr. Mengele Boncolóorvosa voltam az auschwitz-i krematóriumban, op. cit., p. 32).
(396) «...dass wir an einem Ofen vergessen hatten, die Ventilatoren auszuschalten»: F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz Sonderbehandlung, op. cit., p. 31. Ogni forno aveva in realtà un solo ventilatore soffiante.
(397) Idem, p. 32.
(398) Idem, p. 108.
(399) Idem, p. 252.
(400) Essi non figurano né nel preventivo di costo (Kostenanschlag) della Topf per i due forni a 8 muffole dei crematori IV e V, né nella lista degli elementi costitutivi di questi impianti spediti dalla Topf (Versandanzeige); inoltre, nel pavimento della sala forni delle rovine dei crematori IV e V non c’è traccia né di coperchi né di pozzi di ispezione dei condotti del fumo.
(401) Il dott. Jacques Pach. F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz Sonderbehandlung, op. cit., p. 100.
(402) Vedi la mia analisi delle testimonianze di F. Müller nello studio Auschwitz: Crematorium I and the Alleged Homicidal Gassing. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005, pp. 33-48.
(403) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 230-234.
(404) Auschwitz: The First Gassing. Rumor and Reality, op. cit., pp. 69-90.
(405) Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, op. cit., pp. 43-54. Di testimonianze di questo calibro riguardo a Belzec e a Treblinka mi era già occupato nei capitoli XI e XII dello studio Il rapporto Gerstein: Anatomia di un falso e ora si capisce anche per quale ragione la Pisanty non li abbia neppure sfiorati. Per ulteriori approfondimenti rimando al mio studio Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia, op. cit., pp. 13-46 e al libro che ho scritto in collaborazione con J. Graf Treblinka. Extermination Camp or Transit Camp? Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004, pp.47-76.
(406) Intervista sull’Olocausto, op. cit., pp. 28-29.
(407) Did Six Million Really Die? Report of the Evidence in the Canadian “False News” Trial of Ernst Zündel. Edited by Barbara Kulaszka. Samisdat Publishers Ltd., Toronto, 1992, p. 5.
(408) Vedi al riguardo il mio studio Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant’anni di propaganda. I Quaderni di Auschwitz, 5. Effepi, Genova, 2005. Edizione in rete riveduta, corretta e aggiornata in:
http://vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMausch45.pdf
(409) Ad esempio Henryk Tauber e Szlama Dragon.
(410) J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 500.
(411) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz , op. cit., pp. 207 e 211.
(412) Trial of Josef Kramer and Forty-four Others (The Belsen Trial). Edited by Raymond Philips. William Hodge and Company, Limited, London Edinburgh Glasgow, 1946, p. 131
(413) Vedi al riguardo il mio studio “Medico ad Auschwitz”: anatomia di un falso, op. cit., pp. 38-41.
(414) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz , op. cit., p. 231.
(415) Vedi al riguardo “Medico ad Auschwitz”: anatomia di un falso, op. cit., p. 40.
(416) Vedi al riguardo il mio studio Auschwitz: Open Air Incinerations. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005.
(417) Georges Wellers, «Essai de détermination du nombre de morts au camp d’Auschwitz», in: Le Monde Juif, n.112, ottobre-dicembre 1983, p. 153.
(418) C. Mattogno, «La deportazione degli Ebrei ungheresi nel maggio-luglio 1944. Un bilancio provvisorio», op. cit., p. 20.
(419) C. Mattogno, «L’evacuazione del ghetto di Lodz e le deportazioni ad Auschwitz (agosto 1944)», in: Auschwitz: trasferimenti e finte gasazioni. I Quaderni di Auschwitz, 3. Effepi, Genova, 2004, p. 34.
(420) Curiosamente, della congiura non fa parte il revisionista più noto, Faurisson, essendo egli un «negazionista per vocazione» (p. 45).
(421) P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, op. cit., p. 84.
(422) «Evola e l’autenticità dei “Protocolli”», in: Orion, n. 39, dicembre 1987; «Sionismo e Protocolli» e «I Protocolli dei Savi di Sion», idem, n. 46, 1988; «Evola e la veridicità dei “Protocolli”», idem, n. 54, 1989.
(423) C. Mattogno, Ritorno dalla luna di miele ad Auschwitz. Risposte ai veri dilettanti e ai finti specialisti dell’anti-“negazionismo”. Con la replica alla “Risposta a Carlo Mattogno” di Francesco Rotondi. 2007, in: http://www.aaargh.com.mx/fran/livres7/CMluna.pdf.
(424) C. Mattogno , «An Accountant Poses as Cremation Expert», in: G. Rudolf, C. Mattogno, Auschwitz Lies. Legends, Lies, and Prejudices on the Holocaust. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005, pp. 87-194. Testo pubblicato in rete nel 2000.




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• The Journal of Historical Review (1980-)

• Annales d’Histoire Révisionniste (1987-1990)

• Revue d’Histoire Révisionniste (1990-1992)

• Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung (1997-2006)

• Akribeia. Histoire, rumeurs, légendes (1997-)

• Études Révisionnistes (2000-)

• The Revisionist (2003-2004)

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• Il mito dello sterminio ebraico. Introduzione storico-bibliografica alla bibliografia revisionista. Sentinella d’Italia, Monfalcone, 1985.

• Auschwitz: due false testimonianze. La Sfinge, Parma, 1986.

• Auschwitz: un caso di plagio. La Sfinge, Parma, 1986.

• Wellers e i “gasati” di Auschwitz. La Sfinge, Parma, 1987.

• Auschwitz: le “confessioni” di Höss. La Sfinge, Parma, 1987.

• “Medico ad Auschwitz”: Anatomia di un falso. La Sfinge, Parma, 1988.

• Come si falsifica la storia: Saul Friedländer e il “rapporto” Gerstein. La Sfinge, Parma, 1988.

• La Soluzione finale. Problemi e polemiche. Edizioni di Ar, Padova, 1991.

• Auschwitz: la prima gasazione. Edizioni di Ar, Padova 1992. Traduzione francese: Auschwitz: le premier gasage. Stiftung Vrij Historisch Onderzoek, Berchem, 1999. Traduzione americana: Auschwitz: The First Gassing. Rumor and Reality. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005. Testo accresciuto, riveduto e corretto.

• Auschwitz: Fine di una leggenda. Edizioni di Ar, Padova 1994.
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• Intervista sull’Olocausto. Edizioni di Ar, 1995. Traduzione americana: My Banned Holocaust Interview. Granata, Box 2145, Palos Verdes, California, 1996.

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• Rassinier, il revisionismo olocaustico e il loro critico Florent Brayard. Graphos, Genova, 1996.

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Riedizione ampliata: Ritorno dalla luna di miele ad Auschwitz. Risposte ai veri dilettanti e ai finti specialisti dell’anti-“negazionismo”. Con la replica alla “Risposta a Carlo Mattogno” di Francesco Rotondi, 2007, in: http://www.aaargh.com.mx/fran/livres7/CMluna.pdf.
• Negare la storia? Olocausto: la falsa “convergenza delle prove”. Effedieffe Edizioni, 2006.
• Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia. Effepi Edizioni, Genova, 2006.
Traduzione americana: Bełżec in Propaganda, Testimonies, Archeological Research, and History. Theses & Dissertations Press, Chicago 2004. Traduzione tedesca: Bełżec Propaganda, Zeugenaussagen, archäologische Untersuchungen, historische Fakten. Castle Hill Publishers, Hastings, 2004. Traduzione francese: Belzec à travers la propagande, les témoignages, les enquêtes archéologiques et les documents historiques. La Sfinge, Roma, 2005.
• Un nuovo libro olocaustico su Belzec e la sua fonte. Considerazioni storico-critiche. Effepi, Genova, 2007.

In collaborazione con Jürgen Graf:
• KL Majdanek. Eine historische und technische Studie. Castle Hill Publisher, Hastings 1998. Edizione americana: Concentration Camp Majdanek. A Historical and Technical Study. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003.
• KL Stutthof. Il campo di concentramento di Stutthof e la sua funzione nella politica ebraica nationalsocialista. Effepi Editore, Genova, 2003. Edizione tedesca: Das Konzentrationslager Stutthof und seine Funktion in der nationalsozialistischen Judenpolitik. Castle Hill Publisher, Hastings, 1999. Edizione americana: Concentration Camp Stutthof and its Function in National Socialist Jewish Policy. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003.

• Treblinka. Vernichtungslager oder Durchgangslager? Castle Hill Publisher, Hastings, 2002. Edizione americana: Treblinka. Extermination Camp or Transit Camp? Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004.

In collaborazione con Germar Rudolf:
• Auschwitz Lies. Legends, Lies, and Prejudices on the Holocaust. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005.

Quaderni di Auschwitz (Effepi, Genova):
• Il numero dei morti di Auschwitz. Vecchie e nuove imposture. n. 1, 2004.
• I Gasprüfer di Auschwitz. Analisi storico-tecnica di una "prova definitiva”. n. 2, 2004.
• Auschwitz: trasferimenti e finte gasazioni. n. 3, 2004.
• Auschwitz: nuove controversie e nuove fantasie storiche. n. 4, 2004.
• Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant’anni di propaganda. n. 5, 2005.
• La deportazione degli Ebrei ungheresi nel maggio-luglio 1944. Un bilancio provvisorio. n. 6. 2007.
• “Azione Reinhard” e “Azione 1005”. Effepi, Genova, 2008.
• Il dottor Mengele e i gemelli di Auschwitz. Effepi, Genova, 2008.

In rete:
• Faurisson: “un vero e proprio insulto alla verita’ storica”?
http://ita.vho.org/012Losurdo.htm

• La critica di R. Faurisson al libro “KL Majdanek. Eine historische und technische Studie”
http://www.vho.org/aaargh/fran/techniques/CMrepRFital.html

• Risposta ad Adriana Chiaia sul “negazionismo” olocaustico
http://ita.vho.org/013Chiaia.htm

• Una legge contro il revisionismo storico italiano?
25 gennaio 2007
http://www.vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMLeggeMastella.pdf

• «La verità sulle camere a gas»? Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia. 2008 http://www.aaargh.com.mx/fran/livres8/CMVENEZIA.pdf

• Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodologia. 2008.
http://vho.org/aaargh/fran/livres8/CMhilberg.pdf
http://civiumlibertas.blogspot.com/2008/01/carlo-mattogno-raul-hilberg-e-i-centri.html

• Genesi e funzioni del campo di Birkenau. 2008
http://vho.org/aaargh/fran/livres8/CMGeneralplanOst.pdf

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APMO: Archiwum Państwowego Muzeum w Oświęcimimiu (Archivio del Museo di Stato di Auschwitz)

APPM: Archiwum Państwowego Muzeum na Majdanku (Archivio del Museo di Stato di Majdanek)

IMG: Internationaler Militärgerichthof (atti del processo di Norimberga)

RGVA: Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv (Archivio russo di Stato della guerra), Mosca.


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Dicembre 2008.


11 commenti:

Andrea Carancini ha detto...
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Anonimo ha detto...
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Anonimo ha detto...
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Anonimo ha detto...
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Anonimo ha detto...

Signor Caracciolo ,
per capire chi è l'ebreo venezia si leggano gli articoli da questo sito(non si applichi censura,prego,saremmo come LORO!)

http://www.thule-toscana.com
sezione "Revisionismo",numeri :72 e 63.
Al numero 63 si trova la demolizione della testimonianza di altra ebrea "miracolata",tale Springer Elisa.

Questi sono i "testimoni" di uoter veltroni che nell'aula in questione si è proclamato COLPEVOLE di tutti i fatti contestati dagli ebrei a chiunque ,cioè... ciò che volevano sentir dire LORO!
Un saluto.

Antonio Caracciolo ha detto...

Ai miei cinque lettori che mi pongono quesiti sugli ultimi miei post chiedo di aver pazienza e di attendere il mio ritorno in Roma. Dalla Calabria, dove mi trovo, posso appena scaricare la posta saltuariamente presso un mio amico. Al Lettore che mi chiede perché non mi occupo solo di Calabria, ma tratto di ebrei e di Israele, dico brevemente che i miei blog sono 24 e sono per me tutti egualmente interessanti. Capita che a volte dedica maggior cura all'uno o all'altro. Quanto alla calabresità voglio riferire al mio lettore calabrese un piccolo episodio realmente accaduto e di cui sono stato partecipe e protagonista.

Al Tevere expo era stato programmato uno spettacolo presso lo stand Calabria. Qualcosa non funzionava nell'impianto di amplificazione. Un operaio della ditta che aveva mal eseguito il lavoro per il quale veniva pagato dalla regione Calabria si lasciò andare con una epsressione razzistica nei confronti di tutti i calabresi. Ecco, dissi fra di me, se anziché di calabresi si fosse trattato di ebrei, apriti cielo! Ne avrebbe parlato il telegiornale e sarebbe stato montato tutto un movimento di protesta con giudici, ministri e poliziotti.

Per i calabresi, no! In breve, non è che io ce l'abbia con gli ebrei. Per nulla e guai a chi osa attribuirmi posizioni antisemite. Voglio dire e documentare come l'art. 3 della costituzione debba valere per tutti. Le comunità ebraiche non possono pretendere di avere più diritti degli altri e di essere immuni da ogni legittima critica che loro si possa muovere in campo storico, culturale, filosofico.

Tutto qui. Ma mi spiegherò meglio al mio ritorno, ser non sono riuscito chiaro.

Antonio Caracciolo ha detto...
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Anonimo ha detto...

Le auguro dal più profondo del cuore di vivere la stessa esperienza delle persone deportate in un campo di concentramento e di tornare a raccontarcela quando avrà 80 anni...

Vorrei vedere se a quel punto i suoi ricordi saranno un romanzo o un libro storico... o più semplicemtne una testimonianza.

Forse di fronte a libri come questo, ci si dovrebbe interrogare di più sulla persona umana, su come e in che modo simili esperienze possano travolgere e stravolgere la vita, che non sui puri e meri numeri.

Anonimo ha detto...

Le auguro dal più profondo del cuore di vivere la stessa esperienza delle persone deportate in un campo di concentramento e di tornare a raccontarcela quando avrà 80 anni...

Vorrei vedere se a quel punto i suoi ricordi saranno un romanzo o un libro storico... o più semplicemtne una testimonianza.

Forse di fronte a libri come questo, ci si dovrebbe interrogare di più sulla persona umana, su come e in che modo simili esperienze possano travolgere e stravolgere la vita, che non sui puri e meri numeri.

La storia è fatta di inesattezze ma rimane sempre storia, anche se raccontata in maniera più o meno precisa, specialmente se quel vissuto ha lasciato in te un vuoto incolmabile, magari una sfiducia nella razza umana

Antonio Caracciolo ha detto...

Pubblico il suo testo in quanto non ravviso contenuti illegali. Ma vorrei invitarla a leggere attentamente tutto il testo e di indicare punti specifici di critica. Così come lei dice io non so cosa pensare. Invece una critica puntuale potrebbe essere prezioso.

Quanto all’augurio che mi fa posso dirle di stare sperimentando qualcosa di simile se non peggio. Ed è la mia profonda partecipazione al vero e proprio genocidio di Gaza e dei palestinesi che non è cosa recente. Ne ha sentito parlare? Se ne è fatto un’idea.

Posso riferirle la testimonianza portata al Seminario su Gaza dal nipote di una persona molto anziana che aveva vissuto l’esperienza cui lei allude. Questa anziana signora – a quanto riferiva il nipote – non riusciva assolutamente a capacitarsi che Israele a Gaza avesse potuto fare quel che ha fatto...

La ringrazio comunque per il buon augurio. Immagino che lei ci sia già passato, ma proprio per questo mi aspetterei un suo prezioso contributo. Dopo i fatti di Gaza, in me è sorto il convincimento che Gaza sia molto peggio di Auschwitz? Mi sbaglio? Perchè? Sono sinceramente interessato ad una sua risposta. Quanto a Shlomo Venezia io l’ho visto di persona in ottima e smagliante forma...

La testimonianza? È quella che per l’appunto Carlo Mattogno esamina con metodo scientifico. Possiamo farlo o ci è vietato?

Antonio Caracciolo ha detto...

AVVERTENZA

La mia liberalità mi spinge ad accogliere qualsiasi commento giunga. Tuttavia proprio per garantire ad ognuno un luogo pulito dove potersi esprimere, devo moderare gli interventi secondo i criteri che mi sembrano più adatti. Mi è estraneo qualsiasi intervento censorio: gli avversari possono esser certi che quanto più le loro critiche saranno pertinenti ed acute tanto più troveranno gradita accoglienza. Un criteri che credo si possa seguire è appunto quello della “pertinenza” al tema del post. Pertanto, cancellerò o subito o dopo qualche tempo quei commenti con non mi parranno “pertinenti” a mio insindacabile giudizio.