mercoledì 27 marzo 2024

Teodoro Klitsche de la Grange: "Luigi Mazzella, Critica della follia pura (a cura di Ylva Mazzella), Genesi Editrice, pp. 421, € 18,00"

A cura della moglie Ylva sono raccolti nel volume tanti scritti di Luigi Mazzella che, quasi quotidianamente afferra l’occasione per esercitare una intensa e serrata critica agli idola contemporanei; usiamo il termine di bacone perché quello moderno, cioè fake news è stato affibbiato dai padroni della parola alle esternazioni dei loro oppositori. Il filo conduttore dei quali è la critica a convinzioni e idee che sotto l’apparenza di una razionalità (ma anche di bontà, di compassione, di umanità, ecc. ecc.) compiono le più profonde rotture col pensiero razionale e ragionevole. Scrive l’autore «la “follia” di cui io intendo parlare è quella racchiusa nelle fandonie utopiche e nei sogni irrealizzabili in questo o in altri mondi, diffusa dai “fratelli” cristiani di Erasmo e, dall’Ottocento, dai “camerati” e dai “compagni” figli del post-platonico Hegel. Più che una follia è una caligine (mediorientale e teutonica) che annebbia la ragione e induce gli Occidentali a fare scelte sbagliate». E l’autore non pensa che attualmente le ideologie se la passino tanto male, ad onta del fatto che nel secolo scorso hanno esaurito, con due colossali sconfitte rapidamente il proprio “ciclo”. Questo perché i fideismi hanno soltanto cambiato le derivazioni (scriverebbe Pareto).

Al posto della società senza classi (Marx) e del Reich millenario (Hitler) hanno innalzato idoli (e idola) nuovi: dall’ambiente (e il clima) ai diritti umani, a quelli degli animali. E questi nuovi idola vengono usati essenzialmente per indicare il nemico da combattere, caricandolo di negatività ed anche di crimini, spesso di cui non è neppure responsabile. E dietro i quali si intravede una delle regolarità del politico: quella, tucididea della lotta per il potere e il dominio dell’uomo sull’uomo.

Oltretutto con ragionamenti spesso ingenuamente (ma occultamente) irrazionali, quelli che Freund  chiamava “razioidì”. Ad esempio il cambiamento climatico che tanto preoccupa (anche) l’UE, attribuito al consumo di combustibili fossili. Ma i dati dicono che il più inquinante dei quali, cioè il carbone, è utilizzato, per circa un terzo della produzione mondiale, dalla Cina, e per un altro 15% dall’India, mentre l’UE ne brucia neanche il 7%.

C’è da chiedersi perché Greta (e gretini al seguito) non vadano a manifestare da Xi o da Modi, invece che a Bruxelles. Forse se convincessero i leaders cinesi ed indiani il pianeta ne avrebbe un beneficio superiore.

La scarsa congruità allo scopo dichiarato della transizine climatica limitata all’Europa fa pensare che gli interessi sottostanti siano tutt’altri.

A questo punto tre considerazioni, per non gravare il lettore di una recensione che seppur meritata dal libro, sarebbe troppo lunga.

La prima: è vero che le religioni monoteistiche sono connotate da una intolleranza strutturale, perché se Dio è unico, vuol dire che gli dei degli altri non sono tali o meglio sono creature infernali, per cui il politeismo greco-romano, apprezzato da Mazzella, è per sua natura tollerante (vedi il Pantheon). Solo che anche per il politeisti – e per qualsiasi altra comunità umana, c’è un  nemico. Quello che nega la tolleranza del politeismo. Così ai tempi nostri, i nemici dei liberali, anche di quelli classici, erano coloro che negavano la libertà: cioè i vari totalitarismi. I regimi liberali, nazisti e comunisti erano largamente secolarizzati, onde la regolarità amico-nemico funziona in assenza di Dio. Perché in ogni sintesi politica c’è sempre qualcosa di assoluto: nel caso più “laico”, quello dell’esistenza della comunità.

La seconda è che le derivazioni (anche) dei totalitarismo erano costituite da mete superiori, mai raggiunte dall’umanità: che richiedevano uno sforzo prometeico. Le odierne paiono alla portata di qualsiasi frequentatore di internet e delle di esso limitate (e private) aspirazioni. Quelle erano ideali di società in  ascesa, queste di decadenti.

Non a caso (e siamo a tre) Mazzella ci ricorda le ciminiere europee che scompaiono e il capitalismo che qui è diventato essenzialmente finanziario.

Le conseguenze, ci ha ricordato qualche anno fa un generale, uno dei più influenti teorici militari cinesi è che il potere militare (e quindi politico) è quello di coloro che producano più beni reali, cioè, già da oggi, della Cina. E chi ha più potere, finisce sempre col comandare a chi ne ha di meno.

 

giovedì 21 marzo 2024

Teodoro Klitsche de la Grange: "La legittimità di Putin"

1.0 L’esito – scontato – delle elezioni presidenziali in Russia, con un plebiscito a favore di Putin ha suscitato, in Occidente, una copiosa contestazione della legittimità delle stessa (e quindi dell’esito).

A parte il fatto che, indubbiamente, le condizioni in cui si sono svolte e, ancor di più, la storia della Russia – così diversa da quella dell’Europa occidentale – fanno sì che pretendere lì le stesse garanzie normali da noi è come sparare sulla croce rossa. Altro sono le elezioni in Stati che da secoli si sono evoluti in democrazie liberali altro quello di un popolo che, a parte qualche mese nel 1917 (!)fino al 1989 è passato da autocrazia al totalitarismo. Insomma il Cremlino e S.        Basilio possono essere belli, ma sicuramente non profumavano di democrazia e libertà come Downing Street.

Tuttavia l’occasione è provvida per tornare sul concetto di legittimità, di cui, specie da noi, si fa, a parte questa occasione un uso parsimonioso e, nemmeno a dirlo, parziale.

La legittimità è definita (trascriviamo il tutto dal Dizionario di politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino) consistere “nella presenza in una parte rilevante della popolazione un grado di consenso tale da assicurare l’obbedienza senza che sia necessario, se non in casi marginali, il ricorso della forza” tuttavia “il processo di legittimazione non ha come punto di riferimento lo Stato nel suo complesso, ma i suoi diversi aspetti; la comunità politica, il regime, il governo... Pertanto la legittimazione dello Stato è il risultato di una serie di elementi disposti a livelli crescenti, ciascuno dei quali concorre in modo relativamente indipendente a determinarla”. Riguardo al potere costituito si possono individuare “due tipi fondamentali di comportamento. Se determinati individui o gruppi percepiscono il fondamento e i fini del potere come compatibili o in armonia con il proprio sistema di credenze e operano per la conservazione degli aspetti di fondo della vita politica, il loro comportamento si potrà definire come legittimazione. Se, invece, lo Stato viene percepito nella sua struttura e nei suoi fini come contraddittorio con il proprio sistema di credenze e questo giudizio negativo si traduce in un’azione” allora non c’è legittimazione. Ora Weber individuava tre tipi di legittimità: tradizionale, razionale-legale, carismatica. In genere strumenti istituzionali di verifica della compatibilità dei governanti, con il common sense dei governati si trovano soltanto in un tipo di Stato: quello democratico, soprattutto attraverso le elezioni (a larga base elettorale). Il che non vuol dire che non votandosi in altri tipi di Stato questi non siano legittimi.

Pellicani scrive che “La legittimità è lo specifico attributo che hanno gli Stati che godono di un diffuso consenso da parte dei governati. Essa non va confusa con la legalità, Questa si riferisce al modus operandi del potere sovrano, mentre la legittimità riguarda la titolarità dello stesso. È legittimo il potere che l’opinione pubblica percepisce come l’istituzione che ha il diritto di governare” onde “naturalmente, il principio di legittimità varia da civiltà a civiltà, società e società e da epoca a epoca. Ma la sua funzione è sempre la stessa: quella di conferire a un soggetto (individuale o collettivo) il diritto di comandare e di dare all’obbedienza dei governati una base morale”.

Onde anche se non legittimati elettoralmente, come ad esempio i monarchi negli Stati dell’età moderna (come anche di quella feudale), erano legittimi perché i sudditi credevano che avessero il diritto di comandare. Fino al punto di prendere le armi per difenderne il trono come nell’insurrezione vandeana e nelle guerre partigiane (ossia di popolo) in Italia e in Spagna.

Nel caso di Putin quindi, e premettendo che le elezioni, tenuto conto della situazione interna, hanno comunque dato una legittimazione positiva a Putin

 vediamo perché.

Dicono i sondaggi che il Presidente russo goda di un’ampia popolarità, non lontana dalla percentuale di voti favorevoli riscossi. Non sappiamo se fidarcene: comunque bisogna registrarla e cercare in altre, possibili cause il consenso che Putin avrebbe.

In primo luogo se è vero che il concetto più condiviso di legittimità è quello della “coincidenza di valori” o meglio dell’idem sentire de re publica tra governati e governanti è noto che ce n’è anche un altro, dovuto ad Hobbes, cioè della concreta ed effettiva prestazione della protezione da parte dei governanti a fronte dell’obbedienza richiesta ai governati che esponiamo trascrivendola dal Dizionario di politica citato “Quando il potere è stabile ed è in grado di assolvere in modo progressista o conservatore alle proprie funzioni essenziali (difesa, sviluppo economico ecc.), esso fa valere contemporaneamente la giustificazione della propria esistenza, facendo appello a determinate esigenze latenti nelle masse, e con la potenza della propria positività si crea il consenso necessario”. Orbene Putin ha conseguito indubbi risultati positivi nel suo più che ventennale governo della Russia. Emerge dai dati internazionali che il PIL individuale è cresciuto di circa 4 volte (tanto per fare un confronto in Italia la crescita è stata, nello stesso periodo, di pochi punti percentuali).

Quanto alla difesa non ha esitato a difendere lo Stato sia contro le forze secessioniste (v. conflitto ceceno) sia contro le intromissioni internazionali (Georgia ed Ucraina).

Se poi si condivide idea di un pensatore come Bonald secondo il quale la Costituzione è (in primo luogo) il modo di esistenza di un popolo, Putin, sia con le opere che con i discorsi, ha dimostrato di voler proteggere il mondo d’esistenza russo, e ancor più di non volerlo fotocopiare da quello americano-occidentale.

In sostanza la legittimità di Putin può essere contestata ma prendendo come elementi qualificanti l’accettazione  da parte dei governati e la conformità allo spirito e agli interessi nazionali.

2.0 Diversamente gli osservatori occidentali delegittimano Putin sulla base di presupposti e valutazioni ideologiche e soprattutto non riferentesi alla legittimità come rapporto tra capo e seguito, lubrificante del potere e del presupposto del comando/obbedienza. Vediamo come.

Sui soggetti. A giudicare se un potere sia legittimo o meno sono coloro che gli sono soggetti. Cioè i russi e non politici e giornalisti occidentali. Che un potere sia legittimo o meno è un giudizio su fatti: il consenso, la pace, l’ordine. Potrà pure essere un colossale errore condiviso, ma resta il fatto che se i sudditi sono convinti del diritto dei governanti a governare il potere è legittimo. Il fatto che non lo pensino gli stranieri non ha significato e conseguenze di rilievo.

Sui parametri. Anche qui mentre i parametri con cui gli esterni giudicano il potere di Putin sono procedurali e valoriali (e soprattutto non sono – o solo in parte – quelli dei russi); quelli dei russi sono assai più ampi e soprattutto più concreti: a cominciare dall’incremento del benessere economico e della salvaguardia delle specificità nazionali. I diritti LGBTQIA+ e l’attuazione del green deal non sembra che siano in cima alle aspirazioni ed ai giudizi dei russi. Probabilmente una maggiore libertà lo sarebbe: ma tenuto conto che ne hanno sempre avuta poco, quel di più che i governi post-comunisti hanno loro assicurato non appare disprezzabile.

Infine è curioso che a giudicare della legittimità di un governo siano coloro che, con quello, sono in uno stato di ostilità manifesta. A parte il resto, è chiaro che contestare, fino a demolire la legittimità del nemico è una risorsa importante – e spesso decisiva – della guerra psicologica. Perché indebolisce il nemico; e quindi è poco credibile sia come giudizio sine ira et studio che come strumento di pace.

3.0 C’è una terza considerazione da fare: politici e giornalisti omettono di considerare che se Putin deve fare ancora molta strada per essere considerato un ineccepibile liberaldemocratico, anche ad ovest della Vistola ci sono stati e governanti che dovrebbero “rifare gli esami”; e non ci riferiamo al solito Orban. Ma soprattutto all’Italia. Specialmente alla c.d. “seconda repubblica”. Se è vero che Putin è poco liberale, è altrettanto vero che in Italia abbiamo avuto: a) governanti mai eletti dal popolo, non solo in elezioni per la carica di governo ma in nessuna elezione, neppure nell’assemblea di condominio (Monti e Draghi). Per cui è impossibile verificare elettoralmente il consenso che avevano (per Draghi) e verificarne solo a posteriori (per Monti) accertando che godeva di percentuali da prefisso telefonico (v. elezioni europee del 2014 il risultato delle liste “montiane”); b) che tutti i Presidenti del Consiglio dal 2011 sono stati nominati malgrado non designati elettoralmente ma altrove. La prima a infrangere questa costante è proprio la Meloni, che ha rammendato (per noi) lo strappo tra democrazia parlata e oligarchia praticata; c) per essi come per il Presidente della Repubblica a decidere è il Parlamento. Pertanto se Putin ha riportato un consenso plebiscitario, anche se contraffatto, in genere i governanti italiani né sono stati nominati dal popolo, né al popolo piacevano un granché. E questo senza voler approfondire circostanze che, forse, hanno alterato i risultati elettorali in maniera decisiva (v. politiche 2006 con la maggioranza risicata dei voti al centrodestra in una Camera e nell’altra al centrosinistra) e che è superfluo ricordare. In particolare quelli che conseguono al controllo dei principali strumenti di informazione. Per cui se Putin lascia, come liberaldemocratico, a desiderare, certi governanti nostrani non sono certo un esempio di virtù. Anche nel senso di Machiavelli.

 

giovedì 14 marzo 2024

Teodoro Klitsche de la Grange: "Il Papa e la bandiera bianca"

Dopo il discorso del Papa sulla “bandiera bianca” (ossia sull’esigenza di negoziati) c’è stata una copiosa produzione di articoli, asserenti in sostanza che, essendo Putin un aggressore era doveroso, lecito e necessario che fosse sconfitto e punito.

Cui è facile rispondere che siccome lo zar non è convinto di ciò, tutto questo argomentare si scontra con l’unica condizione indispensabile alla cessazione della guerra, la volontà di ambo le parti di fare la pace, e così anche di Putin. Ma se dalle critiche da salotto si va a valutare l’esortazione del Papa alla luce della teologia cristiana – che tanta parte ha avuto nel diritto internazionale – si nota che i presupposti di quanto sostenuto dal pontefice vi sono tutti.

Andiamo a leggere Francisco Suarez oltre che teologo anche gesuita. Scrive che la “guerra di difesa non solo è sempre lecita ma talvolta anche prescritta” e peraltro anche quella d’aggressione non è il male in sé “ma può essere lecita e necessaria” se ne ricorrono le condizioni individuate dai teologi: che la guerra sia dichiarata dal potere legittimo, che vi sia una justa causa e un corretto modo di condurla.

Anche De Vitoria riteneva legittima in ogni caso la guerra difensiva, anche da parte di privati (aggrediti). Ogni comunità politica (cioè una e totale) può comunque dichiarare e condurre la guerra. Anche la guerra d’aggressione può essere giusta ove rivolta a tutelare un (proprio) diritto offeso.

Ma se anche la guerra di aggressione può essere giusta e quella difensiva lo è sempre, al riguardo i teologi-giuristi scolastici si ponevano il problema conseguente che, in tal caso, poteva succedere che i belligeranti vantassero entrambi di combattere per una justa causa.

Deriva da ciò che se si desidera che la guerra cessi non è realistico condizionare il risultato al ripristino del diritto leso dal “crimine d’aggressione”, come è stato declinato in tutte le forme dalle anime belle (???), ma raggiungere un accordo che possa tener conto delle  posizioni (e situazioni) delle parti belligeranti, anche se non coincidenti – anzi quasi mai lo sono - con l’ordine precedente. Quasi tutte le guerre si concludono con trattati: le poche non concluse così sono le peggiori. Perché o chiuse con un diktat non negoziato ma imposto dal vincitore ovvero quando il nemico è politicamente distrutto (v. la Germania nel 1945, il Regno delle due Sicilie nel 1861 ecc. ecc.) onde non c’è un nemico con cui trattare, che rappresenti la comunità vinta.

Perché quello che si dimentica e che invece la Chiesa non ha obliato è che il nemico non è soltanto colui che ci fa (o cui facciamo) guerra, ma anche il soggetto con cui si può – e normalmente si conclude – la pace. Non è solo il perturbatore dell’ordine – come nella narrazione degli Sceriffi globali – ma quello con cui si costruisce un ordine nuovo.