martedì 23 ottobre 2012

In memoria di Alberto Mariantoni - Essere o apparire

La notizia della morte di Alberto mi ha raggiunto questa mattina. Le parole sono inadeguate per parlare dell’amico scomparso. Mi giunge da poco, da parte di un comune amico, un testo di Alberto che non conoscevo. Mi sembra una specie di suo testamento spirituale. E penso che in questo momento la migliore cosa sia pubblicarlo qui di seguito e riflettere su di esso intimamente, come non mai nel pubblicare testi di Alberto. Il miglior modo di ricordarlo sarà di continuare nel comune impegno. Il testo che qui pubblichiamo, insieme a molti altri, lo si può ritrovare sul sito web di Alberto, che curava per lui un suo amico, non direttamente lo stesso Alberto. Un formale Necrologio è apparso sulla rivista Eurasia, mentre la prima notizia della morte io l’ho appresa dal blog Alex-Focus, dove anche io ho lasciato un messaggio di cordoglio. Mi giungono richieste dell’indirizzo dei familiari, per porgere condoglianze. Non li conosco. Alberto viveva da solo in una località vicino Ginevra, dove l’ho visitato una volta. Chi vuole e non ha altro mezzo può lasciare il suo cordoglio nell’area commenti di questo blog, che è moderato. Il miglior modo di ricordare Alberto sarà quello di continuare il suo impegno e la sua lotta.

Antonio Caracciolo


ESSERE O APPARIRE...

Alberto B. Mariantoni
Il fatto di nascere, crescere, maturare ed, inevitabilmente, declinare e scomparire, non sempre ci concede il regalo e la gioia di avere potuto essere, esistere ed agire come avremmo avuto la capacità o come avremmo voluto.

La nostra esperienza terrena, infatti, è un continuo e costante tirocinio… E’ un duro apprendistato che è generalmente condizionato – per una certa frazione – dall’habitat naturale nel quale viviamo o da cui siamo scaturiti e, per il resto, influenzato, provocato e/o determinato da noi stessi.

Contrariamente all’opinione più diffusa, però, siamo noi stessi, in ultima analisi – e non il retroterra politico, economico, sociale e culturale di cui facciamo parte o siamo parte integrante – che circoscriviamo e fissiamo l’ampiezza, l’intensità e l’incisività del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. E questo, qualunque sia o possa essere la scala gerarchica delle nostre effettive qualità intellettive, delle nostre evidenti e spontanee sensibilità spirituali, delle nostre concrete e sostanziali capacità materiali.

Le responsabilità che spesso addossiamo o attribuiamo all’habitat naturale, a mio giudizio, sono soltanto dei comodi alibi, dietro ai quali, abbiamo quasi sempre tendenza a mimetizzare, dissimulare o tacere le nostre più indicibili abdicazioni, diserzioni e pusillanimità nei confronti della nostra stessa esistenza.

Il retroterra politico, economico, sociale e culturale, incomincia semmai a giocare un ruolo determinante o predominante nei confronti del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire, soltanto nel momento in cui, noi stessi, accettiamo – direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente – di mettere “tra parentesi” il significato ed il senso della nostra unicità, della nostra originalità e della nostra irripetibilità, affidando supinamente alla societas o a terze persone, il diritto/dovere di decidere e di disporre – indipendentemente da noi – del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. Questo, ancora una volta, a prescindere dal fatto che, in natura, esistono (e nessuno lo può negare!) degli uomini che sono chiaramente e manifestamente leader e degli uomini che sono (o preferiscono essere) nascostamente o palesemente gregari.

Il vero problema, dunque, che – nel corso di ogni esistenza - si pone a qualsiasi essere umano, non è quello di essere leader (o essere capace di esserlo, o possedere le qualità per diventarlo), né tanto meno quello di essere (o di scegliere di essere, o constare di non potere essere altro che) gregario. E’ semplicemente quello di scegliere e di decidere se si vuole essere ciò che si è, oppure se si preferisce apparire per ciò che non si è.

In sé per sé, infatti, essere leader o gregario nel contesto di una qualunque società umana, non è affatto una qualità, né un difetto. E’ semplicemente una funzione: quella che “madre natura” ha voluto assegnarci, sulla base dell’arcana ed indecifrabile combinazione di “doti” e/o di “tare” che ci ha voluto personalmente riservare.

Diciamo, per riassumere, che è un dato di fatto.

Insomma, siamo quello che siamo. E nulla e nessuno – fino a prova del contrario – potrà mai mutarci o trasformarci in ciò che non siamo, né potremo mai essere.

Possiamo, però, se lo desideriamo o lo vogliamo, affinare, migliorare o perfezionare la nostra
natura, a partire da due semplici atti di volontà:
  • tentare di conoscere sé stessi (ciò che i Greci definivano gnôti sauton ed i Latini, nosce te ipsum);
  • cercare di elevare il proprio livello fisico, psichico, spirituale e morale, a partire dalla propria specifica natura (ciò che i Greci riassumevano nel termine paidéia o “educazione/formazione globale dell’uomo”, ed i Latini condensavano nel significato enel senso del verbo educo, is, eduxi, eductum, educere che vuole dire, “trarre fuori, estrarre, far uscire, far sbocciare” le qualità che ognuno possiede, per meglio poterle perfezionare o valorizzare). 
Naturalmente, se non vogliamo o non riteniamo utile o opportuno cercare di affinarci, migliorarci o perfezionarci, possiamo:
  • tentare di conservare le nostre “doti”/”tare” iniziali, contemplando – impotenti e frustrati (o insensatamente appagati…) – il loro inevitabile degrado o deliquescenza, nel corso degli anni;
  • peggiorare le nostre “doti”/”tare” iniziali, ignorando volutamente o spensieratamente noi stessi, trascurandoci volutamente o lasciandoci apaticamente o flebilmente andare: vivendo, cioè, alla giornata; cedendo ai nostri istinti o impulsi animali più triviali; oppure, rassegnandoci passivamente a giocare il ruolo di semplici oggetti della volontà altrui.
In altre parole, siamo quello che siamo, ma possiamo senz’altro diventare ciò che desideriamo o vorremmo essere, se ci limitiamo esclusivamente a conoscerci in profondità e ad investire, nelle possibilità che la natura ci ha assegnato o concesso, il massimo degli sforzi che le nostre doti, capacità e/o abilità naturali ci permettono di spendere o di far valere.

E’ il concetto greco di agón, agônos (derivato di ágein, “condurre”: Erodoto – Storia delle lotte fra Greci e Persiani 2, 91; 5, 102; Platone – Le Leggi 658a; Tucidide – Storia della guerra del Peloponneso 3, 104; Aristofane d’Atene – Plutus 1163; Aristotele – Retorica 1, 2, 13; Plutarco – Demetrius 22) che nulla ha a che fare o a che vedere con l’odierna ed incoerente nozione di “competizione”. Lo stesso dicasi, dei significati greci di agonismós (lotta, combattimento) e di agonistés (chi lotta fisicamente o con l’intelletto) quando tentiamo di paragonarli con quelli post-classici di “agonismo” e di “concorrente”.

Gli antichi Greci, infatti – che erano assolutamente coscienti che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile (e, di conseguenza, complementare… – da cui la nozione aristotelica di zoon politikon o “animale politico”: quell’animale, cioè, che si affina, si migliora, si perfeziona – dunque, si civilizza – vivendo in armonia e collaborazione con gli altri, nel contesto della Polis o Città/Nazione/Stato), non tentavano mai di misurare sé stessi con i loro simili, per cercare vanamente di affermare un contraddittorio e paradossale “primato universale” delle capacità umane o un’innaturale e chimerico “parametro” di apprezzamento o di valutazione generale degli esseri viventi (un “primato” o un “parametro” fondato, per giunta, come avviene da circa 1700 anni, sull’obbligatoria ed inevitabile sconfitta e consequenziale umiliazione fisica, psichica o morale dell’altro!). Al contrario, prendendo a pretesto la competizione con i loro simili, incrociavano reciprocamente le armi delle loro rispettive qualità, predisposizioni e destrezze intellettuali, fisiche o morali, soprattutto per misurare il limite contingente delle loro individuali e specifiche qualità o capacità. E questo, sia per tentare di migliorare le loro potenzialità naturali che per avere una qualunque chance di potere eventualmente cercare di riuscire a superare o sorpassare i propri limiti.

Affinare, migliorare, perfezionare ed, eventualmente, oltrepassare le proprie qualità o capacità – nel contesto della propria natura – è senz’altro possibile, ma – per potere realmente riuscire a farlo – è prioritariamente indispensabile focalizzare e comprendere ciò che, in realtà, significa essere e che cosa vuole dire, al contrario, apparire.

Dal tardo latino, essere (per il classico esse – a sua volta, derivato dalla radice indoeuropea es–), il nostro omonimo verbo intransitivo (essere) – nel senso che ci interessa nel contesto di questa disanima – significa soprattutto possedere una precisa identità o natura. Un’identità ed una natura che sono chiaramente ed inequivocabilmente precisate e confermate, sia dalla derivazione essentia (dal latino esse) - che, a sua volta, significa essenza; sia dal participio presente del verbo esse (cioè, ens) che, in filosofia, traduce il greco ôn (essenza), così come il vocabolo latino essentia individua, decifra e traspone glottologicamente il termine greco ousía (sostanza).

Il verbo apparire, invece (dal latino: ad + parere) – che i “moderni” (probabilmente, in obliato ossequio al latino maccheronico o cristiano del IVº secolo che con il vocabolo, apparitio, tendeva direttamente e non ingenuamente a riferirsi all’ “apparizione” di Yehoshuà o Yéshuà” – il nostro Ièsus o Gesù/Cristo, per intenderci – ed al conseguente ed obbligatorio riguardo che, teologicamente e praticamente, gli si doveva…), preferiscono relegare e confinare nella ristretta cerchia di alcune sue tarde e marginali accezioni, come apparire, mostrarsi; oppure, presentarsi allo sguardo, mostrarsi alla vista, ecc. – ha in origine, un significato ed un senso ben diversi da quelli che abbiamo l’abitudine di attribuirgli: quelli, in particolare, di obbedire, sottomettersi (Cicerone, Tusculanae disputationes 5, 36; De officiis 1, 84; 2, 40; De re publica libri VI 2, 61; Seneca, De beneficis 3, 20, 2; C. Velleius Paterculus, Historia Romana 2, 23, 6; Aulo Gellio, Nocte Atticae 2, 7, 12; Tito Livio, Ab urbe condita libri XLV 9, 32, 5; Tacito, Annales 1, 21; ecc.); oppure, cedere a (Cicerone, Orator ad M. Brutum 202; In P. Vatinium testem interrogatio 2; Epistulae ad Atticum 2, 21, 4; ecc.); o ancora, essere sottomessi a, sotto la dipendenza di (Cesare, De bello civili 3, 81, 2).

E’ ciò che avviene, purtroppo, ai nostri giorni, quando i nostri contemporanei, e soprattutto le giovani generazioni (nella loro quasi totalità, tutte vittime ignare e/o inconsapevoli della colonizzazione culturale che – volens, nolens – da più di 1 700 anni, ha intellettualmente e moralmente sottomesso le nostre società ai dogmi artificiosi ed innaturali della visione biblica dell’uomo, della società e del mondo, nonché a quelli successivi e laicizzati delle sue diverse e variegate derivazioni o ramificazioni ideologiche), credendo di “essere alla moda” e/o di incarnare o di rappresentare il coincidente o corrispondente “modello di uomo dell’avvenire” che – in forza all’ultima modanatura della medesima colonizzazione (l’attuale religione globalista) – impazza e fa furore ai quattro angoli del nostro pianeta, preferiscono individualmente o collettivamente “fare come gli altri”… Preferiscono, cioè, “mettere tra parentesi” il significato ed il senso della loro vita e delle loro imprescindibili essenzialità, per tentare stoltamente di identificarsi o di rassomigliare a delle immagini statiche e stereotipiche di ciò che essi stessi pensano di prediligere o ritengono vada loro perfettamente a genio.

Il tutto, naturalmente, senza accorgersi che quelle “immagini” o quei “modelli di vita”, altro non sono, in realtà, che il risultato finale di un’intensa e mirata propaganda, corredata da specifici ed inesorabili riflessi condizionati, che – dopo essere stata abbondantemente assorbita dalla loro psiche ed involontariamente digerita e riciclata dal loro mentale – viene di nuovo sprigionata ed espressa dal loro ego, sotto forma di “spontanea” ed omogeneizzata “scelta personale”.

In altre parole: credendo di scegliere, i nostri contemporanei non scelgono affatto ciò che essi immaginano sia la loro scelta, ma scelgono semplicemente ciò che “altri”, indipendentemente da loro, hanno già deciso che si dovesse scegliere. E senza volerlo e senza saperlo (e probabilmente, senza nemmeno accorgersene o sospettarlo!) obbediscono ciecamente ed inconsapevole alla volontà di chi – per scopi strettamente commerciali o finanziari (ad esempio: la legge dei grandi numeri…); oppure, imperialistici… ; o ancora, di usuale e redditizia dominazione dei mercati – ha l’oggettivo e comprensibile interesse di distruggere e cancellare ogni genere di originalità o specificità umana, per meglio spacciare la sua camelote e riempire copiosamente il suo portamonete.

Ancora più grave, però, quando l’agevole e poco impegnativo “sembrare” o “apparire” (fosse pure quello di chi tenta, in buona fede, di ispirarsi ai Bolscevichi del 1917, agli Anarchici di Malatesta, ai Fascisti del 1919-1922, ai Repubblichini o ai Partigiani del 1943-1945!), è addirittura preso a modello dai cosiddetti “antagonisti” o “rivoluzionari della domenica” che preferiscono ugualmente sottomettersi ai criteri di omologazione del medesimo sistema che, a parole, vorrebbero combattere.

Pigrizia mentale? Mancanza di volontà? Insufficiente fiducia in sé stessi? Incapacità a focalizzare e circoscrivere le qualità ed i difetti che li determinano o li caratterizzano? Impossibilità a comportarsi altrimenti? Semplice scelta di vita?

Niente di tutto ciò: unicamente la convinzione (frutto del riflesso condizionato che è stato inculcato all’uomo della strada da 1700 anni di colonizzazione culturale) che “siamo tutti uguali” e che “tutti” debbono essere, esistere ed agire allo “stesso modo”…

Si capisce, quindi, il motivo per cui, i sistemi politici, economici, sociali, culturali e militari del nostro tempo (come la maggior parte di quelli che hanno già oppresso, angariato, vessato e taglieggiato i nostri Popoli-Nazione nel corso del nostro passato), si sforzino costantemente di suggerire all’uomo della strada, di impegnarsi fermamente e pienamente a rincorrere irraggiungibili o irrealizzabili “ideali”, come quello – per l’appunto – di volere assolutamente essere o diventare ciò che non si è.

E’ il tragico ed invariabile destino dell’uomo anonimo ed indifferenziato di ogni tempo e di ogni luogo… L’uomo, insomma, che – per tentare di colmare le “lacune” della sua incompresa o incomprensibile unicità, originalità, irripetibilità (ed i “padroni del vapore”, di ogni tempo e di ogni luogo, fanno del tutto, per non fargliela comprendere…), non solo non fa nulla per cercare di affinare, migliorare o perfezionare sé stesso, ma credendo di prendere delle furbesche e risolutive “scorciatoie” – si riduce masochisticamente a desiderare o ad ambire la realizzazione di una “società di uguali”: quel genere di società, cioè, dove i soliti e ben individuati “uguali” – come nel corso degli ultimi 17 secoli – possono tranquillamente continuare ad esercitare l’immorale ed illegittimo diritto di potere costantemente, impunemente e legalmente essere, ogni volta… molto più uguali degli altri!

Alberto B. Mariantoni