Marta
Cartabia – Luciano Violante, Giustizia e
mito, il Mulino, Bologna 2018, pp. 174, € 13,00.
Che due giuristi
abbiano scritto questo libro, su tragedie di Sofocle, può sorprendere, ma solo
in parte. In effetti l’Antigone e l’Edipo Re offrono motivi di riflessione sia
per i teorici del diritto, come dello Stato e della politica.
Nell’“Antigone”
di Sofocle i due personaggi principali, Antigone e Creonte, sono diffusamente
considerati rappresentativi dei poli di una pluralità di opposizioni, rilevanti
per i giuristi: per lo più tra diritto naturale e diritto positivo e tra legge
divina e umana. Ma non è mancato chi, come Hegel, vi ha visto l’opposizione tra
concezioni (principi) maschile e
femminile, per cui l’uomo (e cioè Creonte) “ha la propria vita sostanziale e
reale nello Stato, nella Scienza, e simili, e inoltre nella lotta e nel
travaglio con il mondo esterno e con se stesso”[1], mentre
la “pietas, in una delle più sublimi
esposizioni che la concernono – nell’Antigone
sofoclea – viene dichiarata soprattutto come la legge della femmina, vale a
dire: come la legge della sostanzialità sentimentale soggettiva,
dell’interiorità che non consegue ancora la propria realizzazione perfetta,
come la legge degli dèi antichi, del regno sotterraneo, come legge eterna di
cui nessuno sa dire quando apparve e che è presente nell’opposizione contro la
legge manifesta, la legge dello Stato”[2]. Per
cui da un lato si può intravedere, in queste osservazioni di Hegel, una
contrapposizione non solo tra norme
(leggi) ma anche tra istituzioni
(famiglia e Stato); da un altro, e più chiaramente, quella tra un diritto
“tradizionale” e consuetudinario e un
altro “statuito” e razionale”.
Molte altre
opposizioni sono rintracciabili, perché chiaramente esposte, nei due personaggi
della tragedia. In particolare Creonte si identifica con la polis e fa della categoria amico/nemico
(della polis) il criterio distintivo
per la legittimazione del decreto proibente la sepoltura di Polinice,
derogatorio-modificativo della legge divina (e consuetudinaria) di seppellire i
morti. Ciò pone in rilievo (almeno) sia l’opposizione tra politico e giuridico
(intesi nel senso di Freund) che la prevalenza e decisività del politico che privatizza (e cioè sottomette) le norme
ed il rapporto “privatistico” (familiare) rispetto a quello pubblico-politico. Dice
Creonte nell’entrare in scena “non tengo in alcun conto chi stima più
importante della propria patria una persona cara. Io infatti – e lo sappia Zeus
che sempre vede tutto – non saprei tacere quando vedessi muovere contro i
cittadini la sciagura invece che la salvezza; e non farei mai amico un nemico della patria; poiché so che essa è la nostra salvezza…. Con tali principi io farò
grande la nostra città”[3].
Il diritto promulgato dal governante deve essere così “razionale rispetto allo
scopo” che è, nel caso, quello, essenziale alla polis, di salvaguardarla, anche onorando i buoni cittadini e non gli altri, i nemici.
Il senso di tale
opposizione indica in Creonte l’archetipo di una politica e un diritto
“moderno” (rispetto a quelli di Antigone): la prima perché prevalente su ogni
vincolo normativo e l’altro perché razionale (rispetto allo scopo), volontario,
statuito, opportuno. Creonte non è tiranno nel doppio senso attribuito a tale
termine dalla Scolastica: non lo è né absque
titulo, perché è diventato re di Tebe per designazione del re “abdicante”,
cioè suo cognato Edipo: né lo è quoad
exercitium perché, anche in altre tragedie (come l’Edipo a Colono) segue
sempre la regola di operare per la
salvezza della polis. Motiva così il
decreto che vieta la sepoltura di Polinice “Ma il fratello suo, Polinice dico,
dall’esilio tornò volendo distruggere completamente col fuoco la terra patria e
gli dèi della stirpe, volendo saziarsi del sangue dei suoi e gli altri trarre in
schiavitù: e per quanto lo riguarda è stato ordinato alla città che nessuno lo
onori di tomba e di compianto, ma sia lasciato insepolto cadavere, pasto ad
uccelli e cani, vergogna a vedersi”. E nel dialogo del secondo episodio tra
Creonte ed Antigone, mentre questa insiste sul legame parentale, quello ribatte
che “ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto”[4].
L’esser nemico prevale sia sulla philia
che sull’adelphia.
Il carattere
di tali affermazioni ha attratto anche i giuristi. In particolare Max von
Seydel ha dedicato pagine alla tragedia ricordando come il dialogo tra i due
protagonisti dell’Antigone (e lo svolgersi dell’azione) rivelano l’essenza
della sovranità e del suo rapporto con la forza ed il diritto che può dare
“alla scienza nostra (cioè al diritto pubblico) una dottrina dalla quale si può
ricavare la cognizione del suo essere”. E cioè che il dominio (politico) non è
altro che il “fatto della forza sopra lo Stato”, un fatto dal quale ha origine
primamente il diritto”. Il quale non è altro che l’insieme delle “norme con cui
il volere sovrano ordina la convivenza statuale degli uomini”. La fonte del
diritto è il volere sovrano.
Per un
giurista come von Seydel, rappresentante-tipo del positivismo giuridico d’antan (cioè decisionismo + normativismo)
in effetti Creonte è il diritto moderno contrapposto ad Antigone, che è quello
“antico”. E l’antitesi delle concezioni dei due personaggi ricorda da vicino
quella di Max Weber tra potere tradizionale, ossia quello che “poggia sulla
credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e
nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità” e
potere razionale-legale e tra i differenti modi e mezzi ordinatori del diritto
“tradizionale” e del diritto “statuito”. Nella posizione di Antigone è anche invertito
il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma
piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al
cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è
evidente. Violante ha rilevato come Creonte non sia il crudele tiranno, come
abitualmente rappresentato “Se Creonte fosse davvero uno spietato dittatore e
se Antigone fosse davvero una giovane donna portatrice di una nuova legge…non
sempre l’oppositore è portatore di un nuovo domani; non sempre l’uomo di
governo è un subdolo tiranno. La realtà politica non è una linea retta; è un
poligono con molte facce”. In effetti “Antigone è testimone del diritto antico,
quello della immutabilità delle regole, mentre Creonte è un innovatore,
portatore del diritto nuovo, quello che fa funzionare la polis. Per questa ragione il mito è affiancabile a tutti gli altri
miti greci che puniscono l’innovatore, quello che vuole cambiare”. Antigone,
insomma, è il passato, Creonte il futuro. Ma le comunità si reggono quando
Antigone e Creonte sono (ambo) presenti, sostiene Violante, e si riesce a
trovare compromessi tra il potere pubblico e i diritti individuali.
“L’Edipo re”
appare meno fecondo di spunti per i giuristi moderni. E il saggio (di Marta
Cartabia) lo dimostra. Tuttavia è il caso di ricordare quanto sosteneva René
Girard, sia sulla tragedia greca in generale sia sull’ “Edipo re”. Quanto a
quella Girard ricorda che “Gli storici sono d’accordo nel situare la tragedia
greca in un periodo di transizione tra un ordine religioso arcaico e l’ordine
più ‘moderno’, statale e giudiziario, che ad esso succederà. Prima di entrare
in decadenza, l’ordine arcaico dovette conoscere una certa stabilità. Tale
stabilità non poteva poggiare che sul momento religioso, cioè sul rito
sacrificale”; e sull’ “Edipo re” nota: “tutte le relazioni maschili sono
relazioni di violenza reciproca… Tutte queste violenze sfociano
nell’annullamento delle differenze, non soltanto nella famiglia ma in tutta
quanta la città. La disputa tragica che oppone Edipo a Tiresia ci mostra due
grandi capi spirituali in contrasto”. E Tiresia è il difensore della tradizione,
che Edipo contesta perché ritiene che insidii l’autorità reale; la conseguenza,
scrive l’antropologo francese, è che “Presi di mira sono gli individui ma a
essere colpite sono le istituzioni. Tutti i poteri legittimi vacillano sin
dalle fondamenta… L’empietà di cui parla il coro, l’oblio degli oracoli, la
decadenza religiosa fanno tutt’uno sicuramente con lo sgretolarsi dei valori
familiari, delle gerarchie religiose e sociali”. Occorre un rimedio per ovviare
a questo incipiente hobbesiano bellum omnium
contra omnes.
Scrive anche
Girard che “Edipo non è colpevole in senso moderno ma è responsabile delle
sventure della città. Il suo ruolo è quello di un vero e proprio capro
espiatorio” e in effetti l’azione tragica si compie durante l’epidemia di peste
a Tebe. La soluzione della crisi della città, che permette di rifondare
l’ordine è il sacrificio della vittima espiatoria e così Edipo si punisce da
se. Ciò permette il superamento della crisi e la sacralizzazione della vittima,
cioè Edipo. Come scrive Girard: “ Nel
momento supremo della crisi, quando la violenza reciproca giunta al parossismo
si trasforma d’un sol colpo in unanimità pacificatrice, le due facce della
violenza paiono ravvicinate: gli estremi si toccano. Questa metamorfosi ha come
perno la vittima espiatoria… la vittima espiatoria ‘simboleggia’ il passaggio
dalla violenza reciproca e distruttrice all’unanimità fondatrice; è lei che
assicura questo passaggio”. Il pensiero religioso vede così nella vittima una “creatura
soprannaturale che semina la violenza per poi raccogliere la pace”.
L’interpretazione
di Girard permette di evidenziare nell’ “Edipo re” alcuni dei presupposti e dei
fondamenti del diritto pubblico, nonché di regole, se non delle regolarità della politica. La crisi “mimetica”,
ossia il dissolversi dei legami comunitari che in genere i giuristi chiamano
“stato d’emergenza” o “stato d’eccezione”; in particolare l’emergere della
violenza diffusa e non regolata (la guerra civile, in atto o “strisciante”); il
meccanismo del “capro espiatorio”; la rifondazione dell’ordine attraverso
quello e così il ridursi della conflittualità sociale.
In
particolare il ricorso al “capro espiatorio” (cioè Edipo), da Machiavelli è
descritto nel cap. VII del “Principe” con la vicenda di Remirro De Orco,
ovviamente senza implicazioni religiose, ma come espediente per riportare
ordine (e consenso), attraverso un efficace e spregiudicato esercizio del
potere. Ordine e potere che sono i concetti fondamentali del diritto, pubblico
in ispecie così come quello di ineguaglianza, giacché una comunità politica
senza disuguaglianza e è impossibile: ne occorre almeno una, come si legge in
tutti i manuali di diritto pubblico: quella tra dominanti/governanti e
dominati/governati. Proprio quella che, secondo Girard, Edipo aveva violato
uccidendo, anche se inconsapevolmente, il padre/re e accoppiandosi con la
madre/regina.
Laio, come
padre e come re è riconducibile a due dei tipi semplici d’autorità (Kojève). Autorità necessaria sia nella
famiglia, e molto di più nello Stato.
Quindi
riprendendo von Seydel, è utile e istruttivo ripensare la tragedia greca e in
ispecie le due analizzate dagli autori in funzione (anche) del diritto
presente.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1]
V. Grundilinien der Philosophie des
Rechts (§166), trad it. di V. Cicero , Milano 1995 p. 317; v. anche Die Phänomenologie des Geistes, trad.
it. di E. De Negri, Firenze 1973, pp. 29 ss.
[2]
Op. loc. cit..
[3]
Antigone trad. it. di R. Cantarella,
rist. Milano 2005, p. 271.
[4]
Op. cit. p. 293.
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