sabato 20 marzo 2010

L’ideologia della colpevolizzazione. Bilancio di una mostra della «Memoria». Il caso Lia Origoni, cantante alla Scala di Milano dal...1946, non prima!

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Non sarà possibile narrare in una sola battuta il caso che richiama la nostra attenzione. Avvertiamo pertanto i Lettori interessati che dovranno avere la pazienza di leggere la narrazione nel suo progredire, seguendo gli aggiornamenti, la progressione dei capitoli, la nuova redazione del testo, e così via, secondo una tecnica di scrittura che non è quella della carta stampata. Per far capire di cosa si tratta tentiamo qui di riassumere per poi passare ad un’articolazione dei dettagli. Nella mostra che si è aperta il 27 gennaio di quest’anno, in occasione della ricorrenza della Memoria, era apparso nello stesso giorno un articolo sul Corriere della Sera, dove si annunciava un documento giudicato di «eccezionale importanza», il quale dimostrerebbe che
«da noi si sapeva più di quanto si voglia far credere».
Sembra di trovarsi in un nuovo Tribunale dell’Inquisizione, dove si chiama sul banco degli imputati il Teatro della Scala di Milano, coinvolto addirittura nel campo di concentramento di Auschwitz e iscritto d’autorità al Festival Nazionale della Gogna. Questo poteva capire il comune lettore che avesse distrattamente letto il maggior quotidiano italiano, maggiore nel senso che ha la più alta tiratura e la maggiore consistenza economico-finanziaria, non nel senso che deve ritenersi il più attendibile. Ad esso segue una smentita della diretta interessata, la signora Lia Origoni, in data 5 febbraio 2010, e di nuovo una smentita della smentita per mano del direttore scientifico mostra, Renato Pezzetti, storico olocaustico, in data 1° marzo 2010, che intanto faceva sapere che non si trattava propriamente di un inedito “ritrovato” in Auschwitz, ma di un testo già edito almeno dieci anni prima. E di questa vicenda non ci siamo già occupati nella precedente puntata, ancora da correggere e perfezionare. Qui andiamo ora a fare un discorso un po’ diverso.

Per una scheda biografica di Lia Origoni si veda in Cronache isolane il servizio curato da Claudia Origoni, ricco di documentazione fotografica e di collegamenti televisivi.

Sommario: 1. Vivere della colpa altrui. – 2. Pezzetti persiste nella sua tesi. – 3. Né la Scala di Milano e neppure quella di Berlino. – 4. Ambiguità espositiva. – 5. Impossibilità etica del razzismo e manipolazione delle coscienze. –

1. Vivere della colpa altrui. – Nei primi anni del dopoguerra, in una pagina di diario pubblicata postuma, Carl Schmitt intuiva uno scenario che troverà puntuale conferma in tutta la metà successiva del Novecento, fino ai giorni nostri. Riporto in parte il brano di Schmitt che amo citare spesso in casi come questi:
«Vivere della colpa altrui è il modo più basso di vivere a spese degli altri. Vivere di ammende e tangenti e il modo più ignobile di fare bottino. Ma essi hanno sempre vissuto così…»
Questo brano è del 16 novembre 1947 e Schmitt si riferisce propriamente a situazioni della guerra civile romana, addirittura al 46 a. C., ben duemila anni prima, ma noi qui leggiamo un’anticipazione del libro di Norman G. Finkelstein, per non citare innumerevoli casi che danno al brano di Schmitt il valore di una profezia. Quel che è ancora peggio è che il “vivere della colpa altrui” non ha più un significato strettamente economico-finanziario, nel senso del “far bottino”, ma è diventato un attacco generalizzato alle psiche di ognuno. Ci dobbiamo svegliare tutti la mattina con un senso profondo di colpa, con quel “peccato originale” che il Cristo aveva redento con la sua morte in croce – secondo quanto ci veniva insegnato al Catechismo parrocchiale – e che adesso dopo Auschwitz è stato ripristinato in tutta la sua terribilità. Dobbiamo qui limitarci ad accennare appena ad uno scenario politico-teologico i cui contorni sono quanto mai inquietanti ed i cui dogmi sono non meno oppressivi ed arbitrari di quelli che hanno condotto in prigione e sul rogo innumerevoli uomini e donne tacciati di eresia e stregoneria. Per fortuna Lia Origoni, non rischia niente del genere, ma il suo caso è per noi quanto mai istruttivo.

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2. Pezzetti persiste nella sua tesi. – Avremmo di più apprezzato se Marcello Pezzetti, storico olocuastico, fosse intervenuto su una notizia che da qualche anno si legge sulla rete, non certo sul “Corriere della Sera” o su “Repubblica”, secondo cui Elie Wiesel , inauguratore della mostra, non sarebbe ciò che dice di essere, cioè un “sopravvissuto” e un “internato” dei campi di concentramento. La contestazione a me, profano, appare circostanziata e documentata. A titolo di curiosità avrei letto volentieri una controargomentazione. La strategia scelta sembra però quella del silenzio. Uno storico pone alla base delle sue affermazioni documenti che non parlano da soli, ma che occorre interpretare con argomentazioni plausibili ,offerte alla libera discussione critica, cosa che non è certo possibile quando il contraddittore trova subito aperte le porte della prigione o è subito indicato al pubblico ludibrio. Pezzetti ha esordito in questa edizione della Memoria con un documento “privilegiato”, “difficilemente contestabile”, che richiamerebbe in causa – come “parte” di non si sa bene quale processo – e la cantante Origoni e il teatro La Scala di Milano in rappresentanza della quale avrebbe “cantato” (!) in Auschwitz. Ma cosa dice poi questo documento, a saperlo leggere, se mai qualcuno i documenti mai li legge piuttosto che supporli? Cerchiamo di capirlo passo a passo.

Prestiamo per prima cosa attenzione alla data del documento rispetto all’evento annunciato. Non è indifferente indicare un evento al futuro o al passato. Il documento reca la data del 10 febbraio 1943, reca un timbro del 12 febbraio ed annuncia un evento che si sarebbe svolto martedi 16 febbraio, alle 20, nella grande sala del “Kameradschafttsheimes der Waffen-...”, dove avrebbero partecipato le seguenti cantanti: 1ª) Lia Origoni (soprano) della Scala di Milano; 2ª) Anita Costa (cantante del Sole del Teatro Nazionale Spagnolo di Madrid); 3ª) Maria Koncz; 4°) Rudi Stechli... Tutti nomi che alla signora Lia non dicono nulla. Ciò che ricorda di Katowice è che si sentì male e che le diedero uno sciroppo, di cui a oltre 65 anni di distanza ricordo vivissima l’immagine di una castagna con il riccio impressa sulla bottiglia. Quello sciroppo la fece stare così male che svenne. Riuscì comunque a cantare lo stesso. Delle altre stelle che vengono menzionate nel documento la signora Lia non ricorda proprio nulla, ma anche loro sono indicate come “rappresentantive” delle principali istituzioni musicali dei loro paesi. Non è difficile congetturare le esagerazioni che possono esservi state, ma non per questo se il burocrate militare avesse scritto che Lia Origoni era il nome di uomo, solo per questo la signora Lia sarebbe diventato un uomo ed il signor Pezzetti potrebbe sostenere che Lia Origoni era ed è un uomo. Uno storico deve saper interpretare i documenti, che da soli non parlano e possono perfino documentare il falso. Non è agevole, ma una linea di ricerca è quella offerta dai nomi delle altre “stelle” indicate nel documento per poterne verificare la generale attendibilità. Può darsi che qualche Lettore, dei paesi di provenienza delle persone citate, posso essere di aiuto. La rete offre grandi risorse.

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3. Né la Scala di Milano e neppure quella di Berlino. – Narra la signora Origoni che il suo contratto con la scala di Berlino aveva una durata di tre mesi.,Rcorda un nome: Spadoni, cioè una signora che curava l’agenzia che le consentiva di lavorare e che le procurò il contratto berlinese. Ma nella sua narrazione emerge un dato importante per la nostra ricerca. La sua fama nel 1942-43 non poteva essere altro che quella di una cantante della Scala di Berlino, che nella fantasia distratta e poco rigorosa del burocrate e passacarte tedesco è facilmente diventato il teatro della Scala di Milano, combinando insieme il nome italiano ed il canto italiano. Niente di più facile da immaginare, se appena si fossero fatti i dovuti riscontri documentali presso la Scala di Milano, dove la signora Origoni era, per così dire, sconosciuta prima del 1946. Quel che qui ora conta è che la tournéè di cui qui si parla non era una tournée organizzata direttamente dal teatro varietà della Scala di Berlino, come il profano potrebbe essere indotto a pensare. Un normale impresario teatrale organizzava tournéè con persone che sapessero cantare e Lia Origoni in Katowice, dove lei sapeva di trovarsi, onorò il suo impegno contrattuale, pur stando terribilmente male. Per dare maggiore evidenza al nostro ragionamento possiamo ipotizzare che nell’anno precedente la signora Origoni, o ciascuna delle altre stelle, avessero avuto quattro contratti trimestrali in diversi teatri di diverse capitali europee: Madrid, Parigi, Berlino, Vienna. Allo stesso titolo avrebbero potuto venir fatte passare per rappresentati dei rispettivi teatri. La superficialità dei curatori della mostra non sembra essersi posto questo interrogativo. È chiaro che anche nel caso di una cantante ha valore il suo “curriculum artistico”. Sulla sua base chi ne deve vendere la prestazione per attarre il maggior pubblico possibile può essere indotto ad esagerazioni, amplificazioni, falsificazioni. Ma il signor Pezzetti scrive sul Corriere della Sera del 27 gennaio 2010:
«da noi si sapeva più di quanto si voglia far credere».
Da noi dove? da noi chi? Si sapeva che? Chi è che vuol fare credere cosa? E cosa avrebbe dovuto aver visto la signora Origoni, appena rinvenuto dopo aver bevuto quello sciroppo che le è rimasto cos' impresso da non aver mai più voluto bere più sciroppi da allora fino ad oggi alla invidiabile età di 90 anni portati con il massimo di lucidità intellettuale? Per adesso, è chiaro che il signor Pezzetti voglia farci credere molto più di quello che lui sa o non sa affatto.

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4. Ambiguità espositiva. – Non ha molta rilevanza sapere se dopo il mio intervento epistolare siani stati esposti i pannelli di cui non mi era accorto nella precedente visita. Fatto sta che son saltati fuori e ad avvisarmi è stato un visitatore che come me ha seguito la vicenda Origoni ed ha anche letto ciò che io ho scritto sulla Rete. Può essere avvincente narrare come anche io stessi cadendo in un abbaglio, se lo spirito critico si fosse appisolato per un solo momento. Ma è anche interessante narrare ciò che segue a dimostrazione della abiguità esposità, probabilmente intenzionale. Ritenevo fosse sufficiente la documentazione fotografica che mi aveva inviato il visitare di cui non faccio il nome, se non ne avrò espressa autorizzazione. Avevo ricevuto diversi fotogrammi in formato jpeg che davano diverse inquadratura ed ingradimenti del documento. Li offro di seguito in forma ingrandità:

1.
Il documento per intero, la cui dimensione originale è un normale A4.
Cliccando sull’immagine si ottiene un ingrandimento.
Oltre alla normale intestazione dell’Ufficio, con numero di protocollo, oggetto e destinatario, si ha la data del 10 febbraio 1923 con un timbro del 12 febbraio 1943. Alcuni caratteri dattiloscritti non si leggono chiaramente, ma se ne può egualmente ricostruire il senso. Per la trascrizione, la traduzione e l’analisi storico-documentale si rinvia al post successivo, dove interviene un noto specialista della materia.


2.
La didascalia di Marcello Pezzetti
La forzatura interpretativa della didascalia rispetto al documento, in lingua tedesca, che lo sovrasta, è evidente ed eclatante. Si badi bene: il documento è originale ed autentico. Ma non per questo dice ciò che si legge nella didascalia e soprattutto un documento autentico non dice necessariamente il vero in ordine ai fatti. Si rinvia alcora al post di Carlo Mattoglio per l’analisi storico-documentale, dove peraltro apprendiamo che l’«Ufficio VI» non si occupava di «cultura». Esattamente: «L’Abteilung VI era la Sezione VI del comando di Auschwitz, che si occupava di Fürsorge, «u>Schulung und Truppenbetreuung, «Cura, addestramento e assistenza della truppa», non di “cultura”». Sembra proprio che il signor Pezzetti non conosca adeguatamente, o forse non conosce affatto la lingua tedesca. Intanto, non sarebbe stata una grande fatica tradurre un testo di poche righe, dove per la parte che riguarda la Scala e Lia Origoni si dice esattamente in mezza riga:
Lia Origoni (sopran) von der Mailänder Scala
Lia Origoni (soprano) della Scala di Milano


Troppo poco per dare come scontato che Lia Origoni avesse con sè un attestato autorizzante l’uso del logo della Scala di Milano, o peggio ancora che esistesse un rapporto contrattuale ovvero una corrispondenza fra il campo di concentramento di Auschwitz (sez. VIª che si occupava non di... «cultura» (!), ma di “addestramento” (Schulung) della truppa) e il teatro milanese per l’allestimento di spettacoli lirici in Auschwitz. Ma neppure si può ammettere una semplice curriculare che menzionasse il fatto che Lia Origoni fosse un soprano della Scala di Milano, dove la cantante non si esibì prima del 1946, a guerra finita. Forse ciò era nei suoi desideri, certamente non riprovevoli, ma non era ancora realtà. Lia Origoni aveva cantato pochi mesi prima al teatro della Scala di Berlino, ma il contratto era scaduto e l’impresario non era un impresario della Scala di Berlino. Quindi nulla a che fare né con la Scala di Milano e neppure con la Scala di Berlino. Agli organizzatori/e interessava evidentemente gettare cattiva luce sul teatro milanese, ma avrebbero dovuto per lo meno fare un “riscontro” fattuale sugli archivi e sui calendari della Scala di Milano per verificare se Lia Origoni a quella data fosse stata effettivamente una soprano presso il teatro milanese. Non risulta né dal Corriere della Sera né dalla Didascalia che una simile, elementare, semplicissima ricerca sia stata fatta. Altre ricerche ancora, per una verifica incrociata se ne sarebbero potute fare, sempre che non venissero considerate veridiche le dichiarazioni della stessa interessata, vivente, in perfetta salute ed in ancora più perfetta lucidità mentale. Così si annuncia il nascente «Museo della Shoah» romano, al quale Alemanno ha assicurato 23 milioni di euro dalle tasche dei cittadini romani tutti. Servirà a cosa? A mettere Roma contro Milano? o altre città italiane? Contemporanea alla Mostra Auschwitz-Birkenau, che fortunatamente chiude i battenti il 21 marzo, si svolge ben altra mostra sui preparativi per il 15o° anniversario dell’Unità d’Italia.

3.
La perfidia allusiva
Era questa la prima documentazione fotografica che avevo ricevuto dal signore che aveva visitato la mostra dopo di me e che aveva letto i miei testi in rete. Egli aveva anni addietro anche studiato l’attività artistica di Lia Origoni e conoscendo la sua biografia era rimasto indignato dalla grossolana “bufala”, cosa di cui ha avvertito i suoi amici della comunità ebraica romana, essendo egli un “sionista” della cui amicizia ci si poteva ben fidare. Il fatto poi di ottenere scuse da parte di una comunità ebraica non l’ho mai letto da nessuna parte. La logica talmudica consente cose incredibili. Dunque, la mia prima attenzione, oltre alla didascalia, era stata attirata anche dalla documentazione fotografica, che nella prospettiva sopra data mi aveva indotto a pensare che fosse un’integrazione del documento e che magari la signora Lia fosse una delle donne che appaiono nella foto. È bastata però una verifica per accertare che nessuna delle donne era la signora Origoni e perfino il paesaggio né la stagione potevano corrispondere con il documento. Di ciò parlai con il visitatore che aveva scattato le foto, chiedendo se le foto stesse avevano un’indicazione iconografica: così proprio non potevano stare in una mostra. La cosa appariva assurda. Fu così che il signore di cui continuo a non fare il nome, in attesa del suo ritorno e della sua autorizzazione, andò nuovamente a visitare la mostra e a mandarmi nuovamente le foto in diverse prospettive, da dove risultava la totale estraneità delle foto con Lia Origoni e gli spettacoli di cui nel documento. Sono poi andato io stesso per un esame autoptico. Resta però l’ambibuo accostamento con momenti di ordinaria quotidianità della vita dell’epoca e dei luoghi con gli odierni orrori della narrazione olocaustica, per la quale tutta la storia universale dell’umanità gravita intorno ad un «unico» momento, misura e metro di paragone di ogni cosa, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono. È da aggiungere, in ultimo, ma non perché meno importante, come dalla biografia della signora Lia Origoni viene fuori un’immagine che non ha proprio nulla a che fare con lo stile odierno di escort e ballerine. Addirittura, la signora Lia aveva decisamente respinto un invito a pranzo di Goebbels, motivando il rifiuto proprio in ragione delle persecuzioni che gli ebrei subivano in Germania. Aveva dovuto fare ricorso alla protezione diplomatica italiana. Ma lasciò ciò ai biografi di Lia Origoni. La gratitudine è una virtù cristiana e neotestamentaria, non veterotestamentaria.

4.
Altre prospettive
a.

b.

c.

d.
Possiamo con questa selezione ultima di quattro foto considerare terminata la nostra visita virtuale alla mostra. Il commento generale che si puà fare è che i documenti vanno interpretati, si devono poter interpretare, lo si deve poter fare liberamente e senza soggezione alcuna, intidimidazioni, prevaricazioni, falsificazioni. Ci è bastato esaminare un solo documento, relatvo al teatro dell’Opera di Milano e ad un’artista, che a suo modo è anche parte della «Memoria» degli italiani, di una ben diversa Memoria che si è voluto mettere in discussione, senza fondato motivo e del tutto gratuitamente.

5. Impossibilità etica del razzismo e manipolazione delle coscienze. – Nel corso di questo genere di manifestazioni ho sentito dire che “gli italiani non sono brava gente”, o meglio si è deliberatamente rovesciato il senso di un’espressione che normalmente suona “è brava gente” con la quale si concede rispettabilità ad ogni etnia e collettività, ad ogni popolo. Tutti in quanto tali sono sempre moralmente ed eticamente rispettabili, mentre azioni non commendevoli possono attribuirsi tutt’al più solo a singoli individui in quanto tali ed a prescindere dal loro gruppo etnico di appartenenza, al massimo ai governi che si rendono indegni dei loro popoli, ma un popolo in quanto tale è come l’equivalente terreno di dio. Oggi però si tende a criminalizzare i popoli. E chi può fare cio? Evidentemente un superpopolo, o un’etnia che per definizione si pone come migliore di tutte le altre. Naturalmente, questa è una nuova forma di razzismo, peggiore delle altre nella misura in cui ci si macchia di colpe che si condannano in altri, magari in misura ancora maggiore e sempre che le “colpe” attribuite a chi spesso non si può più difendere siano veramente tali. Si può esprimere la formula dell’impossibilità etica di ogni razzismo constatando che ogni uomo di fronte ad un altro uomo resta sempre un uomo, non certo un cavallo, una pianta, un pesce.

Altro è dire che gli uomini, praticamente da sempre, hanno avuto relazioni ostili gli uni verso gli altri ed in modalità le più disparate. Vi erano epoche in cui i nemici si riconosceva in quanto nemici per il periodo in cui erano fra di loro in guerra. Ma tornando la pace si ripristinavano finalmente le condizioni che consentono ad ognuno di vivere in sicurezza nel godimento della sua vita, della sua famiglia, dei suoi beni. Nelle nostre epoche civilizzate si è però cristallizzata la confusione fra il nemico e il criminale. Quasi ogni guerra termina ormai con un tribunale dove si normalmente processano i vinti, ma esistono anche istituzione preposte a criminalizzare le vittime che osano ribellarsi e difendersi. Il “razzismo”, o meglio l’accusa di razzismo, è spesso una forma ideologica con la quale non si intende lasciare scampo al nemico vinto, che non ha più diritto di parola, di stampa, di memoria.

Non del razzismo dovremmo preoccuparci, perché esso è eticamente impossibile nel senso che un uomo non potrà mai assumere la natura biologica di un cavallo, ma dell’uso ideologico che del termine razzismo si continua a fare. Si apre qui un campo di ricerca che possiamo solo accennare. Intanto, per esempio, è da chiedersi se alla fine della seconda guerra mondiale è succeduto un mondo migliore del precedente, dove non succedono più quelle cose che imputiamo al passato e condanniamo, attribuendole ai popoli vinti. Scopriremo forse, senza rimpiangere il mondo di ieri, che non possiamo conoscere, non essendo spesso neppure nati all’epoca dei fatti narrati, come il mondo che si para davanti ai nostri occhi in nulla è inferiore all’orrore delle narrazione storiche accreditate ed autorizzate.

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