mercoledì 8 luglio 2009

Freschi di stampa: 10. Yakov M. Rabkin: «Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo».

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Autori recensiti: Arrigoni - Caridi - Fisk - Carlo Mattogno - Gian Pio Mattogno - Rabkin.

Il libro non è recentissimo nel senso che esce in Canada nel 2004 e viene tradotto in prima edizione italiana nel maggio 2005, ma noi ne abbiamo notizia solo da qualche settimana. Quindi per noi il libro è come “fresco di stampa”. Dato il suo contenuto, non è difficile immaginare perché il libro non abbia avuto quella pubblicità che al “Processo ai nemici di Israele” di Alan Dershowitz viene fatta ancora prima che il libro esca e sia disponibile presso i normali lettori. È un libro che in un senso ideale si può scagliare in testa a Dershowitz, che indica come i peggiori di Israele ovvero del sionismo proprio quei rabbini ebrei che giudicano incompatibile il sionismo con il contenuto etico, religioso e dottrinale della Torah. Su questa materia noi non ci arroghiamo nessuna competenza, ma non possiamo disinteressarsi degli aspetti extra-ebraici di tutta la questione. E non troviamo di meglio di un libro circostanziato ed approfondito come quello di Rabkin, certamente per Dershowitz un “indemoniato”, come demoni sono per lui quei rabbini che hanno partecipato al convegno iraliano sull’«Olocausto» e si sono fatti ritrarre mentre si abbracciavano con Ahmadinejad, messo al numero 1 dell’Indice sionista.

Prevediamo un tempo lungo di studio e lettura del testo. Nulla qui ci impedisce di darne subito notizia, di raccomandarne la lettura e lo studio di gruppo. Giusto per dare un’idea del contenuto, senza anticipare da parte nostra giudizi critici, che potranno venire solo in seguito, riportiamo di seguito una breve prefazione di Joseph Agassi, di cui null’altro sappiamo se non ciò che egli scrive alle pagine 7 e 8 di un libro di 286 pagine:
Nell’Europa del XIX secolo molti praticavano nel contempo il laicismo e la religione. Altri praticavano il laicismo al posto della religione. Il nazionalismo si è potuto così trasformare in una religione laica, facendo dello Stato un mostro che ha provocato le peggiori catastrofi del XX secolo.

Questa opera stimola il dibattito sul nazionalismo riguardo al mio paese. L’autore rivolge la sua attenzione alla messa in discussione del mito secondo cui Israele protegge tutti gli ebrei, costituendone così la patria naturale. Il libro dimostra, a buon diritto, che tale mito è antiebraico. La maggior parte degli israeliani scambia questo mito per il sionismo, sostenendo che potremo veramente raggiungere l’indipendenza solo il giorno della completa riunificazione delle diaspore. In tale contesto, la questione vitale per gli ebrei di tutto il mondo è se gli interessi di Israele coincidano o se invece entrino in conflitto con quelli degli ebrei della diaspora. Ma per l’attuale ideologia sionista si tratta di una questione tabù. La cosa peggiore è che tale ideologia considera l’antisemitismo come ineluttabile e Israele come l’unico luogo al mondo in cui gli ebrei possano trovarsi al sicuro. Questo concetto è essenzialmente antidemocratico: nega a priori il valore dell’emancipazione degli ebrei nell’intero mondo moderno, e giustificare l’esigenza sionista di vedere tutti gli ebrei sostenere Israele, spesso a danno degli interessi nazionali dei paesi in cui vivono. La maggior parte dei dirigenti della diaspora non ha programma migliore che difendere Israele basandosi su questo principio viziato: «è il mio paese, che abbia ragione o torto».

I governi israeliani si comportano dunque come i dirigenti di una comunità che si trova ancora in un ghetto e spazzano via gli interessi dei non ebrei di Israele, così che Israele rimane in un continuo stato di guerra, perché un ghetto munito di un potente esercito è pericoloso.

Questo libro mostra perché è importante liberarsi di un simile mito. Perché è proprio questo mito a impedire che numerose persone, compresi gli ebrei di Israele, riconoscano l’autenticità della posizione adottata dai rabbini antisionisti e ammettano che tale posizione è del tutto fedele alla tradizione giudaica. Il riconoscimento della legittimità dell’antisionismo religioso è fondamentale per il dibattito su Israele e il sionismo. Dal momento che i sionisti, sia ebrei sia cristiani, negano ogni legittimità all’antisionismo, tale dibattito rimane oggi soffocato.

L’importanza di prendere familiarità con l’antisionismo fondato sulla Torah è del tutto evidente; ignorarlo non fa che rafforzare il culto della vacca sacra del sionismo moderno. E questo comprende le tesi sulla natura centrale di Israele nella vita ebraica di tutto il mondo e sul diritto del governo israeliano di parlare in nome degli ebrei della diaspora. Questo culto stabilisce inoltre che gli ebrei non israeliani non possano esprimere alcun disaccordo su qualsiasi posizione ufficiale di Israele. Recentemente, un congresso sionista ha assimilato ogni opposizione al sionismo all’antisemitismo, una dichiarazione che ha gravi conseguenze per molti ebrei nel mondo, compreso Israele. Negare legittimità a ogni minima messa in discussione delle posizioni ufficiali di Israele è semplicemente scandaloso e la critica contenuta in quest’opera non è che l’inizio di tale messa in discussione.

Non si può negare l’importanza, sul piano intellettuale, di un pensiero chiaro, soprattutto della capacità di stabilire distinzioni tra i concetti, anche se forse la sua rilevanza sul piano pratico è meno evidente. È proprio qui che tale opera diventa particolarmente utile. Basandosi su documenti storici importanti, ma poco conosciuti, essa dimostra tutta la differenza che esiste tra questi concetti: sionismo e giudaismo; Israele in quanto Stato, in quanto paese, in quanto territorio, in quanto Terra Santa; ebrei (gli israeliani e non israeliani), israeliani (ebrei e non ebrei), sionisti (ebrei e cristiani) e antisionisti (ancora una volta ebrei e cristiani). Quando, per esempio, si parla di Stato ebraico per indicare Israele, ciò dà luogo a una confusione, tanto reale quanto pericolosa, tra fede e nazionalità.

Non è necessario essere religiosi per protestare contro il ricorso da parte di Israele ad argomenti religiosi. Non sono religioso e non voglio cedere all’attuale moda fra gli intellettuali israeliani di parlare male del sionismo e della sua storia. Ma, in quanto patriota israeliano e in quanto filosofo, ritengo che sia essenziale inserire il discorso dell’antisionismo giudaico nel dibattito pubblico sul nostro passato, sul nostro presente e sul nostro futuro, un dibattito di cui abbiamo grande bisogno.
Ripeto: sono in fase di studio del libro e non voglio dare o anticipare giudizi critici. Vorrei soltanto dire che non amo l’ebraismo in quanto religione. Non l’ammiro neppure e non ritengo che sia stato un elemento progressivo nella storia. Andrò a rileggermi l’Antico Testamento, ma il mio ricordo è tutta una successione di crudeltà, ferocia, barbarie erette a religione. Tuttavia, non mi occuperei mai di questo tema, se non avesse riflessi negativi per la restante umanità. Mi rendo conto che l’esegesi di un testo può condurre anche molto lontano dal senso letterale delle parole. Noto anche come l’equiparazione fra antisemitismo e antisionismo abbia fatto strada fino a toccare i vertici istituzionali della nostra Repubblica. Ciò non sarebbe stato possibile senza un lavoro lobbistico che deve essere individuato e portato alla luce. Non mi soffermo qui neppure sul dubbio concetto di “antisemitismo” vecchio o nuovo, ma osservo che proprio a causa del sionismo gli ebrei hanno perso e vanno sempre più perdendo quel credito di compassione che per controversi eventi storici avevano tesaurizzato. Non è chi non veda, se è appena un poco capace di equanimità di giudizio, come le “sofferenze” inflitte ai palestinesi proprio dagli ebrei, che si dicono “vittime” per antonomasia, abbiano superato di gran lunga in intensità, durata e occultamento quelle che essi dicono di aver subito, quantificandole pure, come se la sofferenza potesse mai venir quantificata.

In effetti, sono quanto mai interessanti gli approcci con la storia per come presentata dall’autore nel contesto della storia biblica. Ben sappiamo come a noi europei la Memoria sia stata sottratta. Corrono seri rischi gli storici che vogliono ripercorrere, su base rigorosamente documentaria, le vicende del nostro recente passato storico. Se appena si allontano o sfiorano gli olodogmi, subito si vedono appioppare lo strano insulto infamante di “assassini della Memoria”, un’assurdità priva di qualsiasi senso logico. Ma si legge nel libro, citando un professore ebreo della Columbia University, come
«la sola memoria prescritta nella Torah sia quella dell’intervento divino nella storia, non quella delle imprese storiche. L’obiettivo di un simile approccio è di impedire che il popolo ceda alla tentazione di sostituire Dio e di attribuire a se stesso il ruolo di unico attore della storia».
(op. cit., 22)
Nella sua furia processuale in Roma il sionista Dershowitz spiega ai giornalisti che per gli ebrei che risiedono in Gerusalemme la Bibbio è soprattutto un libro di storia, di geografia, di archeologia. Le implicazioni sono evidenti: considerare comandamenti divini lo sterminio dei cananei e ritenerli validi per i palestinesi, odierni cananei. È altrettanto chiaro che per quanto mi riguarda dicevo poco sopra, puntualmente ascrittomi ad antisemitismo: non amo la Bibbia, non amo l’ebraismo, se ebraismo significa sterminio dei cananei, uccisione dei primogeniti degli egiziani, morte degli egiziani, e così via. Per si tratta di un’ideologia religiosa criminale. Non è però questa la lettura della Torah che viene offerta nel libro di Rabkin:
«La Torah orale è abbastanza laconica sui dettagli delle attività militari che circondano l’assedio di Gerusalemme da parte delle truppe romane nel I secolo. Ciò che invece pone in evidenza è la lezione principale: il Tempio è stato distrutto a causa dei peccati degli ebrei, in particolare per l’odio gratuito fra gli ebrei. Il Talmud ricorda come il meschino conflitto d’onore fra due orgogliosi notabili ebrei abbia portato a una tragedia nazionale, addirittura universale. L’insegnamento che ne trae la tradizione giudaica è chiaro: si deve essere circospetti e prudenti nelle proprie azioni, le cui conseguenze a lungo termine sono impossibili da prevedere. Un altro insegnamento, più pertinente al tema di quest’opera, è che sono gli ebrei stessi a essere responsabili della distruzione del Tempio e dell’esilio della Terra di Israele» (op. cit., 22).
Il libro prosegue su questo piano e noi vi ritorneremo via via che avanziamo nella lettura, sottolineando i passi che ci sembrano più saliente, ma che già da adesso sembrano riassumersi nel contrario di ciò che Dershowitz vorrebbe: la Bibbia non è un libro di storia. Se così fosse, gli ebrei dovrebbero rispondere di molti crimini e giustificherebbe essi stessi le reazioni che nel corso dei secoli, anzi dei millenni hanno suscitato presso gli altri popoli. Il libro è quanto mai istruttivo e l’impulso è di ricamarci sopra qualcosa ad ogni pagina, via via che la lettura avanza. Sarebbe come scrivere un libro dentro il libro, vivendo del libro. Ma su un punto, almeno, non ci sentiamo di andare avanti senza dirne a chi legge queste righe ed al quale raccomandiamo la lettura diretta di Rabkin, se ha interesse per questi temi.

Ebbene, del sionismo sappiamo già come sia sorto. Ci aiuta anche a saperne un libro ancora più di recente uscito, come quello di Shlomo Sand. Il sionismo si forma nel crogiolo del nazionalismo della seconda metà del XIX secolo. Ma di cosa si nutre un nazionalismo. Chiaramente ha bisogno di un territorio sul quale un popolo possa dimorare o abbia dimorato preferibilmente dalla notte dei tempi, se si riesce a farlo credere. Ma poi ha anche bisogno di una lingua. E sappiamo come in Europa si sono formate le lingue nazionali. Ma l’ebraico come lingua del popolo “inventato” degli ebrei che lingua sarebbe? Così non si può resuscitare un cadavere (salvo l’episodio evangelico di Lazzaro), neppure può rinverdirsi una lingua morta come l’ebraico biblico, ammesso che sia mai stata una lingua parlata. Ed invece i sionisti vogliono fare questa operazione. Ma a quale prezzo? Modificando e alterando il significato degli antichi termini, usati dai rabbini per leggere la Torah. Eccone alcuni significativo esempi che Rabkin illustra a p. 72 del libro.

La parola bitahon vuol dire originariamente “fiducia in Dio”. Come viene trasformata? Quale nuovo significato gli viene attribuito? Diventa: «sicurezza militare». Rabkin così commenta: «Questa trasformazione non è innocente: tende ad allontanare il nuovo Ebreo dalle fonte della tradizione e, al tempo stesso, ad avvicinare gli ebrei tradizionali, attratti dai termini familiari. L’allontanamente avviene nel significato delle parole, proprio perché le parole conservano la loro forma originale» (ivi, p. 72). Altro esempio è il termine messianico kibbutz galuyot che significava “gruppo di esuli” e che nel nuovo lessico diventa “immigrazione”. Così pure il termine “keren kayemet” oggi “fondo permanente” che si alimenta anche in Roma per finanziare gli insegiamenti illegali nei territori occupati, ma che in origine significava «l’accumulo dei meriti in questa vita da “utilizzare” in una vita futura» (ivi). Non stupisce dunque che i rabbini, legati alla tradizione giudaica, che ora dobbiamo apprendere ad usare come distinta e opposta al termine “ebreo” o “ebraico”, considerassero una profanazione questo uso distorto e strumentale della lingua sacra della Torah. Insomma, è tutta una menzogna e noi viviamo in quel regno delle tenevre di cui parlava Thomas Hobbes.

(segue)

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