giovedì 2 luglio 2009

Pacifisti: 68. Rachael Corrie e la sua morte vituperata

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Le schede su personaggi ed eventi sono davvero innumerevoli. Ogni giorno capire di sentire un nome o un evento prima ignoto. E quindi si tratta sempre di nuovo di acquisire nuove cognizioni e di valutarle criticamente. Nel contesto che abbiamo fin qui trattato trovo mirabile per sintesi espressiva e densità concettuale una frase di apertura del libro di Pau-Èric Blanrue: ci viene sottratta la comprensione della nostra quotidianità. Ogni evento, anche la morte di una Rachael Corrie schiacciata da un bulldozer israeliano, magari con il freno difettoso, deve essere faticosamente difesa dal suo celamento e dalla sua mistificazione. Mentre le persone sinceramente mosse dalla verità non hanno ritenzione di fronte all’evidenza, altre che con la verità hanno ben rapporto pretendono di condurci all’assurdo: non è il bulldozer che ha investito e ucciso Rachael Corrie, ma è questa giovane di 23 anni che ha investito e magari danneggiato il bulldozer. Questi i tempi in cui viviamo.

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Sommario: 1. Chi era Rachael Corrie. – 2. Per chi non è accecato dal fanatismo. – 3. Sì, Israele è il colpevole e la diffamazione dell’ISM è continua. – 4. La casa diventa un boschetto. – 5. Il solito disco con implicita ammissione di colpevolezza. – 6. La “ciliegina” di Deborah Fait. –

1. Chi era Rachael Corrie. – Traendolo dal servizio loro malgrado offertomi dai «Corretti Informatori» riporto per intero l’articolo Cristina Piccino che offre una scheda sulla giovane ventitreenne morta mentre manifestava, travolta da un carro armato israeliano. Dell’infame commento non occorre fare menzione, se non per classificarlo come “tipica” manifestazione di sionismo, ossia il peggio che si possa dire secondo il nostro orientamento di valori. Credo proprio che con costoro non sia possibile umanamente nessuna conciliazione. Ci si deve rassegnare e prendere atto della realtà delle cose.
Il Manifesto,
2 luglio 2009, p. 12

Filmare a Gaza, il tabù dell’occhio
di Cristina Piccino

Rachel Corrie era una ragazza americana di ventitre anni. Pacifista, militante in una Ong, era arrivata a Rafah,
sulla striscia di Gaza, a difendere le case dei palestinesi dai bulldozer israeliani. Anche Rachel mentre faceva da scudo finì col suo corpo di ragazza sotto uno di quei bulldozer stritolata a morte. Era il 16 marzo del 2003. Gli americani non aprirono un’inchiesta, gli israeliani decretarono che fu un incidente. Gli amici e i compagni di Rachel dissero che il soldato israeliano l’aveva travolta intenzionalmente. Le molte mail che la ragazza scriveva ai genitori, a qualche amico, raccontano il sogno di cambiare il mondo. E non importa se è solo un sogno un po’ ingenuo e troppo spericolato, Rachel nelle sue parole si diceva felice di essere a Rafah, diceva che aveva imparato e capito molto lì nella durezza crudele dell’occupazione, di una violenza quotidiana che opprime le persone privandole di qualsiasi orizzonte, anche il più semplice, il più immediato. La storia di Rachel nonostante l’aspetto mediatico del conflitto mediorientale è passata in tono minore, ma non è solo per questo che Simone Bitton ha voluto farci un film. Marocchina di nascita, con passaporto di Israele dove si è trasferita da ragazzina, nel ’66, Simone Bitton è una cineasta che ama le sfide come dimostra il suo precedente Il Muro, costruzione, ragioni e paradossi della barriera voluta dagli israeliani per chiudere nei ghetti dei territori occupati i palestinesi. Soprattutto Simone Bitton è documentarista che predilige l’inchiesta, che usa la macchina da presa come strumento di indagine preferendo il confronto a tutto campo all’autoritarismo dell’ideologia. E Rachel, il nuovo film che la Mostra di Pesaro ha proiettato nella sezione Bande à part (si può vedere nella ripresa romana del festival, a Piazza Vittorio, venerdì 4 alle 21.15) è un’inchiesta che lavorando sulla morte della ragazza si interroga sulla relazione del cinema con la realtà. La morte di Rachel è racchiusa in un vuoto, l’assenza di immagini. La vediamo prima e dopo, a terra, i compagni non ce la fanno a fotografarla mentre viene traascinata via, le telecamere di sorveglianza che sovrastano l’area dichiareranno lo stesso vuoto. Intorno a cui la regista costruisce le sue domande, senza risposte nonostante l’implacabile evidenza. «La storia di Rachel è stata trattata come un piccolo episodio nella guerra tra Palestina e Israele. Così ho deciso di strutturare il film come un’inchiesta cinematografica» ci dice Simone Bitton. «Rachel» cerca una verità sulla morte della ragazza contro la versione delle istituzioni israeliane e in polemica col silenzio complice americano. Al tempo stesso indaga su cosa significa fare cinema documentario oggi. Credo che il cinema documentario sia un po’ obbligato a inventare un linguaggio nuovo proprio perché si hanno più mezzi a disposizione. Siamo pieni di immagini che arrivano dai telefonini, dalle telecamere di sorveglianza, dalle mail, sul web e via dicendo. Mentre giravo ho sentito l’esigenza di indagare anche su questa abbondanza di immagini dove però è sempre possibile un vuoto. Il sistema nel caso di Rachel è riuscito a cancellare ciò che non doveva essere visto, del resto le immagini prodotte dalle telecamere di sorveglianza sono istituzionali, controllano ciò che possiamo guardare o no. I compagni di Rachel avevano vissuto un’emozione molto dolorosa, in quei momenti non si riesce a scattare una fotografia, forse è possibile farlo in tribunale ma è un’altra cosa ... Ci sono anche motivazioni personali che mi hanno portata a questo film, se si dedicano tre o quattro anni della propria vita a qualcosa non è mai per caso. La vicenda di Rachel Corrie mi permetteva di fare un film su Gaza, anche se in modo indiretto, che è un luogo nel quale gli israeliani non vogliono si girino documentari. È un luogo nascosto, un tabù a dispetto dell’attenzione dei media. Perché a Gaza viene messa in atto una distruzione sistematica, non si tratta solo di Rachel ma della vita di moltissime persone, in questo senso lei è stata una vittima collaterale. Mi aveva colpita anche la sua sfida, era una ragazza di ventitre anni e la sua storia rappresenta in qualche modo il sentimento di rivolta e il coraggio della giovinezza. È una cosa che mi fa riflettere sulla mia generazione, sul significato dell’impegno politico. Si ha l’impressione che alcuni degli intervistati, specie tra i compagni di Rachel, esprimano una distanza dagli avvenimenti che è anche una sorta di riconsiderazione della loro attività, a proposito di impegno. Non sono una regista che arriva in un posto pretendendo di trovare subito qualcosa. É molto importante per me ottenere una confidenza con le persone e i luoghi in cui giro, e in questo caso è stato un lavoro lungo perché c’erano molte reticenze; le autorità israeliane non volevano che filmassi a Gaza, per chi come me ha un passaporto israeliano avere un permesso è impossibile. Ho fatto sforzi enormi. La famiglia e gli amici di Rachel avevano molti sospetti, temevano che volessi fare un film su di lei perché era l’americana bionda e militante, che la sua storia cancellasse le altre vittime. Ho mostrato loro i miei lavori precedenti, è nata una collaborazione molto bella. Lo stesso è stato coi palestinesi che vivono lì, anche se come dicevo, arrivarci è praticamente una missione impossibile. Tornando ai compagni di Rachel non bisogna dimenticare che sono passati cinque anni, e sono molti nella vita di chi è così giovane. Al tempo stesso questo stacco mi ha permesso un rapporto con i fatti più rigoroso, non mi interessava l’emozione bruta e facile del trauma. Le immagini possono indurre all’errore. Per questo c’è bisogno di tempo, si deve sempre sapere chi ha filmato, cosa è stato tagliato ... Quando vediamo le riprese della sorveglianza, i militari addetti al controllo sono lì a guardarle insieme a noi. Diceva del legame tra i ragazzi come Rachel e la sua generazione sulla questione dell’impegno. In che senso? La mia generazione ha lottato e ha fallito in Palestina e altrove. I giovani come Rachel e i suoi compagni lottano per un’idea concreta come può essere proteggere le case palestinesi dalla distruzione, pure se sanno che la casa sarà abbattuta ugualmente. Uno dei ragazzi dice oggi che forse erano ingenui ma comunque era importante farlo. Perché? Perché ci si impegna in una battaglia, per essere vicini ai prossimi vincitori o al di là di tutto, che si vinca o meno, che si conquistino dei risultati o no? Spesso si accusano gli attivisti di essere naif, di battersi per nulla. Sono alcune contraddizioni dell’impegno. Nel film come già nel «Muro», da spazio anche alla parola del potere, i militari israeliani. Penso che dobbiamo guardare sempre il potere, in Israele specie quello militare è molto forte, ha qualcosa di terrificante e di spaventoso ma il film sarebbe stato impossibile senza. Perché la politica in medioriente non è che il riflesso della parola militare. Lo stesso vale per l’economia, sono i militari che ne determinano i corsi, nessun civile prende una posizione che non sia stata approvata dai militari. Sono loro a dirigere la vita in Israele.
Io che al cinema ci vado sempre di meno, andrò a vedere il filmato e magari ne acquisterò il dvd. Sono interessanti le considerazione sul film documentario ai nostri giorni. Ne ho visto alcuni e mi rendo conto che le immagini sono necessarie.

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2. Per chi non è accecato dal fanatismo. – Se il riferimento del titoletto tratto da una frase dell’articolo di Mario Vargas Llosa dovesse riferirsi ai «Corretti Informatori» sarebbe del tutto inappropriato. Costoro vedono e come se vedono. Ma vedono diversamente dalla restante umanità e saremmo degli ingenui se pensassismo che sono “acciecati dal fanatismo”. Per completare l’immagine della povera Rachel, morta ventitreenne, riporto integralmente l’articolo apparso su La Stampa del 6 novembre 2006 ed accompagnato dai soliti “infami commenti” ad uso interno della Lobby. Costoro prendono che quando piove si debba dimostrare che piove o che quando una giovane è travolta da un militare alla guida di una sorta di carro armato si debba dimostrare che non è stato un banale incidente. Se lo stesso criterio dovesse valere sulle nostre strade potremmo ammazzare qualsiasi persona ci piaccia, dando la colpa al morto.
La Stampa,
6 novembre 2006, p. 7

Mario Vargas Llosa

Rachel va in teatro
Non si uccidono così le giovani pacifiste

SE passate per New York, dimenticate i sontuosi musical di Broadway e cercate invece di ottenere un biglietto in un piccolo teatro caldo e sgangherato, il Minetta Lane Theatre, sito nella strada dello stesso nome, giusto tra Greenwich Village e Soho. Se ci riuscite e vedete la pièce che lí si rappresenta, «Il mio nome è Rachel Corrie», scoprirete come possa essere commovente uno spettacolo teatrale quando affonda le sue radici in una problematica d’attualità e, senza pregiudizi e con talento e verità, rappresenti sul palcoscenico una storia che, per novanta minuti, ci catapulta nell’orrore contemporaneo per via di una ragazza che, nella sua corta vita, giammai avrebbe potuto sognare che avrebbe fatto tanto discutere e svegliato tante polemiche e sarebbe stata oggetto di tanta riverenza e amore, cosí come di tante calunnie.
La pièce è stata rappresentata per la prima volta l’anno scorso nel Royal Court Theatre, a Londra, e ha dovuto superare grandi ostacoli per arrivare a Manhattan. Le pressioni delle organizzazioni estremiste filo-istraeliane hanno ottenuto che il suo primo produttore, il New York Theatre Workshop, desistesse dal montarla, fatto che ha causato manifesti e proteste a cui parteciparono artisti e intellettuali di fama, tra cui Tony Kushner. Finalmente, lo spirito liberal e tollerante di questa città si è imposto e adesso l’opera, che ha meritato eccellenti recensioni, va a gonfie vele. Il testo è un monologo della protagonista, impersonata da una giovane attrice con grande talento, Megan Dodds, elaborato da Alan Rickman e Katharine Vine con i diari, le lettere ai genitori e agli amici e altri scritti personali di Rachel Corrie. Nessuno direbbe che una pièce così ben strutturata e che scorre in modo tanto naturale, senza il minimo intoppo, non sia stata concepita come un testo organico da un drammaturgo professionista, bensí fatta solo con citazioni rammendate tra loro.

Rachel è nata a Olympia, un paese nello stato di Washington e, per quel che se ne sa, era abituata sin da bambina a dialogare con sé stessa scrivendo testi che mostrano, in modo fresco e a volte allegro, la vita provinciale di una ragazza che arriva all’adolescenza, come tante altre della sua generazione negli Stati Uniti, piena di inquietudine e confusione contro la sua vita privilegiata e il suo ristretto orizzonte da paese in cui scorre. Sospira la vaga intenzione di essere poetessa più avanti, quando crescerà e si sentirà capace di emulare quegli autori i cui versi legge senza tregua e memorizza. Non c’è nulla di eccezionale in lei, piuttosto le previsibili esperienze di una ragazzina di classe media, normale e corrente, sconcertata davanti al mondo che va scoprendo, i suoi entusiasmi per le canzoni e i cantanti trendy, le effimere civetterie con i campagni di scuola, e, questo sí, una insoddisfazione costante, inespressa, la ricerca di un qualcosa che, come la fede per i credenti - lei lo è solo a metà e comunque la sua esperienza religiosa non riempe quel vuoto che a volte la tormenta - dia di colpo alla sua vita un’orientamento, un senso, qualcosa che la impregni di entusiasmo.

Questa parte della storia di Rachel Corrie non è meno intensa né interessante della seconda, quantunque meno drammatica. La cosa singolare, vista la sua storia, è che tra tutte le inquietudini che testimoniano i suoi scritti personali, non figuri affatto la politica, fatto che riflette benissimo una condizione generazionale. Trenta anni fa, i giovani statunitensi canalizzavano la loro ribellione e la loro inquietudine con comportamenti, look, hobby o gesti, tutto ció avvolto a volte da un discreto anarchismo individualista, o, al contrario, con una militanza osservante, ma la politica era solita meritare la indifferenza più assoluta, se non il più palese disprezzo. Nella rappresentazione teatrale, forse perché quel momento critico della sua vita non è rimasto documentato nei suoi testi, c’è una grande parentesi, il periodo che porta la ragazzina provinciale che aspira a essere un giorno poetessa a compiere una scelta cosí audace da offrirsi, all’inizio del 2003, volontaria per andare a lottare pacificamente nella Striscia di Gaza contro la demolizione, da parte dell’esercito di Israele, delle case dei vicini imparentati o in rapporto con i palestinesi accusati di terrorismo.

In un primo momento ho pensato che Rachel Corrie fosse andata a lavorare con il mio amico Mair Margalit, uno degli israeliani che più ammiro, nel suo «Comitato di Israele contro la demolizione delle case», di cui ho già parlato nei miei articoli. Macché, Rachel si è iscritta al «Movimento Internazionale di Solidarietà», composto soprattutto da giovani inglesi, statunitensi e canadesi che nei Territori occupati, andando a vivere nelle abitazioni minacciate, cercano di impedire - inutile dirlo, senza molto sucecsso - un’azione moralmente e giuridicamente inaccettabile, visto che parte dal presupposto di una colpa collettiva, di una popolazione civile che deve essere castigata nel suo insieme per crimini di individui isolati.

Le lettere che Rachel scrive da Rafath, a Sud di Gaza, rivelano una progressiva presa di coscienza di una giovane che scopre, condividendole, la miseria, l’abbandono, la fame e la sete di una umanità senza speranza, emarginata in case precarie, minacciata da sparatorie, retate, espulsioni, dove la morte imminente è l’unica certezza per bambini e anziani. Rachel, sebbene dorma per terra come le famiglie palestinesi che la ospitano, o si alimenti con le stesse magre razioni, si vergogna delle cure e dell’affetto che riceve, di essere comunque una privilegiata perché lei se ne può andare in qualsiasi momento e fuggire da quella asfissia e, in cambio, loro..... Ció che più l’affligge è l’indifferenza, l’incoscenza di tanti milioni di essere umani, nel mondo intero, che non fanno niente né vogliono sapere della sorte ignomignosa di questo popolo in cui adesso lei è immersa.

Era una giovane idealista e pura, vaccinata contro l’ideologia e l’odio che di solito provocano, per la pulizia dei suoi sentimenti e la sua generosità, che si riflettono in ogni riga delle lettere che scrive a sua madre, spiegandole come, nonostante la sofferenza che vede nei sui dintorni - i bambini che muoiono nelle incursioni israeliane, i pozzi d’acqua distrutti che lasciano assetati interi isolati, la proibizione di andare a lavorare che va affondando nella morte lenta migliaia di persone, il panico notturno con le sirene dei carri armati o i voli rasanti degli elicotteri - constati improvvisamente, nelle feste per una nascita, un matrimonio o un compleanno, esplosioni d’allegria, che è come se si aprisse il cielo tempestoso perché si intraveda là, lontanissimo, un cielo di un azzurro splendente, pieno di sole.

Per qualsiasi persona non accecata dal fanatismo, la testimonianza di Rachel Corrie su una delle più grandi ingiustizie della storia moderna - la condizione degli uomini e delle donne nei campi dei rifugiati palestinesi dove la vita è pura agonia - è, oltre che impressionante, un’attestazione d’umanità e compassione che giungono all’anima (o come si chiami quel residuo di decenza che tutti possediamo). Per coloro che, come me, abbiano visto da vicino quell’orrore, la voce di Rachel Corrie è un coltello che apre una piaga e la rimuove.

La fine della storia accade fuori dalla pièce, in un episodio su cui Rachel non ha avuto il tempo di testimoniare. Domenica 16 marzo 2003, con sette compagni del Movimento Internazionale di Solidarietà - ragazzi inglesi e statunitensi - Rachel si piantò davanti a un bulldozer dell’esercito israeliano che stava per buttar giù la casa di un medico palestinese di Rafah. Il bulldozer la travolse, spappolandole il cranio, le gambe e tutte le ossa della colonna vertebrale. É morta nel taxi che la portava all’ospedale di Rafah. Aveva 23 anni. Nell’ultima lettera alla madre, Rachel Corrie le aveva vergato: «Tutto questo deve finire. Dobbiamo abbandonare il resto e dedicare le nostre vite per far sì che tutto ciò finisca. Non credo che ci sia niente di più urgente. Voglio poter ballare, avere amici e innamorati e disegnare comics per i miei compagni. Ma, prima, voglio che tutto questo finisca. Ció che provo si chiama incredulità e orrore. Delusione. Mi deprime pensare che questa è la realtà fondamentale del nostro mondo e che, di fatto, tutti partecipiamo in ció che succede. Non era questo che io volevo quando mi fecero nascere. Non era questo ció che sperava la gente di qui quando venne al mondo. Questo non è il mondo in cui tu e il mio papà volevate che io vivessi quando avete deciso di concepirmi».
copyright El País
(traduzione di Gian Antonio Orighi)
Se molta gente è ancora oggi indifferente ad una ingiustizia evidente lo dobbiamo all’istupidimento prodotto intenzionalmente dalla Lobby che controlla direttamente o indirettamente il sistema mediatico ed educativo. Ne abbiamo un infimo esempio con gli «infami commenti», che puntualmente di circa otto anni, infangano e diffamano, ma anche tentano di terrorrizzare e intimidire ogni voce critica di denuncia di un genocidio che si consuma davanti ai nostri occhi, oggi, non durante la guerra di Hitler, ma oggi durante il tempo della nostra generazione. Ci hanno fatto gli occhi per vedere in un passato che non si può neppure scrutare liberamente, mentre ci precludono di poter guardare il presente. Difficile immaginare una forma più compiuto e perfezionata di oppressione.

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3. Sì, Israele è il colpevole e la diffamazione del ISM è continua. – Sto incominciando a scoprire in tutta la sua attività cosa è l’ISM, e certamente non è ciò che i «Corretti Informatori» pretendono sia, ossia un’organizzazione terroristica: tutto ciò che non è plauso acritico e incondizionato verso Israele è per costoro terrorismo e antisemitismo. Tutto sommato, lo schema con cui funziona il loro cervello è di una estrema semplicità. Può darsi che si tratti di un soft informatico, così programmato, e non di esseri umani. Ma potrebbero anche essere delle persone rovinate dal colonialismo e rosi dall’odio prodondo – questo sì che è odio – verso quei poveri indigeni che guarda un poco non ne vogliono sapere di lasciarsi morire e massacrare in silenzio, senza strillare e far commuovere quanti hanno ancora un cuore o lo avevano come la povera Rachel Corrie. Andando al link si liegge però che Rachel non è stata la sola persona dell’ISM uccisa dai sionisti. Vi è pure il caso di Tom Hurndall, «ucciso dal proiettile di un tiratore scelto mentre aiutava un gruppo di bambini palestinesi a spostarsi durante uno scontro tra l’esercito israeliano e terroristi palestinesi»: il virgolettato è dei “Corretti Informatori”, ma è da intendere fra “fra criminali israeliani e resistenti palestinesi”. L’ISM ha organizzato in Roma in gennaio il seminario sul massacro di Gaza, i cui atti si trovano anche in questo blog ed il cui editing dobbiamo ancora completare. Per Hurndall apriremo una scheda a parte. La sua uccisione dimostra che vi è un’intenzione omicida premeditata e programmata verso quanti si mostrano solidali nei confronti dei palestinesi. Risibile la scusante addotta per l’omicida, la cui condanna per omicidio “preterintenzionale” sembra una burla per i media. Per una condanna di comodo è facile immaginare quanti omicidi sono stati commessi e restano ignoti. I “crimini” dello Stato “criminale” di Israele sono noti solo in piccolissima parte.

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4. La casa diventa un boschetto. – È veramente difficile trovare dei termini per definire la mente che redige quelli che io chiamo abitualmente “infami commenti”. Ormai mi sono persuaso del bassa capacità di analisi, della mancanza di fantasia, del carattere stereotipo delle argomentazioni. Resta utile la raccolta di materiale grezzo che indefessamente ogni giorno da non pochi anni costoro fanno. Non conoscerei il nome di Rachel Corrie se non me lo avessero fatto conoscere costoro. Naturalmente su Rachel non riescono per nulla a farmi credere ciò che vorrebbero. La verità è normalmente l’opposto di ciò che loro dicono e vorrebbero far credere. L’ultima, tutta da ridere se non vi fosse da piangere, vede una Rachen che muore «in un incidente durante un tentativo di impedire a un buldozer israeloiano di abbattere non già una casa, ma un boschetto usato per nascondere un tunner per il traffico d’armi (armi destinate a uccidere i civili israeliani, non dimentichiamolo». Appunto: non dimentichiamolo!

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5. Il solito disco con implicita ammissione di colpevolezza. – È già tanto che l’impudenza non giunga qui a negare il fatto stesso della di Rachel Corrie: “è indubbio”, dice l’estensore della lettera firmata. Che poi sia morta ammazzata, ben le sta: questo il senso. Quanto poi alle distruzioni in genere delle case, queste vengono fatte solo quando si accerta (ma chi e come lo accerta?) che i familiari del kamikaze o del terrorista sapevano dell’intenzione suicida, ecc. Incredibile, ma vi è che davvero pensa in un modo così barbarico e disumano. È quello che si chiama “sionismo”. Ma ci vengono poi a dire che essere antisionisti sarebbe come essere antisemiti. Naturalmente, è una bufala ed un modo grottesco e insensato di ragionare, che però si trova ai più alti livelli del sionismo. Se dovessimo dare per fondato il ragionamento, allora ne dovremmo concludere che come è legittimo e necessario l’antisionismo – come in ultimo ha ribadito l’ebreo Ilan Pappe –, diventerrebbe pure legittimo e necessario l’antisemitismo, ed essendo Pappe un ebreo dovremme metterci a non so cosa fare contro di lui, persona più di ogni altra mite e gentile. Ho voluto portare alla sue grottesche conclusioni un ragionamento grottesco quanto mai. Intanto però l’assassinio della povera Rachel Corrie è un fatto assolutamente certo ed assolutamente tragico.

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6. La “ciliegina” di Deborah Fait. – Non per concludere, ma ahimé per continuare la nostra rassegna criminale del sionismo, riporto di seguito un brano di una tizia che per anni in Italia ha avuto a che fare che le associazioni Italia-Israele: poverà Italia dove sei andata a finire! È sempre difficile moderare il linguaggio e contenersi quando ci si occupa di costei. Lascio che ognuno giudichi l’efferatezza del testo che segue:
Per concludere questa triste rassegna razzista e per la serie "al peggio non c’e’ mai fine" ecco la ciliegina sulla torta, una ciliegina avvelenata.
Il Royal Court Theatre, uno dei piu’ prestigiosi teatri di Londra, qualcuno lo definisce il piu’ importante d’ Europa, ha aperto la stagione con una rappresentazione dal titolo :“My name is Rachel Corrie”.
Rachel Corrie, per chi non lo ricordasse, era una giovane americana arrivata nei territori palestinesi per fare da scudo umano. La ragazza partecipava attivamente alle manifestazioni contro Israele organizzate da hamas a Gaza dove bruciava in preda a odio isterico, e le foto ne sono testimonianza, le bandiere americana e israeliana.
Rachel Corrie era membro dell’ISM, International Solidarity Mouvement, organizzazione fortemente razzista e antiisraeliana, antisemita, antisionista e quant’altro, organizzazione che aveva fornito nei quattro anni di guerra appena trascorsi piu’ di un kamikaze ai gruppi terroristici capitanati da Arafat. Omar Khan Sharif e Assif Muhammad Hanhif, i due terroristi che avevano fatto saltare il Mike’sPlace di Tel Aviv erano stati contattati in Inghilterra dall’ISM.
Rachel Corrie era una di quelli che dichiaravano: "Israele e’ un’entita’ illegale che non deve esistere".
Alla fine, durante una delle sue tante dimostrazioni da scudo umano, e’ stata uccisa incidentalmente da un bulldozer israeliano a Gaza mentre urlava i suoi slogan contro Israele e, troppo distratta dal suo odio fanatico, non si era allontanata in tempo dal pericolo dei detriti che il bulldozer smuoveva, rimanendone sepolta.
La storia di questa ragazza, esempio di quanto i giovani possano essere facile preda di fanatismi, dal Royal Theatre, verra’ portata in tutte le scuole inglesi dove incitera’ all’antisemitismo migliaia di altri giovani perche’, come scrive Tom Gros, corrispondente del Jerusalem Post a Londra, in questa rappresentazione non si parla tanto di lei quanto dell’odio contro Israele che gli autori, attraverso di lei, vogliono diffondere.
Si noti un tratto tipico della prosa sionista: il tal teatro si dice che sia il migliore d’Europa. Se ha questa fama, sarò stata meritata, uno penserebbe. Ma se non sarà il primo, sarà il secondo, ed è sempre tanto, ma anche in terzo e il quarto, diciamo fino al decimo. Ma l’impagabile Deborah insinua che è un teatro infimo, dal momento che ha rappresentato sulla scena ahimé la triste storia di Rachel, stroncata a 23 anni dai compari di Deborah, che magari se la spassano pure, come abbiano potuto leggere dai graffiti che in Gaza hanno lasciato nelle case sventrate delle loro vittime. Incredibile, ma questo orribile modo di pensare e di esprimersi trova ancora oggi agganci nelle due Camere del parlamento, grazie alla strategia che le Israel lobbies seguono in USA, in Francia, ed in ogni paese dove riescono ad infiltrarsi. Inorridire serve a poco. Inveire ancora meno. Incredibile l’immagine di Rachel come “scudo umano”. Quella degli “scudi umani” è proprio una paranoia sionista. In ogni caso, loro gli scudi umani o non umani li bombardano tutti. Gli hanno dato puro l’atomica. Bombardano tutto quello che si muove e anche quello che non si muove. Che una simile mentalità e cultura omicida travolgesse con un bulldozer una giovane disarmata di 23 anni è cosa che non deve soprendere: sono fatti così e questa è la loro natura. Vi è solo da comprendere e registrare nella Memoria.

«Per chi non lo ricordasse...». Il minimo che dobbiamo a questa giovane generosa e buona è di ricordarla sempre. Questa sera andrò in piazza Vittorio a vedere quel film documentario che i sionisti certamente non possono vedere e che vorrebbero tanto nessuno vedesse. Ma il loro potere per fortuna non è ancora arrivato a bendarci gli occhi, anche se la loro censura è certamente formidabile e ben lo sanno le migliaia e migliaia di carcerati in Francia, Germania, Austria, i tanti semplici cittadinini che con la loro mente reagiscono all’istupidimento collettivo a cui ci vorrebbe portare il nostro sistema mediatico, dove scrivono tante Debore, forse meno volgari, ma identiche nella sostanza.

Razzista chi? Niente supera in razzismo il sionismo. A dirlo è stato l’ONU. Se il mondo intero condanna Israele, non è che in Israele qualcuno si ponga lontamente qualche interrogativo su se stesso. Al contrario! È il mondo che sbaglia. E – si dice – sbaglia da 3000 anni per quanto riguarda l’ebraismo! Per il sionismo, che fa di tutto per confondersi come fosse la stessa cosa che l’ebraismo, il discorso è però diverso. Si tratta del peggiore nazionalismo di tipo coloniale e razzista che sia mai esistito. Il fatto di avere impregnato di sé – mi pare indubbio – gran parte dell’ebraismo contemporaneo è per l’ebraismo un colpo così forte quale neppure il nazismo sarebbe riuscito ad infliggere. Chi collega gli odierni crimini commessi dallo stato sionista di Israele e li collega con l’ebraismo è fortemente sollecitato a interrogarsi sulle cause delle persecuzioni e delle ostilità che gli ebrei hanno suscitato lungo tutto l’arco della loro storia religiosa, dico religiosa perché con Sand ritengo che non esista un popolo ebreo. Ma per tornare a bomba, il prossimo 11 luglio l’ISM terrà in Roma un Incontro, dove ognuno potrà conoscere il carattere nonviolento di un movimento nato nel 2001, e che ha come suo motto:
“Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l’umanità che hanno accompagnato il conflitto israelo-palestinese e altri conflitti in questo passaggio d’epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l’opportunismo.”
Intanto esiste ed è già attivo il tribunale della nostra coscienza, che sa bene come valutare l’oltraggio alla memoria di rachel Corrie sopra riportato. I timori di Deborah sono del tutto fuori luogo: Israele è così spregevole di per sé che supera qualsiasi concetto di odio. Si può odiare l’omicidio in sé, il crimine allo stato puro, il delitto? L’odio – insegnava Spinoza – è un sentimento negativo di per sè, un vizio, una malattia passeggera dello spirito alla ricerca della sua pienezza. Il rifiuto della teoria e della prassi dell’omicidio come può mai essere una forma di odio? La propaganda sionista blatera a se stessa, per autonconvincersi dei propri crimini pasati, presenti e futuri, cose che per una mente normale sono prive di senso e costrutto logico. Et de hoc satis.

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