lunedì 8 marzo 2010

Ilan Pappe sull’Università di Tel Aviv. Chiose in margine agli accordi dell’Università di Roma “La Sapienza” con quella università.

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Madonna Fiammetta ha parlato di “un bel colpo di reni” per definire l’accordo siglato in Campidoglio fra La Sapienza e l’università di Tel Aviv, di cui dubito siano in molti alla Sapienza a sapere su quali fondamenta, su quali lacrime e quale sangue, essa fisicamente sorga. Più che le nostre parole in risposta a tanta impudenza, che siede, ahime!, in parlamento, per spiegare al mio Rettore ciò che ha firmato, diamo la parola ad un docente isrealiano, ebreo, costretto con minacce a lasciare l’università israeliana dove insegnava, dicendo il vero, per trasferirsi nell’università di exeter, in Gran Bretagna, dove dal 2002 non hanno avuto remote di nessun genere ad avviare una decisa campagna di boicottaggio accademico delle università israeliana. Se proprio di democrazia vogliamo parlare, nel senso corrente del termine, non è che proprio la Gran Bretagna debba prendere lezioni da Israele. Pappe era persino venuto per parlare proprio alla Sapienza nel gennaio del 2009, pochi giorni dopo il termine dell’operazione “Piombo Fuso”. Improvvisamente, sembrerebbe per ragioni formali, l’aula do statistica dove era prevista la sua conferenza non è stata più disponibile. In Monaco di Baviera si è ripetuta la scena, ma non sono state lì addotte ragioni formali. La locale “comunità ebraica” ha esercitato le pressioni di cui è capace, non solo in Monaco, ed il sindaco di Monaco ha dato piena prova di «viltà politica» negando il permesso primo accordato. Ma sentiamo cosa ci dice Ilan Pappe a proposito dell’Università di Tel Aviv, con la quale qualcuno con un “colpo di reni” ha pensato di siglare accordi. Noi speriamo servano almeno a svolgere quelle ricerche di cui leggiamo nelle pagine finali del libro sulla «Pulizia etnica della Palestina»:

L’Università di Tel Aviv, come tutte le altre università israeliane, è impegnata a promuovere la libertà della ricerca accademica. Il circolo degli insegnanti dell’Università di Tel Aviv si chiama la Serra. In origine era la casa del mukhtar del villaggio di Shaykh Muwannis, ma se vi capitasse di essere invitati a pranzo o di partecipare a un seminario sulla storia del paese o sulla città di Tel Aviv, non ve ne accorgereste affatto. Nel menù del ristorante del circolo si legge che l’edificio fu costruito nell’Ottocento ed era appartenuto a un uomo facoltoso di nome Shaykh Munis: un uomo senza volto, fittizio, messo lì in un non-luogo fittizio, come lo sono le altre persone “senza volto” che una volta vivevano nel villaggio distrutto di Shaykh Muwannis, sulle cui rovine l’Università di Tel Aviv ha costruito il suo campus.

In altri termini la Serra compendia la negazione del piano strategico del sionismo per la pulizia etnica della Palestina, messo a punto non lontano da lì, lungo la spiaggia, in Yarkon Street, al terzo piano della Casa Rossa. Se l’Università di Tel Aviv si fosse dedicata a una ricerca accademica seria, avreste potuto pensare che, per esempio, i suoi economisti avessero già valutato l’entità delle proprietà palestinesi perdute nelle distruzioni del 1948 e predisposto un inventario sulla base del quale i futuri negoziatori potessero iniziare il loro lavoro in vista della pace e della riconciliazione. Le imprese private, le banche, le farmacie, gli alberghi e le società di trasporti di proprietà dei palestinesi, i caffé, i ristoranti, le officine che questi gestivano e gli incarichi che essi ricoprivano nel governo, nel sistema sanitario e in quello dell’istruzione - tutto fu confiscato, svanì, venne distrutto o trasferito in “proprietà” ebraica, quando i sionisti presero possesso della Palestina.

I geografi professionisti che passeggiano nel campus di Tel Aviv avrebbero potuto fornirci una carta obiettiva della quantità di territorio appartenente ai profughi che Israele ha confiscato: milioni di dunam di terra coltivata e quasi altri dieci milioni di dunam che costituiscono il territorio destinato dal diritto internazionale e dalle risoluzioni ONU allo Stato palestinese. E vi avrebbero aggiunto anche gli altri quattro milioni di dunam che lo Stato d’Israele ha espropriato ai cittadini palestinesi nel corso degli anni.

I professori di filosofia del campus avrebbero già preso in considerazione le implicazioni morali dei massacri commessi dalle truppe israeliane al tempo della Nakba. Le fonti palestinesi, utilizzando sia gli archivi militari israeliani sia le storie orali, elencano trentuno massacri incontestabili - a cominciare da quello di Tirat Haifa dell’11 dicembre 1947 sino al massacro di Khirbat Ilin nelle vicinanze di Hebron che avvenne il 19 gennaio 1949 - e se ne potrebbero aggiungere almeno altri sei. Non disponiamo ancora di un archivio sistematico della Nakba con l’elenco dei nomi di tutte le persone morte negli eccidi - un gesto di commemorazione dolorosa che si sta mettendo pian piano in atto al momento in cui questo libro va in stampa.

A un quarto d’ora di automobile dall’Università di Tel Aviv c’è il villaggio di Kfar Qassim, dove il 29 ottobre 1956 i soldati israeliani massacrarono quarantanove contadini che facevano ritorno dai campi. Dopo fu la volta di Qibya negli anni Cinquanta, di Samoa negli anni Sessanta, vennero poi i villaggi della Galilea nel 1976, Sabra e Chatila nel 1982, Kfar Qana nel 1999, Wadi Ara nel 2000 e il campo profughi di Jenin nel 2002. Si aggiungano inoltre i numerosi assassini dei quali tiene debitamente il conto B’tselem, la principale organizzazione per i diritti umani israeliana. L’uccisione di palestinesi da parte di Israele non ha mai avuto fine.

Gli storici che lavorano all’Università di Tel Aviv avrebbero potuto fornirci il quadro completo della guerra e della pulizia etnica, visto che hanno un accesso privilegiato a tutta la documentazione militare e governativa ufficiale e al materiale d’archivio necessario. La maggior parte di loro, invece, preferisce fungere da portavoce dell’ideologia egemone e le loro opere descrivono il 1948 come una “guerra di indipendenza”, celebrano i soldati e gli ufficiali ebrei che vi hanno preso parte, ne nascondono i crimini e diffamano le vittime.
Io mi chiedo cosa mai penseranno quegli studenti e quei docenti i cui “reni”, ma anche lo stomaco reggeranno se appena sapranno – lor che sanno, ed hanno forse un “poco di sapienza” – cosa sorgeva sotto i loro piedi, nel campus di cui calpesteranno i prati. Credo che per Sapienti in trasferta varrà il motto “occhio non vede, cuore non duole”, ammesso che il loro cuore fosse capace di sentimento. Giacché se si tratta di “cuore sionista”, di «un cuore per Israele», esso ha una fisiologia tutta particolare, calibrata su un diverso sistema di sentimenti. Inutile chiedere la coccodrillo perché piange, quando sembra che pianga.

Per non riassumere noi le ragioni politiche che. a nostro avviso, avrebbero del tutto sconsigliato, soprattutto ad un anno da Piombio Fuso ed a meno di un anno dal rapporto Goldstone la stipula di qualsiasi intesa con l’università di Tel Aviv, credo sia meglio lasciar continuare Ilan Pagine, riportando le pagine finali del suo libro, terminato prima di “Piombo Fuso”. Le sue previsioni, le sue profezie, le sue preoccupazioni si sono avverate tristemente e per noi italiani ed europei sorgono gravi responsabilità politiche, di cui si è ben lungi dall’avere consapevolezza e “sapienza”. Ecco il testo eloquente del Pappe, ebreo discriminato dagli stessi ebrei, ai quali risponde da ebreo: “si è antisemiti se non si è antisionisti”.
Non tutti gli ebrei di Israele chiudono gli occhi di fronte ai massacri che il loro esercito si è lasciato alle spalle nel 1948, né sono sordi alle grida delle persone espulse, ferite, torturate e violentate, che cercano di arrivare sino a noi tramite coloro che sono sopravvissuti e attraverso i loro figli e nipoti. Di fatto sempre più numerosi sono gli israeliani consapevoli di quanto è accaduto in realtà nel 1948 e che capiscono molto bene le implicazioni morali della pulizia etnica che si è scatenata nel paese. Vedono anche il rischio che Israele stia mettendo di nuovo in atto il programma di pulizia etnica, nel disperato tentativo di mantenere la sua maggioranza ebraica assoluta. .

È tra queste persone che noi troviamo la saggezza politica che sembra mancare totalmente a tutti i procacciatori di pace del passato e del presente: esse sono pienamente coscienti del fatto che il problema dei profughi è al centro del conflitto e che la loro sorte è la chiave di volta di ogni soluzione che abbia una possibilità di successo. È vero, questi ebrei israeliani che non condividono la linea ufficiale sono pochi e lontani tra loro, tuttavia esistono, e dato che in generale i palestinesi desiderano ottenere la restituzione e non chiedono il risarcimento, gli uni e gli altri insieme detengono la chiave della riconciliazione e della pace nella lacerata terra di Palestina.

Essi sono oggi a fianco dei profughi palestinesi “interni” - circa mezzo milione di individui - nei pellegrinaggi che compiono insieme ogni anno ai villaggi distrutti, in un viaggio di commemorazione della Nakba che si svolge nel giorno in cui in Israele si celebra ufficialmente (secondo il calendario ebraico) il “giorno dell’Indipendenza”. Si possono vedere in azione come soci di ONG quali Zochrot - ‘ricordare’ in ebraico -, che ostinatamente considerano un dovere mettere cartelli con i nomi dei villaggi palestinesi distrutti nei luoghi dove oggi vi sono gÌi insediamenti ebraici o le foreste del Fondo Nazionale Ebraico (JNF).

Si possono ascoltare quando intervengono nelle conferenze per il diritto al ritorno e per una pace giusta che ebbero inizio nel 2004; quando insieme con gli amici palestinesi, provenienti dall’interno e dall’esterno del paese, riaffermano il loro impegno nella difesa del diritto al ritorno dei profughi; e quando, come chi scrive, dichiarano di voler continuare la lotta per proteggere la memoria della Nakba contro tutti i tentativi di minimizzare l’orrore dei suoi crimini o negare che questi abbiano mai avuto luogo, perché un giorno ci sia nella terra della Palestina una pace completa e duratura.

Ma prima che queste poche persone impegnate riescano a fare la differenza, la terra di Palestina e il suo popolo, ebrei e arabi, dovranno affrontare le conseguenze della pulizia etnica del 1948. Vogliamo concludere questo libro come lo abbiamo iniziato: esprimendo lo sconcerto di fronte al fatto che questo crimine sia stato così totalmente dimenticato e cancellato dalle nostre menti e dalla nostra memoria. Ma adesso ne conosciamo il prezzo: l’ideologia che ha reso possibile spopolare la Palestina di metà della popolazione nativa nel 1948 è ancora operante e continua a guidare l’inesorabile, talora impercettibile, pulizia etnica nei confronti dei palestinesi che oggi vivono lì.

È tuttora un’ideologia potente, non solo perché le fasi precedenti della pulizia etnica della Palestina sono passate inosservate, ma soprattutto perché, con l’andar del tempo, la dissimulazione sionista delle parole è stata molto abile nell’inventare un linguaggio nuovo che ha mascherato il devastante impatto delle sue pratiche. Comincia con ovvi eufemismi quali “ritiro” e “rilocazione” per camuffare le ampie dislocazioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania che sono in corso dal 2000. Continua con il termine improprio di “occupazione” per descrivere la vera e propria legge militare israeliana vigente all’interno della Palestina storica, oggi più o meno il 15 per cento, mentre presenta il resto del territorio come “liberato”, “libero” o “indipendente”.

È vero, oggi la maggior parte della Palestina non è sotto occupazione militare, parte di essa è in condizioni molto peggiori. Consideriamo per esempio la Striscia di Gaza dopo il ritiro, dove neppure gli avvocati che si occupano di diritti umani possono proteggere gli abitanti, poiché essi non sono più tutelati dalle convenzioni internazionali relative all’occupazione militare. Una parte della popolazione gode di condizioni apparentemente migliori all’interno dello Stato d’Israele; molto meglio per loro se sono cittadini ebrei, un po’ meglio se sono cittadini palestinesi di Israele. Meglio, per questi ultimi, se non risiedono nell’ area della Grande Gerusalemme, dove negli ultimi sei anni la politica di Israele è stata quella di trasferirli nella parte occupata o nelle aree, senza legge né autorità, della Striscia di Gaza e della Cisgiordania create dai disastrosi accordi di OsIo degli anni Novanta.

Molti palestinesi non sono sotto occupazione, ma nessuno di loro, compresi quelli che vivono nei campi profughi, sono esenti dal potenziale pericolo di una prossima pulizia etnica. Sembra si tratti più di una questione di priorità israeliane che non di una graduatoria tra palestinesi “fortunati” e “meno fortunati”. Quelli che risiedono nell’area della Grande Gerusalemme stanno subendo la pulizia etnica mentre questo libro va in stampa. È probabile che poi toccherà a coloro che abitano nelle vicinanze del Muro dell’ apartheid che Israele sta costruendo e che in questo momento è completato per metà. Anche quelli che vivono nell’illusione di una maggiore sicurezza, i palestinesi di Israele, potrebbero essere coinvolti prossimamente, se è vero che, secondo un recente sondaggio, il 68 per cento degli ebrei israeliani ha espresso il desiderio che essi siano trasferiti!

Né i palestinesi né gli ebrei saranno in salvo gli uni dagli altri o da se stessi, se non sarà correttamente identificata l’ideologia che tuttora guida la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Il problema di Israele non è mai stato il giudaismo: il giudaismo presenta svariate facce e molte di queste forniscono una solida base per la pace e la coabitazione; il problema è la natura etnica del sionismo. Il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi.

Essi non potranno mai essere parte dello Stato e dello spazio sionista e continueranno a lottare, e c’è da sperare che la loro lotta sia pacifica e coronata da successo. In caso contrario sarà disperata e desiderosa di vendetta e, come un turbine, si porterà via tutto in una perpetua tempesta di sabbia di enormi dimensioni che infurierà non soltanto nel mondo arabo e in quello islamico, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le potenze che, a turno, alimentano la tempesta che minaccia di condurci tutti alla rovina.

Gli attacchi di Israele contro Gaza e il Libano nell’ estate del 2006 stanno a indicare che la tempesta sta già infuriando. Organizzazioni come Hezbollah e Hamas, che osano contestare il diritto di Israele di imporre unilateralmente la propria volontà alla Palestina, hanno contrastato la potenza militare israeliana e per il momento. (mentre scrivo) riescono a resistere all’assalto. Ma è tutt’ altro che finita. In futuro potrebbero essere presi di mira i paesi che nella regione sostengono questi due movimenti di resistenza: Iran e Siria; il pericolo di un conflitto ancor più devastante e di un bagno di sangue non è mai stato così grave.
Come filosofo del diritto mi sento di poter che è un miserabile sofisma la pretesa che Israele sia una “democrazia” – anzi, ma per fortuna, la sola “democrazia del Medio Oriente” – per la mera presenza di procedure formali che sembrano rispettare gli stereotipi della stato borghese di diritto tradizionale. In realtà, vi è una negazione davvero “unica” di ogni principio di democrazia sostanziale, di ogni eticità, di ogni moralità. Non esiste nessun fondamento di diritto, nessun fondamento di legittimità che possa fondarsi su un’immigrazione sistematica di individui che già dispongono di una loro cittadinanza, spesso conservata in regime di privilegio. E non si tratta di immigrazione in una terra disabitata da colonizzare e dissodare, ma di una terra con una popolazione che viene massacrata ed espulsa dalle sue case e dai suoi villaggi: l’università di Tel Aviv sorge su uno di questi villaggi! Sulla violenza, il sopruso, il genocidio non si può fondare nessun sistema di diritto e nessuna legittimità. Le «complicità» dell’università israeliana nel sistema dell’«oppressione» sono da tempo note ed è annunciato un libro che sarebbe opportuno mandare in omaggio agli stipulanti del Campidoglio, vicesindaco incluso. L’università di Tel Aviv è qui presentata come il «centro primario della ricerca militare». È da chiedersi e da chiedere se anche l’università di Roma La Sapienza verrà associata in siffatte ricerche militari e quali benefici ci si aspettano da una siffatta collaborazione.

È quanto di più insensato, antistorico, antigiuridico, immorale, blasfemo pretendere – come fa un certa propaganda – di fondare il diritto odierno sulle pretese di una banda di avventurieri privi di scrupoli e sul genocidio del popolo palestinese (1882-2010), basandosi su miti biblici o su strumentalizzazioni di eventi tragici della “guerra civile europea” (1917-1945), che non hanno nulla a che fare con il giudaismo (leggi Rabkin), con la storia (leggi Sand), con il diritto (leggi rapporto Goldstone) e neppure con l’ebraismo (leggi Burg). È follia allo stato puro e perdita di ogni senso morale l’equazione «Israele siamo noi» + «Io sono Israele» = «Siamo tutti ebrei». Non occorre che indichi le fonti qui citate, trasparenti, diffuse ed individuabili nelle persone di politici, devoti a Mammona, le cui facce ci vengono servite tutte le sere in tv e che pretendono di parlare in nostro nome, per conto nostro regolarmente silenziati ed impossibilitare a parlare ed esprimerci. Si tratta di un complesso di messaggi subliminali che si servono degli apparati istituzionali, dell’immenso potere economico di una lobby che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con il denaro e la finanza, usati senza scrupoli di sorta, del controllo pressoché totale della stampa e dei grandi mezzi di comunicazione, delle chiese americane che hanno già benedetto il genocidio degli indiani d’America, della superstizione e dell’incultura religiosa e ora anche delle università italiane. Compito della filosofia e del pensiero critico è di monitorare il sistema della manipolazione continua e della menzogna sistematica. L’etnocidio culturale del popolo palestinese, le cui università vengono bombardate e distrutte dalle università israeliane, ci riguarda direttamente in quanto propone un modello globale basato sulla violenza e sulla sopraffazione di ogni altro popolo inferiore solo nelle armi, ma non in diritto, giustizia, umanità, civiltà.

1 commento:

stuarthwyman ha detto...

indico un link al quale troverete la recensione di un libro in particolare:

"51 documents zionist collaboration with the nazis"

http://www.jewsagainstzionism.com/antisemitism/nazisupport.cfm

Ne avete già parlato da qualche parte?