“LA POLITICA COME DESTINO”
Originariamente
pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume
contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi
nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.
Valitutti, pur da
liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì
ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.
Pubblichiamo
pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il
saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore
Valitutti.
INTRODUZIONE ALLA
“POLITICA COME DESTINO”
di
Teodoro Klitsche de la Grange
1. Quando un
liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl
Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento,
spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.
E’ quanto capita
in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in
libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).
I punti principali
della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono
tre.
Il primo è che la
distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la
quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto
nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e
ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza” (come l’etica, l’economia, l’estetica).
“La distinzione
tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o
di una separazione…Amicus è un gruppo di individui tenuto stretto e
compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per
sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis
è hostis in quanto si
contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus. La politica è perciò
ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso
compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un
senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il
rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la
guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con
l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire
che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.
Schmitt, continua
Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione
“guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità
(naturale in un pluriverso) “perché
questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda
da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt
esistenziale)[1].
Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica
“soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo
realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste
nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue
che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla
compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente
strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è
monistica, all’esterno è pluralista[2].
Il secondo punto è
il pessimismo antropologico.
Si fonda sulla concezione
pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica
(buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive
Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa
scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che
giunge a mettere in crisi proprio quella autonomia della politica, intesa come
indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita
umana…giungendo, come giunge, al presupposto della malvagità umana come
condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come
distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad
uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.
Da ciò consegue la
centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3].
Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo
XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che
appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti
essenziali dello stesso corpus di
dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4].
Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è
sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione
della guerra (perché impossibile)[5].
E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt,
credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore
dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere
distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6].
Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della
di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che
garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno
Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di
differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt,
la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità
monistica, immediata e immota”[7].
La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre
in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante;
“per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità
politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione,
quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è
evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa
è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].
Nota poi Valitutti
che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella
di vero/falso[9]
Ovviamente, scrive
Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è
legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità
nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della
realtà e del valore del pensiero teoretico”.
Valitutti prende
in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da
cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a
Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione
come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare
storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere
nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del
pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa
ragione deteriorandola o distruggendola”.
2. Il saggio di
Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso
volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle
opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà
degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia
nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt
non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande
maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi
interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti
abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste
ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.
In primo luogo: è
vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo
è per due ragioni.
La prima, ancora
diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a
cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche
nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale,
sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i
diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu)
c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e
(soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente)
attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna
se disposta da organi giudiziari.
Non tutti questi
aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali,
ma buona parte si.
Ciò che rende
particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da
un lato vi manca un qualcosa che costituisca
l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso
ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde
aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt
citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.
Ne consegue, come
scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese
possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma
politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di
diritto è connesso e misto un secondo
elemento di principi politico-formali”[11].
Il liberalismo può
modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una
democrazia liberale, ma non può
eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si
basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se
autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi
politico-formali”.
L’errore di
credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né
soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société
dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des
pouvoirs déterminée, n’a point de
constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle
(entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.
Scriveva de Bonald
che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia,
non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è
costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo
altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è
una costituzione[12]. E lo
stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come
“concreto modo di esistere che è dato
spontaneamente con ogni unità politica esistente”[13]
e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di
normativamente dovuto”[14].
Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura»
costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15].
Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse
altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile;
giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve
pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].
I due elementi,
quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre
congiunti e presenti[17].
Dove si constata
la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di
diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga,
rottura della normativa costituzionale[18]
… “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale
nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di
intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un
sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].
Nelle emergenze
l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come
Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per
salvare la vita”[20].
Ciò che distingue
la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre
sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale ed eccezionale, che in altri regimi è assente
o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe)
vale il principio ulpianeo quod principi
placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente
(quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese
secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la
normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono
regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in
uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la
Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente)
istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura
sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante
non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione
democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].
Sotto un altro
profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative
che cita[22], è in
linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali
è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere,
disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non
istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente
può evitare guerre, calamità naturali,
crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la
normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le
costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più
ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella
situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata,
probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale”
– o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui
critica è quindi confortata dalla storia.
3. Sempre il
liberalismo esangue (e post-moderno,
ma non solo) ha, se non abolito, messo
tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità
concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi
contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati,
mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer
ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente
pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata
al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.
Il tempo si è
incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione.
La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo
(ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che
sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[23].
Nella successiva “fase”
tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare
al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti
non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi
politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica
“totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in
ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno
mancano l’uno e l’altra.
Il che ha condotto
a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e
Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati
e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti
da parte dei vincitori[24].
Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come
il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione.
La fase successiva è stata di promuovere guerre - non denominate tali - in nome
dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre
presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare
se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile
senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”,
sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché
un’operazione di peacekeeping contro
una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione
dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e
successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in
conflitti (prevalentemente) etnici,
relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi
di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e
politici balcanici o dell’Africa nera.
Nessuno dei quali
aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al
riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è
Pretore tra gli Stati[25];
perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere
“accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un
istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di
quella internazionale vi sono soltanto uffici
(chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e
trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di
“istituzionalizzazione”, politica in specie.
Anche in tal caso
la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato
dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e
quindi l’inimicizia politica che ne
deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico,
né per decisione dei Tribunali[26].
Come la
costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile
(Freund) presupposto del politico del comando/obbedienza;
così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro
presupposto del politico.
A base di tali
illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un
punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che
si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[27].
Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti
riconducibili a un (vago) liberalismo esangue,
e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue
da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.
Nei casi estremi (quelli
che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori”
inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata,
è pertanto impossibile.
Valitutti sostiene
che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e
totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo
viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione
politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è
destino… Il destino è il fatum in senso
greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il
totalitarismo politico è il destino in questo significato”.
Conseguenza di ciò
è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il
criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra
realtà politica e sociale”[28].
Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se
così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il
totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa
l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio
ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è
frutto non tanto del primato del Bourgeois
sul citoyen ma dell’essere in corso
“una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella
scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma
che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[29].
Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[30].
Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[31].
Il tutto
presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus”[32].
3. A considerare
la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo
siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt,
oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi
integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha
suscitato.
Valitutti
rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata,
una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero
di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione
d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla
validità della norma giuridica”[33].
Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più
rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa
capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il
diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è
fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.
La critica al
costituzionalismo liberale esangue
consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che
questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza,
legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e
principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella
seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata
difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da
considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più
che errate, parziali: coperte strette
che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione,
la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli
altri aspetti.
Come l’antropologia
di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo
“tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso
di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere
la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel
discutere una teoria scientifica o filosofica.
Quindi è
nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio” notato da Valitutti, si realizza a causa del
montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento
fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[34].
Anche in questo
caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista)
dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli
ordinamenti costituzionali moderni.
Piuttosto quanto sostiene
Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo
e post-sessantottismo dove si
consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il
potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per
realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato
(terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico:
espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).
Valitutti fa
carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo.
Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo,
per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto
nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere
governato”[35]. E, in
connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è
indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso
su quest’ultima prevalente).
Va da se che in
tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che
una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali,
ispirati da imperativi categorici[36].
Quando poi
Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da
Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano,
peraltro di formazione idealistica come
Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti,
pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il
liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come
tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre
civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare
nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi,
trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il
c.d. brigantaggio). Altro che agreements
tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso
storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile
della contrapposizione; Libertà e Patria”.
Lo Stato nazionale
fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie
assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale,
di cui i liberali erano la maior pars e cui era evidente che lo
Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[37].
Il principio
politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai
principi del Bürgerliche Rechtstaat
in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali
italiani da certe concezioni riduttive
del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine
con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato
nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[38]
è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e
radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello
Stato borghese.
C’è un altro
aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale
italiano[39]: è la
concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa.
Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.
Già gli autori del
Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del
costituzionalismo (liberale)[40].
La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di
Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e
Pareto l’uomo non è considerato (solo)
essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta razionale, ma anche dotato di volontà, istinti,
pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.
Proprio Pareto con
la sua teoria dei residui (non razionali, corrispondenti ad interessi e
istinti ) e delle derivazioni
(apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta”
dall’ancora più rilevante tra azioni logiche
e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione
allo iato tra scopo
perseguito e risultato conseguito.
Anche Mosca
giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a
convinzioni razionali (scientifiche)
ma a illusioni diffuse[41].
Ciò non era
carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno
nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).
5. In particolare
il fantoccio polemico, che Valitutti
critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo
stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in
particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che
degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da
condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di
sottovalutare le costanti ossia, le
regolarità della politica (Miglio),
con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato
democratico (o borghese a seguire
Schmitt).
In questo senso
l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia
dell’interesse per il pensiero del giurista renano[42]
e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è
espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e
chiarezza di giudizio.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1] Per una esposizione più articolata
e diffusa v. Hegel Sistem der
sittlichkeit ora in “ Il dominio
della politica” trad. it. di
N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.
[2] “Il monismo all’interno presuppone
il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità del nemico, e quindi almeno un’altra unità
politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere
di differenti e contrapposte unità politiche”.
Sviluppando
poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità
politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo
carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha
carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e
totalizzante.
[3] “La prima e più consistente
ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da
ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica.
Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi
del suo antiliberalismo”
[4] Sostiene Valitutti che i suoi
padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il
liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente
come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che,
secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità
dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero
politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato
dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”
[5] Il problema consiste che, nella
sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come
gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè
come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e
concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in
ostilità”.
[6] Aggiunge che Schmitt “individua
esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella
concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo
XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le
varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e
salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione”
[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità
politica come “decisiva, sovrana e totale”.
Questa
unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera
tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere
di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è
nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico
è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.
[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A.
Caracciolo Il Custode della costituzione,
Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive
Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella
Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata
riassunta dalla grande dottrina tedesca
dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione
fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi
autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il
raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società
… erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla
«società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia
neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava
in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè,
esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di
importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società».
Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato
e società” e così “la società che si
organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad
uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata
come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato
assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale
secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.
[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata
la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria
e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili
difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere
al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della
negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello
spirito umano”.
[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè
Editore, Milano 1984.
[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).
[12] Nel criticare l’opinione che Stati
costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”)
scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un
ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma
fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o
male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un
individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.
[13] Op. ult. cit., p. 16.
[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire
che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una
democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione
monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.
[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo
storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto
ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni
solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà
borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la
Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come
“costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono
considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della
libertà borghese” (p. 61).
[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali
Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i
principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo
Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma
di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova
la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.
[17] È da considerare nei rapporti tra
democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma
distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che
quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente.
Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è
dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e
liberalismo (lo status mixtus) sono
uniti nella modernità in concreto da un ethos
comune, v. Carl Schmitt Democrazia e
liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).
[18] La costituzione in senso proprio,
scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di
esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma
– proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo
la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione.
In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a
protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione
temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di
pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni
legislative costituzionali. Op. cit.,
p. 154.
[19] Op. loc. cit..
[20]
R. Von Jhering Der Zweck im Recht
trad it. Di M. G.
Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la
concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo,
non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo
fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione
giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è
in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è
necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di
emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita
dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se
ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di
emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi
possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il
diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in
cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del
politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del
giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci
si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui
parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende
praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare
della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come
fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.
[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta
“Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia
di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.
[22]
V. Verfassungslehere, trad. it. cit.
p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.
[23] D’altra parte Schmitt ha avanzato
anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità
nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale)
di amicus/hostis. Per cui il
raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in
particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le
categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.
[24] Anche se la normativa
internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi
fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei
giudici non coinvolti.
[25] Hegel spiegava che la
rappresentazione kantiana di una pace
perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si
baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre
per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità.
Grundlinien des Philosophie des
Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555
[26] Anzi è l’esistenza e lo
svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione
dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale
“interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie,
scambi di prigionieri, accordi), v. Corso
di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il
giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno.
Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra
civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra
e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si
riducono ad una sola: l’impotenza dello
Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli
autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la
lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti
adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).
[27] “Tra i valori, cioè, si tratta in
ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una
lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il
«demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun
compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332.
Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché,
come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo
l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso
praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.
[28] Ed aggiunge “Oggi si sta
moltiplicando il purus politicus,
l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non
poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso
chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici
e hostes.
[29] E prosegue “perciò si arrugginiscono,
quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare
tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”
[30] “La scienza e la tecnica sono
baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento
delle condizioni di vita. La praxis è
sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che
ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della
cratività morale e le vie della ricerca della verità”.
[31] Scrive Valitutti che ciò comincia
da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi
(futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la
realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il
contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere
la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che
“scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si
accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente
isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui
il cemento è l’ostilità contro l’hostis,
cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è
passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del
vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”
[32] “Concezione che ritiene erronea e
“cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la
cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli,
così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.
[33] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972
p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro
l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma
giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver
bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto
di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era
qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del
caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto
perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine
relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può
ritrarsi davanti all’eccezione e al caso
estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione
può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica
per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a
fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete.
L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla,
l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa
vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la
crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo
“Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale
non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario
pensa il generale con energica passionalità”
[34] Si noti che il generale prussiano il
quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella
concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta
inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano
in essa, come uno strano triedro composto:
1.
della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da
considerarsi come un cieco istinto;
2.
il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
3.
della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La
prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al
condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella
guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla
ed umanizzarla.
[35] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.
[36] Che è poi uno dei presupposti di
un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il
“legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base
– sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura
illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la
ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti,
interessi, pregiudizi e così via).
[37] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p.
51.
[38] Ricordiamo tra gli altri: G.
Mosca, Appunti di diritto costituzionale,
Milano 1912 (il quale scrive anche di governo
rappresentativo, di regime rappresentativo).
[39] D’altra parte condiviso anche con
gran parte dai pensatori liberali non italiani.
[40] “Ma cos’è il governo se non la
poderosa analisi dell’umana natura? Se
gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli
a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe
superfluo.
Ma
nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui
sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di
controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M.
Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).
[41] “La scienza e tutti quei brani di
verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse
finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la
loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime
parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte
considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.
[42] Che ha preceduto la “rinascita”
dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un saggio dedicato all’impatto del pensiero di
Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di
quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col
titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la
République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.
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