Stenio Solinas, L’infinito
sessantotto, Edizioni La Vela (www.edizionilavela.it),
Viareggio (LU) 2018, pp. 131, € 14,00.
Il titolo di
questo saggio “L’infinito sessantotto” non è solo polemicamente indirizzato al
cinquantenario (con relative autocelebrazioni e autocompiacimenti), ma alla
durata delle idee (e degli idola) del
’68, che ancor oggi determinano modelli di comportamento e di sentire diffuso.
Così la liberazione sessuale (prima pillola, poi aborto), il depotenziamento
dei vincoli familiari (divorzio e rapporto genitori/figli in primis), la parità uomo/donna, la denatalità incipiente (ora
trionfante). Solinas lo spiega ricordando che il ’68 era stato preceduto dal
ventennio della ricostruzione in cui gli italiani, dopo la sconfitta e
l’occupazione militare, iniziarono a “ritirarsi nel privato”.
“Quegli italiani,
dunque, si chiamarono fuori dall’Italia, non ne vollero sapere: che andasse
come andasse, nessuno li avrebbe più fregati, chiamati ad altri e alti destini,
spronati a grandi imprese… Tornava, insomma, la dimensione familiare, si
allontanava lo Stato, visto come un nemico, o come qualcosa da sfruttare… Ciò
che alla fine contava era il proprio benessere, il piacere dei nuovi consumi,
un’etica del lavoro individualistica, sganciata da qualsiasi istanza
collettiva, da qualsiasi anelito comunitario. La politica, i partiti, erano
“cosa loro”, da disprezzare, da irridere, con cui venire a patti, il voto in
cambio di un favore, un posto, una raccomandazione… C’è un Paese che insegue il
proprio benessere, un brodo di coltura che teorizza la liceità di ogni
comportamento e giustifica dialetticamente ogni trasgressione e il relativo
perdono, una classe politica che occupa manu
civili la società, una classe dirigente che non sa e/o non vuole dirigere,
sceglie di non scegliere, pratica un consenso clientelare e per farlo aumenta a
dismisura il debito pubblico. Il ’68 è il primo cortocircuito di una
modernizzazione fine a se stessa e priva di quei correttivi che potrebbero,
dovrebbero, regolarla… Il secondo sarà la lunga stagione del terrorismo, da cui
usciremo senza sapere bene né come né perché, e comunque appena in tempo… Il
terzo, l’implosione del sistema stesso dei partiti, l’epifania del suo
fallimento, e la successiva incapacità di riformarlo ovvero rifondarlo”.
Il ’68, insomma,
ha lavorato su un terreno propizio e dissodato.
La durata dell’
“ideologia” sessantottina è comunque dovuta sia al processo di cooptazione
nella classe dirigente, sia al correlativo adattarsi al “sistema” dei leaders del movimento studentesco.
I quali se
adattati sono stati promossi e valorizzati; i non adattati (cioè i militanti coerentemente rivoluzionari) sono stati incarcerati
ed esclusi (processo comune nelle cooptazioni di èlites).
D’altra parte Del
Noce aveva capito con molto anticipo che il comunismo si sarebbe risolto in un
mélange di nichilismo
libertario e buonismo umanitario, che è qualcosa di molto simile
all’immagine ai modelli e ai “messaggi” della società globale. Sia quindi per
la presenza di personaggi ( dalle barricate
passati alle poltrone) sia per molte coincidenze di idee, il sessantotto
“prosegue” nel mondo globalizzato. Non si sa se l’attuale crescere almeno nel
mondo euro- occidentale di partiti e movimenti sovran-popul- identitari prefiguri la fine della Weltanschauung sessantottina, almeno
come modello dominante. Di sicuro però la fortuna di quelli è la
conseguenza dialettica del prevalere di questa. Il criterio del politico, dalla
contrapposizione borghese/proletario si è spostato a quella
globale/identitario; e così ha generato una nuova antitesi.
Ma anche nel
populismo c’è qualcosa del (primo)
sessantotto andata - ovviamente - smarrita
successivamente, ossia l’antagonismo urlato contro il “vecchio”, ovvero le
élites al governo. Anche se occorre riconoscere quelle da
noi contestate allora erano molto migliori di quelle globaliste odierne, come
confermato dai risultati conseguiti.
Ma questo, che le
nuove élites nascono con gli stivali, quindi forti e decise e finiscono in
pantofole cioè ipocrite, fraudolente e deboli, è non una novità ma una costante della politica.
Teodoro Klitsche de la Grange
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