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Rinvii:
Testo integrale - Graf -
CAPITOLO V
Hilberg e le conoscenze della storiografia olocaustica
sul Führerbefehl all’inizio degli anni Ottanta.
Bilancio di due convegni storici.
2.2.
La relazione di Hilberg
La relazione di Hilberg
Il tema scelto da Hilberg per la sua relazione fu «L’azione Reinhard» (674). Egli, in riferimento allo sviluppo del presunto processo di sterminio, premise subito che «molto, su questo sviluppo, resterà sempre nell’oscurità», in quanto le relative decisioni e iniziative erano state prese «verbalmente» (675). Circa il presunto ordine di sterminio, Hilberg, al pari degli altri congressisti, formulò mere congetture senza alcun supporto documentario:
«In quell’estate [del 1941] Hitler deve aver impartito a Himmler un ordine inequivocabile di sterminio fisico del popolo ebraico. Himmler lo trasmise senz’altro a varie persone, tra cui Heydrich, il quale comunicò a sua volta la decisione al capo della Gestapo, Heinrich Müller, e ad Eichmann. Tra di esse, ci fu anche Höss, il tenebroso comandante di Auschwitz, e come terzo senza dubbio il capo della Polizia e delle SS del distretto di Lublino, Odilo Globocnick, che fu incaricato dell’azione Reinhard» (676).
Nella successiva discussione, Jäckel si oppose a questa congettura di Hilberg sulla base di un’altra congettura:
«Ho solo una breve domanda sulla datazione, signor Hilberg. Perché suppone che l’ordine di Hitler di cui ha parlato debba essere stato impartito soltanto dopo il 31 luglio? Noi sappiamo però che Himmler fu a Lublino il 20 e 21 luglio e lì parlò con Globocnik. Io invero ho sempre supposto che la direttiva di Himmler a Globocnik deve aver avuto luogo in uno di questi due giorni» (677).
Nell’«azione Reinhard», spiegò Hilberg, c’erano tre campi della morte: Bełżec, Sobibór e Treblinka, ma «per nessuno di essi si è potuta trovare finora una pianta del campo» (678). Inoltre, nella loro progettazione, «si improvvisò un po’ e si risparmiò molto» (679) ed essi furono costruiti «in condizioni primitive». Tutti e tre i campi erano privi di forni crematori (680). Egli ammise anche che la fase organizzativa dell’«azione Reinhard» può suscitare vari interrogativi:
«Perché tre campi e non uno solo? Perché furono costruiti uno dopo l’altro, prima Bełżec, poi Sobibór e infine Treblinka? Perché all’inizio ci furono solo tre camere a gas se poi non bastavano? Si potrebbe essere propensi a rispondere che i progettisti non conoscevano tutta l’estensione del loro compito, che procedevano a tastoni verso la meta senza averla in vista. Ciò non è del tutto inconcepibile, ma non è certo la spiegazione completa e forse neppure la più importante. In breve, si tratta di un difficile problema amministrativo. Il Terzo Reich, per una “soluzione finale della questione ebraica” non aveva specificamente né un’autorità centrale, né un proprio capitolo di bilancio» (681).
Ma questa era una semplice congettura per tentare di spiegare le contraddizioni summenzionate.
La struttura “dimostrativa” della relazione, per quanto riguarda i presunti campi di sterminio, è in sintesi quella nell’opera definitiva del 1985, ma con una concessione a fontamatici «progetti di impianti di gasazione» (682) che ovviamente non furono mai trovati e che egli in tale opera smentì apertamente, asserendo: «Le informazioni relative al numero e alle dimensioni delle camere a gas che erano nei campi, non si basano su documenti, ma sui ricordi dei testimoni» (nota 43 a p. 1052).
In una intervista pubblicata nel 1994, Hilberg ribadì che la presunta distruzione degli Ebrei d’Europa si era attuata «senza finanziamenti, centralizzazione o pianificazione» e, riguardo all’«azione Reinhard» affermò:
«Il problema vero sta nel chiedersi come riuscirono a commettere un crimine fino a tal punto mostruoso con così pochi mezzi, materiali e umani. Consideriamo i centri di sterminio: solo 92 militari tedeschi lavoravano a Treblinka, Sobibór e Bełżec, più alcune centinaia di Ucraini. Novantadue Tedeschi nella Polonia occupata riuscirono a uccidere, in quei tre centri di sterminio, quasi un milione e mezzo di Ebrei» (683).
Ma una tale concezione era in aperto contrasto con quella canonica di un’ «azione Reinhard» provvista di un’autorità centrale (Globocnik) centralizzata e pianificata, e forse per questo nell’ edizione definitiva della sua opera Hilberg rinunciò alla denominazione storiografica ufficiale di «azione Reinhard», in cui l’interpretazione storiografica ufficiale vede notoriamente il nome di Reinhard Heydrich.
In fatto di dubbi, al convegno di Parigi Adam aveva rilevato:
«Utilizzare il nome del capo del RSHA [Heydrich] scomparso sarebbe stata una scelta non solo impropria, ma anche irriverente: d’altra parte, quale rapporto avrebbe potuto esserci tra l’assassinio di Ebrei polacchi e i Cechi autori dell’attentato? (684). Il nome evoca senza dubbio più verosimilmente quello del segretario di Stato alle Finanze, Fritz Reinhardt, un ortografo che si ritrova precisamente in certi documenti dell’operazione Reinhard(t)» (685).
Ma ci si può chiedere anche quale rapporto avrebbe potuto esserci tra il segretario di Stato alle Finanze e il presunto assassinio di Ebrei polacchi: a meno che l’«azione Reinhard» fosse non già un progetto di sterminio, ma di evacuazione e di spoliazione di Ebrei, come del resto è attestato dai documenti (686).
Sopra ho riportato la domanda dell’avvocato Christie a Hilberg se l’esistenza del presunto ordine di sterminio di Hitler fosse un articolo di fede basato sulla sua opinione. Egli rispose che non era affatto un articolo di fede, ma una conclusione. I risultati del convegno di Parigi e del congresso di Stoccarda dimostrarono invece che era effettivamente un articolo di fede basato su un’opinione personale o un’opinione personale assunta come articolo di fede.
Un ulteriore spergiuro di Hilberg.
Apparentemente Hilberg era un intenzionalista, anzi un intenzionalista radicale, sostenitore di una teoria «telepatica» della genesi del presunto «processo di distruzione». Di fatto, egli era un cripto-intenzionalista, fautore di una sorta di metafisica della storia che era preordinata da secoli allo sterminio degli Ebrei come «punto di arrivo di un’evoluzione ciclica» (p. 6) e nella quale i Tedeschi erano predestinati allo sterminio ebraico:
«L’idea di sterminare gli Ebrei aveva preso corpo in un lontano passato. Se ne può rintracciare un’allusione ancora molto velata nella lunga omelia di Martin Lutero contro gli Ebrei. Lutero li paragonava al Faraone ostinato dell’Antico Testamento:“Mosè - diceva - non poté emendare il Faraone né con i flagelli né con i miracoli, nemmeno con le minacce e le preghiere; fu costretto a lasciarlo inghiottire dal mare”. Nel corso del XIX secolo, la suggestione di una distruzione totale si insinuò, assumendo una forma più precisa e definita, all’interno di un discorso pronunciato al Reichstag dal deputato Ahlwardt. Gli Ebrei come i Thungs, dichiarò Ahlwardt, erano una setta melefica che bisognava “sterminare”» (p. 417).
Questi «parallelismi storici» costituivano per Hilberg dei «precedenti del processo di distruzione»(p. 29), anzi, una vera e propria «strada della distruzione» che era stata «tracciata nei secoli passati», ma si era interrotta «a metà percorso» (p. 12).
L’«evoluzione ciclica» ad esso preordinata si svolse in tre fasi:
«Dopo il quarto secolo della nostra era, si manifestarono in successione tre politiche antiebraiche: quella della conversione, quella dell’espulsione e quella dell’annientamento. La seconda comparve in sostituzione della prima e la terza della seconda» (p. 6).
La terza fase, quella del presunto annientamento nazionalsocialista, riproduceva a sua volta questo schema teleologico, in quanto Hilberg considerava «definizione», «espropriazione» e «concentramento» come stadi del «processo di distruzione» (p. 81, 163), che nella sua opera diventa una sorta di automatismo impersonale che procedeva per forza propria:
«La distruzione degli Ebrei non fu accidentale. Nei primi giorni del 1933, quando il primo funzionario redasse la prima definizione di “non ariano”, il destino del mondo ebraico europeo fu segnato» (p. 1124).
Queste fisime metastoriche si addicono più a un teologo che a uno storico e ciò giustifica pienamente il relativo giudizio di Faurisson riguardo a Hilberg.
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