lunedì 20 luglio 2009

Carlo Mattogno: Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodologia. – Cap V § 1.1: Intenzionalisti e funzionalisti.








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Rinvii:
Testo integrale - Graf -

CAPITOLO V
Hilberg e le conoscenze della storiografia olocaustica
sul Führerbefehl all’inizio degli anni Ottanta.
Bilancio di due convegni storici.

1.1.
Intenzionalisti e funzionalisti


Il convegno fu organizzato per far fronte al progredire della storiografia revisionistica, come scrisse senza mezzi termini nella prefazione dell’opera François Furet, uno degli organizzatori:
«La nostra idea iniziale era semplicissima. Cioè che era tempo, e anche più che tempo, quarant’anni o quasi dopo la seconda guerra mondiale, di riunire in un libro ciò che gli specialisti sanno su uno degli episodi più tragici di questa guerra: il genocidio nazista degli Ebrei. Al pari di altri, io ero stato sorpreso e urtato dai tentativi fatti da piccoli gruppi partigiani di rimettere in causa la materialità dei fatti o almeno di banalizzarne l’importanza. Ma l’indignazione non costituisce conoscenza e, come il pregiudizio e lo spirito partigiano, può perfino ostacolarla. Bisognava dunque dare la parola a coloro che avevano dedicato l’essenziale della loro attività alla ricerca storica sul nazismo, la seconda guerra mondiale e la “soluzione finale” del problema ebraico. Come si dice nel gergo professionale, era giunto il momento di fare “il punto della questione”. Donde l’iniziativa del convegno organizzato dall’ École des Hautes Études en sciences sociales all’inizio di luglio del 1982» (596).

Saul Friedländer sottolineò che
«dalla fine degli anni Sessanta, la storiografia sul nazionalsocialismo, soprattutto nella Germania Federale, si divide - implicitamente o esplicitamente - in due campi opposti: “intenzionalisti” e “funzionalisti”. Per gli intenzionalisti c’è una relazione diretta tra ideologia, pianificazione e decisioni; quanto alla centralità assoluta del decisore supremo, Adolf Hitler, essa è evidente a tal punto che per Klaus Hildebrand, per esempio, “non si deve parlare di nazionalsocialismo, ma di hitlerismo”. La posizione funzionalista, invece, implica che non c’è una relazione necessaria tra le premesse ideologiche e l’azione politica, che le decisioni sono l’una in funzione dell’altra - a causa dell’interazione costante di istanze semiautomatiche che limitano parimenti il ruolo del decisore supremo -, e che queste decisioni assumono l’aspetto di una politica voluta e coerente soltanto a posteriori. In breve, l’immagine di un sistema in cui l’essenziale dipendeva dalla volontà di Hitler di fronte a quella di una policrazia più o meno anarchica. L’opposizione di queste due tesi appare in modo particolarmente chiaro quando ci si rivolge all’interpretazione della politica nazista nei confronti degli Ebrei» (597).

Mentre infatti la posizione intenzionalista afferma «la continuità tra l’ideologia degli inizi e lo sterminio finale» (598), quella funzionalista, che presenta a sua volta aspetti contrastanti, è riconducibile al comun denominatore che lo Stato nazista rappresentava un sistema in gran parte caotico in cui le decisioni maggiori erano spesso la risultante delle pressioni più varie, senza che ci fossero necessariamente pianificazione, previsione o ordini chiari provenienti dall’alto» (599).
Nella relazione presentata al convegno di Parigi, di cui quella che appare negli atti è una rielaborazione posteriore, S. Friedländer rilevò l’infondatezza di entrambe le posizioni:
«Né la tesi della inesorabile continuità e di una pianificazione dello sterminio totale degli Ebrei prima dell’attacco contro l’URSS, né quella della discontinuità e dell’improvvisazione possono in realtà essere dimostrate allo stato attuale delle fonti: è la conclusione cui giungono Krausnick e Wilhlem al termine del loro studio monumentale sugli Einsatzgruppen. È egualmente la sola conclusione che ci sembra plausibile a questo stadio» (600).


Egli delineò poi un «quadro delle acquisizioni della storiografia» olocaustica in cui ammise:
«La questione della data in cui fu deciso lo sterminio fisico totale degli Ebrei, così come il problema dell’ elaborazione del piano di “soluzione finale”, restano irrisolti» (601).

Il testo rielaborato che compare negli atti del convegno non contiene questa franca ammissione della vacuità del relativo dibattito storiografico, ma il problema fondamentale dell’ordine di sterminio vi appare parimenti irrisolto:

«Oggi nessuno storico crede più che un tale ordine sia stato dato per iscritto. In forma orale si poteva trattare sia di una istruzione diretta di Hitler a Göring o a Himmler, sia, più probabilmente, di una allusione chiara, compresa da tutti» (602).

L’interpretazione di Martin Broszat era assai più radicale: «non ci fu mai un ordine generale concernente lo sterminio degli Ebrei» (603).
Quanto a Friedländer, egli tentò una sintesi delle due posizioni opposte: riconoscendo da un lato che il funzionalismo «risponde meglio dell’intenzionalismo alle concezioni della storiografia contemporanea»; sostenendo dall’altro che, nella politica ebraica, nessuna decisione importante fu presa all’insaputa di Hitler (604). Ma la sua conclusione dell’«esistenza di un piano globale di sterminio degli Ebrei d’Europa nell’autunno del 1941» (605) era una mera congettura al pari di quelle dei suoi colleghi.
Eberhard Jäckel sostenne la tesi radicale intenzionalista, secondo la quale, sin dagli anni Venti, Hitler era orientato verso una soluzione cruenta della questione ebraica. Egli partiva dall’analisi del passo fondamentale del «primo documento politico di Hitler», la lettera all’amico Gemlich del 16 settembre 1919:

«L’antisemitismo fondato su motivi puramente sentimentali troverà la sua espressione finale sotto forma di progrom [sic]. Al contrario, l’antisemitismo della ragione deve condurre ad una lotta legale metodica e all’eliminazione [Beseitigung] dei privilegi che l’Ebreo possiede a differenza degli altri stranieri che vivono tra di noi (legislazione degli stranieri). Ma il suo obiettivo finale e immutabile deve essere l’eliminazione [Entfernung] (606) degli Ebrei in generale» (607).

Jäckel commentò così questo passo:
«Quali misure proponeva Hitler? È evidente che questa è la questione più importante. Niente pogrom né eccessi. Bisogna procedere in modo legale e programmato. Hitler distingueva due fasi. Anzitutto, bisognava assoggettare gli Ebrei alla legislazione degli stranieri, ritirare loro i diritti civili, trattarli conformemente a ciò che erano realmente: degli stranieri. Poi, eliminarli semplicemente. Hitler non ha chiarito questo concetto di eliminazione, da allora ripetuto incessantemente. Ciò che almeno si può dire, è che egli voleva la loro emigrazione o la loro espulsione fuori della Germania; ma non è escluso che egli abbia già pensato al loro sterminio» (608).

Questa ipotesi sarebbe confermata dal Mein Kampf, in cui Jäckel riscontrava «una radicalizzazione francamente mostruosa delle misure raccomandate nella lotta contro gli Ebrei»:

«L’eliminazione degli Ebrei reclamata fino ad allora, diventava, pur conservando in parte il termine di eliminazione, l’annientamento, l’estirpazione degli Ebrei e, del tutto apertamente, la loro liquidazione fisica, la loro uccisione. Anche se Hitler si era immaginato questa soluzione anteriormente, forse in modo inconscio, la proclamò pubblicamente per la prima volta qui» (609).

La tesi propugnata da Jäckel fu confutata da un altro partecipante al convegno, Karl A. Schleunes, il quale, nella sua relazione sulle «politiche naziste verso gli Ebrei» tra il 1933 e il 1939, si occupò dello stesso argomento. Egli riassunse anzitutto la tesi intenzionalista:
«Quando Hitler divenne cancelliere nel 1933, aveva delle idee precise sul modo di regolare la questione ebraica? Auschwitz è il frutto di un disegno chiaro e netto? Oppure Hitler, come pensano certuni, aveva definito i suoi obiettivi ancor prima del 1933? Sin dal 1919, del resto, prima di aderire al partito operaio tedesco, egli aveva espresso a uno dei suoi superiori le sue idee sul problema ebraico e la sua opinione secondo la quale un “antisemitismo razionale” doveva avere come scopo “la scomparsa totale degli Ebrei” (610). Nel 1924, quando scrisse Mein Kampf, egli disponeva evidentemente di una completa “Weltanschauung” [visione del mondo] razzista, il cui carattere dominante era l’antisemitismo. Nel Mein Kampf figura perfino la gasazione degli Ebrei. Hitler vi scrisse: “Se la Germania avesse posto, durante la guerra mondiale, dodicimila o quindicimila Ebrei [...] corruttori del popolo sotto gas asfissianti”, affinché provassero le stesse sofferenze dei soldati tedeschi sul campo di battaglia, allora i sacrifici del fronte “non sarebbero stati vani”. L’idea che Hitler conoscesse sin dall’inizio, forse dal 1919, le grandi linee della politica ebraica, è stata ragguardevolmente sostenuta da Lucy Dawidowicz nel suo libro The War against the Jews 1933-1945 (1975). A sostegno della sua tesi, ella cita una lettera di Hitler del 1919 (611), dei passi significativi di Mein Kampf e numerose altre allusioni agli Ebrei fatte da Hitler prima che divenisse cancelliere. Per lei ognuna di queste affermazioni “prefigura le realtà politiche della dittatura hitleriana [...]”. Quando questi testi si leggono alla luce del monito ulteriore di Hitler del 30 gennaio 1939, nel quale dichiarava che, se gli Ebrei “riuscissero a gettare di nuovo le nazioni nella guerra mondiale”, il risultato sarebbe “la liquidazione (612) della razza ebraica in Europa”, diviene ancora più verosimile che la “soluzione finale” costituiva il risultato inevitabile di un progetto gigantesco» (613).

Schleunes sosteneva invece che una intenzione o un progetto di sterminio ebraico non era mai esistito non solo fin dagli anni Venti, ma neppure nel periodo che va dal 1933 al 1939:

«Hitler, o qualunque altro capo nazista, aveva nel gennaio 1933 o ancora prima un’idea chiara dei fini di una politica ebraica? I fatti sembrano dimostrare il contrario».

La retorica antiebraica costituiva indubbiamente fin dall’inizio il tema centrale della propaganda nazista,
«ma, nel 1933, per non parlare del 1919 o del 1925, nessuno immaginava ancora dove questa energia avrebbe potuto condurre. Durante i primi sei anni del potere di Hitler non si può parlare di una politica ebraica nazista, ma piuttosto di molte politiche ebraiche, le quali, lungi dall’essere coordinate, spesso si contraddicono, e nessuna delle quali è veramente ufficiale. Solo nel 1939, come contraccolpo delle difficoltà causate dalla notte dei cristalli, si vede apparire nella politica ebraica una misura di coordinazione che ha il marchio di Adolf Hitler stesso. Sino ad allora, la politica ebraica era stata oggetto di rivalità tra i capi nazisti, la posta di una selvaggia lotta interna per il potere in cui erano permessi tutti i colpi. In questa guerra ebbero il sopravvento i meno adatti, cioè, nel 1939, in particolare la SS, aiutata dal SD» (614).

Questa molteplicità di politiche dipendeva dal fatto che
«quando i nazisti arrivarono effettivamente al potere, circa otto mesi dopo, la politica ebraica non ricette affatto la priorità che ci si sarebbe potuti attendere alla luce delle considerazioni ideologiche» (615).

In questi primi anni l’azione di Hitler fu soltanto restrittiva e indicativa:
«Una soluzione del problema ebraico mediante una politica coordinata e centralizzata non gli sembrava una priorità sufficientemente importante per incaricarne specificamente qualcuno; egli non espresse neppure idee personali su ciò che avrebbe implicato questa soluzione» (616).

La politica unitaria che si delineò nel 1939 mirava all’emigrazione e all’espulsione degli Ebrei dalla Germania. Sin dal 1934, le SS, in un Rapporto sulla questione ebraica, avevano proposto di «organizzare l’emigrazione in massa degli Ebrei fuori della Germania». Veniva anche prospettata l’idea di incoraggiare negli Ebrei il sentimento sionista per indurli ad andarsene.
«La SS assunse il controllo totale dell’emigrazione ebraica (e in pari tempo della politica ebraica) solo nel 1939, quando Hitler la incaricò di organizzare questa emigrazione in tutto il Reich».

Questo incarico fu la conseguenza del successo conseguito dalle SS in Austria, in particolare da Adolf Eichmann, che nei mesi successivi all’Anschluss organizzò l’emigrazione di quasi un quarto degli Ebrei austriaci.
«L’emergere di Eichmann come figura importante della politica ebraica è una delle prove migliori del fatto che la soluzione finale non fu il risultato di un progetto grandioso, maturato a lungo» (617).
Alla luce di questa politica di emigrazione, riteneva Schleunes, le espressioni minacciose di Hitler degli anni 1938 e 1939 vanno interpretate in senso puramente metaforico:
«Alla fine del 1938 e all’inizio del 1939 si parlava molto di una soluzione imminente del problema ebraico. “Il problema sarà risolto presto”, disse Hitler al ministro della Difesa del Sudafrica, Oswald Rirow, il 24 novembre 1938. Alcune settimane dopo, egli confidava al ministro degli Esteri ceco Chvalkovski: “Noi stiamo per distruggere gli Ebrei” (618). Essi non se la caveranno così dopo aver fatto il 9 novembre 1918. Per loro è venuto il giorno della resa dei conti”. E il 30 gennaio 1939 egli dichiarò al Reichstag che la guerra, se mai fosse scoppiata, avrebbe avuto come risultato “l’annientamento della razza ebraica in Europa”. Hitler voleva parlare di una reale distruzione fisica? Senza dubbio ancora no, sebbene la perversità della sua retorica vi conducesse direttamente. Eberhard Jäckel ha fatto notare che, sulla bocca di Hitler, la parola eliminazione non significava sempre eliminazione fisica. Abbondanti prove indicano che, per tutto l’anno 1939, i nazisti vedevano sempre nell’emigrazione il mezzo per rendere la Germania “judenfrei” (pura da Ebrei). Il 24 gennaio 1939, una settimana prima del discorso di Hitler al Reichstag tanto spesso citato, Göring affidava a Reinhard Heydrich la coordinazione di una emigrazione accelerata degli Ebrei. Heydrich assistette, al ministero dell’Aeronautica, alla riunione che seguì la Kristallnacht (notte dei cristalli) e vi colse l’occasione per glorificare i successi di Eichmann in Austria. Bisognava ora estendere i metodi di Eichmann alla Germania. Dall’interno della SS, Heydrich mise a capo del nuovo Ufficio centrale per l’emigrazione ebraica un responsabile della Gestapo, Heinrich Müller. Uffici simili a quello istituito da Eichmann a Vienna dovevano essere creati a Berlino, Breslavia, Francoforte sul Meno e Amburgo» (619).

La politica di emigrazione, rilevò Schleunes, fu perseguita, con successo sempre minore, anche dopo lo scoppio della guerra, finché le vicende belliche non imposero il suo abbandono:
«Se i piani di emigrazione non avevano potuto seguire il ritmo delle annessioni di Hitler in tempo di pace, essi si disintegrarono quasi completamente quando scoppiò la guerra, nel settembre 1939. La guerra si era estesa più di quanto Hitler avesse creduto, oltre al fronte orientale, a un fronte occidentale inatteso. Un ultimo piano di emigrazione, detto “piano Madagascar”, dominò ancora per qualche tempo la politica ebraica. Riassumendo, il programma, che proveniva dal ministero degli Esteri, prevedeva che la Francia avrebbe ceduto il Madagascar che sarebbe divenuto così disponibile per l’emigrazione ebraica. L’insediamento sarebbe stato poi finanziato dai beni ebraici sequestrati dai nazisti in Europa. Himmler e Heydrich trovarono l’idea accettabile, perché era previsto che il Madagascar sarebbe stato governato dalle SS. Questo progetto restò lettera morta. La guerra gli tolse quasi ogni possibilità di successo, come pure a qualunque altro piano di emigrazione. La conquista della Polonia pose almeno 3 milioni di Ebrei nell’orbita nazista! La loro emigrazione o espulsione, malgrado le grandiose visioni di Rosenberg, erano ormai fuori questione» (620).

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