martedì 28 luglio 2009

B. Censimento dei villaggi palestinesi distrutti: 11. Daliyat al-Rawha, ora coperto dal parco di Ramat Menashe.

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I Lettori di “Civium Libertas” sono invitati a collaborare alla redazione di un Memoriale nominativo dei singoli villaggi distrutti durante la pulizia etnica del 1948.

Ho consultato i grandi dizionari del De Mauro e del Battaglia per ricostruire il significato lessicale del termine ‘perfidia’ o del suo aggettivo ‘perfido’. Viene rilevato innanzitutto l’elemento della cattiveria e della malvagità congiunta ad intimo godimento, ma non è sottaciuto l’elemento dell’inganno, della frode, della disonestà intellettuale, che io invece sono portato a mettere in primo piano quando uso questi termini. Anche nella liturgia cattolica si usava fino a non molto tempo fa l’espressione “perfido ebreo”, che è poi stata tolta dopo l’assalto condotto dal B’naï B’rith alla chiesa cattolica, i cui vertici sono oggetto di un trattamento analogo a quello che l’AIPAC usa con successo verso quanti in America aspirano a candidarsi ad una qualsiasi pubblica ed a fare carriera politica.

Links:
1. All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948.
2. Institut for Palestine Studies. The most reliable sorce of information and analysis on Palestinian affair and the Arab-Israeli conflict.



10. Hubeiza 11. 12. Burayka

Daliyat al-Rawha

1. Un parco per nascondere sei crimini. – Ma perché ho iniziato con uno studio lessicale sul termine ‘perfidia’? Perché odo spesso la propaganda israeliana rinfacciare ad Ahmadinejad la sua intenzione di voler cancellare Israele dalla carta geografica, cosa che in realtà Ahmadinenjad non avrebbe mai detto, anche perché se l’accusa vuole evocare un olocausto nucleare, ne farebbero le spese proprio quei palestinesi di cui invece Ahmadinejad è indicato come protettore, palestinesi che quindi fungono da scudo umano a vantaggio degli ebrei russi che sono andati ad occupare la Palestina ed a cercarvi quel benessere economico e quella libido dominandi che non trovavano in Russia. Ma diamo subito un brano di Ilan Pappe che meglio illustra il senso della nostre riflessioni:
A sud di Biriyya si estende il parco di Ramat Menashe. Ricopre le rovine di Lajjun, Mansi, Kafrayn, Butaymat, Hubeiza, Daliyat al-Rawha, Sabbarin, Burayka, Sindiyana e Umm al-Zinat. Proprio al centro del parco ci sono i resti del villaggio distrutto di Daliyat al-Rawha, ora ricoperto dal kibbutz Ramat Menashe del movimento socialista Hashomer Ha-Tza’ir, e sono ancora visibili le rovine delle case fatte esplodere2 del villaggio di Kafrayn. Il sito web del JNF illustra la mescolanza di natura e habitat umano nella foresta quando ci dice che al suo interno ci sono “sei villaggi”. Il sito usa la parola ebraica kfar, molto atipica per ‘villaggio’, riferendosi ai kibbutz nel parco e non ai sei villaggi che giacciono sotto il parco - un espediente linguistico che serve a rafforzare il palinsesto metaforico qui in atto: la cancellazione della storia di un popolo allo scopo di scriverei sopra quella di un altro3.
Il sito del JNF dice che la bellezza e il fascino di questo luogo sono “impareggiabili”. Uno dei principali motivi sta nel paesaggio stesso, con i suoi bustans e le sue rovine del “passato”, ma dietro a tutto ciò c’è un progetto generale che fa di tutto per mantenere i contorni di uno scenario naturale. Qui, per di più, la natura ha quel “particolare fascino” a causa dei villaggi palestinesi distrutti che il parco ricopre. Il tour nel parco, virtuale o reale che sia, guida dolcemente il visitatore da un punto all’altro, e tutti hanno nomi arabi: sono i nomi dei villaggi distrutti, ma qui sono presentati come luoghi naturali o geografici che non tradiscono alcuna precedente presenza umana. La ragione per cui ci si sposta così facilmente da un punto all’altro viene attribuita dal JNF a una rete di strade che furono lastricate nel «periodo inglese». Ma perché gli inglesi si preoccuparono di lastricare le strade? Certo per collegare meglio (e quindi controllare) i villaggi esistenti, ma è molto difficile, se non impossibile, ricavare questo dato dal testo. Tuttavia quésto sistema di cancellazioni non può mai essere infallibile. Per esempio, il sito web del JNF offre indicazioni che non si trovano sui cartelli sparsi nei sentieri del parco. Tra le numerose rovine che punteggiano il luogo, la «sorgente del villaggio» (Ein ha-Kfar) è consigliata come «la zona più tranquilla». Spesso una fonte si trova al centro, vicino alla piazza, come qui a Kafrayn, le cui rovine ora non solo offrono «pace alla mente» ma servono anche al bestiame del vicino kibbutz Mishmar HaEmek come luogo di riposo lungo il percorso verso i grandi prati più in basso.
I. Pappe, op. cit., 275-276.
Note:
2. All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948, a cura di Walid Khalidi, p. 169.
3. In ebraico israeliano, kfar significa normalmente ‘villaggio palestinese’, cioè, non sono villaggi “ebraici” poiché l'ebraico usa invece yishuvim (‘insediamenti’), (kibbutzim, moshavim ecc.
Dunque, non vi è minimo dubbio che siano stati proprio gli israeliani, ovvero in gran parte gli ebrei russi sionistizzati, che hanno già fatto loro nel 1948 e anni successivi ciò che rimproverano ad Ahmadinjad di voler fare: cancellare qualcuno dalla carta geografica. Hanno raso al suolo oltre 400 villaggi palestinesi, in pratica mezza Palestina, e ne hanno obliterato il nome sulla geografica sostituendolo con nomi ebraici. Loro che insultano gli storici revisionisti come “assassini della memoria” hanno invece fatto di tutto non solo per cancellare la memoria di un popolo, ma con legge in Israele e nei paesi soggetti all’influenza delle Israel lobbies impongono per un verso la “memoria” che essi vogliono e prescrivono penalmente l’oblio della Nakba ovvero dei crimini dove essi stessi sono coinvolti. Questa è perfidia in grado eminente ed ha fatto molto male la chiesa cattolica a togliere dalla sua liturgia un’espressione che era il frutto di una saggezza secolare, anzi millenaria.

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