mercoledì 31 marzo 2010

Teodoro Klitsche de la Grange: «Impressioni sulle Elezioni Regionali 2010».

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IMPRESSIONI SULLE ELEZIONI REGIONALI 2010

L’esito delle recenti elezioni regionali stimola qualche sintetica riflessione, anche di rilievo costituzionale.

In primo luogo i risultati confermano l’ “onda lunga” della vittoria di Berlusconi del 2008. Abbiamo già avuto occasione di scrivere che i risultati delle ultime politiche presentavano un (singolare) parallelismo con quelli del 18 aprile 1948. Non solo perché erano intercorsi solo due anni dalle precedenti “politiche” (le elezioni per la costituente), non solo perché connotate da schieramenti contrapposti ed alternativi; ma anche perché avevano visto uno (straordinario per le elezioni del dopoguerra), passaggio di voti da uno schieramento (di sinistra) a quello di “destra”: a distanza di soli due anni più di dieci punti percentuali nel 1948, quasi otto nel 2008.

La conseguenza che se ne (poteva) e può trarre è la stessa che parte della dottrina costituzionalistica ne ricavò molti anni fa: che a fondare la costituzione (materiale) della Repubblica era stato più l’esito delle elezioni del ’48 che l’approvazione – avvenuta pochi mesi prima – della Costituzionale formale.

Infatti per circa 30 anni il sistema politico si articolò su un polo (sempre) governante (DC e partiti laici, e dal ’62 anche il PSI) e un polo sempre all’opposizione (PCI ed alleati); e sul piano istituzionale influenzò un’attuazione e interpretazione della Costituzione formale che ne facilitava da un lato una lettura più vicina alle democrazie liberali “classiche”, dall’altro meno propensa ad accelerare sugli elementi “innovativi”, pur presenti nell’articolato costituzionale.

Nella situazione attuale, quell’enorme spostamento di circa tre milioni di voti – e la decisione popolare che vi è sottesa – difficilmente sarà recuperato dal centrosinistra a breve, e cioè per le prossime politiche del 2013 (a meno di qualche crisi grave, dalla guerra in giù, che nessuno – o quasi – si augura).

Anche in questo caso tale valutazione – già chiara due anni fa ed oggi confermata – è, al di là delle esternazioni fatte a scopo di propaganda (soprattutto per rincuorare la militanza dell’opposizione), lo scenario che presuppongono i comportamenti degli attori politico-partitici. I battibecchi tra PD, IDV e partitini minori servono più che altro a tirare a campare al meglio (o alla meno peggio) fino a dopo il 2013, che a costituire una reale – e credibile - alternativa al governo. Così le scissioni (quella di Rutelli è, al momento, l’ultima) e ventilate ricompattazioni (con l’UDC quale perno) hanno come presupposto l’assai probabile sconfitta del centro-sinistra nel 2013, e la necessità conseguente di ottenere un qualche cambiamento attraverso manovre di palazzo e non con l’esito delle urne. Sostituendo parzialmente – o aggiungendo nuovi alleati – alla maggioranza di centro-destra. E un’aspirazione simile sembra la ragione di qualche inquietudine nella maggioranza. Quel che rileva è che, correttamente, il consenso plebiscitario rinnovato a Berlusconi può – e deve – avere un esito istituzionale nel segno di un vasto cambiamento: perché è quello che si aspetta il popolo delle libertà (ed è un dovere per gli eletti), che si riconosce sempre meno nella Costituzione del ’48 e meno ancora nella sua interpretazione che passa per ortodossa: cioè quella di tutti i nostalgici dell’ “ancien régime”, non più al governo, ma sempre al potere, che non hanno intenzione di perdere.

Secondariamente l’alta conflittualità che ha caratterizzato queste elezioni è dovuta anche alla strategia di occupazione del potere, così efficacemente elaborata da Gramsci per una società occidentale (la “guerra di posizione”) e praticata dal PCI/PDS/DS e alleati in sessanta e più anni di Repubblica. E le “casematte” che (occorreva ed) occorre espugnare e conservare sono, in larga - anche se non esclusiva – parte, costituite dagli enti pubblici sub-statali, cioè Regioni ed enti locali.

Dopo la discesa in campo di Berlusconi, anche per il migliore controllo sociale della sinistra, dovuta al possesso di quelle casematte, i progressi del centro-destra nel sistema dei poteri sub-statali è stato assai più lento che al vertice. Dal 2006 in poi, con l’aiuto decisivo dell’ultimo governo Prodi, i progressi si sono accelerati e sono sempre meno reversibili (come il Lombardo-Veneto, confermato quattro volte) a favore del centro-sinistra, o inespugnabili per il centro-destra (le altre quattro Regioni “conquistate” l’altro ieri).

Ciò da una parte rende assai sensibile a sconfitte sul piano locale il centro-sinistra, che su quel sistema ha costruito la propria presa sul territorio; dall’altra pone il problema, più teorico, di quanto possa valere la strategia gramsciana, pensata (egregiamente) per una società industriale, per quella post-industriale del XXI secolo. Probabilmente “pesa”, ma in misura sicuramente minore.

In terzo luogo, si conferma quanto pensato da molti – compreso chi scrive – da anni: che gli attacchi sul “privato” o sul “non pubblico” a Silvio Berlusconi hanno l’effetto di rafforzarlo; non solo per i tempi sospetti e, talvolta, la pretestuosità degli stessi, ma soprattutto perché il popolo è “scafato” e riesce a dare giudizi politicamente più maturi di quel che sperano gli imbonitori: tra un satiro che realizza (v. l’emergenza rifiuti a Napoli e il terremoto in Abruzzo), e un pudibondo professore che predica, gli elettori hanno preferito i fatti del primo alle belle parole del secondo.

Hanno giudicato il governo non dalle inclinazioni e pratiche sessuali del Presidente del Consiglio dei ministri o dei grand commis (da Bertolaso in giù), ma da quello che avevano fatto.

Cioè si sono comportati – se è lecito il paragone – analogamente ai legionari di Cesare che, come scriveva Svetonio, durante il trionfo gallico cantavano licenziose e irriverenti canzoni sugli amori del loro comandante col re di Bitinia, ridendoci su. Perché i legionari romani distinguevano accortamente ciò che è pubblico da ciò che è privato e sul rilievo da dare all’uno e all’altro: pertanto, avendo fiducia nel ruolo e le capacità politiche e militari di Cesare, avevano tante volte rischiato la pelle sotto il suo comando, e era loro indifferente se il comandante andava a letto con Cleopatra o con Nicomede. È meglio combattere (ed affidare la propria vita) a un comandante bisessuale ma affidabile, piuttosto che ad un inetto olezzante di castità.

Questa volta, sicuramente più che in passato, gli italiani hanno provato di essere poco sensibili a certe confusioni da gossip; e questo è prova di istinto politico, che distingue ciò che è politico da ciò che non lo è, e giudica il primo in base a criteri peculiari e specifici e non adatti ad altre sfere dell’azione umana. Come sarebbe ingeneroso ed errato valutare le doti politiche e militari di Cesare sulle sue inclinazioni sessuali, così lo è ad esempio soppesare così Marrazzo e Vendola, ovvero giudicare Di Pietro in base alle regole di grammatica e sintassi, o l’on.le Bindi su criteri estetici.

E, di converso, ritenere l’astronoma Hack adatta a governare perché è una valida scienziata, o l’on. Carfagna perché è una bellissima ragazza (il che non vuol dire che la dr.ssa Hack e la Carfagna siano inadatte a ruoli di governo, ma solo che è errato giudicarle non su attitudini e risultati politici, ma su altro).
Che è quello che sostenevano, tra i tanti, Hegel e Croce. Invece i poteri forti cercano di far ragionare gli italiani non in modo politico, ma anti-politico, che è come dire di tenerli in uno stato di puerizia perenne, cioè quello, per i suddetti poteri, più soddisfacente e remunerativo e che cercano, pertanto, di indurre con le più manifeste manipolazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

Sul principio della libertà di pensiero in una sala romana del Parlamento europeo. Dibattito sul tribunale Russel e sul rapporto Goldstone.

Testo in elaborazione.

Ieri sera, 30 marzo 2010, in Roma, sono arrivato con un quarto d’ora di ritardo, mentre parlava Gianni Tognoni, del “Tribunale Permanente dei Popoli”, illustrando il lavoro del Tribunale Russel, che in Spagna ha iniziato una Sessione sulla Palestina. L’attenzione non è rivolta, come in un tribunale ordinario, al merito delle imputazioni ed alla normale dialettica processuale, ma al ruolo che politici ed istituzioni esercitano davanti ad un caso palese di ingiustizia, anzi di vero e proprio genocidio, che da oltre 60 anni si consuma in Palestina con la nostra complicità ed acquiescienza. Si tratta di capire come ciò sia stato possibile e come sia ancora possibile. E non è per nulla difficile capirlo! Se bastasse capire i mali del mondo per poterli risolvere, oggi noi vivremmo in un mondo ideale, in un mondo felice. Il Male, l’Ingiustizia, la Sopraffazione ha purtroppo quella forza che la verità, i deboli, le vittime vere non hanno. Questa è la storia vera del nostro tempo ed anche delle epoche passate, se pensiamo a come sono scomparsi tanti popoli, i cui nomi e la cui sorte sono per noi delle mere citazioni. È assodato, ad esempio, che gli indiani d’America sono stati sterminati dalla più antica democrazia del pianeta, i cui elogi sperticati sentiamo da mattina a sera, dalla culla alla tomba, ma ciò non provoca in noi nessuna reazione morale. Abbiamo metabolizzato e degli indiani, poveretti, diciamo che hanno avuto il loro destino. Lo stesso che si prospetta per i palestinesi, e di cui si sarebbe smesso di parlare da un pezzo, se in qualche modo non fossero collegati a qualche miliardo di persone che è piuttosto difficile sterminare in una botta sola. Salvo che un Olocausto Nucleare – di cui Israele ha i mezzi – non ci abitui anche a questo.

Il pubblico era costituito da rappresentanti di sigle ed associazioni. Nel foglio che mi è stato passato anche io ho firmato a nome dell’Associazione «Civium Libertas», che esiste, anche se non è una grandissima realtà. Ero indeciso se dare un altro nome: «Comitato europeo per la difesa della libertà di pensiero», in considerazione del fatto che il secondo oratore/relatore dell’incontro, in una data simbolica, il 30 marzo, era una parlamentare europeo, Niccolò Rinaldi, che ha illustrato – come meglio non si può leggere sui media – il vero senso e la vera estensione della votazione dei parlamentari europei che hanno recepito il rapporto Goldstone, pur senza entrare nei contenuti tragici del rapporto. Ho apprezzato l’onesta relazione di Rinaldi, che non ha fatto nessun trionfalismo, ma ha ben reso la realtà esistenziale e operativa degli organi istituzionali di rappresentanza politica. Non sono gli angeli della verità e della giustizia, e neppure i nunzii dei popoli. Sono un coacervo, un precipatato di interessi spesso oscuri che si traducono in seggi parlamentari. Se si pensa ad organizzazioni come l’AIPAC ed a come determinano ed influenzano le attività parlamentari, possiamo ben capire come noi, Signor Nessuno, abbiamo poco da sperare nella figura inesistente del rappresentante politico che secondo il modello liberale classico si troverebbe ogni giorno in religioso raccoglimento per ascoltare dal suo cuore le voci della verità, della giustizia, dell’umanità.

Il luogo era pubblico e mi ci sono recato. Non era certo un’audizione parlamentare alla Commissione Esteri, dove per essere ammessi sono necessarie specialissime autorizzazioni e dove al pubblico non è assolutamente consentito prendere la parola: madonna Fiammetta Nirenstein può dispiegare tutto il suo talento senza tema alcuna di contestazioni da parte di disturbatori. Potendo dunque dire la mia, ho alzato la mano, ma quando si è chiesto il mio nome, ho detto di essere il Signor Nessuno, che a queste ultime elezioni non è neppure voluto andare a votare, con una convinzione non avuta in precedente elezioni e condivisa da almeno un italiano su 4 se non su 3. Voleva però intervenire sulla relazione del Qualcuno che si spera sia un Parlamentare europeo. Non vi era da parte mia nessuna irriverenza. Spero sia stato compreso. Spiego adesso al parlamentare Rinaldi, al quale mando questo post, che a battezzarmi con il nome Signor Nessuno è stato il Qualcunissimo che risponde al nome di Riccardo Pacifici, il quale avuto di me notizia mentre si trovava in quel di Gerusalemme, si è pronunciato dall’alto di quel luogo. Il nome Nessuno, che mi ha fatto subito pensare ad Ulisse nella grotta di Polifemo, mi è parso di buon auspicio ed ho incominciato ad usarlo in questa circostanza ed in tutte le altre analoghe che si presenteranno.

Mi avvio alla conclusione, non avendo affatto pensato ad un “articolo” sull’evento. Non sono un giornalista e non mi piace questo mestiere. Il parlamentare Rinaldi ha detto molte cose interessanti che forse non sono apprezzate dal pubblico presente. Ha parlato del boicottaggio verso Israele. Non si è dichiarato pregiudizialmente contrario, ma ne ha rilevato la scarsa efficacia, almeno a suo giudizio. Sentire ciò non è stato piacevole per gli attivisti del boicottaggio presenti in sala, ma si trattava di capire che era una constatazione, più o meno esatta, più o meno oggettiva. Rinaldi ha anche detto una cosa già nota, ma che è stato importante poterla sentire nuovamente da lui, che ha un qualche accesso alle segrete stanze. E cioè: Israele investe un’infinità di risorse in denaro, uomini e mezzi disparati di ogni genere nella promozione della sua immagine. Controlla i media, quando non ne ha la proprietà diretta. Ha un esercito di avvocati, di azzeccagarburgli, il cui prototipo è un Dershowitz, il cui compito è di approntare tutti gli appigli formalistico-legali per promuovere le ragioni di Israele e far passare sotto silenzio il vero genocidio della nosta epoca: Gaza! Se “Piombo Fuso” è stato un aver osato troppo – secondo quando dice Funkelstein –, è anche vero che oggi la situazione è ancora peggiore, ma di ciò poco si parla. Appunto per la capacità che Israele, ed i suoi agenti fra di noi, di mettere a tacere, di far passare in silenzio.

Non posso fare un riassunto delle cose interessanti che Rinaldi ha detto, dei numerosi spunti da approfondire. Mi limito ora a quello che è stato l’intervento del Signor Nessuno, che è stato particolarmente attratto da un’inciso, che avrebbe meritato ben altri sviluppi da parte di un parlamentare europeo. Rinaldi ha accennato al senso di colpa dei tedeschi, che mai prenderebbero una qualche posizione contro la stella di Davide. Dunque, come a dire, fate pure strage e macello degli odierni “selvaggi” che sono i palestinesi, ed il cui “destino” può ben essere quello degli indiani d’America. Noi non vi fermeremo la mano. Anzi. Vi daremo pure le armi che vi servono. Hitler non avrebbe saputo fare di meglio. Naturalmente, sono queste solo mie deduzioni, che lo stesso Rinaldi potrebbe ricavare se andrà a riflettere sul dato che gli ho offerto: ogni anno nella sola Germania ben 15.000 persone vengono perseguite per meri reati di opinione. Se devo dar credito a dati recentissimi riportati da Finkelstein, buona parte dei giovani tedeschi non crede più alla favola della “colpa” dei padri che deve ricadere sui figli fino alla terza e quarta generazione.

Ho fatto presente all’europarlamentare Rinaldi che lo stato moderno al quale siamo abituati a concepire, basato sulla divisione dei poteri e soprattutto sulle elezioni, quintessenza di una presunta democrazia. È da richiamare l’attenzione sull’importanza del “discorso” nello schema della democrazia parlamentare classica. Non pare sia in discussione la libertà di pensiero e di espressione del parlamentare. Ma la stessa libertà vale per il comune citttadino, che è chiamato a votare ed eleggere i suoi rappresentanti? Il messaggio che invio in questa lettera aperta all’europarlamentare Niccolò Rinaldi, ed ai suoi colleghi sensibili al tema, vuole richiamare l’attenzione sul fatto che questa libertà esiste sempre meno per i cittadini europei. Ciò si lega al tema Palestina, Gaza, Piombo Fuso, genocidio del popolo palestinese, reso possibile dall’artificioso e indotto senso di colpa dei tedeschi e dei popoli europei. Sostengo la tesi che per aiutare il popolo palestinese occorre ripristinare in Europa la piena libertà di pensiero, con la quale si possa dire – salvo argomentarlo – che Gaza è peggio di Auschwitz, senza per questo sentirsi dare del razzista o dell’antisemita, termine ormai privo di senso, considerando per giunta che i “veri” semiti sono proprio i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania.

giovedì 25 marzo 2010

Maurizio Blondet: «Il manicomio con le atomiche».


MAURIZIO BLONDET

Il manicomio con le atomiche
«Non vogliamo una setta messianica e apocalittica che si fornisca di bombe atomiche....Quando dei credenti dagli occhi fanatici mettono le mani sul potere e su armi di morte di massa, allora il mondo intero deve preoccuparsi; è ciò che avviene in Iran».
È questa una delle frasi preferite da Bibi Netanyahu, che egli ripete ad ogni occasione ai capi di stato e di governo goym, e da ultimo ha ripetuto al presidente Obama nella sua ultima visita a Washington.

Naturalmente Netanyahu vuole con questo argomento spingere Usa ed Europa a massacrare gli iraniani, o a legittimare un attacco israeliano alle installazioni di Teheran. Ma ai governanti così apostrofati non può certo sfuggire che Netanyahu sta descrivendo il regime israeliano che lui guida: “Una setta apocalittica e messianica dotata di bombe atomiche” (tra 2 e 300 testate) e guidata da “fanatici dagli occhi sbarrati” esiste già, ed è effettivamente un pericolo per il mondo. Lo ammette lo stesso Netanyahu, in un’altra delle sue frasi preferite:
“Non c’è mai stata nella storia del mondo una situazione in cui un regime estremista, con una ideologia retrograda e ambizioni ben note sull’uso della forza, ha accesso alle armi di morte di massa”.
Effettivamente, non c’è al mondo ideologia ‘religiosa’ più retrograda di quella che impera in Israele, che basa il suo “diritto” all’occupazione di terre altrui su un testo sacro di 2700 anni fa, e di cui sta applicando la arcaica feroce “Legge” iscritta nell’Esodo e nel Deuteronomio, insomma l’obbligo religioso di massacrare “cananei, gebusei, amorrei, perizziti, amaleciti” eccetera, imprecisati antichi popoli che (secondo il mito) abitavano la “terra di Canaan”, data da Dio ai soli ebrei: capziosi rabbini insegnano di volta in volta che gli “amorrei” da uccidere sono gli armeni, gli ucraini, i palestinesi, e più in generale tutti i non ebrei (1). Non più tardi del novembre scorso un rabbino di nome Ytzakh Shapira ha pubblicato un manuale che spiega che è doveroso uccidere qualunque non-ebreo che “ci ostacola” (noi ebrei) in qualunque modo; anche un bambino può essere ucciso se si ha ragione di ritenere che da adulto diverrà un nemico del popolo eletto.
Significativamente, rabbi Shapiro ha intitolato la sua guida al massacro razziale “Torath ha-Melekh”, “Gli insegnamenti del Re”: il Re? Ma Israele non era l’unica democrazia del Medio Oriente?

Ed ha ancora ragione Netanyahu: il regime retrogrado israeliano “ha ben note ambizioni sull’uso della forza”, come ha ampiamente dimostrato nelle devastazioni che ha portato in Libano e nel genocidio che attua nella Striscia di Gaza, per non parlare dello sterminio di prigionieri di guerra egiziani (alla fine della guerra dei Sei Giorni), degli assassini compiuti in paesi esteri, e della costante violazione delle convenzioni del diritto internazionale. Persino i governi goym più servili ne sono coscienti: Londra ha appena espulso il capostazione del Mossad all’ambasciata israeliana, per la faccenda dei passaporti inglesi con cui gli assassini ebrei sono andati in Dubai per trucidare un capo di Hamas (2).

Nascono domande sulla psiche di Netanyahu. Chiaramente applica quel fenomeno, che Freud notò nei suoi pazienti (all’inizio esclusivamente ebrei) e che chiamò “proiezione”: l’attribuire (proiettare) ad altri le proprie intenzioni inconfessabili. Ma la domanda è: Netanyahu lo fa’ in modo consapevole, o è del tutto inconscio?

Propenderei per la risposta: Netanyahu descrive Israele fingendo di descrivere l’Iran, in modo semi-cosciente. Metà per calcolo, e metà per incapacità di dissimulare pulsioni profonde.

Già diversi osservatori hanno ipotizzato in Netanyahu uno squilibrio mentale. Pochi giorni fa, nel celebrare il centenario della nascita del proprio padre Benzion Netanyahu (nato Mileikowski in Polonia) Bibi ha rivelato che suo papà “aveva previsto l’attentato dell’11 settembre a New York fin dagli anni ‘90”. Una proclamazione forse inopportuna, dato che papà Benzion non era un indovino paranormale, bensì il segretario di Vladimir Jabotinsy: il fondatore della più estremista e razzista componente del sionismo, fautrice dell’uso della violenza (espulsione e genocidio non escluso) contro i palestinesi per “liberare” la Terra Santa. Contiguo al terrorismo anti-britannico, Benzion era considerato eccessivamente estremista e di destra persino da Menachem Begin.

Sorge la domanda se quella di Benzion fosse una profezia o un progetto già in elaborazione negli anni ’90. E’ una questione che, se fosse prudente, il figlio farebbe meglio a non sollevare: tanto più che proprio Bibi, quell’11 settembre del 2001 mentre morivano 3 mila americani, a botta calda si lasciò sfuggire pubblicamente che l’evento era “un bene”, perché avrebbe suscitato - come subito dopo spiegò per giustificare la sua uscita - “immediata simpatia per Israele”: un salto logico stupefacente, ma condiviso da quegli “israeliani danzanti” sul camion dei tralochi della Urban Moving System, visti mentre esultavano alla vista delle Towers in fiamme, arrestati e poi rilasciati (per visto scaduto).

Molti giornalisti israeliani hanno detto che Netanyahu è sotto la totale influenza (“è sottomesso”) a sua moglie Sarah (la terza in ordine di tempo), la quale si impiccia degli affari di stato e sarebbe determinante nelle scelte del personale politico di cui il marito si circonda. Specificamente, s’è detto che la donna ha bloccato la nomina di Alon Pinkas (un rispettato diplomatico, console generale a New York) ad ambasciatore di Sion all’ONU.
“E’ al governo per soddisfare lei, più che noi”, ha scritto Ben Caspit, uno dei più influenti giornalisti israeliani, del Ma’ariv.
La quale moglie (una ex hostess) è essa stessa sospettata di un non perfetto equilibrio psichico: “infantile, capricciosa, arrogante” sono i termini più usati al suo riguardo. Recentemente, una donna di servizio nella lussuosa residenza del premier a Cesarea, tale Lillian Peretz, ha fatto causa alla moglie di Bibi descrivendo le ripetute umiliazioni che aveva dovuto subire, oltre il fatto che madame Netanyahu non la pagava secondo il salario sindacale. Subito dopo, i giorali israeliani hanno rivelato di peggio: che “madame Netanyahu ha licenziato un vecchio ebreo settantenne, rimasto solo al mondo dopo che suo figlio è morto in combattimento, e che faceva qualche modesto lavoretto nel giardino per meno del salario minimo”. Ne è nato uno scandalo, di cui naturalmente i giornali europei hanno taciuto, per il modo in cui la first lady trattava il servidorame: la cameriera Peretz l’ha accusata anche di obbligare i suoi servi a lavorare il Sabato...La coppia Netanyahu ha replicato denunciando per diffamazione il giornale che aveva rivelato la vicenda (Ma’ariv) e pretendendo un risarcimento-danni equivalente a 200 mila dollari.

Suscettibilissimo, Netanyahu ha risposto infuriato durante una conferenza-stampa in Germania (la Merkel era al suo fianco) ai giornalisti che lo interrogavano sul fatto: “Lasciate in pace mia moglie e i miei figli!”.

Avrebbe dovuto aggiungere: “...e anche mio cognato!”. Perchè il fratello dell’amata e padronale Sarah, un noto razzista di nome Hagai Ben-Artzi, s’è fatto intervistare dalla Radio dell’Esercito il 17 marzo scorso per insultare il presidente Obama chiamandolo (indovinate?) antisemita, per aver chiesto il congelamento delle costruzioni per soli ebrei a Gerusalemme:
“Quando un presidente antisemita va’ al potere in America, è il momento per noi di dire: non cediamo. Ogni volta che gli americani hanno cercato di intervenire in qualcosa riguardante Gerusalemme, noi abbiamo risposto con una semplice parola: no”.
Netanyahu ha dovuto pubblicamente prendere le distanze dal cognato. Che del resto non ha fatto che ripetere quello che proclamano sui loro giornali e siti decine di rabbini e migliaia di coloni.

Ma la presa di distanza mostra che, quando vuole, Netanyahu dà prova di autocontrollo. E dunque bisogna fare appello al lato consapevole del suo “semi-cosciente” evocare l’Iran come “un regime estremista, con una ideologia retrograda e ambizioni ben note sull’uso della forza, che ha accesso alle armi di morte di massa”, e non gli sfugge certo che sta descrivendo Israele qual è oggi.

Perchè lo fa? Io credo: per far paura. Egli vuol convogliare ai governanti occidentali (prima ancora che a quelli musulmani) l’avvertimento minaccioso: attenti a voi, perché siamo folli, irrazionali e abbiamo 200 bombe atomiche.

A quanto pare, è una consapevole strategia psicologica della politica israeliana verso il mondo. Già lo affermò Moshe Dayan: “Israele dev’essere come un cane rabbioso (mad dog), troppo pericoloso da molestare”. Si tratta dunque di “fare i pazzi” per terrorizzare, e col tempo la tattica è diventata un habitus mentale?

Nel febbraio 2009, poco prima che gli elettori dessero a Netanyahu la carica che ricopre, e con ciò i codici di lancio dell’arsenale nucleare, fu Aaron David Miller – un diplomatico ebreo che è stato negoziatore per gli Usa in Medio Oriente – a predire che come prima mossa, il premier di Sion sarebbe andato a parlare con Obama, allo scopo di “fare una paura da pazzi al presidente” (scare the daylights out of the president) per costringere non solo lui, ma l’intera comunità internazionale, ad affrontare il problema Iran secondo la volontà dello stato ebraico.

Netanyahu sa che non ha bisogno di far paura a Washington, visto che senatori e governanti sono già terrorizzati a dovere dall’AIPAC, la lobby, contro la quale sanno che non si viene eletti. Proprio nel mezzo del gelo tra la Casa Bianca e Israele dovuta all’insulto che Netanyahu ha inflitto al vice-presidente Joe Biden, e proprio davanti all’AIPAC riunita per l’emergenza, i governanti Usa si sono profusi in dichiarazioni di servilismo inimmaginabile. Joe Biden (di cui Haaretz ha scritto: “Ha preso lo sputo in faccia e ha detto che era pioggia”) ha proclamato che il suo amore per Israele, come quello dell’Amministrazione e di tutti gli americani, è “solido come una roccia”. Nancy Pelosi s’è precipitata ad assicurare che i legami con Israele non saranno mai recisi, mai e poi mai. E così anche Hillary Clinton: la nostra politica sugli insediamenti, ha assicurato i settemila attivisti dell’AIPAC, è per il bene vero d’ Israele, per assicurare in eterno la sua sicurezza… (3).

Che bisogno c’è di fare ancora più paura? Eppure è stata data la più ampia diffusione alle ultime dichiarazioni di Martin Van Creveld, il massimo storico militare israeliano: “Possediamo diverse centinaia di testate atomiche”, ha detto, “e razzi, che possiamo lanciare su obbiettivi in ogni direzione, magari anche su Roma. La maggior parte delle capitali europee sono obbiettivi per le nostre forze armate...Abbiamo la capacità di trascinare giù il mondo con noi, e vi assicuro che questo accadrà prima che Israele vada sotto”.

Non è la prima volta che Van Creveld pronuncia queste minacce. Ma nessuna volta, mai, alcun rappresentante del regime isareliano l’ha smentito, o l’ha trattato da pazzo fanatico.

Anzi, peggio. Si scopre che le sue idee covano, sono diventate un habitus negli ambienti israeliani . Il 7 aprile 2002, il professor David Perlmutter, un noto neocon, dalle pagine del Los Angeles Times, esprimeva i seguenti propositi:
“Che cosa meriterebbe di meglio un mondo odiatore degli ebrei, a retribuzione di millenni di massacri, se non un inverno nucleare? Se invitassimo tutti quegli statisti europei e attivisti pacifisti che ci fanno la lezione morale a raggiungerci nei forni? Per la prima volta nella storia, un popolo minacciato di sterminio mentre il mondo ridacchia ha il potere di distruggere il mondo. Che sia l’ultimo atto di giustizia?” (4).
E i politici occidentali possono ancora credere che il pericolo sia l’Iran? L’Iran non ha bombe atomiche. Israele sì.

Maurizio Blondet

NOTE

(1) L’ultima replica di Netanyahu alla richiesta americana (ed europea) di bloccare le costruzioni per soli ebrei a Gerusalemme Est è stata: “Gli ebrei costruiscono a Gerusalemme da 3 mila anni”. Forse, a parte una breve interruzione di due millenni. Il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha detto alla BBC: duemila anni di desiderio ebraico per Gerusalemme giustifica l’espulsione dei proprietari di case palestinesi. Il giornalista della BBC, Owen Bennett-Jones, ha replicato: “Se tutti volessero tornare dov’erano 2 mila anni fa, sarebbe un mondo folle, ci sarebbero guerre dappertutto”. Ma la voce del buon senso non ha cittadinanza nello stato fanatico e retrogrado. Già Golda Meir, presunta laicista socialista, disse: “Questo paese esiste come adempimento di una promessa fatta da Dio stesso; è ridicolo chiedergli di dar conto della sua legittimità”. E poi si parla di “fondamentalismo islamico”. "The BBC Newshour". - Torna al testo.

(2) “Cani”: così ha insultato gli inglesi a causa dell’espulsione della spia israeliana Aryeh Eldad,
parlamentare di Israele (partito National Union). E ha aggiunto: “E con tante scuse ai cani, dato che i cani sono completamente fedeli”. Un altro parlamentare, Michel Ben-Ari, ha rincarato: “I britannici sono cani, ma non sono fedeli a noi; sono fedeli a un sistema antisemita...E’ antisemitismo mascherato da antisionismo”. Entrambi dunque pretendono dagli europei, loro cani, fedeltà canina non al proprio stato, ma ad Israele. - Torna al testo.

(3) Il fanatismo ebraico in Usa è potentemente appoggiato dal folle fanatismo messianico “cristianista”. Un recente sondaggio Harris ha mostrato che, fra gli elettori repubblicani, il 57 per cento sono convinti che Obama è un musulmano (ciò fa’ il 32 per cento dell’elettorato), il 38 per cento (che fa’ il 20 per cento dell’elettorato generale) sostiene che Obama “agisce come Hitler”, e il 24 per cento degli elettori repubblicani crede che Obama sia l’Anticristo: ossia il 14 per cento degli americani. C’è una “frangia di lunatici” che domina l’America. - Torna al testo.

(4) David Perlmutter, ci informa Israel Shamir, è anche noto per aver scritto sul Los Angeles Times: “Se solo nel 1948, nel 1956, nel 1967 o nel 1973 Israele si fosse comportata un po’ come il Terzo Reich, oggi sarebbe Israele, e non gli sceicchi, a possedere il petrolio del Golfo”. L’apologia del nazismo è dunque permessa sui media: purchè la faccia un ebreo. - Torna al testo.

mercoledì 24 marzo 2010

Liste elettorali regione Lazio: Interventi tecnico-giuridici dell’Avv. Teodoro Klitsche de la Grange

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Le vicende delle elezioni regionali, riprese dalla stampa con grande rilievo, hanno dato modo al nostro collaboratore Teodoro Klitsche de la Grange d’intervenire più volte. Ora l’avv. Klitsche de la Grange ci manda i due ricorsi dallo stesso presentati al T.A.R. del Lazio per le liste del Partito Liberale, del Movimento sociale - Fiamma Tricolore. Ne pubblichiamo, di seguito, una parte perché ci sembra particolarmente significativa di come possa “legalmente” essere distorto il rapporto tra corpo elettorale e rappresentanza istituzionale.

CIVIUM LIBERTAS

* * *

MOTIVO I

Violazione e falsa applicazione dell'art.44 e 45 Statuto Regione Lazio (L.s. Regione Lazio 11/11/2004, n.1); incompetenza e violazione di legge

1.0 In materia di durata in carica degli organi politici regionali lo Statuto del Lazio all'art. 45, co. 4 dispone che
“il Presidente della regione e la Giunta durano in carica fino alla proclamazione del Presidente della Regione neoeletto”.
Pertanto il principio generale, confermato dall'art. 45, co. 6 dello Statuto, è quello della prorogatio dei poteri, peraltro esteso dall'art. 28, co. 1 dello Statuto anche ai Consiglieri Regionali. Con riguardo al caso specifico, il Consiglio regionale è stato sciolto con decreto del Presidente del Consiglio regionale Astorre del 28 ottobre 2009 sulla base espressamente citata nel decreto stesso delle intervenute dimissioni volontarie del Presidente Marrazzo ai sensi dell'art. 44, co. 1 dello Statuto. Da questo momento in poi sono dimissionari tanto il Consiglio quanto il Presidente quanto la Giunta, compreso il Vicepresidente, giusto l'art. 44, co.1 dello Statuto. In caso di dimissioni volontarie non opera la cosiddetta “reggenza” del Vicepresidente di cui all'art. 45, c. 6 dello Statuto. E' il caso di riportare il testo dell'art. 45, co. 6 dello Statuto:
“La giunta dimissionaria ai sensi dell'art.19, co. 4, dell'art. 43, co. 2, dell'art. 44, co.1 , resta in carica, presieduta dal Presidente della Regione, ovvero dal Vicepresidente nei casi di rimozione, decadenza, impedimento permanente e morte del Presidente, limitatamente all'ordinaria amministrazione, fino alla proclamazione del Presidente della Regione neoeletto”.
Se si dà alla congiunzione “ovvero” il giusto valore, appare di tutta evidenza che detta reggenza opera solo nei casi tassativamente ivi indicati: morte, impedimento permanente, rimozione o decadenza del Presidente. Invece in caso di dimissioni volontarie, che pure da luogo insieme ai quattro casi su citati allo scioglimento anticipato del Consiglio ai sensi dell'art. 44, co. 1 dello Statuto richiamato nell'art. 45, co. 6 dello Statuto, la Presidenza della Giunta dimissionaria continua a spettare al Presidente dimessosi volontariamente. La ratio della disposizione appare chiara; in caso di interruzione traumatica per eventi esterni che portino al decesso del Presidente o minino gravemente la salute o la libertà del Presidente (immaginiamo che il Presidente diventi incapace di intendere e volere o sia stato sequestrato da terroristi) o che ne determinino la rimozione o decadenza risulterebbe assai inopportuno o impossibile che il Presidente continui a presiedere la Giunta. Viceversa nel caso in cui è lo stesso che ha datao volontariamente le dimissioni si ritiene che sia fisiologico che porti a termini il mandato, seppure con poteri di Giunta “dimezzati” limitati all'ordinaria amministrazione ai sensi dello stesso art. 45, co. 6 dello Statuto. A rafforzare detta interpretazione va sottolineata l'assenza della virgola dopo “Vicepresidente”, assenza che lega saldamente la “reggenza” esclusiva del Vicepresidente - con conseguentemente perdita delle funzioni presidenziali in capo al Presidente - ai soli quattro casi ivi espressamente riportati di scioglimento anticipato del Consiglio regionale (morte, decadenza, impedimento permanente e rimozione del Presidente).

A contrario, l'alternativa sarebbe quella di interpretare la congiunzione “ovvero” nel senso di “o indifferentemente”, il che striderebbe assai con i principi dell'ordinamento e con la stessa logica, giacché il Presidente si troverebbe a guidare la Giunta anche in caso di sua morte o impedimento permanente (il che è impossibile), rimozione o decadenza (il che è altamente inopportuno). Esclusa la “reggenza” del Vicepresidente in caso di dimissioni volontarie, ipotesi in cui al contrario lo Statuto, come si è visto, prescrive la prorogatio dei poteri presidenziali limitatamente a quelli, monocratici o collegiali, da esercitare in seno alla Giunta regionale o quale componente della Giunta regionale (l'art. 45, co. 6 dello Statuto è infatti inserito nell'art. 45 intitolato “composizione e durata in carica”, a sua volta inserito nel Capo III dedicato alla Giunta Regionale e non nel Capo II dedicato al Presidente), lo Statuto disciplina le funzioni vicarie del Vicepresidente nell'art. 45.2, che recita
“il Vicepresidente sostituisce il Presidente in caso di assenza o impedimento temporaneo”.
Detta disposizione è inserita all'interno dell'art. 45, articolo e Capo III intitolati come detto sopra. Pare evidente che in caso di dimissioni volontarie del Presidente le funzioni vicarie del Vicepresidente, anch'egli automaticamente dimissionario, operino solo per attività da espletarsi in seno alla Giunta regionale, ed attengono al potere di convocare e presiedere l'organo collegiale, disciplinandone i lavori, al posto del Presidente assente o indisposto. Appare peraltro decisivo che mentre l'art. 44, co. 1, enumera cinque casi di cessazione della carica del Presidente della Regione, l'art. 45, co. 6, ne enumera solo quattro per le funzioni di di “reggenza” del Vicepresidente, e il mancante è proprio il caso delle dimissioni volontarie, quello cioè che ha originato lo scioglimento del Consiglio e le elezioni.

1.1 Viceversa, sempre in caso di dimissioni volontarie, non si ritiene ammissibile che il Vicepresidente dimissionario possa sostituire automaticamente il Presidente, anche se munito di delega di questi, per il compimento di tutti gli atti presidenziali monocratici elencati nell'art. 41, intitolato “Funzioni”, ed inserito nel Capo II dedicato al “Presidente della Regione”. Difatti l'art. 41, unitamente agli art. 19, co. 1, 40, c. 1 e 43 dello Statuto concorre a delineare la forma di governo laziale come forma “presidenziale” o “semi-presidenziale”, dal momento che all'elezione popolare diretta del Presidente e del Consiglio regionale si aggiunge il potere di sfiducia dell'assemblea nei confronti di Presidente e Giunta. Ne deriva che la provvista funzionale che lo Statuto assegna al cosiddetto governatore della regione è strettamente riconnessa al ruolo di capo dell'esecutivo regionale legittimato direttamente dal corpo elettorale, e difficilmente è ammissibile che il Presidente della Regione possa essere sostituito o farsi sostituire in caso di assenza o impedimento temporaneo nella firma di atti monocratici rientranti nell'elenco di cui all'art. 41. Peraltro detto articolo non contiene un elenco tassativo degli atti presidenziali, posto che il co. 10 prevede un rinvio ad ulteriori funzioni previste nella Costituzione, nello Statuto o nelle leggi. Tra dette leggi rientra senza dubbio l'art. 5 della legge regionale 2 del 2005, che espressamente prevede che il decreto di indizione delle elezioni regionali sia sottoscritto dal Presidente della Regione. Orbene anche un approccio sistematico dell'ordinamento milita in favore della tesi secondo cui generalmente il potere di indizione delle elezioni e di fissazione della data delle elezioni stesse (art.87 Cost. Concernente l'indizione delle elezioni delle Camere da parte del Presidente della Repubblica) - lasciando da parte la questione della riconducibilità agli atti presidenziali sostanzialmente propri o sostanzialmente governativi o sostanzialmente complessi legata all'istituto della controfirma anche perché, diversamente dal livello statale, a livello regionale il Presidente della Regione assomma in sé la figura di organo di rappresentanza legale dell'ente e di garanzia con quella di vertice dell'esecutivo - è difficilmente delegabile o suscettibile di essere esercitato da organi con funzioni vicarie se non si è in presenza di un gravissimo impedimento del titolare della funzione. I certificati medici di stress psico-fisico prodotti dal Presidente Marrazzo prima e/o dopo le sue dimissioni non costituiscono certo un impedimento permanente irrimediabile quale quello richiesto dallo Statuto regionale perché operi la cosiddetta “reggenza”. Occorrerebbe una vera e propria incapacità di intendere e volere, quale quella che avvenne durante il mandato del Presidente della Repubblica Segni, o nella Regione Lazio, all'assessore alla cultura on.le Cutolo.

1.2 Per i motivi detti sopra tanto una delega amministrativa del Presidente al Vicepresidente per l'esercizio delle funzioni presidenziali di cui all'art. 41 rilasciata prima o dopo le dimissioni volontarie del Presidente, quanto il mero esercizio di fatto delle funzioni presidenziali da parte del Vicepresidente per assenza o impedimento temporaneo del Presidente di fatto cozzerebbero contro l'art. 45, co. 2 e 6 dello Statuto. Per detti motivi il Decreto Presidenziale di indizione delle elezioni regionale nel Lazio n. 17 del 26 gennaio 2010, firmato da Esterino Montino in qualità di Vicepresidente, non poteva essere validamente deciso e firmato da Montino, spettando la firma al Presidente Marrazzo. A maggior ragione se si evidenzia che - come ha accertato il T.A.R del Lazio pochi giorni orsono - dette elezioni si qualificano come “anticipate” alla luce dell'avvenuto scioglimento anticipato del Consiglio Regionale - il Vicepresidente Montino (“funzionario di fatto” nel caso di specie) le ha fissate per una data successiva al termine perentorio previsto dalla legge. Ammesso e non concesso dunque che Montino potesse firmare al posto di Marrazzo il decreto che ha indetto le elezioni, certamente Montino non poteva fissarle in una data contraria a quella prevista dalla legislazione vigente. Pertanto i due profili di illegittimità del decreto Montino, quello dell'incompetenza (relativa) dell'organo che l'ha firmato (il Vicepresidente della Giunta regionale) e quello della violazione delle norme legislative sul termine perentorio per elezioni regionali anticipate, insieme si rafforzano e portano al risultato dell'annullamento dell'intero procedimento elettorale nel Lazio.

martedì 23 marzo 2010

VIª Israeli Aparteid Week. – Ambiguità interne al fronte di solidarietà filopalestinese e antisraeliano.

Vers. 1.1/23.3.10
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Tenterò di esprimere con alcuni concetti in cifra, senza essere esplicito, come in genere amo fare. Infatti, non vorrei urtare persone alla cui amicizia tengo e soprattutto non volendo mancare loro di rispetto. Tuttavia, quel che occorre dire, bisogna dirlo, per superiore rispetto alla verità. C’entra la mia persona, che senza per nulla volerlo è stata gratificata di un’intensa attenzione di stampa, che è durata pochi giorni, ma si è consolidata in ambienti che si basano sui titoli grandi dei giornali, senza poi badare molto a quale sia la verità delle cose. Anche per loro, in fondo, conta ciò che appare, e non ciò che è. Per quanto riguarda la mia fama di «negatore dell’Olocausto» ribadisco ancora una volta la mia incompetenza sulla materia, la mia estraneità, mentre invece richiamo l’attenzione sulla legislazione liberticida vigente in una dozzina di paesi europei che reprimono la libertà di pensiero, quella stessa libertà di pensiero e principio di non discriminazione che è stata curiosamente richiamata da taluni proprio per opporsi al boicottaggio accademico delle università israeliane. Ricordo en passant che proprio da Israele è partita, dal 1986 in poi, una campagna per estendere in tutta Europa una legislazione che con la libertà di pensiero ha poco a vedere, salvo ritenere che libertà di pensiero sia soltanto quella che io considero tale, valga solo per me e deve negarsi ai miei avversari ed oppositori politici e culturali.

Chi deve capire, capisca. Tornando alla divaricazione che si è creata fra la campagna di boicottaggio anche accademico delle università israeliane e una campagna per la ricostruzione delle istituzioni educative palestinesi mi sembra si possa enucleare un’ambiguità di fondo che non giova a nessuno. Si rischia di accogliere un principio di sabotaggio interno al boicottaggio. A mio modo di vedere, l’esperienza storica del sionismo non ha mai perso di vista l’obiettivo della distruzione, negazione, neutralizzazione della realtà palestinese. Trovo che sia una grande ingenuità, per non dire peggio, aspettarsi da un Netanyahu o suoi compari aiuti e sostegni per la ricostruzione delle università palestinesi distrutte. Chi non vuol capire che l’unica soluzione realistica, benché difficilissima, sia lo Stato Unico, sposa in realtà la strategia del lento genocidio di ciò che resta del popolo palestinese, il cui “processo” genocidario è in realtà iniziato ancor prima del 1948. Farsi scrupolo che “anche” docenti ebrei possano aderire alle varie campagna filopalestinesi e che perciò non bisogna urtarne la sensibilità, significa non voler capire come tutto si tiene.

La politica di demonizzazione del passato storico europeo è stata e continua ad essere funzionale ad un analogo processo di conquista neocoloniale e neoimperiale di tutto il Medio Oriente, dove Israele è la testa di ponte di una strategia che si avvale di mezzi militari ma soprattutto di coperture ideologiche e mediatiche. È da aggiungere la creazione di un clima di terrore e una sostanziale negazione capillare della libertà del pensiero, in particolare nella ricerca storica. È curiosa la posizione di chi si è opposto in questi anni alla campagna di boicottaggio accademico contro le università israeliane, complici nella politica di genocidio, in nome di un principio di libertà di pensiero e di non discriminazione che non si rispetta neppure nelle università europee, proprio su sollecitazione delle istituzioni israeliane.

Mi giunge oggi la notizia di una denuncia dell’AIPAC in quanto istituzione straniera. Ma in Italia non abbiamo forse di simili istituzioni e non possiamo rintracciare quinte colonne dappertutto? Ha senso chiedere la partecipazione delle persone che le rappresentano alle iniziative a sostegno dei palestinesi? O preoccuparsi del loro possibile consenso e della loro adesione? Non dovrebbero forse vergognarsi di avere a che fare con uno stato che ogni retta coscienza non ha difficoltà a riconoscere come criminale? Costoro aspettano un nuovo Tribunale di Norimberga alla rovescia per adeguarsi al politicamente corretto? Io credo che il fronte di sostegno alla causa palestinese debba fare innanzitutto chiarezza al suo interno, se vuole sperare di ottenere un qualche successo nel perseguimento di obiettivi che rischiano di essere fittizi e di facciata, in realtà non obiettivi ma meri diversivi, al massimo qualche trastullo per la propria buona coscienza, se non qualcosa di assai peggio.

CIVIUM LIBERTAS

* * *
Iniziative in corso,
attinte dalla rete

1. Campagna per il boicottaggio accademico e culturale di Israele. – In data 23 marzo non ho notizie di una riunione che so avrebbe dovuto farsi il 15 marzo in Torino, dove si sarebbe discusso anche in merito ad iniziative parallele. Dal link riporto la parte che interessa qui il nostro discorso:
«3. Valutazione dell’iniziativa per il diritto allo studio e libertà accademica in Palestina promossa da alcuni docenti di Firenze e Pisa.

Si è tenuto a Firenze l’11 dicembre 2009 una riunione promossa da Un ponte per … con alcuni docenti universitari. Non avendo potuto partecipare all’incontro abbiamo inviato un promemoria (all. 2) che non sembra sia stato preso in alcuna considerazione. Sulla base di una nota del prof. Danilo Zolo (all. 3), “eliminare il termine “boicottaggio” ed usarne uno meno aggressivo; il termine “boicottaggio” è destinato a stimolare un rifiuto di adesione al nostro appello da parte di un gran numero di docenti, pronti a esaltare il valore della libertà di insegnamento e di pensiero”, è stata predisposto dal gruppo di Firenze e di Pisa un documento: “Diritto allo studio e libertà accademica in Palestina Lettera aperta ai docenti universitari italiani sulla discriminazione universitaria e culturale del popolo palestinese”, (all. 4).

Sul documento si è svolto tra quanti ne hanno seguito la genesi un vivacissimo dibattito del quale renderemo appena possibile conto.
In sintesi si è passati attraverso gli step seguenti:
  • step 1 Campagna di boicottaggio accademico e culturale di Israele.
  • step 2 Campagna di sospensione della relazioni con istituzioni accademiche israeliane.
  • step 3 Campagna per il diritto allo studio e (alla, nda?) libertà accademica in Palestina.
Un caso di “orientalismo”, direbbe Edward Said.

Personalmente ho espresso critiche assai dure (all.5).

Lanciare una seconda iniziativa, senza tenere in alcun conto quella di ISM-Italia, o senza discuterla a fondo con gli/le stessi/e promotori/trici, è un vero e proprio atto di sabotaggio, un tentativo di creare confusione e di depotenziare la campagna italiana per il boicottaggio accademico e culturale di Israele, nelle migliori tradizioni di Action for Peace/ECCP, come documentato per altri casi nel samizdat “boicottare Israele: una pratica non violenta”.

Ci sono persone che vorrebbero aderire alle due iniziative, cosa non solo che personalmente ha suscitato qualche perplessità.
Alfredo Tradardi
ISM-Italia
Torino, 14 marzo 2010.»
Il termine “sabotaggio” , a proposito del “boicottaggio”, compare sopra nel testo, ma era una cosa che avevo pensato autonomamente e dunque vedo che vi è una convergenze di vedute fra me e Tradardi, forse solo su questo punto.

(Segue: Post in elaborazione)

domenica 21 marzo 2010

Carlo Mattogno: La bufala di «eccezionale importanza» sul Teatro della Scala di Milano, offerta alla mostra Auschwitz-Birkenau.

Post Precedente e correlato.

Mentre mi accingevo a tradurre nel post precedente il documento che Marcello Pezzetti, forse in seguito ad una mia richiesta inoltrata agli organizzatori, ha finalmente esibito alla mostra sulla Shoah, in Roma, che chiude proprio oggi, dopo essere aperta e inaugurata il 27 gennaio. Evito a questo punto una mia traduzione e accolgo quella del massimo studioso di quel campo di studi storici, di cui lo stesso Pezzetti si occupa. Lascio a loro due il confronto ed il dibattito, sempre che Marcello Pezzetti accetti un confrono scientifico, nel quale io non mi considero parte. Il mio ruolo è stato fin dall’inizio quello del filosofo del diritto che inorridisce, apprendendo che in Germania ogni anno 15.000 persone vengono perseguite penalmente per semplici reati di opinione o per dibattiti, dove uno a ragione solo perché il suo contraddittore viene prelavato e messo in prigione. È incredibile e viene la pelle d’oca solo a pensarci, ma queste cose avvengono nel 2010 nella Mittleuropa, non solo in Germania, Austria, Cechia, ma complessivamente in circa 13 paesi europei. Vi è chi apertamente chiede una simile legislazione anche per l’Italia.

Sul merito del documento e con riguardo a mie precedenti affermazioni, scritte e verbali, preciso che ho bene inteso anche io che il documento citato ed esibito da Pezzetti è “autentico”. Ad essere erronea e financo falsa è l’interpretazione che se ne è data, ma anche il documento stesso, pur autentico, è “falso” nel suo contenuto riguardante Lia Origoni in quanto nel febbraio 1943 – come ci ha chiarito la stessa Origoni – non aveva nessuna relazione con il Teatro della Scala di Milano, che gli organizzatori della mostra hanno voluto coinvolgere, pensando di fare uno scoop e senza minimamente preoccuparsi dell’immagine della massima istituzione musicale del paese. Riteniamo di aver data ampia illustrazione di ciò insieme con lo scandaglio dei pregiudizi e del retroterra ideologico, che stanno dietro a tanto scoop. La questione, comunque, nella sua limitata estensione è di una semplicità tale da poter essere compresa da ogni persona di modesta cultura storica e che abbia una minima esperienza di archivi.

Antonio Caracciolo

* * *

CARLO MATTOGNO

Sulla mostra Auschwitz-Birkenau
in Roma, al Vittoriano,
(27 gennaio-21 marzo 2010)

Nell’articolo E il soprano della Scala cantò ad Auschwitz, apparso il 27 gennaio 2010 sul Corriere della Sera, p. 33, Edorado Sassi riferisce sulla mostra Auschwitz-Birkenau che è stata inaugurata nella stessa data, in coincidenza con il «Giorno della Memoria», nel Complesso del Vittoriano a Roma:
«Tra i pezzi importanti esposti, Pezzetti segnala un documento giudicato “di eccezionale importanza” e ritrovato nell’archivio di Auschwitz: il 16 febbraio 1943 il Teatro alla Scala di Milano, rappresentato dalla celebre soprano Lia Origoni – sarda, classe 1919 – partecipò alla serata “Sud solare”, con “stelle internazionali”, per il diletto delle guardie SS di Auschwitz, organizzata dalla Kommandantur di Auschwitz-Birkenau».
Il documento esposto alla mostra è questo:

«Kommandantur Auschwitz,
den 10.II.1943

Konzentrationslager Auschwitz
Abt. VI Az.: 13c/2.43/Kni./Be.

Betrifft: Truppenbetreuungsveranstaltung am 16. Februar 1943.

An
alle Abteilungen der Kommandantur den SS – T.[otenkopf] – Sturmbann und die angeschlossenen Dienststellen KL. Auschwitz

Am Dienstag, den 16. Februar 1943, 20 Uhr kommt im großen Saal des Kameradschaftsheimes der Waffen- SS ein Großprogramm zur Aufführung
“Sonniger Süden”
mit internationalen Sternen
(Kunst der Nationen in einer europäischen Revue).
Organisation: Abt. VI in Verbindung mit der Kdf Gaudienstelle Kattowitz.
Es wirken mit: Lia Origoni (sopran) von der Mailänder Scala
Anita Costa, Solotänzerin vom Spanischen Nationaltheater Madrid
Maria Koncz, Ungarische Meistergeigerin
Rudi Stechli, Vortragskünstler
De la Parso, der König der Mundharmonika
Das Attraktionsorchester van den Dungen

Der Besuch der Veranstaltung ist Dienst. Als Ausführungsbestimmungen gelten die Anordnungen des Kommandanten mit Rundschreiben Kl. Au. Abt. VI Az. 13c/10.42/kni. Be vom 24. Oktober 1942.
Der Lagerkommandant
a.B. [auf Befehl] Mulka
SS-Hauptsturmführer u. Adjutant»

Nostra traduzione italiana del documento:
«Comando Auschwitz, 10 febbraio 1943
Campo di concentramento di Auschwitz
Sezione VI Numero di protocollo 13c/2.43/Kni.[ttel]/Be.[hrends]
Oggetto: manifestazione per l’assistenza alla truppa il 16 febbraio 1943

A tutte le sezioni del Comando
All’SS-Totenkopf-Sturmbann
A tutti gli uffici collegati
Campo di concentramento di Auschwitz

Martedì, 16 febbraio 1943, alle ore 20, nella grande sala della casa del cameratismo delle Waffen-SS sarà rappresentato un grande programma
“Allegro Mezzogiorno”
con stelle internazionali
(arte delle nazioni in un varietà europeo)
Partecipano: Lia Origoni (soprano) della Scala di Milano
Anita Costa, ballerina solista del Teatro Nazionale Spagnolo di Madrid
Maria Koncz, maestra di violino
Rudi Stechli, declamatore
De la Parso, il re dell’armonica a bocca
L’orchestra attrazione van den Dungen

Assistere alla manifestazione è [dovere di] servizio
Le disposizioni vigenti per l’esecuzione sono gli ordini del Comandante con lettera circolare campo di concentramento Auschwitz Sezione VI numero di protocollo 13c/10.42/Kni. Be. del 24 ottobre 1942.

Il Comandante del campo
per ordine Mulka
SS-Hauptsturmführer e aiutante».
Ed ecco la fuorviante traduzione degli organizzatori della mostra:
«Il Teatro alla Scala di Milano, rappresentato dal soprano Lia Origoni, partecipa alla serata “Sud Solare” con “stelle internazionali” per le guardie SS di Auschwitz, il 16 febbraio 1943, organizzata dalla Kommandantur di Auschwitz, ufficio VI (cultura)

From the Collections of Auschwitz-Birkenau State Museum in O?wi?cim [Perché in inglese?]».
Premetto qualche informazione sul documento.

L’Abteilung VI era la Sezione VI del comando di Auschwitz, che si occupava di Fürsorge, Schulung und Truppenbetreuung, Cura, addestramento e assistenza della truppa, non di “cultura”.

Essa era diretta dall’SS-Oberschaführer Kurt Knittel, le cui iniziali abbreviate (“Kni.”) figurano nel numero di protocollo (Aktenzeichen, abbreviato in “Az”); le iniziali “Be.” sono invece quelle dell’SS-Unterschaführer Leopold Behrends, che era un suo subordinato.

L’organizzazione dello spettacolo era curata dalla Sezione VI in cooperazione coll’istituto ricreativo Kdf , “Kraft durch Freude”, letteralmente “Forza attraverso la gioia” dell’ufficio del Gau di Kattowitz (Katowice).

Non si sa con precisione dove si trovava la sala della “Casa del cameratismo” (Kameradschaftsheim), appunto perché era una sala di un edificio che non viene mai menzionato. Lo Standortbefehl (ordine della guarnigione) n. 15/55 dell’11 maggio 1944 menziona la consuetudine di membri delle SS di lasciare le loro armi o oggetti del loro equipaggiamento nella sala del Kameradschaftsheim durante il pranzo, dal che si desume che essa non poteva trovarsi all’interno delle recinzioni di Auschwitz o Birkenau, ma nelle aree riservate alle SS.

Passo ora alle relative affermazioni di Pezzetti.

La prima osservazione è che considerare seriamente questa pressoché insignificante lettera circolare come un documento «di eccezionale importanza» significa non avere alcuna idea di che cosa sia un documento importante. È ben vero, aggiungo, che esso è stato «ritrovato nell' archivio di Auschwitz», formulazione che lascia intendere un ritrovamento recente ed eccezionale, ma era già stato pubblicato dieci anni fa insieme ad altre decine di documenti simili, senza che i curatori della raccolta abbiano dato il minimo risalto ad esso o ad altri (Standort- und Kommandanturbefehle des Konzentrationslager Auschwitz 1940-1945. A cura di Norbert Frei, Thomas Grotum, Jan Parcer, Sybille Steinbacher und Bernd C. Wagner. Institut für Zeitgeschichte. K.G. Saur, Monaco, 2000, pp. 220-221). Infine è quantomeno azzardato dire che Lia Origoni «partecipò» allo spettacolo summenzionato, in quanto il documento si limitava a preannunciarlo sei giorni prima, sicché è possibile non solo che Lia Origoni, come ella afferma, non vi avesse partecipato, ma che non ne fosse stata neppure informata.

L’articolo del Corriere continua così:
«Questo per dimostrare che da noi si sapeva più di quanto si voglia ogni tanto far credere», il commento [di Pezzetti]».
Un commento insulso, perché, ammesso e non concesso che la rappresentazione preannunciata si svolse effettivamente e che vi partecipò anche Lia Origoni, e ammesso e non concesso che Auschwitz fosse un campo di sterminio, che cosa avrebbero potuto “sapere” gli artisti che si esibirono in questa sala del Kameradschaftsheim? Forse che le presunte gasazioni omicide avvenivano lì?

Esaminiamo infine la risposta di Marcello Pezzetti alla smentita di Lia Origoni, pubblicata su Informazione Corretta

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=2&sez=120&id=33591&print=preview

«La signora Origoni, informata del fatto dall’organizzazione stessa della mostra, ha sostenuto in un intervento sul «Corriere» (5 febbraio) di non aver cantato ad Auschwitz, ma nella vicina città di Katowice, di non essere stata inviata lì dalla Scala di Milano, ma da quella di Berlino (un locale di varietà, non un teatro lirico), e soprattutto che un documento (in questo caso definito come «falso») ha meno valore di una testimonianza (in questo caso la sua).

Come curatore della mostra, mi limito a osservare che questo documento appartiene alla serie di ordini emessi dalla Kommandantur del campo di Auschwitz-Birkenau, archiviati nel Museo di Auschwitz, già pubblicati in Germania e giudicati da tutti gli storici come fonte privilegiata, di prima mano, quindi difficilmente contestabili. Se Mulka, aiutante del comandante di Auschwitz Rudolf Höss, ha ordinato a tutto il corpo delle SS di partecipare al concerto presso il Kameradschaftsheim («casa dei camerati») di Auschwitz, significa che i cantanti e musicisti spagnoli, ungheresi, italiani, quindi anche la «stella internazionale» Origoni, hanno allettato quei criminali proprio nei pressi del campo di sterminio, non altrove. Del resto alcuni sopravvissuti ci hanno confermato di essere stati obbligati più volte ad assistere a concerti nelle strutture adiacenti al campo e le ultime fotografie ritrovate di Auschwitz, anch’esse esposte in mostra, dimostrano che le SS si «divertivano» proprio in prossimità del campo stesso. Per confutare il contenuto del documento messo sotto accusa dalla Origoni è quindi necessario far ricorso ad altre prove documentarie – che però non esistono –, non certo a una testimonianza, soprattutto se di parte.

Abbiamo esposto questo documento non tanto per sottolineare la «collaborazione» di un’italiana al sistema di oppressione nazista – anche se cantare per i nazisti in Germania e in Polonia nel 1943 non è certo un fatto di cui andare fieri –; volevamo semplicemente far comprendere al pubblico come i carnefici nazisti concepissero la «normalità» della vita quotidiana all’ombra dei crematori: anche ascoltando musica italiana. Lo stesso giorno in cui si tenne il concerto, infatti, le SS bruciarono i corpi di 689 ebrei francesi, uomini, donne e tanti bambini, deportati da Drancy».
È ovvio che il documento non è un falso; falsa è l’interpretazione che ne fornisce Pezzetti. Egli pretende, sulla base di un semplice annuncio, che dieci giorni dopo Lia Origoni ha effettivamente «allettato [?! Forse voleva dire “allietato”] quei criminali»: da dove risulta, di grazia, che ciò accadde realmente? E se testimonianze e documenti dimostrano «che le SS si “divertivano” proprio in prossimità del campo stesso» – «in prossimità», non «all’interno» –, che cosa dimostra ciò?

Lia Origoni non deve minimamente «confutare il contenuto del documento», che, per quanto la riguarda, va considerato alla stregua di una locandina, ma è Pezzetti che deve «far ricorso ad altre prove documentarie» per dimostrare che la signora Lia cantò realmente ad Auschwitz.

Quanto infine alla «“normalità” della vita quotidiana all’ombra dei crematori», questi spettacoli, dal mio punto di vista, confermano soltanto che Auschwitz non era un campo di sterminio.

Per concludere, secondo il Calendario di Auschwitz di Danuta Czech, il trasporto di ebrei francesi in questione arrivò il 15 febbraio, non il 16 (D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, pp. 414-415), ma Pezzetti aveva bisogna di questa forzatura per il suo colpo di scena finale. Poiché non esiste la più pallida prova di questa presunta gasazione-cremazione, qui, come dice Pezzetti, «è quindi necessario far ricorso ad altre prove documentarie – che però non esistono –, non certo a una testimonianza, soprattutto se di parte». L’unica garante della realtà dell’evento è infatti è una semplice affermazione di Danuta Czech, ella sì «di parte», e quanto!

Se Pezzetti scoprisse un documento su questa gasazione-cremazione, questo sì che sarebbe «di eccezionale importanza»! Ma una tale evenienza è chiaramente al di fuori del suo orizzonte mentale.

Carlo Mattogno.

sabato 20 marzo 2010

L’ideologia della colpevolizzazione. Bilancio di una mostra della «Memoria». Il caso Lia Origoni, cantante alla Scala di Milano dal...1946, non prima!

Vers. 1.9/22.3.10
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Non sarà possibile narrare in una sola battuta il caso che richiama la nostra attenzione. Avvertiamo pertanto i Lettori interessati che dovranno avere la pazienza di leggere la narrazione nel suo progredire, seguendo gli aggiornamenti, la progressione dei capitoli, la nuova redazione del testo, e così via, secondo una tecnica di scrittura che non è quella della carta stampata. Per far capire di cosa si tratta tentiamo qui di riassumere per poi passare ad un’articolazione dei dettagli. Nella mostra che si è aperta il 27 gennaio di quest’anno, in occasione della ricorrenza della Memoria, era apparso nello stesso giorno un articolo sul Corriere della Sera, dove si annunciava un documento giudicato di «eccezionale importanza», il quale dimostrerebbe che
«da noi si sapeva più di quanto si voglia far credere».
Sembra di trovarsi in un nuovo Tribunale dell’Inquisizione, dove si chiama sul banco degli imputati il Teatro della Scala di Milano, coinvolto addirittura nel campo di concentramento di Auschwitz e iscritto d’autorità al Festival Nazionale della Gogna. Questo poteva capire il comune lettore che avesse distrattamente letto il maggior quotidiano italiano, maggiore nel senso che ha la più alta tiratura e la maggiore consistenza economico-finanziaria, non nel senso che deve ritenersi il più attendibile. Ad esso segue una smentita della diretta interessata, la signora Lia Origoni, in data 5 febbraio 2010, e di nuovo una smentita della smentita per mano del direttore scientifico mostra, Renato Pezzetti, storico olocaustico, in data 1° marzo 2010, che intanto faceva sapere che non si trattava propriamente di un inedito “ritrovato” in Auschwitz, ma di un testo già edito almeno dieci anni prima. E di questa vicenda non ci siamo già occupati nella precedente puntata, ancora da correggere e perfezionare. Qui andiamo ora a fare un discorso un po’ diverso.

Per una scheda biografica di Lia Origoni si veda in Cronache isolane il servizio curato da Claudia Origoni, ricco di documentazione fotografica e di collegamenti televisivi.

Sommario: 1. Vivere della colpa altrui. – 2. Pezzetti persiste nella sua tesi. – 3. Né la Scala di Milano e neppure quella di Berlino. – 4. Ambiguità espositiva. – 5. Impossibilità etica del razzismo e manipolazione delle coscienze. –

1. Vivere della colpa altrui. – Nei primi anni del dopoguerra, in una pagina di diario pubblicata postuma, Carl Schmitt intuiva uno scenario che troverà puntuale conferma in tutta la metà successiva del Novecento, fino ai giorni nostri. Riporto in parte il brano di Schmitt che amo citare spesso in casi come questi:
«Vivere della colpa altrui è il modo più basso di vivere a spese degli altri. Vivere di ammende e tangenti e il modo più ignobile di fare bottino. Ma essi hanno sempre vissuto così…»
Questo brano è del 16 novembre 1947 e Schmitt si riferisce propriamente a situazioni della guerra civile romana, addirittura al 46 a. C., ben duemila anni prima, ma noi qui leggiamo un’anticipazione del libro di Norman G. Finkelstein, per non citare innumerevoli casi che danno al brano di Schmitt il valore di una profezia. Quel che è ancora peggio è che il “vivere della colpa altrui” non ha più un significato strettamente economico-finanziario, nel senso del “far bottino”, ma è diventato un attacco generalizzato alle psiche di ognuno. Ci dobbiamo svegliare tutti la mattina con un senso profondo di colpa, con quel “peccato originale” che il Cristo aveva redento con la sua morte in croce – secondo quanto ci veniva insegnato al Catechismo parrocchiale – e che adesso dopo Auschwitz è stato ripristinato in tutta la sua terribilità. Dobbiamo qui limitarci ad accennare appena ad uno scenario politico-teologico i cui contorni sono quanto mai inquietanti ed i cui dogmi sono non meno oppressivi ed arbitrari di quelli che hanno condotto in prigione e sul rogo innumerevoli uomini e donne tacciati di eresia e stregoneria. Per fortuna Lia Origoni, non rischia niente del genere, ma il suo caso è per noi quanto mai istruttivo.

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2. Pezzetti persiste nella sua tesi. – Avremmo di più apprezzato se Marcello Pezzetti, storico olocuastico, fosse intervenuto su una notizia che da qualche anno si legge sulla rete, non certo sul “Corriere della Sera” o su “Repubblica”, secondo cui Elie Wiesel , inauguratore della mostra, non sarebbe ciò che dice di essere, cioè un “sopravvissuto” e un “internato” dei campi di concentramento. La contestazione a me, profano, appare circostanziata e documentata. A titolo di curiosità avrei letto volentieri una controargomentazione. La strategia scelta sembra però quella del silenzio. Uno storico pone alla base delle sue affermazioni documenti che non parlano da soli, ma che occorre interpretare con argomentazioni plausibili ,offerte alla libera discussione critica, cosa che non è certo possibile quando il contraddittore trova subito aperte le porte della prigione o è subito indicato al pubblico ludibrio. Pezzetti ha esordito in questa edizione della Memoria con un documento “privilegiato”, “difficilemente contestabile”, che richiamerebbe in causa – come “parte” di non si sa bene quale processo – e la cantante Origoni e il teatro La Scala di Milano in rappresentanza della quale avrebbe “cantato” (!) in Auschwitz. Ma cosa dice poi questo documento, a saperlo leggere, se mai qualcuno i documenti mai li legge piuttosto che supporli? Cerchiamo di capirlo passo a passo.

Prestiamo per prima cosa attenzione alla data del documento rispetto all’evento annunciato. Non è indifferente indicare un evento al futuro o al passato. Il documento reca la data del 10 febbraio 1943, reca un timbro del 12 febbraio ed annuncia un evento che si sarebbe svolto martedi 16 febbraio, alle 20, nella grande sala del “Kameradschafttsheimes der Waffen-...”, dove avrebbero partecipato le seguenti cantanti: 1ª) Lia Origoni (soprano) della Scala di Milano; 2ª) Anita Costa (cantante del Sole del Teatro Nazionale Spagnolo di Madrid); 3ª) Maria Koncz; 4°) Rudi Stechli... Tutti nomi che alla signora Lia non dicono nulla. Ciò che ricorda di Katowice è che si sentì male e che le diedero uno sciroppo, di cui a oltre 65 anni di distanza ricordo vivissima l’immagine di una castagna con il riccio impressa sulla bottiglia. Quello sciroppo la fece stare così male che svenne. Riuscì comunque a cantare lo stesso. Delle altre stelle che vengono menzionate nel documento la signora Lia non ricorda proprio nulla, ma anche loro sono indicate come “rappresentantive” delle principali istituzioni musicali dei loro paesi. Non è difficile congetturare le esagerazioni che possono esservi state, ma non per questo se il burocrate militare avesse scritto che Lia Origoni era il nome di uomo, solo per questo la signora Lia sarebbe diventato un uomo ed il signor Pezzetti potrebbe sostenere che Lia Origoni era ed è un uomo. Uno storico deve saper interpretare i documenti, che da soli non parlano e possono perfino documentare il falso. Non è agevole, ma una linea di ricerca è quella offerta dai nomi delle altre “stelle” indicate nel documento per poterne verificare la generale attendibilità. Può darsi che qualche Lettore, dei paesi di provenienza delle persone citate, posso essere di aiuto. La rete offre grandi risorse.

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3. Né la Scala di Milano e neppure quella di Berlino. – Narra la signora Origoni che il suo contratto con la scala di Berlino aveva una durata di tre mesi.,Rcorda un nome: Spadoni, cioè una signora che curava l’agenzia che le consentiva di lavorare e che le procurò il contratto berlinese. Ma nella sua narrazione emerge un dato importante per la nostra ricerca. La sua fama nel 1942-43 non poteva essere altro che quella di una cantante della Scala di Berlino, che nella fantasia distratta e poco rigorosa del burocrate e passacarte tedesco è facilmente diventato il teatro della Scala di Milano, combinando insieme il nome italiano ed il canto italiano. Niente di più facile da immaginare, se appena si fossero fatti i dovuti riscontri documentali presso la Scala di Milano, dove la signora Origoni era, per così dire, sconosciuta prima del 1946. Quel che qui ora conta è che la tournéè di cui qui si parla non era una tournée organizzata direttamente dal teatro varietà della Scala di Berlino, come il profano potrebbe essere indotto a pensare. Un normale impresario teatrale organizzava tournéè con persone che sapessero cantare e Lia Origoni in Katowice, dove lei sapeva di trovarsi, onorò il suo impegno contrattuale, pur stando terribilmente male. Per dare maggiore evidenza al nostro ragionamento possiamo ipotizzare che nell’anno precedente la signora Origoni, o ciascuna delle altre stelle, avessero avuto quattro contratti trimestrali in diversi teatri di diverse capitali europee: Madrid, Parigi, Berlino, Vienna. Allo stesso titolo avrebbero potuto venir fatte passare per rappresentati dei rispettivi teatri. La superficialità dei curatori della mostra non sembra essersi posto questo interrogativo. È chiaro che anche nel caso di una cantante ha valore il suo “curriculum artistico”. Sulla sua base chi ne deve vendere la prestazione per attarre il maggior pubblico possibile può essere indotto ad esagerazioni, amplificazioni, falsificazioni. Ma il signor Pezzetti scrive sul Corriere della Sera del 27 gennaio 2010:
«da noi si sapeva più di quanto si voglia far credere».
Da noi dove? da noi chi? Si sapeva che? Chi è che vuol fare credere cosa? E cosa avrebbe dovuto aver visto la signora Origoni, appena rinvenuto dopo aver bevuto quello sciroppo che le è rimasto cos' impresso da non aver mai più voluto bere più sciroppi da allora fino ad oggi alla invidiabile età di 90 anni portati con il massimo di lucidità intellettuale? Per adesso, è chiaro che il signor Pezzetti voglia farci credere molto più di quello che lui sa o non sa affatto.

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4. Ambiguità espositiva. – Non ha molta rilevanza sapere se dopo il mio intervento epistolare siani stati esposti i pannelli di cui non mi era accorto nella precedente visita. Fatto sta che son saltati fuori e ad avvisarmi è stato un visitatore che come me ha seguito la vicenda Origoni ed ha anche letto ciò che io ho scritto sulla Rete. Può essere avvincente narrare come anche io stessi cadendo in un abbaglio, se lo spirito critico si fosse appisolato per un solo momento. Ma è anche interessante narrare ciò che segue a dimostrazione della abiguità esposità, probabilmente intenzionale. Ritenevo fosse sufficiente la documentazione fotografica che mi aveva inviato il visitare di cui non faccio il nome, se non ne avrò espressa autorizzazione. Avevo ricevuto diversi fotogrammi in formato jpeg che davano diverse inquadratura ed ingradimenti del documento. Li offro di seguito in forma ingrandità:

1.
Il documento per intero, la cui dimensione originale è un normale A4.
Cliccando sull’immagine si ottiene un ingrandimento.
Oltre alla normale intestazione dell’Ufficio, con numero di protocollo, oggetto e destinatario, si ha la data del 10 febbraio 1923 con un timbro del 12 febbraio 1943. Alcuni caratteri dattiloscritti non si leggono chiaramente, ma se ne può egualmente ricostruire il senso. Per la trascrizione, la traduzione e l’analisi storico-documentale si rinvia al post successivo, dove interviene un noto specialista della materia.


2.
La didascalia di Marcello Pezzetti
La forzatura interpretativa della didascalia rispetto al documento, in lingua tedesca, che lo sovrasta, è evidente ed eclatante. Si badi bene: il documento è originale ed autentico. Ma non per questo dice ciò che si legge nella didascalia e soprattutto un documento autentico non dice necessariamente il vero in ordine ai fatti. Si rinvia alcora al post di Carlo Mattoglio per l’analisi storico-documentale, dove peraltro apprendiamo che l’«Ufficio VI» non si occupava di «cultura». Esattamente: «L’Abteilung VI era la Sezione VI del comando di Auschwitz, che si occupava di Fürsorge, «u>Schulung und Truppenbetreuung, «Cura, addestramento e assistenza della truppa», non di “cultura”». Sembra proprio che il signor Pezzetti non conosca adeguatamente, o forse non conosce affatto la lingua tedesca. Intanto, non sarebbe stata una grande fatica tradurre un testo di poche righe, dove per la parte che riguarda la Scala e Lia Origoni si dice esattamente in mezza riga:
Lia Origoni (sopran) von der Mailänder Scala
Lia Origoni (soprano) della Scala di Milano


Troppo poco per dare come scontato che Lia Origoni avesse con sè un attestato autorizzante l’uso del logo della Scala di Milano, o peggio ancora che esistesse un rapporto contrattuale ovvero una corrispondenza fra il campo di concentramento di Auschwitz (sez. VIª che si occupava non di... «cultura» (!), ma di “addestramento” (Schulung) della truppa) e il teatro milanese per l’allestimento di spettacoli lirici in Auschwitz. Ma neppure si può ammettere una semplice curriculare che menzionasse il fatto che Lia Origoni fosse un soprano della Scala di Milano, dove la cantante non si esibì prima del 1946, a guerra finita. Forse ciò era nei suoi desideri, certamente non riprovevoli, ma non era ancora realtà. Lia Origoni aveva cantato pochi mesi prima al teatro della Scala di Berlino, ma il contratto era scaduto e l’impresario non era un impresario della Scala di Berlino. Quindi nulla a che fare né con la Scala di Milano e neppure con la Scala di Berlino. Agli organizzatori/e interessava evidentemente gettare cattiva luce sul teatro milanese, ma avrebbero dovuto per lo meno fare un “riscontro” fattuale sugli archivi e sui calendari della Scala di Milano per verificare se Lia Origoni a quella data fosse stata effettivamente una soprano presso il teatro milanese. Non risulta né dal Corriere della Sera né dalla Didascalia che una simile, elementare, semplicissima ricerca sia stata fatta. Altre ricerche ancora, per una verifica incrociata se ne sarebbero potute fare, sempre che non venissero considerate veridiche le dichiarazioni della stessa interessata, vivente, in perfetta salute ed in ancora più perfetta lucidità mentale. Così si annuncia il nascente «Museo della Shoah» romano, al quale Alemanno ha assicurato 23 milioni di euro dalle tasche dei cittadini romani tutti. Servirà a cosa? A mettere Roma contro Milano? o altre città italiane? Contemporanea alla Mostra Auschwitz-Birkenau, che fortunatamente chiude i battenti il 21 marzo, si svolge ben altra mostra sui preparativi per il 15o° anniversario dell’Unità d’Italia.

3.
La perfidia allusiva
Era questa la prima documentazione fotografica che avevo ricevuto dal signore che aveva visitato la mostra dopo di me e che aveva letto i miei testi in rete. Egli aveva anni addietro anche studiato l’attività artistica di Lia Origoni e conoscendo la sua biografia era rimasto indignato dalla grossolana “bufala”, cosa di cui ha avvertito i suoi amici della comunità ebraica romana, essendo egli un “sionista” della cui amicizia ci si poteva ben fidare. Il fatto poi di ottenere scuse da parte di una comunità ebraica non l’ho mai letto da nessuna parte. La logica talmudica consente cose incredibili. Dunque, la mia prima attenzione, oltre alla didascalia, era stata attirata anche dalla documentazione fotografica, che nella prospettiva sopra data mi aveva indotto a pensare che fosse un’integrazione del documento e che magari la signora Lia fosse una delle donne che appaiono nella foto. È bastata però una verifica per accertare che nessuna delle donne era la signora Origoni e perfino il paesaggio né la stagione potevano corrispondere con il documento. Di ciò parlai con il visitatore che aveva scattato le foto, chiedendo se le foto stesse avevano un’indicazione iconografica: così proprio non potevano stare in una mostra. La cosa appariva assurda. Fu così che il signore di cui continuo a non fare il nome, in attesa del suo ritorno e della sua autorizzazione, andò nuovamente a visitare la mostra e a mandarmi nuovamente le foto in diverse prospettive, da dove risultava la totale estraneità delle foto con Lia Origoni e gli spettacoli di cui nel documento. Sono poi andato io stesso per un esame autoptico. Resta però l’ambibuo accostamento con momenti di ordinaria quotidianità della vita dell’epoca e dei luoghi con gli odierni orrori della narrazione olocaustica, per la quale tutta la storia universale dell’umanità gravita intorno ad un «unico» momento, misura e metro di paragone di ogni cosa, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. È da aggiungere, in ultimo, ma non perché meno importante, come dalla biografia della signora Lia Origoni viene fuori un’immagine che non ha proprio nulla a che fare con lo stile odierno di escort e ballerine. Addirittura, la signora Lia aveva decisamente respinto un invito a pranzo di Goebbels, motivando il rifiuto proprio in ragione delle persecuzioni che gli ebrei subivano in Germania. Aveva dovuto fare ricorso alla protezione diplomatica italiana. Ma lasciò ciò ai biografi di Lia Origoni. La gratitudine è una virtù cristiana e neotestamentaria, non veterotestamentaria.

4.
Altre prospettive
a.

b.

c.

d.
Possiamo con questa selezione ultima di quattro foto considerare terminata la nostra visita virtuale alla mostra. Il commento generale che si puà fare è che i documenti vanno interpretati, si devono poter interpretare, lo si deve poter fare liberamente e senza soggezione alcuna, intidimidazioni, prevaricazioni, falsificazioni. Ci è bastato esaminare un solo documento, relatvo al teatro dell’Opera di Milano e ad un’artista, che a suo modo è anche parte della «Memoria» degli italiani, di una ben diversa Memoria che si è voluto mettere in discussione, senza fondato motivo e del tutto gratuitamente.

5. Impossibilità etica del razzismo e manipolazione delle coscienze. – Nel corso di questo genere di manifestazioni ho sentito dire che “gli italiani non sono brava gente”, o meglio si è deliberatamente rovesciato il senso di un’espressione che normalmente suona “è brava gente” con la quale si concede rispettabilità ad ogni etnia e collettività, ad ogni popolo. Tutti in quanto tali sono sempre moralmente ed eticamente rispettabili, mentre azioni non commendevoli possono attribuirsi tutt’al più solo a singoli individui in quanto tali ed a prescindere dal loro gruppo etnico di appartenenza, al massimo ai governi che si rendono indegni dei loro popoli, ma un popolo in quanto tale è come l’equivalente terreno di dio. Oggi però si tende a criminalizzare i popoli. E chi può fare cio? Evidentemente un superpopolo, o un’etnia che per definizione si pone come migliore di tutte le altre. Naturalmente, questa è una nuova forma di razzismo, peggiore delle altre nella misura in cui ci si macchia di colpe che si condannano in altri, magari in misura ancora maggiore e sempre che le “colpe” attribuite a chi spesso non si può più difendere siano veramente tali. Si può esprimere la formula dell’impossibilità etica di ogni razzismo constatando che ogni uomo di fronte ad un altro uomo resta sempre un uomo, non certo un cavallo, una pianta, un pesce.

Altro è dire che gli uomini, praticamente da sempre, hanno avuto relazioni ostili gli uni verso gli altri ed in modalità le più disparate. Vi erano epoche in cui i nemici si riconosceva in quanto nemici per il periodo in cui erano fra di loro in guerra. Ma tornando la pace si ripristinavano finalmente le condizioni che consentono ad ognuno di vivere in sicurezza nel godimento della sua vita, della sua famiglia, dei suoi beni. Nelle nostre epoche civilizzate si è però cristallizzata la confusione fra il nemico e il criminale. Quasi ogni guerra termina ormai con un tribunale dove si normalmente processano i vinti, ma esistono anche istituzione preposte a criminalizzare le vittime che osano ribellarsi e difendersi. Il “razzismo”, o meglio l’accusa di razzismo, è spesso una forma ideologica con la quale non si intende lasciare scampo al nemico vinto, che non ha più diritto di parola, di stampa, di memoria.

Non del razzismo dovremmo preoccuparci, perché esso è eticamente impossibile nel senso che un uomo non potrà mai assumere la natura biologica di un cavallo, ma dell’uso ideologico che del termine razzismo si continua a fare. Si apre qui un campo di ricerca che possiamo solo accennare. Intanto, per esempio, è da chiedersi se alla fine della seconda guerra mondiale è succeduto un mondo migliore del precedente, dove non succedono più quelle cose che imputiamo al passato e condanniamo, attribuendole ai popoli vinti. Scopriremo forse, senza rimpiangere il mondo di ieri, che non possiamo conoscere, non essendo spesso neppure nati all’epoca dei fatti narrati, come il mondo che si para davanti ai nostri occhi in nulla è inferiore all’orrore delle narrazione storiche accreditate ed autorizzate.