martedì 26 giugno 2018

«La politica come destino»: Saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange.

“LA POLITICA COME DESTINO”
Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.
Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.
Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.


INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”
di
Teodoro Klitsche de la Grange 
1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.
E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).
I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.
Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).
“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.
Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].
Il secondo punto è il pessimismo antropologico.
Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.
Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].
La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].
Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]
Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.
Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.
2. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.
In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.
La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.
Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.
Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.
Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].
Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.
L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.
Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].
I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].
Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].
Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].
Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].
Sotto un altro profilo la concezione di Schmitt, corroborata dalle regolamentazioni normative che cita[22], è in linea con il “fattuale”. La regolamentazione/previsione dei poteri eccezionali è aderente alla realtà e alla necessità: se le costituzioni possono scegliere, disporre e regolare o meno i poteri eccezionali (cioè abolirli o non istituirli) non possono abolire le situazioni eccezionali. Solo l’Onnipotente può evitare guerre, calamità naturali, crisi economiche. Così un liberalismo realistico non può non prescrivere la normativa necessaria in siffatte emergenze; ed in effetti in quasi tutte le costituzioni lo dispone. Dove non è prescritta vale la regola di Jhering, e più ancora di Santi Romano: che “la necessità fa legge” ossia che è sicuro che nella situazione d’emergenza la costituzione sarà violata. E, se non violata, probabilmente sarà distrutta l’istituzione politica. Cosa che il liberalismo “ideale” – o almeno parte di esso – non considera, contrariamente a Schmitt, la cui critica è quindi confortata dalla storia.
3. Sempre il liberalismo esangue (e post-moderno, ma non solo) ha, se non abolito, messo tra parentesi il nemico (e la guerra); senza considerare sia la possibilità concreta che l’ostilità degeneri in guerra, sia soprattutto che gli interessi contrapposti, non possano essere conciliati con procedure giuridiche (trattati, mediazioni, Tribunali internazionali). Già da prima Constant e Spencer ritenevano le società orientate ad attività economiche tendenzialmente pacifiche; e Schmitt critica Constant perché considerava le società orientata al commercio (e al benessere economico) meno guerrafondaie delle comunità tradizionali.
Il tempo si è incaricato se non di contraddire, almeno di ridimensionare questa concezione. La diffusione nel periodo dell’imperialismo (classico) e cioè nel XIX secolo (ed oltre) di guerre dettate da motivi economici, d’altra parte tutt’altro che sconosciute prima (e dopo), ne è la prova[23].
Nella successiva “fase” tardo-moderna (e post-moderna) si è creduto di trasferire dall’economico e addossare al diritto il fardello di poter eliminare e/o ridurre (e decidere) i conflitti non solo all’interno – che è più naturale – ma anche all’esterno della sintesi politica. Ma se all’interno c’è comunque il soccorso della sintesi politica “totale e decisiva” col monopolio della violenza legittima e della decisione in ultima istanza, cioè sovrana e (spesso apparentemente) “neutra”, all’esterno mancano l’uno e l’altra.
Il che ha condotto a derogare, nel corso del XX secolo al principio internazionalistico che “par in parem non habet jurisdictionem”, attivando istituzioni e Tribunali internazionali, sia per la soluzione di controversie con (e tra) Stati e tra privati e Stati, sia per giudicare, specialmente dopo le guerre, i vinti da parte dei vincitori[24]. Il tutto in nome di un “diritto” universale che, al di là delle buone intenzioni, ha perso di vista come il diritto abbia anche, necessariamente, un momento (e apparati) d’applicazione. La fase successiva è stata di promuovere guerre - non denominate tali - in nome dei “diritti umani” che per lo più, al di là delle buone intenzioni – sempre presenti – hanno dimostrato che è solo la proporzione delle forze a determinare se, in quei Tribunali si è giudicati (e prima ancora, se il “reo” è debellabile senza (o con pochi rischi); onde, successivamente, i capi dell’unità politica “pacificata”, sono giudicati dalle apposite Corti (internazionali o meno). Perché un’operazione di peacekeeping contro una potenza, anche media, ancorché notoriamente vi si pratichi la violazione dei diritti umani, non si è finora vista. Spedizioni punitive del genere (e successivi giudizi dinanzi a Corti internazionali) sono state promosse in conflitti (prevalentemente) etnici, relativamente a entità statali minori e gruppi politici non consolidati, privi di strumenti militari decisivi, ed hanno visto sfilare come imputati generali e politici balcanici o dell’Africa nera.
Nessuno dei quali aveva il potere d’opporsi realmente all’operazione benintenzionata come avrebbero potuto fare tanti altri, perciò al riparo da interventi umanitari. Il che conferma il detto di Hegel che non c’è Pretore tra gli Stati[25]; perché fondandosi ciò su volontà particolari sovrane, avrebbe carattere “accidentale”. Più che altro mentre a fondamento della giustizia statale c’è un istituzione, di per sé generale, superiore, decisiva e durevole, a base di quella internazionale vi sono soltanto uffici (chiamarli organi è forse eccessivo), la cui esistenza è frutto di accordi e trattati particolari e pertanto carente (del carattere) di “istituzionalizzazione”, politica in specie.
Anche in tal caso la critica di Schmitt coglie nel segno: non appare realistico né confermato dalla storia che possano eliminarsi o ridursi drasticamente i conflitti e quindi l’inimicizia politica che ne deriva, né per l’orientamento sociale all’attività ed al benessere economico, né per decisione dei Tribunali[26].
Come la costituzione è l’assetto e l’organizzazione della comunità politica, in base all’insopprimibile (Freund) presupposto del politico  del comando/obbedienza; così non è possibile eliminare dal mondo la lotta e il nemico, altro presupposto del politico.
A base di tali illusioni c’è la credenza che sia possibile trovare, tra esseri razionali, un punto d’incontro, malgrado diverse visioni del mondo. Max Weber assicurava che si arriva comunque a valori non negoziabili e non vi è modo di conciliarli[27]. Un acuto studioso argentino come Bandieri, ha qualificato una delle correnti riconducibili a un (vago) liberalismo esangue, e cioè il c.d. “neocostituzionalismo”, come positivismo di valori, che distingue da quello di Kelsen (ed epigoni) che è positivismo di norme.
Nei casi estremi (quelli che più contano), tra comunità riconoscentesi in “tavole di valori” inconciliabili una decisione giuridificata o meglio (e soprattutto) giurisdizionalizzata, è pertanto impossibile.
Valitutti sostiene che “secondo Schmitt, l’unità politica è sempre unità decisiva, sovrana e totale. Egli scrive, e noi lo abbiamo già riferito, che è totale perché l’uomo viene afferrato tutto alle radici stesse del suo essere dalla partecipazione politica alla quale egli si da. Aggiunge incisivamente che la politica è destino… Il destino è il fatum in senso greco-latino, cioè una necessità superiore e ineluttabile. Per Schmitt il totalitarismo politico è il destino in questo significato”.
Conseguenza di ciò è che “il nostro è un tempo nel quale la distinzione schmittiana tra amicus e hostis, come distinzione totale e totalizzante, fornisce il criterio interpretativo di porzioni e manifestazioni cospicue della nostra realtà politica e sociale”[28]. Secondo il liberale italiano questo iperpoliticismo è viziato: “Il vizio, se così possiamo chiamarlo, attraverso il quale passa nella realtà effettuale il totalitarismo politico, è quello stesso attraverso il quale passa l’unilateralità dell’apoliticismo, cioè la reductio ad unum della multiforme vita spirituale dell’uomo”. L’apoliticismo è frutto non tanto del primato del Bourgeois sul citoyen ma dell’essere in corso “una grande rivoluzione utilitaristico-edonistica, che ha le sue armi nella scienza e nella tecnica e che è liberatrice di ingenti forze già compresse, ma che intanto produce uno squilibrio della vita spirituale”[29]. Nella vita spirituale del (tardo) XX secolo (ma anche oggi) è sovrana la praxis[30]. Così si crea uno squilibrio, riduttivo della comune umanità[31].
Il tutto presuppone, scrive Valitutti, la priorità della figura dell’hostis anche su quella dell’amicus[32].
3. A considerare la critica di Valitutti a Schmitt, ancorché le censure del primo al secondo siano centrate, occorre valutarle nel contesto del pensiero di Schmitt, oggigiorno maggiormente noto al lettore italiano per la traduzione quasi integrale dell’opera del giurista di Pletteberg e per i contributi che ha suscitato.
Valitutti rimprovera a Schmitt l’ “iperpoliticismo” e, ad esso strettamente collegata, una concezione per così dire “settoriale” dell’uomo. Tuttavia l’intero pensiero di Schmitt è orientato allo stato d’eccezione. Come scrive nella Politische theologie nella situazione d’emergenza “L’esistenza dello Stato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica”[33]. Quindi l’eccezione, e la guerra, che dello stato d’eccezione è l’aspetto più rilevante, non nega la normalità, ma ne ridimensiona l’importanza e la stessa capacità di comprendere interamente il diritto, pubblico in particolare. Il diritto è norma ed eccezione: è ordinamento della vita della comunità e questa è fatta sia di situazioni normali che di eccezionali.
La critica al costituzionalismo liberale esangue consiste così proprio nel fatto che non considera l’unità e la completezza dell’ordinamento e che questa ricomprende sia norme che ordinamento, sia comando che obbedienza, legittimità oltre che legalità, forza e norma, principi di forma politica e principi dello Stato borghese. E dimentica che in tante occasioni, come nella seconda guerra mondiale, l’esistenza politica delle democrazie liberali è stata difesa anche con bombardamenti indiscriminati (atomici e non), non proprio da considerare mezzi umanitari. Alla fine le teorie da Schmitt criticate sono più che errate, parziali: coperte strette che non coprono e non spiegano l’intero e tantomeno come, proprio nello stato d’eccezione, la parte “politica” prevalga su quella “normativa”. Così avviene anche per gli altri aspetti.
Come l’antropologia di Schmitt: se è vero, come scrive Valitutti, che Schmitt non considera l’uomo “tutto intero” ma enfatizzandone l’aspetto politico, è pure vero che, nel caso di guerra il cittadino (il componente della comunità) ha il dovere di difendere la comunità e così il rischio di morire. Cosa che generalmente non succede nel discutere una teoria scientifica o filosofica.
Quindi è nell’emergenza (e in vista di quella) che lo “squilibrio”  notato da Valitutti, si realizza a causa del montare di quello che Clausewitz chiamava il “sentimento politico”, elemento fondamentale – ancorché non esclusivo – del triedro della guerra[34].
Anche in questo caso il prevalere della politica è ridimensionato proprio dallo (e in vista) dello stato d’eccezione, d’altronde, come scrive Agamben, istituto tipico degli ordinamenti costituzionali moderni.
Piuttosto quanto sostiene Valitutti è spiegabile con il periodo in cui è scritto: in pieno sessantottismo e post-sessantottismo dove  si consumavano le ultime battute del comunismo (prossimo all’implosione), con slogans che ne enfatizzavano il potenziale liberatorio e di conformazione di una nuova società umana, per realizzare la quale nessuno sforzo (e mezzo) doveva essere risparmiato (terrorismo compreso). In quel contesto il personale (era) politico: espressione che coniuga iperpoliticismo con un sotteso edonismo (cioè con la maior pars dell’a-politicismo).
Valitutti fa carico a Schmitt di sottovalutare l’attività spirituale e teorica dell’uomo. Anche qui pare piuttosto che Schmitt segua quanto scrive de Maistre “L’uomo, per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato”[35]. E, in connessione con la sua antropologia, la perversità della volontà umana, è indipendente dalla (razionalità) e giustizia della sua intelligenza (e, spesso su quest’ultima prevalente).
Va da se che in tale contesto realistico è una nobile quanto illusoria aspirazione pensare che una decisione si possa raggiungere attraverso l’accordo tra uomini razionali, ispirati da imperativi categorici[36].
Quando poi Valitutti stigmatizza come “fantoccio polemico” il liberalismo criticato da Schmitt, la censura è largamente condivisibile. A un liberale italiano, peraltro di formazione  idealistica come Valitutti, non possono che apparire (almeno) parziali e riduttivi gli appunti, pur spesso centrati, di Schmitt al “liberalismo”. Per un liberale italiano il liberalismo è soprattutto “religione della libertà” e, scriveva Croce, come tutte le religioni, crea guerre di religione. Così furono in Italia le guerre civili del 1799 e del 1860 (senza aggiungere quella del 1806) in particolare nel Mezzogiorno. Lo Stato nazionale non fu costruito da congressi, accordi, trattati, sentenze ma da tre guerre interstatali e da una guerra civile (il c.d. brigantaggio). Altro che agreements tra esseri razionali. E di ciò è consapevole ogni liberale che abbia senso storico-politico. Diceva V.E. Orlando che “nulla per noi è più intollerabile della contrapposizione; Libertà e Patria”.
Lo Stato nazionale fu costituito – diversamente che in altri paesi europei – non dalle monarchie assolute, ma dalla collaborazione tra monarchia sabauda e movimento nazionale, di cui i liberali erano  la maior pars e cui era evidente che lo Stato era “nel fatto sorto da un procedimento rivoluzionario”[37].
Il principio politico (la monarchia mista con elementi di democrazia) era coniugato ai principi del Bürgerliche Rechtstaat in uno Stato “rappresentativo”. Il che vaccinava (per lo più) i liberali italiani da certe concezioni riduttive del liberalismo, come quelle criticate dal giurista renano. Lo stesso termine con cui giuristi e scienziati politici del periodo liberale dello Stato nazionale lo qualificavano prevalentemente come rappresentativo[38] è indice sia della consapevolezza del processo di costruzione nazionale (e radicamento) che dell’unione dei principi di forma politica con quelli dello Stato borghese.
C’è un altro aspetto, meno “esclusivo”, ma comunque importante, nel pensiero liberale italiano[39]: è la concezione realistica dell’uomo, l’antropologia (moderatamente) negativa. Questa, tuttavia, è comune a ogni pensiero liberale “forte”.
Già gli autori del Federalista fondavano su quella sia la necessità dello Stato sia quella del costituzionalismo (liberale)[40]. La stessa antropologia realistica è presupposta nelle concezioni di Croce, di Fortunato, Einaudi, Puviani e tanti altri. Soprattutto nel pensiero di Mosca e Pareto l’uomo non è considerato  (solo) essere razionale e soprattutto capace di seguire una condotta  razionale, ma anche dotato di volontà, istinti, pregiudizi in grado di determinare le azioni assai più della razionalità.
Proprio Pareto con la sua teoria dei  residui  (non razionali, corrispondenti ad interessi e istinti  ) e delle derivazioni (apparentemente razionali) ne ha fatto una trattazione analitica “preceduta” dall’ancora più rilevante tra azioni logiche  e azione non logiche: le une e le altre soprattutto in relazione allo                      iato tra scopo perseguito e risultato conseguito.
Anche Mosca giudicava che la grande maggioranza degli esseri umani non agisce in base a convinzioni razionali (scientifiche) ma a illusioni diffuse[41].
Ciò non era carattere “proprio” ed esclusivo del pensiero italiano: ma è, in questo, almeno nel periodo suddetto, particolarmente sviluppato (ed autorevole).
5. In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità  della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt).
In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano[42] e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.
Teodoro Klitsche de la Grange


[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.
[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.
Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”
[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”
[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.
[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione
[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.
Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”. 
[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.
[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.
[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.
[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).
[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.
[13] Op. ult. cit., p. 16.
[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.
[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).
[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.
[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).
[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.
[19] Op. loc. cit..
[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.
[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.
[22] V. Verfassungslehere, trad. it. cit. p. 154 ss, v. anche pp. 46,56, 236.
[23] D’altra parte Schmitt ha avanzato anche la spiegazione, assai interessante, che ciò dipendeva dalla centralità nello spirito europeo del XIX secolo dell’economia e del conseguente criterio del raggruppamento (principale) di amicus/hostis. Per cui il raggruppamento decisivo è quello borghese/proletario, come evidente in particolare nei bolscevichi e nel concetto di guerra civile mondiale. V. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 167 ss.
[24] Anche se la normativa internazionale più recente ha evitato (almeno) che nel ruolo dei giudici vi fossero i vincitori e in quella dei giudicati, i vinti, precostituendo dei giudici non coinvolti.
[25] Hegel spiegava che la rappresentazione kantiana di una pace perpetua, presuppone la concordia tra gli Stati. Considera che questa si baserebbe su fondamentali morali, religiosi ed altri; ma avrebbe “pur sempre per base delle volontà sovrane particolari”, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Grundlinien des Philosophie des Recht, trad. it. di V. Cicero, Milano 1995, §333 p. 555
[26] Anzi è l’esistenza e lo svilupparsi del conflitto che rende necessario (per arrivare ad una soluzione dello stesso) ad “internazionalizzare” il diritto derogando a quello normale “interno”, come scriveva Santi Romano, nel caso delle guerre civili (amnistie, scambi di prigionieri, accordi), v. Corso di diritto internazionale, Padova, p. 73. Il processo di cui scrive il giurista è proprio l’inverso di quello criticato e la cui ratio è di applicare per risolverlo istituti di diritto interno. Infatti come nota Santi Romano “Così, in caso d’insurrezione o di guerra civile, le norme di diritto internazionale, specialmente attinenti alla guerra e alla neutralità, vengono spesso riferite agli insorti … Ciò può accadere per diverse ragioni, che però si riducono ad una sola: l’impotenza dello Stato nel quale scoppia l’insurrezione a dominare col suo ordinamento gli autori di essa, per cui lo stesso Stato sente il bisogno, per mitigare la lotta, di condurla secondo le norme internazionali, purchè anche gli insorti adottino uguale comportamento” (il corsivo è mio).
[27] “Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra «dio» e il «demonio». Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. V. ora trad. it.. di P. Rossi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano 1980, p. 332. Tuttavia prosegue: “Beninteso, non è possibile secondo il loro senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, ad ogni passo”. Il che significa che il compromesso è spesso praticabile ma non sempre e non in tutti i casi.
[28] Ed aggiunge “Oggi si sta moltiplicando il purus politicus, l’uomo per cui non esiste che la politica. Poiché la politica è lotta, il purus politicus è un uomo lottante … non poche antitesi si trasformano e si esasperano in antitesi politiche nel senso chiarito da Schmitt, cioè in antitesi tra amici e hostes.
[29] E prosegue “perciò si arrugginiscono, quando non si atrofizzano, quelle altre attitudini che permettono all’uomo di abbracciare tutta la realtà e di nutrirsene, e in particolare le attitudini conoscitive”
[30] “La scienza e la tecnica sono baconianamente ricercate e utilizzate per il cangiamento e il miglioramento delle condizioni di vita. La praxis è sovrana e assorbente e distoglie dalla teoria. È l’impeto della vitalità che ostruisce ad un tempo quelle che il filosofo ha chiamato le fonti della cratività morale e le vie della ricerca della verità”.
[31] Scrive Valitutti che ciò comincia da Marx e dalla celebre 11ª postilla a Feuerbach, per cui compete ai filosofi (futuri) cambiare il mondo più che interpretarlo “Oggi si tende a possedere la realtà solo praticamente e perciò solo utilitaristicamente”. La ragione è “neutralizzata; perde il rapporto con il contenuto oggettivo perché è usato per soli fini utilitari, e non per conoscere la verità”. Da un lato c’è l’apoliticismo la cui conseguenza è che “scarseggiano i fattori unificanti e aumentano quelli dirompenti. Gli uomini si accomunano e concentrano nel godimento del benessere che è intrinsecamente isolante”. E l’altra faccia di questo Giano è il “raggrupparsi politico, in cui il cemento è l’ostilità contro l’hostis, cioè contro il raggruppamento nemico. Tra apoliticismo e panpoliticismo c’è passaggio pur se il secondo si manifesta talvolta con il volto tragico del vendicatore che vuole colpire la tirannia dell’edonismo”
[32] “Concezione che ritiene erronea e “cattiva”; ma cattive teorie possono originare cattive coscienze: “come la cattiva coscienza si insinua nella cattiva teoria e le fornisce impulsi e stimoli, così la cattiva teoria fornisce un sostegno alla cattiva coscienza”.
[33] V. trad. it. di P. Schiera ne “Le categorie del politico” Bologna 1972 p. 39, e aggiunge “Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue nella norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. Per la dottrina dello Stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile. La diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo, va presto perduta nel corso del secolo seguente, allorché viene instaurato un ordine relativamente durevole … Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti  all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” e conclude il passo “Abitualmente non ci si accorge della difficoltà poiché si pensa al generale non con passione ma con tranquilla superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con energica passionalità”
[34] Si noti che il generale prussiano il quale distingue, tra l’altro, guerra assoluta e guerra “normale”, anche nella concezione generale del fenomeno bellico ritiene che “la guerra si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:
1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
2. il giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo” Vom Kriege trad. it. Milano 1970, vol. I, p. 40. Quindi anche nella guerra sono presenti elementi razionali, che contribuiscono a ridimensionarla ed umanizzarla.
[35] V. Du Pape, trad. it. Milano 1995, p. 155.
[36] Che è poi uno dei presupposti di un liberalismo esangue, ispirato al pensiero di Kant (ma sottovalutando il “legno storto”). Ma che tale condivisibile aspirazione possa costituire una base – sempre e ovunque valida – non è credibile, per cui si trasforma in una sicura illusione, che seleziona della natura umana il connotato più gestibile: la ragione. E, al tempo, sminuisce quello che lo è meno, la volontà (istinti, interessi, pregiudizi e così via).
[37] V. V.E. Orlando Principii di diritto costituzionale p. 51.
[38] Ricordiamo tra gli altri: G. Mosca, Appunti di diritto costituzionale, Milano 1912 (il quale scrive anche di governo rappresentativo, di regime rappresentativo).
[39] D’altra parte condiviso anche con gran parte dai pensatori liberali non italiani.
[40] “Ma cos’è il governo se non la poderosa analisi dell’umana natura? Se gli uomini fossero angeli non occorrerebbe alcun governo. Se fossero gli angeli a governare gli uomini, ogni controllo esterno o interno sul governo diverrebbe superfluo.
Ma nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini, qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi abituarsi ad autocontrollarsi”. V. Il federalista, trad. it. di Bianca M. Tedeschini Lalli, Bologna 1980, p. 396. (Il corsivo è mio).
[41] “La scienza e tutti quei brani di verità… sono sempre stati l’opera di un numero molto scarso d’individui… Le masse finora non hanno mai vissuto della scienza e per la scienza, ma di grandi illusioni collettive, che trovano la loro base non nel raziocinio, ma nel sentimento umano” v. Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, p. 85 (il corsivo è mio).. D’altra parte considerazioni simili si trovano in altre opere di Mosca.
[42] Che ha preceduto la “rinascita” dell’interesse in altri paesi. Günther Maschke, in un  saggio dedicato all’impatto del pensiero di Schmitt (scritto poco dopo la morte del giurista) giudicava che l’Italia di quella rinascita costituiva la parte più cospicua, v. trad. francese (col titolo Carl Schmitt «Fossoyeur de la République» «Kronjurist» ou «Dernier classique»? in Nouvelle École n. 44, 1987, p. 53 ss.
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