giovedì 29 ottobre 2020

Teodoro Klische de la Grange: Moralina, legalina ed etica politica



MORALINA, LEGALINA ED ETICA POLITICA

1.0 È risaputo che politica e morale (spesso) non vanno d’accordo; lo è parimenti che accusare i propri nemici di essere immorali o amorali è tra i più impiegati topos della propaganda. Ed è altrettanto diffuso ritenere che tra politica ed etica possa esservi antitesi inconciliabile; di guisa che per mostrarsi di una qualità etica superiore, si auspica l’antipolitica[1].

A leggere, tra gli altri Croce, questi scrive delle varie forme dell’attività umana e di come l’una tenda a sottomettere l’altra. E ricorda[2] che la schietta politica non distrugge, ma anzi genera la morale[3]. Proprio perché (l’esistenza e) l’attività umana non è possibile se non nella sua interezza[4], sostiene “E l’uomo morale non attua la sua moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica”. Ciò significa accettarne i mezzi. Ed è proprio “L’amoralità della politica, l’anteriorità della politica alla morale fonda, dunque, la sua specificità e rende possibile che essa serva da strumento di vita morale”.

A Max Weber dobbiamo, nella ricerca di un’etica politica, la distinzione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità[5].

La conseguenza è che chi agisce secondo la prima sarà auto-assolto da possibili insuccessi “Se le conseguenze di un’azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l’agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali”. Al contrario “chi invece ragiona secondo l’etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto… di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla”, assumendosi così la responsabilità del proprio operato[6]. Weber, in modo non dissimile da Croce, riteneva che “L’etica religiosa si è variamente adeguata al fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse tra loro” (i corsivi sono miei).

Da ciò deriva che spesso l’etica delle religioni ha adattato all’attività dell’uomo le regole da osservare. Così, per il cristianesimo “accanto al monaco che non può versar sangue altrui e non può trarre profitti, vi sono il pio cavaliere e il borghese, dei quali l’uno va esente dal secondo di quei divieti e l’altro del primo”[7].

Dato che la politica è caratterizzata dall’uso della forza è questa che “determina la particolarità di ogni problema etico della politica”. L’apparato di potere (i seguaci o l’aiutantato, come lo chiamava Miglio) ha bisogno di “bottino, potenza e prebende. Il successo del capo dipende…dal funzionamento di questo suo apparato”[8]; il che comporta l’uso di mezzi per lo più non commendevoli o comunque estranei all’etica (della convinzione). Quindi l’etica della convinzione è del tutto irrealistica e politicamente inopportuna? Non del tutto, sostiene Weber perché “la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione”[9]. Senza il riferimento ad un progetto, valori, al “regno dei fini”, la politica diventa un mestiere. Determinare quanto sia opportuno seguire l’una o l’altra etica è difficile da fare a priori. Perché, conclude Weber “l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione alla politica (Beruf zur Politik)”.

2.0 C’è nell’etica della responsabilità un elemento decisivo: che tiene in una considerazione prevalente l’interesse degli altri. È un’etica “sociale” per natura; è pensabile (pienamente) in relazione alla cura d’interessi non propri.

Se, come nel caso, poi la si applica alla politica, occorre tener conto cosa la politica è; e cosa l’istituzione politica – ossia, nella modernità, lo Stato – e per esso i governanti debbano curare. Freund definisce la politica “come l’attività sociale che si propone d’assicurare con la forza, generalmente fondata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di un’unità politica particolare garantendo l’ordine tra i conflitti nascenti dalla diversità e dalla divergenza d’opinioni ed interessi[10].

Il pensatore francese per stabilire quale ne sia il fine specifico, parte da Aristotele; per il quale ogni attività umana ha un fine particolare (la salute del paziente per il medico; la vittoria in guerra per lo stratega, e così via). Lo scopo della politica (e dell’uomo politico) è il bene comune, definito come quello “della Repubblica (cioè dell’istituzione) o del popolo che formano insieme una collettività politica”[11]. Desumendone i caratteri essenziali da Hobbes, il bene comune consiste nella protezione contro i nemici, nella pace, nel benessere e nel godimento d’un’innocente libertà[12]. Il bene comune è sempre il fine, ma gli obiettivi da raggiungere per assicurarlo variano a seconda della situazione concreta.

Coniugando l’etica “di settore” al fine della politica ne consegue che l’etica del governante prescrive di tutelare e perseguire il bene comune e cioè l’interesse generale (come – per lo più – denominato nei moderni testi costituzionali).

Il fatto che poi il governante non sia sotto il profilo della morale “privata” uno stinco di santo – e di solito non lo è – è irrilevante (o poco rilevante).

Come scrive Croce in un passo  tante volte ripetuto – è “l’ideale che canta nelle anime di tutti gli imbecilli”, di auspicare un governo d’onest’uomini, salvo poi, vistane l’inettitudine a guidare lo Stato, rovesciarlo; perché l’onestà politica “non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria  insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze” (il corsivo è mio). Lo stesso Montesquieu nell’Avertissement all’Ésprit de lois, temendo la confusione tra virtù privata e virtù pubblica (assai vicina all’oggetto qui trattato) chiarisce che parla di questa, come la molla (ressort) che da movimento al governo repubblicano.

3.0 Un problema analogo si è presentato, limitandosi all’epoca moderna senza voler risalire nel tempo (giacché se ne legge già nella Farsaglia di Lucano)[13], nel contrasto tra norma giuridica e interesse generale o, meglio, “ragion di Stato”. Dove il contrasto più evidente è nello Status mixtus democratico-liberale (o borghese) perché coniugante principi di forma politica con i principi dello Stato borghese di diritto, tra i quali emerge la soggezione alla legge (anche) del potere esecutivo, che renderebbe invalida, se coerentemente applicata, la deroga alla legge. Cosa che potrebbe compromettere la stessa esistenza della comunità politica e dell’istituzione che la mette in forma. Per cui nelle costituzioni borghesi sono previste forme di deroga: dallo stato d’eccezione e dalle rotture costituzionali, fino alle eccezioni della giurisdizione (per gli Acts politiques) e ai giudizi penali speciali (per funzionari e politici). Si sostiene che  certe deroghe ledono il principio d’uguaglianza: ma il carattere dell’istituzione politica, come si legge all’inizio dei manuali di diritto pubblico e costituzionale, è che i rapporti relativi sono tra soggetti giocoforza disuguali (per funzione): tra chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di obbedire.

Senza tale disuguaglianza non può esistere unità politica, che è in primo luogo, unità del comando e dell’esecuzione.

4.0 Nella contemporaneità, quanto alla morale, è stato affermato che quella derivante dal “pensiero unico” è moralina “un concetto il cui nome rimanda, da una parte, alla morale e, dall’altra, grazie al suffisso impiegato, a tutte quelle sostanze che danno dipendenza, sostanze eccitanti e tossiche come l’anfetamina” il cui effetto è “che contamina queste stesse fonti con un manicheismo capace solo di opporre il bene al male, i buoni ai cattivi, il vero al falso, l’informazione all’intossicazione”[14]. In Italia accanto – e non ben distinta – dalla moralina, si è affermata, per così dire, la legalina, cioè una concezione della legalità che ne costituisce la caricatura (e spesso la strumentalizzazione).

I fondamenti della legalina sono: la soggezione di tutti alla stessa legge; l’inammissibilità delle procedure di deroga previste dall’ordinamento; la percezione strabica delle stesse deroghe, spesso incidenti su diritti che con la politica hanno meno a che fare, mentre ne hanno con la soggezione a decisioni e prassi burocratiche; la mancata considerazione che quelle deroghe appartengano alla natura dell’istituzione politica, la quale genera un proprio diritto – una propria giustizia, connotati fondamentalmente dell’ineguaglianza tra le parti, cioè la Temi di Hauriou (correlata al droit disciplinaire)[15], contrapposta a Dike (correlata al droit commun). Scriveva il giurista francese, in relazione all’aspirazione di voler sottomettere lo Stato al diritto che nell’ordinamento inglese (così privatistico) c’è una prospettiva che inganna (trompe-l’oeil) nell’asserita soggezione degli amministratori pubblici alla legge: lo sono per le piccole cose, ma i grandi affari di governo restano fuori dal diritto[16]. Per cui questa aspirazione rimane sempre relativamente realizzabile: perché se lo fosse integralmente distruggerebbe l’istituzione (e la comunità). La politica risponde alla massima salus reipublicae suprema lex (l’esistenza politica prevale sul diritto), la giustizia su fiat justitia pereat mundus (fare giustizia a costo dell’esistenza)[17].

Tale alternativa è decisiva per le conseguenze che può avere: valutare una scelta secondo criteri politici e non morali porta (spesso) alla distruzione e ancor più frequentemente alla decadenza dello Stato e della comunità: vale sempre il giudizio sulla bontà politica di Machiavelli: “perché un uomo che voglia fare in tutta la parte professione di buono, conviene ruini fra tanti che non sono buoni”. Giustamente Hegel, sosteneva che “lo stato non ha nessun dovere più alto della conservazione di se stesso” e ne deduceva che “E’ un principio noto e risaputo che questo interesse particolare è la considerazione più importante; e non è lecito ritenerla in contrasto con i doveri i diritti o la moralità perché anzi ogni singolo corpo statale, essendo uno stato particolare, è tenuto a non sacrificarsi per un universale dal quale non può aspettarsi alcun aiuto: piuttosto, il principe di uno stato territoriale come il consiglio comunale di una città imperiale hanno il sacro dovere di preoccuparsi del loro territorio e dei loro sudditi[18] (il corsivo è mio).

5.0 In particolare la normazione relativa ai migranti del Governo Conte (1), fortemente voluta dall’allora Ministro Salvini, ha offerto una vasta casistica di affermazioni, riconducibili alla legalina. Il cui fondamento esegetico (principale) è trovare una qualche norma (regolamentare, legislativa, costituzionale, interna, internazionale, consuetudinaria, pattizia, eccezionale ecc. ecc.) che possa fornire un appiglio alla tesi preferita.

Il che spesso non è difficile, attesa la pletora di norme. Ma, dato che lo stesso problema si pone in tante interpretazioni giuridiche l’interpretazione preferibile è quella che non contrasta con il sistema, con l’ordinamento. Applicando così due noti principi enunciati in frammenti del Digesto[19].

Così è stato affermato da un noto giornalista, che non fermarsi all’alt della guardia costiera  è legale, perché il diritto di sbarcare in Italia sarebbe garantito dalla Costituzione (da quale articolo?); altrove si legge che un ex Sindaco ha detto “Nessuno deve evitare un processo se accusato di aver commesso reati e questo deve valere anzitutto per un uomo politico… non ci si deve nascondere dietro i ruoli politici e istituzionali per avere immunità particolari” (e allora la legge sull’accusa ai Ministri dov’è finita?). Ma comunque non è giusto, continua l’ex Sindaco perché “Salvini da Ministro dell’interno ha avuto un comportamento inaccettabile, che  io considero un reato a livello umano e morale e anche politico; vedremo se i giudici riterranno che si sia trattato anche di un reato penale” né si può ridurre, sempre a giudizio dello stesso, il problema a questione d’ordine pubblico che è il principale compito del Ministro degli interni (se no, che ci sta a fare?).

Un gruppo di giuriste dell’Università di Torino ha poi equivocato sui fatti affermando che Salvini impediva “azioni umanitarie” (cioè i soccorsi in mare); in realtà, ha solo impedito l’ingresso nelle acque territoriali e i successivi sbarchi nei porti italiani, soggetti (le acque e i porti) alla sovranità nazionale di cui all’art. 1, della Costituzione (come sosteneva, più di due secoli fa, l’abate Galliani – tra gli altri).

Qualcun altro la “butta” sulla distinzione tra legalità e legittimità, anche se vi sono contrapposte opinioni sul punto – essenziale - se l’ex Ministro degli interni stava dalla parte della legalità e della legittimità: coloro i quali pensano che legittimità significhi rispondenza alla volontà del popolo, ritengono che il comportamento dell’ex Ministro sia contrario alla legalità costituzionale. Quelli che concedono che la legalità sia stata rispettata, fanno appello alla legittimità dei valori costituzionali, tirandosi appresso Antigone, i monarcomachi ecc. ecc.

6.0 In un contesto confuso, tra moralina e legalina e svariate opinioni sulle medesime, c’è da chiedersi se politico “morale” sia chi rispetta i dettami della morale privata (e della legge) o colui che provvede in vista del bene comune.

Non v’è dubbio che aveva ben visto Hegel per il quale preoccuparsi del territorio e dei sudditi è un sacro dovere (v. sopra); così Croce il quale faceva coincidere l’onestà politica (cioè il perseguimento del bene) con la capacità politica e non con l’essere l’uomo politico pio e morigerato. E con l’aver ancorato la politica e lo Stato all’utile, al vivere (e al buon vivere) cioè all’esistente prima che al normativo.

Ad applicare tale criterio, l’uomo a cui si addice di più appare proprio il leader della Lega e non i moralisti e legalisti salmodianti in politicamente corretto. Con un’avvertenza: che la capacità politica non si giudica sulla conformità a buone intenzioni, ma al raggiungimento dei risultati auspicati: per averla occorre, come sostiene Machiavelli, tanta virtù (politica) cioè prudenza e intelligenza delle situazioni necessarie a battere l’avversa fortuna. Da questo e non solo dall’intenzione di seguire l’interesse pubblico (che ne è la premessa necessaria) si misura.

Teodoro Klitsche de la Grange

 



[1] La quale, a parte la propaganda, è altrettanto possibile che abolire la legge di gravità, essendo la politica connaturale all’uomo come diceva già Aristotele (zoon politikon) e ribadito da tanti, tra cui Freund con la sua teoria delle essenze. Resta da dimostrare se proprio perché l’uomo ne ha diverse, può fare a meno di qualcuna. Ora il politico, ora l’etico, ora l’economico e così via.

[2] “La politica, che è e non può essere schietta politica, non distrugge ma anzi genera la morale, nella quale è superata e compiuta. Non c’è nella realtà una sfera dell’attività politica o economica che stia da sé, chiusa e isolata; ma c’è solo il processo dell’attività spirituale, nel quale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità” , v. Etica e politica, Bari 1931, p. 228.

[3] Op. loc. cit.

[4] “Non vita morale, se prima non sia posta la vita economica e politica; prima il «vivere» (dicevano gli antichi), e poi il «ben vivere». Ma altresì non vita morale che non sia insieme vita economica e politica, come non anima senza corpo”

[5] Scrive Weber “ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l’«etica della convinzione» oppure secondo l’«etica della responsabilità». Non che l’etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione la quale – in termini religiosi – suona: «il cristianesimo opera da giusto e rimette l’esito nella mani di Dio», e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni” v. Politik als Beruf, trad. it. di A. Giolitti ne Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1966, p. 109.

[6] Weber delinea nel prosieguo alcuni tratti, in ispecie di chi segue l’etica della convinzione. Il rifiuto relativo della forza, a meno che non giustificata dalla santità dei fini. La non accettazione (almeno parziale) della realtà perché “non sopporta l’irrazionalismo del mondo; il rifiuto del paradosso delle conseguenze (Freund), cioè che buone azioni possano provocare il male (e viceversa). Ossia il contrario, dice Weber, di quanto credono tutte le religioni della terra, col problema fondamentale della teodicea (op. cit. p. 112). Già i primi cristiani, scrive “sapevano perfettamente che il mondo è governato da demoni e che chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”.

[7] Op. cit., p. 116; per un esame sommario della teologia politica cristiana si rinvia ai miei articoli Meglio Callicle, in Behemoth n. 24 e Tangentopoli tra politica morale ed etica politica in Behemoth n. 23.

[8] E prosegue “Il risultato da lui effettivamente raggiunto in siffatte condizioni del suo agire non è rimesso alla sua volontà, bensì gli è prescritto dai motivi – per lo più eticamente scadenti – ai quali s’ispira l’azione dei suoi seguaci… però questa fede, anche se soggettivamente sincera, è in gran parete dei casi semplicemente la «legittimazione» etica della brama di vendetta, di potenza, di bottino e di prebende”, op. cit., p. 116.

[9] Op. cit., p. 118.

[10] v. L’essence du politique, Paris 1965, p. 751.

[11] op. cit., p. 651. Freund afferma di seguire la concezione di Hobbes (in effetti risente anche del pensiero di M. Hauriou), e sottolinea come nel corso dei secoli lo stesso concetto sia stato denominato con diverse espressioni.

[12] op. cit., p. 652.

[13] Nel consiglio dato da Plotino a Tolomeo di non proteggere Pompeo, fuggiasco in Egitto “«lus et fas multos faciunt, Ptolomaee, nocentes; dat poenas laudata fides, cum sustinet» inquit «quos fortuna premit. Fatis accede deisque et cole felices, miseros fuge. Sidera terra ut distant et flamma mari, sic utile recto. Sceptrorum vis tota perit, si pendere iusta incipit, evertitque arces respectus honesti. Libertas scelerum est, quae regna invisa tuetur, sublatusque modus gladiis. Facere omnia saeve non inpune licet, nisi cum facis. Exeat aula qui vult esse pius. Virtus et summa potestas non coeunt »”. E Pompeo, di conseguenza, fu ucciso con l’inganno. Nel consiglio dell’eunuco c’è l’antitesi tra interesse dello Stato e l’uso di dare asilo “politico”.

[14] v. M. Onfray Teoria della dittatura, Milano 2020, p. 198.

[15] Su questa e sulla situazione inegualitaria – spesso deprecabile – della giustizia nei confronti delle pubbliche amministrazioni, mi sia consentito rinviare al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in rete (v. Italia e il mondo).

[16] v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 100.

[17] Sul punto v. Radbruch Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 116.

[18]Verfassung Deutschlands” trad. it. - in “Scritti politici” pag. 90-91, Torino 1974.

 

[19] Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula eius proposita judicare vel respondere, e Scire leges non est verba earum tenère, sed vim ac potestatem, , ambedue di Celso.

lunedì 19 ottobre 2020

"Il lupo nell'ovile”, Michéa recensito da T. Klitsche de la Grange.


Jean-Claude Michéa
, Il lupo nell’ovile, Meltemi, Milano 2021, pp. 142, € 14,00.

Scrive l’autore che nel “Capitale” Marx riteneva il mercato liberista (meglio concepito dai liberisti) “l’Eden dei diritti innati dell’uomo”. Oggetto del saggio (rielaborazione di una conferenza, integrata da 35 scolii) è, sviluppando l’affermazione di Marx, da un lato il rapporto tra mercato e diritto; dall’altro quello tra socialismo e progressismo, che ha, secondo Michéa, snaturato la sinistra, subordinandola al capitalismo, quello post-moderno soprattutto.

Michéa prende le mosse dalle guerre di religione del XVI-XVII secolo, che avrebbero generato un modo nuovo borghese di pensare la politica, fondato su due postulati. Il primo è che “l’apparente facilità con cui il legame sociale sembra così potersi spezzare sarà d’ora in poi interpretata dalle correnti dominanti della filosofia moderna come la prova che l’essere umano non è affatto l’animale politico (in altre parole, fatto per vivere in società) descritto da Aristotele e dai pensatori medievali”. L’uomo diventa l’homo homini lupus di Hobbes. Cioè un individuo indipendente, in primo luogo dai legami sociali. Il secondo “consiste nel fatto che è visibilmente impossibile che le persone si trovino d’accordo su qualsiasi definizione comune del Bene, sia essa morale, filosofica o religiosa”; da cui consegue che lo Stato dev’essere “assiologicamente neutro”.

La “superiorità filosofica dei liberali” nel pensiero moderno (rispetto alle teorie assolutistiche dello Stato) è di porre “l’esistenza collettiva sotto l’unica regolamentazione protettiva di processi senza soggetto, ovvero sistemi al tempo stesso anonimi, impersonali e basati su disposizioni puramente meccaniche di pesi e contrappesi”: ossia il mercato e il diritto (inteso à la Weber, come calcolabile e prevedibile). Al contrario cioè del sovrano, personale di Hobbes e del rapporto di comando/obbedienza quale relazione tra persone. Prevale l.’impersonalità della legge (della norma).

Peraltro se il diritto liberale prescinde dai legami comuni (cioè comunitari) è in forse la stessa esistenza della comunità.

Venuto meno ogni altro rapporto, è quello economico a fare da collante “questo perché si tratta semplicemente dell’unica forma di legame sociale (basato sul qui pro quo dello scambio contrattuale) capace di fondersi integralmente con i principi della libertà individuale e della neutralità assiologica del liberalismo politico”. L’accettazione, da parte dei partiti di sinistra dell’ideologia mercatista e dei diritti connessi, è funzionale al capitalismo, ed in particolare a quello contemporaneo.

Una sinistra (e non solo), sostiene Michéa, che omette, infatti, di come “tenere finalmente conto dell’stanza della vita comune e di distinguere quindi le libertà che rafforzano la nostra autonomia individuale e collettiva da quelle che accrescono la nostra atomizzazione”; e così difendere la libertà civile, di guisa che la difesa non possa, al contrario, essere utilizzata contro i popoli, smarrisce la propria funzione. “Non è certo continuando a voltare sistematicamente le spalle (come la sinistra fa ormai da più di trent’anni) e ciò che c’era di buono e fecondo nella tradizione socialista, anarchica e populista dell’Ottocento che un tale lavoro, divenuto oggi più che mai indispensabile, avrà la minima possibilità di essere realizzato con successo”.

Due considerazioni (tra le molte che il saggio, breve, ma ricco di idee, stimola) occorre fare.

La prima; come molti altri negli ultimi decenni, Michéa considera liberali i sedicenti tali contemporanei, moltiplicatisi a dismisura – specie in Italia – dopo l’implosione del comunismo. Il minimo che si possa dire è che tale equivalenza è ampiamente riduttiva, così da diventare fuorviante.

Al contrario di questi, il liberalismo: a) non minimizza (o annulla) il politico, col privatizzare il pubblico, col sostituire l’ostilità con il commercio, e con la giuridicizzazione o meglio la giurisdizionalizzazione del comando. Piuttosto il costituzionalismo liberale unisce in una sintesi istituzionale principi di forma politica (in particolare quella democratica) e principi dello Stato borghese (Schmitt). b) Non relativizza totalmente i valori in procedure. La libertà (meglio le libertà) fondamentali (tra cui la proprietà) non possono essere relativizzate: così il nemico (ideologico) dei liberali c’è: è quello che nega il carattere irrinunciabile delle libertà (comprimibili nello Stato d’eccezione, ma solo temporaneamente). E così nessuna procedura, giudiziaria o no, può annichilire i diritti (sostanziali) di libertà. Il liberalismo ha comunque un nocciolo duro contenutistico e non meramente procedurale.

La seconda: Michéa rileva, come tanti altri, che il turbo-capitalismo ha aumentato le differenze di reddito. Quel che è peggio, specie nei paesi sviluppati, sta impoverendo la maggior parte della popolazione, in particolare i ceti medi. Se ciò è vero – come pare vero - significa che sta creando, anzi ha creato da se la propria contraddizione: in un sistema “mercatista” la proprietà privata “classica” è nel migliore dei casi irrilevante, nel peggiore un ostacolo da rimuovere; così l’agricoltore, il commerciante, l’artigiano, il professionista sono destinati ad essere ridimensionati (o azzerati) dalle grandi imprese che sottraggono loro il mercato. Così il carico fiscale si è aggravato sui ceti medi e popolari. La spiegazione della crescita dei movimenti sovran-popul-identitari non è solo sovrastrutturale, ma anche strutturale, cioè economica (e sociale).

Un saggio come questo di Michéa contribuisce alla consapevolezza di ciò. E non è poco per raccomandarne la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange


venerdì 2 ottobre 2020

TK. L'Unione Europea e lo stato di diritto

 Teodoro Klitsche de la Grange

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO


1. Dopo essere stato messo (politicamente) in naftalina, lo “Stato di diritto”, grazie, soprattutto, all’Unione europea, è tornato alla ribalta, non solo nelle procedure d’infrazione attivate (v. Polonia ed Ungheria); ma è celebrato quale “valore fondante” dell’Europa nei discorsi dei politici (e così via). Date le mie convinzioni politiche, di tale revival non posso che essere lieto; ma, tenuto conto a) del concetto e b) della normativa europea, occorre segnalarne l’ampia possibilità di un uso improprio e strumentale.

Cominciamo col dire che dello “stato di diritto” (per non dire di concetti prossimi) i giuristi – e non solo – hanno dato tanti significati, quasi pari al numero di quelli che se ne sono occupati.

Il termine comincia ad essere usato nella dottrina (e nella politica) tedesca dalla prima metà dell’800, per connotare il nuovo tipo di organizzazione statale e di rapporti tra società civile e poteri politici. Il Rechtstaat era contrapposto al Machtstaat (e al Polizeistaat) in quanto (al minimo) limitato dal diritto (e dai diritti).

I caratteri fondamentali di tale nozione erano: la libertà degli individui, titolari di diritti insopprimibili, anche dallo Stato; la certezza (calcolabilità) del diritto; il vincolo dell’attività amministrativa alla legge; il controllo di quella da parte di uffici giurisdizionali indipendenti.

Accanto a ciò si configurava – anche se concettualmente separata - la partecipazione dei cittadini alla gestione statale e in particoilare alla legislazione. Già un coerente liberale come Constant faceva dell’esercizio solerte dei diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica - la “libertà degli antichi” - il complemento e la garanzia dei diritti di libertà dell’oppressione (anche) dello Stato[1]. Nello stesso tempo il collegamento tra prevalenza della legge sull’atto amministrativo e  partecipazione della rappresentanza nazionale (cioè dei cittadini-elettori) alla formazione della legge, faceva sì che questa fosse “trattata con indulgenza” nel senso che, a differenza degli atti del potere giudiziario ed amministrativo (sentenze e provvedimenti) non fosse assoggettata ad alcun controllo né esterno, ma neppure interno.

Non mancavano comunque concetti, in parte coestensivi, con quello di Stato di diritto. V. E. Orlando, dopo aver distinti tra forme dispotiche, semilibere e libere di governo[2], a seconda dei diritti di partecipazione alla cosa pubblica riconosciuti (e non riconosciuti) ai governati, includeva tra i fondamenti della forma di “governo rappresentativo”, la distinzione dei poteri “il governo rappresentativo si fonda principalmente sulla giuridica distinzione dei poteri e sull’appropriazione ad essi di organi determinati” e la tutela giuridica  “il governo rappresentativo attua scrupolosamente e pienamente la tutela giuridica fra i consociati (obietto del Diritto amministrativo)”.

Accanto ai quali il giurista siciliano aggiungeva due caratteri: “Il governo rappresentativo moderno si propone di curare ed attuare l’armonia esterna e costante fra i due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, non solo nel fatto, come in ogni forma di governo, ma altresì nel diritto positivo, per mezzo di istituti determinati”; ed anche la “pubblicità è finalizzata al controllo da parte dell’opinione pubblica”. La quale, secondo Schmitt era conseguenza del carattere democratico della Repubblica di Weimar[3].

Carré de Malberg, proprio come derivante dell’illimitatezza della legge, negava che, per la Francia, potesse parlarsi di Stato di diritto, ma piuttosto di État legal[4]. Tra le differenze dell’État legal rispetto all’État de droit, il giurista francese sottolineava l’impossibilità di ricorrere avversi gli atti legislativi violativi di diritti, che nell’Ésprit dello Stato di diritto avrebbero dovuto essere garantiti dalla Costituzione anche nei confronti del potere legislativo[5].

Anche M. Hauriou pensava che il controllo giurisdizionale in un paese di diritto amministrativo come la Francia si sarebbe fatta strada, e che Le règime administratif avrebbe evitato che degradasse in un governo di giudici[6].-

2. L’introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità e delle costituzioni rigide del ‘900 ha attuato l’auspicio/previsione dei giuristi francesi testé citati, ampliando l’ambito dello Stato di diritto. Peraltro, a prescindere dalla tutela giudiziaria, anche sul piano sostanziale con l’includere tra i diritti  fondamentali non solo libertà e proprietà, ma anche quelli a carattere sociale. Il Rechstaat diveniva così anche un Sozialstaat.

Con ciò il nuovo stato di diritto assumeva una connotazione (anche) di contenimento (se non di contrapposizione) del capitalismo.

Peraltro i diritti “sociali” aventi un carattere (prevalente) d’obbligo e richiedenti un’apposita organizzazione – pubblica o, almeno, regolata e controllata pubblicamente – determinavano l’espansione della presenza dello Stato; e data la “contraddittorietà” tra i diritti garantiti, la composizione del tutto richiedeva tecniche interpretative che ne conciliassero le antinomie (come il “bilanciamento”) e valorizzassero i principi costituzionali. Dallo Stato di diritto si passava così allo “Stato costituzionale di diritto”. Come scrive un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, analizzando la dottrina costituzionalista italiana più recente, riconducibile a quella concezione, si è passati così da un positivismo di norme (kelseniano) a un positivismo di valori.

Inoltre, a seguito delle dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo (v. La dichiarazione ONU dei diritti dell’uomo del 1948; Convenzione europea dei diritti dell’uomo – tra le più importanti) alcuni dei fondamenti dello Stato di diritto sono stati internazionalizzati (dandone luogo ad una “globalizzazione”). Lo Stato di diritto inotre è stato esplicitamente richiamato nel TUE (art. 2 e 21), tra i principi e i valori fondamentali dell’Unione; si legge all’art. 2 “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” e all’art. 21 “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale” (I comma); al comma II “L’unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di….b) consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale”. Con ciò lo Stato di diritto si trova in sovrabbondante compagnia (talvolta anche ridondante).

3. Da tale necessariamente breve – e limitata – esposizione consegue  che a denotare il concetto di Stato di diritto (e delimitarne così l’estensione) e ricondurre al di esso schema ideale un ordinameno statale concreto sono:

a) la garanzia dei diritti fondamentali, sia quelli “borghesi” che quelli “sociali” (almeno in parte)

b) la distinzione dei poteri. Si noti che la distinzione è attuata dalle costituzioni in modi e forme assai diverse

c) in particolare, tra le garanzie, vi sono quelle giurisdizionali, che Salandra già distingueva in dirette e indirette

d) in tale contesto rientrano anche le institutionnellegarantien, come quelle sull’indipendenza del potere giudiziario e del giudice

e) le garanzie giudiziarie (v. punto c) sono complete. Ossia nel XXI secolo, anche sugli atti legislativi, col controllo di costituzionalità; esse, per quanto possibile, devono svolgersi in condizioni di parità[7].

f) l’osservanza di condizioni eque nella formazione di organi di governo e dell’opinione pubblica.

Anche si potrebbe osservare che non rientrano in un concetto “stretto” dello Stato di diritto, ma piuttosto in quello di democrazia, appare corretta l’impostazione condivisa, tra gli altri, da Constant e Orlando  (ma anche da Gneist) che la corretta partecipazione dei cittadini alla funzione pubblica è carattere determinante dello Stato di diritto.

Tralasciamo altri aspetti, di minimo rilievo.

4. È noto che lo Stato di diritto è stato declinato in tanti modi quante sono le costituzioni che ne hanno adottato il modello o, almeno, alcuni caratteri fondamentali; ne deriva che a seconda dell’importanza che si da all’uno o all’altro profilo si rischia di escludere che un ordinamento costituzionale concreto sia uno Stato di diritto. Ad esempio nella procedura U.E. d’infrazione alla Polonia è stata contestata le limitazioni all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni[8]. Nella risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 si stigmatizzano varie violazioni allo Stato di diritto per lo più per l’invadenza del potere governativo sul giudiziario, che compromette l’indipendenza di quest’ultimo, soprattutto per la nomina (politica) di quasi tutto il CSM polacco. Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto (come scritto – per le meno influenti innovazioni polacche - nell’epigrafe della risoluzione del Parlamento europeo per la procedura d’infrazione alla Polonia).

Oltretutto, come cennato, alcuni di quei fondamenti del Rechtstaat non sono complementari o sovrapponibili senza problemi, ma potenzialmente confliggenti, in specie quando riguardano la democrazia e l’uguaglianza, le quali, oltretutto, oltre a essere parzialmente coincidenti con il concetto di Stato di diritto, sono anche esse indicate tra i “valori fondanti” dell’UE (v. art. 2 T. U.E.).

La contrapposizione tra Stati di diritto, o meglio Stati di democrazia liberali e Stati di non democrazia liberale, come i defunti Stati del socialismo reale era – per altri ordinamenti - facile, perché le differenze erano plurime.

L’assenza, in quest’ultimi, di distinzione di poteri, la garanzia di solo alcuni dei diritti fondamentali (in genere a rimetterci erano la libertà e, in larga misura, la proprietà); la dipendenza della magistratura dal potere politico, la selezione ed elezione della rappresentanza parlamentare; il ruolo di questa, e quello dirigente del Partito comunista; l’imperfetto – o totalmente carente, pluralismo politico; la mancanza di istituzioni giudiziarie di garanzia contro gli atti del potere politico-amministrativo (giustizia amministrativa e costituzionale) rendevano di inconfutabile evidenza che si trattava di forme di stato e di governo radicalmente diverse. Giudizio corroborato dalle dichiarazioni e preamboli a alle di essi costituzioni che – di solito – contrapponevano esplicitamente il loro ordinamento a quello liberal-democatico.

Il che non ricorre affatto nella procedura d’infrazione a carico di Polonia ed, ancor più, Ungheria. Qua la stessa UE scrive non di Stati non di diritto, ma di gravi violazioni dello Stato di diritto (a intenderla in un senso, sono ordinamenti in complesso accettabili ma con dei vulnera). Diversamente da quel che si legge sulla stampa antipopulista in s.p.e. ed eurolirica dalla quale si potrebbe credere che i suddetti Stati siano sintesi politiche per nulla liberali e anche non del tutto democratiche. Mentre invece, tenuto conto dell’elasticità del concetto di Stato di diritto, occorre dare un giudizio complessivo e avere la prudenza consigliata da Machiavelli che, in politica, occorre prendere “il men tristo per buono”. In effetti se pure – ad esempio – alcune innovazioni al rapporto governo/giurisdizione incidono negativamente sull’indipendenza dei giudici polacchi, e possono essere considerate violazioni gravi, oltre, come quelle elencate nei punti 54-63 della citata risoluzione del Parlamento UE sulla libertà e l’educazione sessuale, sull’intolleranza verso minoranze (soprattutto LGBT) non appaiono gravemente compromettenti lo Stato di diritto.

Piuttosto provano che l’Unione Europea, sotto l’involucro “Stato di diritto” cela una propria concezione della società e dei rapporti sociali e politici che dello Stato di diritto può essere considerata una specie (in parte); in altra estranea. D’altronde ciò emerge esplicitamente dalla risoluzione del 17 settembre 2020 sulla Polonia, laddove il Parlamento (v. punto 66) “invita il Consiglio e la Commissione ad astenersi da un’interpretazione restrittiva dello Stato di diritto…”, cioè da quella (meglio da quelle) interpretazione che non soddisfano la maggioranza parlamentare che l’ha votata.

Teodoro Klitsche de la Grange



[1] v. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. 26 ss.

[2] v. Principi di diritto costituzionale, Barbera, 1904, pp. 63 ss.

[3] v. Verfassungslehre, trad. it., di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 319 ss. Infatti Schmitt afferma “Il popolo appare solo nella pubblicità: esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”.

[4] Scrive infatti “Tandis que la législation est libre, l’administration est constitutionnellement liée ; elle ne peut s’exercer que sous l’empire des lois, qui la dominent et la limitent juridiquement ; elle est donc tenue d’obeir aux lois et de s’y conformer. C’est là une consequénce de la supériorité, en particulier de la superiorité statutaire, de la loi” Contribution à la théorie général de l’État, Tome 1, Paris 1924, p. 486 e ss; nel diritto francese la subordinazione dell’amministrazione alla legge arriva a un punto che non può esercitarsi che secundum legem (la legge è non solo il limite, ma anche la condizione di esercizio del potere amministrativo). Lo Stato di diritto è quello che “assure aux administrés, comme sanction de ces règles, un pouvoir juridique d’agir devant une autorité juridictionnelle à l’effet d’obtenir l’annullation, la réformation ou en tout cas la non-application des actes administratifs qui les auraient enfreintes” (oltre s’intende alla regolamentazione legislativa dell’amministrazione). Ma “Toute autre est le système établi par la mConstitution française en ce qui concerne la subordination de la puissance administrative à la législation » per cui compete alla repubblica francese essere denominata État legal, ossia « un État dans lequel tout acte de puissance administrative présuppose une loi à laquelle il se rattache et dont il soit destiné à assurer l’exécution”.

[5] Op. cit., p. 492.

[6] v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 266 ss. e pp. 279 ss.

[7] Com’è noto non è sempre del tutto possibile. V. sul punto rimando al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale 17/07/2018.

[8] v. La risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 sulla proposta di decisione del Consiglio sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dello Stato di diritto da parte della Repubblica di Polonia (COM(“2017)0835-2017/0360R(NLE)); in particolare i punti da 16 a 37, sul potere giudiziario.