I pensatori che hanno scritto della decadenza (di civiltà, Stati, élite, comunità) hanno per lo più osservato che in tali epoche prevalgono – soprattutto a livello di classi dirigenti – idee compassionevoli e lacrimose: ad essere esaltate sono le vittime e non gli eroi. Basti leggere (per tutti) quanto scrivono Pareto e Schmitt. Nel saggio di Borgonovo ciò che connota la decadenza attuale è qualcosa di sinergico ma non coincidente con un “buonismo” o un umanitarismo sfinito ed immaginario: l’accidia. Questa, scrive l’autore è “Peccato capitale per i cristiani, l’accidia viene spesso assimilata alla pigrizia ma non è esattamente la stessa cosa. In greco indica la mancanza di kedos, che è il pentimento, il compatimento ma anche la cura. Accidia è, dunque, l’essere incapaci di passione, noncuranti, indifferenti. E sì, anche pigri. Ma pure (e soprattutto) sconfortati, apatici, depressi...e, da quando abbiamo voluto far crollare il Cielo questo demone è più potente e il suo nome è legione: panico, ansia, angoscia, depressione, decadenza, rassegnazione, sottomissione, paura, conformismo, omologazione, vigliaccheria… La piattezza ci ha esasperato e fatto disperare, e ci ha fatto perdere la voglia di vivere e di combattere. La banalità a partita doppia ha ucciso i nobili sentimenti che hanno fatto grande la nostra civiltà: se non v’è più nulla di superiore, resta l’inferno”.
L’accidia deriva dall’assenza dell’aretè (greca, assai vicina alla virtus romana) che abbonda, di converso, nelle fasi ascendenti delle comunità umane. Questa è “prima di tutto, la capacità di svolgere bene il proprio compito, di eseguire questo compito con perizia… In Omero aretè è «la forza e la destrezza del guerriero o del competitore, soprattutto il valore eroico...»”. Nel medioevo è intesa “come dono di sé prima di tutto. Il prode non si tira indietro, il cavaliere è generoso e non bada troppo al proprio tornaconto”. La potenza del denaro, tipica dell’età di decadenza (v. Hauriou) è una “potenza basata sulla forza dell’invidia e dell’avarizia umane, nient’altro. Così le nazioni diventano naturalmente ogni giorno più invidiose e avare. Mentre gli individui fluiscono via in una codardia che chiamano amore. La chiamano amore, e pace, e carità, e benevolenza, mentre si tratta di mera codardia. Collettivamente sono orribilmente avari ed invidiosi” scrive l’autore citando Lawrence. Anche se emergono nella decadenza attuale, idee e pulsioni liberticide è l’assenza di coraggio che la caratterizza “La consapevolezza della decadenza, la forza di accettarla e il coraggio di osteggiarla. Un coraggio che è larghezza di cuore, disposizione del dono di sé, amore gratuito e insieme predisposizione alla battaglia. La libertà ci manca perché ci difetta il coraggio di guadagnarla. Il coraggio di accettare le sfumature del pensiero, le opinioni contrarie, la pluralità conflittuale del mondo. Il coraggio di guardare in faccia il reale e di cambiarlo sul serio, senza costruirgli attorno padiglioni artificiali”.
Non si può non condividere con Borgonovo che è il coraggio ciò che più caratterizza sia le comunità in ascesa, ma più ancora le loro classi dirigenti. Ed è il coraggio, la capacità di sacrificarsi per gli altri ed assumerne i rischi che costituisce l’essenza dell’etica pubblica, del governante e del cittadino, come già nel Gorgia sosteneva Callicle. Il che pone tuttavia l’interrogativo fondato sull’opinione di don Abbondio: che se uno il coraggio on ce l’ha non se lo può dare. E l’alternativa consiste nel chiedersi se la decadenza dipende dalla pusillanimità o se questa dalla decadenza. Tuttavia è sicuro che coraggio, consapevolezza, accettazione del rischio ne costituiscono la terapia o, quanto meno il Katechon paolino.
Borgonovo ricorda i tanti pensatori (a partire da Lawrence) i quali hanno avvertito la tara accidiosa della modernità decadente.
Non è possibile ricordarli tutti e si rimanda quindi alla lettura del saggio.
Ma qualche considerazione del recensore. La prima che la virtù (stretta parente dell’aretè) sia considerata essenziale alla coazione comunitaria (ed al successo) e così nota già Platone ed è il contraltare machiavellico della fortuna. Il virtuoso è quello che prepara gli accorgimenti adatti a contrastarla, e non chi si piange addosso o attende il soccorso degli altri.
La seconda: tra coloro che hanno considerato essenziale all’ordine il coraggio della lotta e l’inutilità del vittimismo ci sono parecchi esimi giuristi: da Jhering a Forsthoff, da Calamandrei ad Hauriou. Alcuni, come Santi Romano hanno insistito sulla vitalità degli ordinamenti (propiziata dal coraggio e dall’assunzione dei rischi)- Tra questi il più vicino alla tesi di Borgonovo è proprio Hauriou, il quale tra i caratteri ricorrenti delle fasi di crisi indica l’affievolirsi dello spirito religioso e il progredire (a dismisura) di quello critico nonché la capacità dissolutoria del denaro (ossia di un’economia prevalentemente finanziaria); oltre alla perdita del senso del limite.
Tutte cose che troverete – tra l’altro –, mutatis mutandis, in questo interessante saggio.
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