venerdì 16 maggio 2008

1948 e dintorni: la “Casa Rossa” di Tel Aviv, la pulizia etnica della Palestina e le falsificazioni propagandistiche di «Informazione Corretta»

Versione 1.8
(status: 23.5.08)

Grazie alla Fiera del Libro che in Torino ha voluto celebrare Israele come “ospite d’onore” per il suo 60° dalla fondazione, ma grazie soprattutto alle manifestazione del suo “boicottaggio”, grazie all'opera storica coraggiosa di Ilan Pappe – costretto, a quanto pare, a trasferirsi in Inghilterra a causa di minacce subite – non è più occultabile una delle verità dell’anno 1948, che per noi in Italia significava altre cose, ma che altrove, in Palestina, significò la Nakba, la pulizia etnica dei palestinesi, un vero e proprio genocidio, che per 60 anni si è tentato e si tenta di occultare con la complicità di una parte consistente dei nostri media e con una rete di coperture che andremmo via via svelando. A proposito di ciò che davvero successe nel 1948 i «Corretti Informatori» stanno impazzendo tentando di fermare una verità sempre più destinata a venire a galla. Infuriano contro trasmissioni ed articoli che presentano una verità ben diversa dalla versione ridicola dei fatti che la propaganda sionista pretende di far passare. Secondo costoro nel 1948 i palestinesi non sarebbero stati cacciati, espulsi, massacrati nei loro villaggi. Se ne sarebbero andati di loro spontanea volontà. Ed essendosene andati avrebbero pr questo rinunciato definitivamente alle loro terre, ai loro villaggi, alle loro case, ad ogni diritto. Non hanno perciò “diritto al ritorno” dopo qualche mese o anni di assenza, mentre un “diritto al ritorno” esisterebbe per gli ebrei di cui si presume l’assenza da... 2000 anni! Una propaganda veramente assurda e grottesca che non può trovare credito se non presso i diretti interessati. Di seguito pubblico nella prima prima parte alcuni di questi assurdi commenti ripresi integralmente dall’archivio di «Informazione Corretta». Nella Seconda parte copio con l'ocr la prefazione del libro di Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, uscita da poco anche in traduzione italiana presso Fazi editore.

Sommario: Parte I. Le falsità propagandistiche dei «Corretti Informatori». – Parte II. La “casa Rossa” come quartier generale della pulizia etnica. – Parte III. I Magnifici Undici della Pulizia Etnica nella memoria dei “sopravvissuti”. – Parte IV. Efraim Karsh come l’Antipappe, ma è falsificazione storica allo stato grezzo. – Parte V. Pappe risponde a Karsh con “La schedatura dei villaggi”. – Parte VI. Il piano di spartizione dell’Onu: alle radici della legittimità dello Stato sionista. – Parte VII. Distruzione dei villaggi e massacro degli abitanti. –

Parte I
Le falsità propagandistiche dei «Corretti Informatori»


a)
La Nakba che disturba il sonno dei giusti

La Repubblica Critica
15.05.2008 La visita di Bush in Israele, i razzi di Hamas su Ashkelon
e il 1948 secondo Alberto Stabile

Testata: La Repubblica
Data: 15 maggio 2008
Pagina: 18
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Bush al compleanno di Israele razzo di Hamas su un supermarket»
Da La REPUBBLICA del 15 maggio 2008, un articolo di Alberto Stabile, che scrive tra l’altro:
i palestinesi ricordano la "Nakba", la catastrofe, quell´insieme di eventi (esodo, espulsioni, confisca delle case, distruzione dei villaggi, sconfitta dei contingenti arabi accorsi in loro aiuto) che segnò la guerra del 1948 e il loro destino
Ricordiamo che nel 48 furono i palestinesi capeggiati dal muftì di Gerusalemme a scatenare una guerra per cacciare gli ebrei dal Medio Oriente.
[Che ci facevano gli ebrei “sionisti” in Medio Oriente ed a che titolo e come e quando vi erano giunti?]
I palestinesi non erano perseguitati
[i palestinesi sono notoriamente “amati” dai sionisti israeliani, ancor più se fuori dai loro villaggi, in carcere o sotto terra, come la Nakba insegna]
e gli eserciti arabi non accorsero in loro “aiuto”: accorsero a dar loro manforte nella guerra contro gli ebrei.
[Resta da capire perché mai i palestinesi se ne siano dovuti andare dai loro villaggi, perché non possono ritornarvi. Istruttiva la sorte di quelli che sono rimasti: una vista fatti di ricatti, di aparthed, di costrizione allo spionaggio ed alla delazione. Israele è per fortuna l’«unica» democrazia di stampo occidentale trapiantata in Medio Oriente, un “pezzo dell’Occidente” come dice il neo presidente Fini, peccato che sia un “pezzo di Occidente” nel posto sbagliato, cioè in Oriente.]

b)
La storia rivelata dai vinti

15.05.2008 La Storia non è questa
falsità sul 1948

Testata: Rai 3
Data: 15 maggio 2008
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «La Storia siamo noi»
Due affermazioni dalla puntata del 15/05/08 di "La Storia siamo no , relativa a Moshe Dayan

1)Nel 1948 Israele occupa e distrugge centinaia di villaggi arabi, creando centinaia di migliaia di profughi ai quali non verrà mai concesso il diritto di ritornare alle loro terre

2)Israele espelle migliaia di arabi dalle loro terre in cui abitavano da secoli

I profughi palestinesi sono fuggiti

[grottesco ragionamento: sono fuggiti, dunque... La colpa non è di quelli che li hanno fatti fuggire, ma di quelli che sono fuggiti.]

durante una guerra scatenata dagli arabi per scacciare gli ebrei.

[Gli ebrei sionisti stavano nei villaggi e nelle terre altrui per decreto di Jahvé]


Non esiste nessuna prova di una deliberata intenzione di Israele di cacciarli.

[La prova esiste, e come. Se non basta il ricordo dei “sopravvissuti”, vi sono pur sempre i documenti che escono dagli archivi. Curiosa l'idea che uno non sappia indicare il luogo dove si trovava la sua casa ed il suo villaggio, che in effetti è stato cancellato nelle carte georgrafiche israeliane. Curioso che a loro volta gli islareliani si lamentino della cartografia araba, indicando in ciò una prova dell’«antisemitismo» musulmano e pretendendo in tal modo la colpevole solidarietà occidentale, senza la quale in effetti non resistere un solo giorno. Sull’Occidente - tenuto sotto trauma con l’«Olocausto» – è in effetti basata tutta la prosperità economica di Israele e la sua potenza militare e perfino atomica.].

invece, esistono le prove degli appelli dei capi arabi ai palestinesi affinché lasciassero le loro case,

[Ammesso e non concessa questa versione della propaganda israeliana, il “diritto al ritorno nelle proprie case” esiste per i palestinesi ed è molto, ma molto più fondato di quello invocato dagli ebrei sionisti e rivendicato sulla bufala della Diaspora, per la quale si viene a rivendicare un diritto prescritto da... 2000 anni! È da chiedersi come il ministro Frattini si proponga un rinnovato avvicinamente ad Israele sulla base di inaudite simili assurdità. Potenza della democrazia!]

per farvi ritorno dopo la vittoria militare su Israele. Vittoria che per fortuna non ebbe luogo: Israele sopravvisse.

[Per nostra vergogna e colpa. Ma sopravvivono, generazione dopo generazione, i superstiti del genocidio e della pulizia etnica palestinese, il «vero Olocausto» della nostra epoca.]

Per inviare una e-mail alla redazione di Rai 3 e di La Storia siamo noi cliccare sul link sottostante

ruffini@rai.it
lastoriasiamonoi@rai.it

[Lo facciamo ben volentieri, inviando il link di questo nostro post in costruzione]


c)
I nervi scoperti della cattiva coscienza,
ma non Nakba bensì genocidio dovrebbe dirsi

Corriere della Sera Informazione che informa
17.05.2008 Il segretario generale dell'Onu chiama "nakba" (catastrofe) la nascita di Israele
al telefono con Abu Mazen; Gerusalemme protesta

Testata: Corriere della Sera
Data: 17 maggio 2008
Pagina: 14
Autore: la redazione
Titolo: «Ban Ki-moon e la «nakba», Gerusalemme contro l'Onu»
Dal CORRIERE della SERA del 17 maggio 2008:

GERUSALEMME — Forte irritazione a Gerusalemme per la gaffe del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon che ieri, secondo quanto aveva riferito la sua portavoce Michelle Montas, aveva telefonato al presidente palestinese Abu Mazen per riaffermare il sostegno dell'organizzazione al suo popolo in occasione della ricorrenza della Nakba cioè la «catastrofe», il termine utilizzato dagli arabi per ricordare la nascita di Israele nel 1948.
L'uso di tale termine è contestato dalle autorità israeliane, che hanno chiesto ai vertici dell'Onu di «eliminarlo dal proprio lessico».

Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera del 17 maggio 2008 cliccare sul link sottostante

***

Abbiamo riportato alcuni tipici “corretti” modi di raccontare ed interpretare la storia dell’insediamento coloniale ebraico-sionista in Medio Oriente. È come parlare con il muro, ma non sono nostri interlocutori i «Corretti Informatori» bensì quanti hanno bisogno di informazioni e riflessioni alternative in difesa da un articolato sistema della menzogna e della falsificazione. Denigrazione, diffamazione e delazione sono i momenti di una guerra ideologica di propaganda che nei sistemi giuridici occidentali, ipocritamente basati sui diritti umani, si avvalgono dei tribunali e delle prigioni per affermare una verità di stato in ambito storico e filosofico. Lo spettro dell’«antisemitismo» è uno dei motivi propagandistici che il Mossad indica ai loro collaboratori nei media occidentali per giustificare il diritto di ingerenza territorio arabo ovvero in ogni altra parte del mondo in cui l’Impero pensa di poter piantare le sue bandiere. È stato osservato che su diciotto milioni di ebrei nel mondo sei vivono negli Stati Uniti, sei fra Russia ed Europa e solo i restanti sei in Israele. Solo questi ultimi sono minacciati dalle popolazioni confinanti e dai profughi dei villaggi da cui gli israeliani li hanno scacciati. Lasciando perdere l’antisemitismo – con il quale non si può ormai infinocchiare nessuno che abbia autonomia di giudizio e buon senso – è da dire che in Usa ed in Europa gli ebrei godono di condizioni di privilegio rispetto a tutti gli altri cittadini. È un privilegio che si rivela odioso in democrazie basate sul principio di eguaglianza. Ma è un altro discorso. Qui ci si limita a constatare che in Medio Oriente si è innestata una classica contrapposizione di amico-nemico, nella quale i palestinesi hanno dalla loro tutte le ragioni del diritto e della giustizia da poter invocare contro Israele, mentre al mondo occidentale – padre del diritto e della democrazia – può essere fondatamente rimproverata una sostanziale ipocrisia. Nell’archivio di «Informazione Corretta» si trovano versioni della storia contemporanea a loro esclusivo uso e consumo. Non ce ne occuperemo ulteriormente. È sufficiente averne fornito questo recenti esempi.

Torna al Sommario.

Parte II
La “Casa Rossa” come quartier generale della pulizia etnica
(Ilan Pappe: Prefazione a “La Pulizia etnica della Palestina”,
trad. it. Fazi Editore)


La Casa Rossa

La Casa Rossa era un tipico edificio dell’antica Tel Aviv. Orgoglio dei costruttori e degli artigiani ebrei che l’avevano fabbricato negli anni Venti, era stato destinato a ospitare la sede del locale consiglio dei lavoratori. Tale rimase finché, verso la fine del 1947, divenne il quartiere generale dell’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista in Palestina. Situato vicino al mare, sulla Yarkon Street, nella parte nord di Tel Aviv, l’edificio costituiva un’ulteriore gradevole aggiunta alla prima città “ebraica” sul Mediterraneo, la “Città Bianca”, come la chiamavano affettuosamente i suoi letterati e i suoi notabili. In quei giorni, infatti, a differenza di oggi, il biancore immacolato delle sue case inondava ancora l'intera città nell’opulenta luminosità tipica dei porti del Mediterraneo di quell’epoca e di quella regione. Era una vista gradevole, un’elegante fusione di motivi Bauhaus con l’originaria architettura palestinese, in una mescolanza che veniva chiamata levantina nel senso meno spregiativo del termine. Tale era anche la Casa Rossa, con i suoi semplici tratti rettangolari, abbelliti da archi frontali che incorniciavano l’ingresso e sostenevano i balconi dei due piani superiori. Forse era stata l’associazione con un movimento di lavoratori ad aver ispirato l’aggettivo “rossa”, o forse era la sfumatura rosa che assumeva al tramonto ad aver dato alla casa il suo nome. La prima ipotesi è la più attendibile in quanto l’edificio continua a essere associato alla versione sionista del socialismo quando, nel 1970, divenne l’ufficio centrale del movimento israeliano dei kibbutz. Case come questa, importanti resti storici del periodo del Mandato britannico, hanno spinto l’UNESCO a dichiarare nel 2003 Tel Aviv patrimonio dell’umanità.

Oggi la casa non c’è più, vittima dello sviluppo che ha raso al suolo quell’edificio storico per far posto a un parcheggio vicino al nuovo hotel Sheraton. Quindi, anche in questa strada, non è rimasta alcuna traccia della Città Bianca, che si è lentamente trasformata, come per magia, nella dilagante, inquinata e stravagante metropoli che e la moderna Tel Aviv.

In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. La stessa sera venivano trasmessi alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno. A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominata in codice Piano D (Dalet in ebraico), questa era la quarta e ultima versione di piani meno sofisticati che stabilivano il destino che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e per la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti non avevano delineato chiaramente come la direzione sionista pensava di affrontare la presenza di una popolazione palestinese tanto numerosa che viveva sulla terra agognata come propria dal movimento nazionale ebraico. Quest’ultimo e definitivo progetto dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene. Simcha Flapan, uno dei primi storici che notò l’importanza del piano, rivela: «La campagna militare contro gli arabi, inclusa la “conquista e distruzione delle aree rurali” fu avviata dal Piano Dalet dell’Hagana». L’obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina.

Come cercherò di dimostrare nei primi capitoli di questo libro, il piano era da un lato il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina, dall’altro una risposta agli sviluppi sul campo dopo che il governo britannico aveva deciso di porre fine al Mandato. Gli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetto per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulita. La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un’iniziativa di pulizia etnica dell’intero paese nel marzo del 1948.

Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 vifiaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano, deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di un’operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità.

Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l’avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall’uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna della terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata, e ancora oggi non è riconosciuta come un fatto storico e tantomeno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente sia moralmente.


La pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo commettono sono considerate dei criminali da portare davanti a tribunali speciali. Può essere difficile decidere come definire o come trattare, nella sfera legale, quanti iniziarono e perpetrarono la pulizia etnica in Palestina nel 1948, ma è possibile descrivere i loro misfatti e giungere a una ricostruzione storiografica più accurata di quelle fino a ora disponibili e a una posizione morale di maggiore integrità.

Conosciamo i nomi delle persone che sedevano in quella stanza all’ultimo piano della Casa Rossa, sotto manifesti in stile marxista, che proponevano slogan del tipo «Fratelli in armi» e «Pugno di acciaio» e ostentavano i «nuovi» ebrei - muscolosi, robusti e abbronzati - con i fucili puntati da dietro barriere protettive nella «coraggiosa lotta» contro i «nemici arabi invasori». Conosciamo anche i nomi degli ufficiali superiori che eseguirono gli ordini sul campo. Sono tutte figure familiari nel pantheon dell’eroismo israeliano’. Non molto tempo fa molti di loro erano ancora vivi e occupavano posizioni di primo piano nella politica e nella società israeliane; pochissimi sono oggi ancora in vita.

Per i palestinesi, e per chiunque altro rifiutasse di accettare la narrazione sionista, era chiaro, molto tempo prima che questo libro venisse scritto, che costoro erano autori di crimini, ma che erano riusciti a sfuggire alla giustizia e probabilmente non sarebbero mai stati sottoposti a giudizio per ciò che avevano commesso. Per i palestinesi, la forma più profonda di frustrazione, al di là del trauma, è stato il fatto che l’atto criminale di cui questi uomini furono responsabili sia stato totalmente negato e che la loro sofferenza sia stata completamente ignorata fin dal 1948.

Circa trent’anni fa, le vittime della pulizia etnica iniziarono a ricostruire il quadro storico che la narrazione ufficiale israeliana aveva cercato in ogni modo di nascondere e distorcere. La storiografia israeliana parlava di «trasferimento volontario» di massa di centinaia di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente le loro case e i loro villaggi per dare via libera agli eserciti arabi invasori che puntavano a distruggere il neonato Stato ebraico. Nel 1970 gli storici palestinesi, in particolare Walid Khalidi, raccogliendo memorie e documenti autentici su quanto era accaduto alloro popolo, furono in grado di ricostruire una parte significativa dello scenario che Israele aveva cercato di cancellare. Essi furono però rapidamente messi in ombra da pubblicazioni come Genesis 1948 di Dan Kurzman, che apparve nel 1970 e nuovamente nel 1992 (questa volta con un’introduzione di uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina, Yitzhak Rabin, al tempo primo ministro di Israele). Ci fu però anche chi sostenne apertamente il punto di vista palestinese, come Michael Palumbo, il cui The Palestinian Catastrophe, pubblicato nel 1987, confermava la versione palestinese degli eventi del 1948 con l’ausilio di documenti dell’ONU e interviste a profughi ed esuli, le cui memorie di quello che avevano subito durante la Nakba dimostravano di essere ancora ossessivamente vivide.

Negli anni Ottanta, la comparsa sulla scena israeliana della cosiddetta “nuova storia” avrebbe potuto imprimere una svolta importante nella lotta per la memoria in Palestina. Si trattava del tentativo, da parte di un piccolo gruppo di storici israeliani, di rivedere la narrazione sionista della guerra del 1948. Io ero uno di loro. Ma noi, i nuovi storici, non abbiamo mai contribuito in modo significativo alla lotta contro la negazione della Nakba perché abbiamo eluso la questione della pulizia etnica e, tipico degli storici diplomatici, ci siamo concentrati sui particolari. Tuttavia, utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani, gli storici revisionisti sono riusciti a dimostrare quanto fosse falsa e assurda la pretesa israeliana che i palestinesi se ne fossero andati "volontariamente", sono stati in grado di confermare molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città e hanno rivelato che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità, massacri compresi.

Una delle figure più note tra quanti hanno scritto sull’argomento è lo storico israeliano Benny Morris. Basandosi esclusivamente su documenti degli archivi militari israeliani, Morris ha fornito alla fine un quadro molto parziale di quanto era accaduto sul campo. Eppure, tutto questo è stato sufficiente perché alcuni dei suoi lettori israeliani si rendessero conto che la “fuga volontaria” dei palestinesi era un mito e che l’immagine che Israele aveva di sé, di aver condotto nel 1948 una guerra “morale” contro un mondo arabo “primitivo” e ostile, era notevolmente falsa e forse completamente superata.

Il quadro era parziale perché Morris prendeva alla lettera, o persino come verità assoluta, i rapporti dell’esercito israeliano che trovava negli archivi. Di conseguenza ignorò atrocità come la contaminazione dell’acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e le decine di massacri perpetrati dagli ebrei. Egli continuò a insistere - sbagliando - che prima del 15 maggio 1948 non c’erano state espulsioni forzate. Le fonti palestinesi indicano chiaramente che mesi prima dell’ingresso delle milizie arabe in Palestina, e quando ancora gli inglesi erano responsabili della legge e dell’ordine nel paese - quindi prima del 15 maggio -, le truppe ebraiche erano già riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi. Se Morris e gli altri avessero utilizzato le fonti palestinesi o fossero ricorsi alla storia orale, sarebbero stati in grado di giungere a una migliore conoscenza della pianificazione sistematica che era dietro l’espulsione dei palestinesi nel 1948 e di fornire una descrizione più veritiera dell’enormità dei crimini commessi dai soldati israeliani.

C’era allora, e c’è tuttora, un’esigenza, tanto storica quanto politica, di andare al di là di descrizioni come quella che troviamo in Morris, non solo al fine di completare il quadro (in realtà di fornirne l’altra metà), ma anche - e molto più importante perché non c’è altro modo, per noi, di capire fino in fondo le radici dell’attuale conflitto israelo-palestinese. Soprattutto però, c’è ovviamente un imperativo morale di continuare la lotta contro la negazione del crimine. Il tentativo di andare oltre è già stato avviato da altri. Il lavoro più importante, come era da attendersi, visti i suoi significativi contributi precedenti alla lotta contro la negazione, è stato il fondamentale libro di Walid Khalidi All That Remains. Si tratta di un elenco dei villaggi distrutti, che è ancora una guida essenziale per chiunque voglia comprendere l’enormità della catastrofe del 1948.

Si potrebbe affermare che la storia già emersa è di per sé sufficiente per far sorgere interrogativi inquietanti. Tuttavia, la “nuova storia” e i recenti contributi storiografici palestinesi non sono riusciti a far breccia nell’ambito pubblico della coscienza e dell’azione morale. In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948 sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948.

In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e usarlo per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948. Non ho dubbi che l’assenza fino a oggi del primo paradigma sia legato alla ragione per cui la negazione della catastrofe ha potuto continuare così a lungo. Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che “tragicamente, ma inevitabilmente” portò all’espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l’opposto: l’obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Alcune settimane dopo l’inizio delle operazioni di pulizia etnica, i vicini Stati arabi inviarono un piccolo esercito - piccolo in proporzione alla loro forza militare complessiva - per cercare inutilmente di impedirla. La guerra con gli eserciti arabi regolari non mise fine alle operazioni di pulizia etnica fino a quando queste non furono completate con successo nell’autunno del 1948.

Questa impostazione - adottare il paradigma della pulizia etnica come base di partenza per la narrazione del 1948 - a qualcuno potrà sembrare come un’imputazione già dall’inizio. A ogni modo il mio j’accuse è realmente diretto contro i politici che progettarono e i generali che perpetrarono la pulizia etnica. Eppure, quando faccio i loro nomi non lo faccio perché voglio che siano sottoposti a un processo postumo, ma allo scopo di umanizzare tanto le vittime quanto i carnefici: voglio evitare che i crimini commessi da Israele siano attribuiti a fattori elusivi quali “le circostanze”, “l’esercito” o, come la pone Morris, “a la guerre comme à la guerre” e simili vaghi riferimenti che deresponsabilizzano gli Stati sovrani e permettono agli individui di sfuggire alla giustizia. Io accuso, ma faccio anche parte della società che è condannata in questo libro. Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani. Di ciò tratta, in fondo, questo libro.

Non mi risulta che in precedenza qualcuno abbia mai tentato questa impostazione. Le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quel che accadde in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica. Da un lato la versione sionista-israeliana sostiene che la popolazione locale se ne andò “volontariamente”, dall’altro i palestinesi parlano di una “catastrofe” che li colpì, Nakba, un termine in qualche modo elusivo dal momento che si riferisce al disastro in sé e non tanto a chi o a che cosa lo ha causato. Il termine Nakba fu adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell’Olocausto ebraico (Shoah), ma l’aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente.

II libro si apre con una definizione di pulizia etnica che spero sia abbastanza trasparente da essere accettata da tutti, definizione che è servita come base per le azioni legali contro gli esecutori di simili crimini nel passato e ai nostri giorni. Può sorprendere che il classico discorso giuridico, complesso e (per molti esseri umani normali) impenetrabile, è qui sostituito da un linguaggio chiaro, privo di espressioni gergali. Tale semplicità non minimizza l’orrore dei fatti e non attenua la gravità del crimine. Al contrario: il risultato è una descrizione onesta di una politica atroce che la comunità internazionale oggi si rifiuta di perdonare.

La definizione generale di che cosa è la pulizia etnica si applica quasi alla lettera al caso della Palestina. In quanto tale, la storia di quello che accadde nel 1948 emerge come un capitolo non complicato, ma niente affatto, di conseguenza, semplificabile o secondario nella storia dell’espropriazione della Palestina. In realtà, l’adozione del prisma della pulizia etnica permette facilmente di penetrare il manto di complessità che i diplomatici di Israele quasi istintivamente esibiscono e dietro il quale gli accademici di Israele si nascondono abitualmente nel respingere i tentativi esterni di criticare il sionismo e lo Stato ebraico per la sua politica e il suo comportamento. «Gli stranieri», dicono nel mio paese, «non capiscono e non possono capire questa storia sconcertante» e quindi non occorre nemmeno tentare di spiegargliela. Né dovremmo permettere loro di intervenire nei tentativi di risolvere il conflitto - a meno che non accettino il punto di vista di Israele. Tutto quanto possono fare, come i governi nostri dicono al mondo da anni, è di permettere a “noi”, gli israeliani, in quanto rappresentanti della parte “civilizzata” e “razionale” nel conflitto, di trovare una soluzione equa per “noi stessi” e per l’altra parte, i palestinesi, che in definitiva compendiano il mondo arabo “non civilizzato” ed “emotivo” al quale la Palestina appartiene. Da quando gli Stati Uniti si sono dimostrati pronti ad adottare questo approccio perverso e ad avallare l’arroganza che lo sostiene, abbiamo avuto un “processo di pace” che non ha portato, e non poteva portare, da nessuna parte, dal momento che ignora totalmente il nocciolo del problema.

Ma la storia del 1948 non è per niente complicata e quindi questo libro è scritto sia per quanti vi si avvicinano per la prima volta, sia per quanti, già da molti anni e per varie ragioni, sono stati coinvolti nella questione palestinese e nei discorsi su come giungere a una soluzione. E nostro dovere strappare dall’oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l’umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele.

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Parte III
I Magnifici Undici della Pulizia Etnica
nella memoria dei “sopravvissuti”


1. Yitzhak Rabin. – A contrastare opere storiche pioneristiche come quella di Walid Khalidi, che raccoglieva «memorie e documenti autentici su quanto era accaduto» nel 1948 al popolo palestinese, uscì nel 1970 un’opera di Dan Kurzman, Genesis 1948, che si avvalse di un’introduzione di Yitzhak Rabin, all'epoca primo ministro di Israele, ma che fu «uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina» (Pappe, op. cit., 7). Egli «operò tanto a Lyyd quanto a Ramla, come pure nell’area della Grande Gerusalemme» (p. 17-18).

2. David Ben Gurion. – Di lui [2] scrive Pappe che nella sua residenza «furono discussi e completati i primi e gli ultimi capitoli della storia della pulizia etnica. Lo aiutò un piccolo grupo di persone che in questo libro chiamo la “Consulta”, riunito in gran segreto con il solo scopo di progettare e pianificare l’espropriazione dei palestinesi. In uno dei rari documenti che registra una riunione della Consulta, questa è chiamata Comitato consulente, Haveadah Hamyeazet. In un altro documento compaiono gli undici membri del Comitato, i cui nomi, benché cancellati dal censore, sono tuttavia riuscito a ricostruire. Questa cricca preparà i piani per la pulizia etnica e ne controllò l’esecuzione fino allo sradicamento di metà della popolazione autoctona palestinese. Ne facevano parte in primo luogo gli ufficiali di più alto grado dell’esercito del futuro Stato ebraico, come i leggendari Yigael Yadin [3] e Moshe Dayan [4]. A loro si univano personaggi poco conosciuti fuori d’Israele, ma profondamente radicati nel sentimento popolare, come Yigal Allon [5] e Yitzhak Sadeh [6]. Questi militari legarono con quanti noi oggi chiameremmo “orientalisti”, conoscitori del mondo arabo in generale e dei palestinesi in particolare, sia perché provenienti essi stessi da paesi arabi, sia perché esperti nel campo degli studi mediorientali […]. Sia gli ufficiali che gli esperti erano assistiti da comandanti regionali, come Moshe Kalman [7], che ripulì la zona di Safad, e Moshe Carmel [8], che spopolò la maggior parte della Galilea. Yitzhak Rabin [1] operò tanto a Lyyd quanto a Ramla, come pure nell’area della Grande Gerusalemme. […] Tra gli altri comandanti regionali troviam Shimon Avidan [9], che operò nel Sud e che Rehavam Zeevi [10] – suo campagno di battaglie – ricordava molti anni dopo come “Comandante della brigata Givati, che ripulì il fronte da decine di villaggi e città”. Era assistito da Yitzahak Pundak, che nel 2004 dichiarò su “Ha’aretz”: “C’erano duecento villaggi (sul fronte) e sono stati spazzati via. Abbiamo dovuto distruggerli altrimenti avremmo avuto qui arabi (cioè nella parte meridionale della Palestina) come li abbiamo in Galilea. Avremmo avuto un altro milione di palestinesi”. E inoltre c’erano gli ufficiali dei servizi segreti. Invece di limitarsi a raccogliere informazioni sul “nemico”, non solo ebbero un ruolo di primo piano nella pulizia etnica, ma parteciparono anche ad alcune delle peggiori atrocità parallele alla sistematica evacuazione dei palestinesi. Veniva lasciata loro ‘autorità di decidere quali villaggi distruggere e quali abitanti giustiziare’. Secondo quanto ricordano i sopravvissuti palestinesi, dopo che un villaggio o un quartiere era stato occupato, stava a questi decidere se il destino finale degli abitanti sarebbe stata la reclusione o la libertà, la vita o la morte. Nel 1948 Issar Harel [11] - poi divenuto primo capo del Mossad e del Shabak, i servizi segreti israeliani - supervisionava le operazioni di questi ufficiali. La sua figura era ben nota a molti israeliani: basso e tozzo, nel 1948 era solo colonnello, ma malgrado ciò era l’ufficiale di più alto grado a sovrintendere gli interrogatori, a preparare le liste nere e ogni altra forma di oppressione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana» (Pappe, op. cit., 16-18).

3. Yigael Yadin. – Di lui Pappe scrive come egli ricordasse che fu la «conoscenza minuta e dettagliata di ciò che accadeva in ogni singolo villaggio palestinese a consentire al comando militare sionista nel novembre del 1947 di concludere che «gli arabi palestinesi non avevano nessuno che li organizzasse adeguatamente». L’unico problema serio erano gli inglesi: «Se non fosse stato per gli inglesi, avremmo potuto domare la rivolta araba [l’opposizione alla Risoluzione di spartizione dell’ONU del 1947] nel giro di un mese» (op. cit., 36).

4. Moshe Dayan. –

5.
Yigal Allon. Vice di Yitzak Sadeh – il leggendario capo del Palmach – Ygal Allon «biasimava indirettamente la Consulta per non aver emesso ordini espliciti per un attacco globale agli inizi di dicembre. “Avremmo potuto prendere Giaffa con facilit, e avremmp dovuto attaccare anche i villaggi nelle vicinanze di Tel Aviv. Dobbiamo procedere a una serie di ‘punizioni collettive’ anche quando ci sono bambini nelle case [attaccate]» (op. cit., 87).

6.
Yitzhak Sadeh. –

7.
Moshe Kalman. –

8.
Moshe Carmel. –

9.
Shimon Avidan. –

10.
Rehavam Zeevi. –

11.
Issar Harel. –

(segue)

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Parte IV
Efraim Karsh come l’Antipappe, ma è falsificazione storica allo stato grezzo

La guerra del nostro tempo, il conflitto mediorientale, si svolge sul piano della propaganda e dell’ideologia molto più che non sul piano delle armi e della guerra guerreggiata con aerei, bombe, cannoni. Osservando ogni giorno i media italiani posso individuare le mosse mediatiche. Il libro di Ilan Pappe sulla pulizia etnica del 1948 è una mina destinata a sconvolgere il sionismo militante e propagandistica sui media italiani. Come già per il volume di Mearsheimer e Walt si tenta di correre ai ripari. Un argine mediatico si è forse creduto di averlo trovato in uno storico di nome Efraim Karsh, autore di un volume dal titolo certamente sbagliato se ci vuol convincere di un «Imperialismo islamico» quando ognuno può vedere l’esercito degli Usa e dei suoi vassalli in Afghanistan, Iraq, in Palestina. Ma torniamo a Kash, di cui riporto sotto l'ampio testo approntato dai «Corretti Informatori» e connesse agenzie sioniste. Ne farò in più sedute di lavoro un commento intertestuale. Qui anticipo alcuni motivi di critica. Non bisogna essere storici professionali per comprendere una verità storica evidente ad un bambino delle elementari. Si assiste in Palestina nell’arco degli ultimi cento anni ad un progressiva ben mirata e premeditata immigrazione ebraico-sionista volta ad espropriare ed espellere le popolazioni autoctone palestinesi che vi risiedevano da tempo immemorabile. Per il loro diritto all’esistenza è del tutto irrilevante il grado della loro consapevolezza politica e la loro capacità organizzativa. È stato dai sionisti rimproverato loro, per negarne il diritto ad esistere, la loro oscillante identità politica, ad esempio la grande Siria e simili strambi discorsi. Paradossalmente, sono proprio i sionisti ad aver dato ai palestinesi una crescente identità ed unità politica dal momento in cui meditarono di sterminarli, cioè di fare di essi genocidio secondo i significati anche normativi che questo concetto è venuto assumendo, da quando lo si è coniato per utilizzarlo contro la Germania e l’Europa tutta. Il concetto così creato si ritorce adesso contro lo stato di Israele che dal 1948 in poi è stata una vera e propria reincarnazione dello stato nazista.
Dai nazisti e dai loro metodi i sionisti hanno appreso molto, superando i loro maestri. A dirlo non sono io, ma Avraham Burg! Di tutte le cause di legittimazione che Karsh pensa di indicare a favore di Israele non ne sta in piedi neppure una. Qui non si tratta di scienza storica, che dovrebbe essere una ricostruzione veritiera di fatti storici secondo uno specifico metodo. Si tratta di filosofia politica e giuridica. E da questo punto di vista non si può invocare né l’autorità coloniale della Gran Bretagna, peraltro fatta oggetto in ultimo da parte israeliana di quello stesso “terrorismo” che oggi imputa ai suoi “nemici”, né l’ONU che non può disporre e disfare su nascita e morte degli stati né un inesistente diritto originario all'occupazione di terre altrui né un chimerico e fantastico diritto al ritorno in terre bibliche. Bastava – come era stato chiesto– che sulla spartizione della Palestina fosse stata adito la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, istituita nel 1946, perché venisse riconosciuta l’illegalità ed immoralità della risoluzione del 29 novembre 1947, che diede poi la stura finale alla pulizia etnica, da lungo tempo preparata. Esilarante in Karsh la balla secondo cui i sionisti avrebbero invaso la Palestina per portare “benessere” ai suoi abitanti autoctoni. Sappiamo tutti che i contadini palestinesi sono stati spossessati e scacciati dalle loro terre, quindi massacrati e che oggi vivono a Gaza in condizioni peggiori che in Auschwitz. Se il maggior titolo alla legittimità di Israele si trova nel senso di colpa verso gli ebrei da parte dell’Europa, vi è da obiettare: a) che questo senso di colpa è del tutto ingiustificato ed alquanto artificioso ed indotto; b) che a maggior ragione non si potrebbe mai giustificare un crimine
certo, verificabile, attuale come è l’insediamento ed il riconoscimento di Israele dal 1948 in poi a titolo di riparazione sulle spalle di un terzo di un presunto torto fatto dai nostri padri agli ebrei nel corso di una guerra trentennale che dal 1914 al 1945 ha comportato la distruzione politica dell’Europa. Se scrivere storia significa ricercare la verità nel passato, io dubito che Efraim Karsh abbia nulla a che fare con la storia, pur scimmiottandone i metodi.

18.05.2008 1948: i palestinesi non furono espulsi
[furono gentilmente e democraticamente invitati ad andarsene!]
un articolo dello storico israeliano Efraim Karsh


Testata:I segni dei tempi -tocqueville
Autore: Efraim Karsh
Titolo: «1948: Israele e Palestina, la vera storia»

Dal blog I SEGNI DEI TEMPI e dal portale TOCQUEVILLE, riportiamo la traduzione di un importante articolo dello storico israeliano Efraim Karsh sullo nascita di Israele e sul falso mito [falso lo dice chi?] della nakba palestinese

Efraim Karsh è a capo degli Studi Mediterranei del King’s College, University of London, e di recente autore de “ Imperialismo islamico: una Storia” (Yale) Questo articolo appare nel numero di maggio di Commentary. [che è tutto dire]


16 Maggio 2008 -

A sessanta anni dalla sua nascita, stabilita per il mezzo di uno strumento giuridico di auto-determinazione internazionalmente riconosciuto,
[Questo non è tema che ha a che fare con la storia. Il giudizio è quanto mai opinabile e soprattutto non confuta nulla alla tesi della pulizia etnica e del genocidio. Karsh vuol fare lo storico? Lo faccia. Con questo avvia ancora non possiamo accorgerci dell’esistenza dello storico. Anzi questo inizio getta il sospetto su ciò a cui l’illustre studioso vuole andarea a parare. Cosa vuol dire “internazionalmente riconosciuto”? Un’altro storico di nome Tom Segev scrive a proposito di quella famosa seduta del neonato Onu che si trattava di poco pi di un intrigo. In ogni caso nessuna aggregazioni di vincitori avrebbe mai potuto conferire legittimità alla creazione di uno stato a spese di un altro. Siamo qui alla classica tesi della dichiazione Onu come unico e fondamentale titolo di legittimazione della nascita dello Stato di Israele. Questa tesi comunque ci porta lontano dal quesito storico che qui ci interessa: i palestinesi furono o non furono cacciati dai loro villaggi? Vi fu o non vi fu pulizia etnica secondo la base storico-narrativa di Pappe? Se il suo collega inizia in questo modo, vi è di che diffidare. Ma andiamo avanti. Per adesso è da segnare una perdita iniziale di punti. Quanto poi all’autodeterminazione è un contributo storico di forza esilarante. Resta poi il fatto che il “riconoscimento” fu una manovra lobbistica ed occasionale. Le circa 80 condanne pronunciate dall’Onu verso Israele sono invece un fatto ben altrimenti significativo per il numero di pronunciamenti e per la loro costanza nel tempo. Da questa parte, dunque, non può essere invocato nessun titolo di legittimazione. La comunità internazionale – uscluso Usa e vassalli – condanna senza riserve e con chiarezza.]
Israele è l’unico stato al mondo
[Israele è davvero “unico” al mondo: per prepotenza, per capacità di falsificazione dei media, per capacità lobbistica. Ma fin qui non ci accorgiamo del novello Tucidide. Vediamo solo un comune propagandista di un'occupazione coloniale. Portiamo pazienza sperando di trovare più avanti argomentazioni storicamente apprezzabile, ma l’inizio è pessimo]
che deve subire un costante attacco
[storicamente parlando può parlarsi solo di occupazione coloniale da parte giudaico-sionista della Palestina. Il termine “attacco” è alquanto improprio ed è riferibile all'aggressore, non all’aggredito. Strana razza di storico questo Karsh, di cui per la verità apprendo solo ora il nome!]
consistente nelle più strampalate teorie di cospirazione
[ma quale cospirazione? L’immigrazione ebraica può anche essere vista come una forma cospirativa ai danni delle popolazioni palestinesi, volendo, ma in ciò non vi è proprio nulla di strampalato, se non nella testa di Efraim che vuole infinocchiare gli inesperti sprovveduti]
e “accuse del sangue” ( la falsa accusa cioè di usare sangue nei loro rituali);
[altra storia che a noi qui ora non interessa e che può riguardare la storia dell’ebraismo in tutto il suo arco storico. Qui ci occupiamo di pulizia etnica della Palestina nel 1948]

l’unico stato le cui politiche e azioni vengano ossessivamente condannate dalla comunità internazionale;
[e questo è un fatto, quando succede e non si frappone il veto del potente alleato Usa, succube di una Lobby. Mearsheimer e Walt hanno portato dei contributi che restano fondamentali e che per quanto io ne sappia e possa giudicare non sono stati “demoliti” (sic Molinari )]
l’unico stato il cui diritto d’esistere è costantemente dibattuto e sfidato non solo da suoi nemici arabi ma anche da alcuni segmenti della più avanzata opinione pubblica occidentale.
[Per la verità, io non sono in grado di valutare la consistenza delle forze in campo sul piano dei media. A me sembra che la stampa sia in buona parte piegata alla Lobby. Se qualche giornalista indipendente o semplicemente mosso dal suo senso di equità esce fuori dalla consegna, subito si scatena contro di lui una campagna di denigrazione, come si può già vedere nell’Archivio del «Corretti Informatori», direi composto da una bassa manovalanza rispetto a più alte ubicazioni della Lobby. Ognuno tuttavia conduce la sua lotta per la libertà e la giustizia negli spazi che gli sono propri e disponibili. In effetti, karsh parla solo di “alcuni segmenti”. Il che vuol dire che la maggior parte della “linea” si trova su “corrette” posizioni sioniste.]


Nello scorso decennio, la concreta eliminazione della Stato ebraico
[Ecco: lo Stato “ebraico”. Forse Efraim non è ben consapevole ed informato di cosa comporta l’indicazione di uno Stato “ebraico”. Ne discende un contenuto razziale, razzista, nazista, volendo essere sintetici. Ma il punto richiede approfondimenti per i quali non posso qui fare altro che rinviare alle elaborazioni di Avraham Burg, anche se forse non sufficiente ad esaurire il tema. Ma restiamo ancora in un ambito non storico. Fin qui Efraim si presenta come un ideologo di parte sionista, non ancora come uno storico – novello Tucidide – che debba e possa insegnarci qualcosa. Aspetto con pazienza che nelle righe successive appaia lo storico bandanzosamente annunciato dai “Corretti Informatori” per contrastare il recente libro di pappe sulla pulizia etnica perpetrata dallo Stato “ebraico” nel 1948, ma anche dopo fino ad oggi.]
Ma è diventato un caso di scuola per molti di questi occidentali ben informati. La “one-state solution”, come viene chiamata, è una formula eufemistica che propone la sostituzione di Israele con uno stato, teoricamente l’intero territorio della Palestina storica, in cui gli ebrei sarebbero ridotti ad essere una minoranza permanente.
[L’obiezione è che se questo soluzione fosse effettivamente praticabile, ad essere generosi sarebbero i palestinesi. Proviamo ad immaginare uno che scassi la porta della nostra abitazione, vi si piazzi dentro e noi in ultimo per amori di pace gli concediamo di poterci abitare allo stesso nostro titolo. I sionisti vogliono invece un regime di apartheid, dove gli arabi palestinesi, scampati alla Nakba del 1948, possano vivere in un perpetuo regime autizzativo simile a quello dei negri del Sud Africa. È questo lo stato “ebraico” divinato dai padri sionisti. Ma ancora in Efraim non riusciamo a vedere lo storico annunciato dai «Corretti Informator». Forse all’ultima riga incontreremo l'intellettuale professionista nel ruolo di “storico”: quanta pazienza occorre nella vita!]
Solamente questa soluzione, si afferma, può espiare il “peccato originale” della fondazione di Israele, un atto costruito (secondo le parole di un critico)
[peccato che non citi il nome di questo critico. Di certo, sono in molti a pensare allo Stato Unico come unica soluzione per porre termine ad una guerra che ha già toccato i Cento Anni e che rischia di diventare La Guerra Eterna, fondendosi con i motivi della religione che dai tempi delle Crociate oppone già Islam e Cristianesimo.]
sulle macerie della Palestina araba e ottenuta tramite il deliberato e aggressivo esproprio della sua popolazione natia.
[Se vuoi negare un siffatto “deliberato” e “aggressivo” esproprio tira fuori buoni argomenti da storico, non da mediocre ideologo quale finora appari]
Questa rivendicazione circa l’esistenza di un esproprio premeditato e il conseguente inizio della perdurante questione dei rifugiati palestinesi è, infatti, l’architrave dell’accusa sostenuta dalle cosiddette
[Il “cosiddetto” rivela la faziosità del sedicente storico. Se non sono “vittime” i palestinesi, sarà difficile trovarne di altre in giro per il mondo. Naturalmente fatta una sola eccezione: vittime sono solo gli Ebrei Olocaustici, che hanno il monopolio del dolore universale. Un vescovo, secondo quanto narrano Mearsheimer e Walt, osò mettere in dubbio un simile monopolio e subito si levarono i fulmini dell’ADL. Le vittime palestinesi sono una evidenza che perfino il papa giusto ieri ha certificato condannando quelle bombe a grappolo, nocive all'infanzia, ma di cui Israele fa ampio uso. Uno storico che incomincia con il negare le evidenze sotto gli occhi di tutti distrugge le sue credenziali prima ancora di averle esisbite.]
vittime di Israele e dai loro sostenitori occidentali. E’ un accusa che difficilmente poteva essere ignorata. Già a metà degli anni ’50, l’eminente storico americano J.C. Hurewitz intraprese una sistematica confutazione della teoria
[quale teoria? Teoria di che? Per giunta a metà degli anni cinquanta, prima che gli archivi fossero aperti e dove solo la testimonianza diretta ed oculare poteva far sapere qualcosa non già agli storici, ma ai giornalisti e cronisti dell'epoca. Ma noi qui vorremmo non delle citazioni da dover controllare, certi di non trovare nulla di quanto Efraim pretende di farci credere, ma nuove argomentazioni immediatamente fruibili. Alquanto dilettantesco il rinvio a citazioni non controllabili per i comuni lettori, salvo doverci credere per articolo di fede sionista. Il libro di Hurewitz cui si allude è del 1950. Non pochi “storici” ed “orientalisti” furono direttamente implicati nella pulizia etnica del 1948, come esce fuori dagli archivi solo recentemente resi disponibili. Non sono in grado di dire se lo Hurewitz e gli altri citati da Efraim siano stato direttamente responsabili dei crimini descritti e denunciati da Ilan Pappe. Non sono uno specialista di questi ambiti storiografici e posso solo leggere criticamente i risultati e gli scritti altrui, compresi quelli di Efraim.]
e le sue ricerche furono ampiamente confermate da successive generazioni di ricercatori e scrittori. Perfino Benny Morris, il più influente
[sarà pure il più influente, ma è fonte sospetta, di cui è lecito dubitare, secondo quanto scrive lo stesso Pappe, che ne conduce una dettagliata critica. Del resto, ormai sappiamo che i cosiddetti esperti possono ben essere uomini di parte. Ciò che fa un vero storico è la sua capacità di essere credibile per tutte le parti, pur concedendogli quella discrezionalità di giudizio che è propria di ogni essere umano.]
tra i “nuovi storici” revisionisti di Israele, e personaggio che si prodigò massimamente
[non massimamente, ma solo parzialmente, avendo ignorato sistematicamente le fonti palestinesi, secondo quanto gli viene espressamente contestato da Ilan Pappe, op. cit.,, 7-8 (sopra riportate). E se sono “parziali” i “nuovi storici” israeliani che possono accedere agli archivi, figuriamoci quanto possono esserlo i vecchi, che come nel caso dello “storico” Ben Zion-Luna (vedi sotto) furono i diretti ispiratori delle schedature che servirono per la pulizia etnica dei villaggi nel 1948, come narra sempre Pappe! Questi ed altri casi dimostrano quando occorre essere cauti nel dar credito agli storici ed agli esperti di ogni genere. Del resto, la storia del nazismo ha insegnato quanto si possa essere convinti nazisti in perfetta buona coscienza ed al tempo stesso eminentissimi esperti in ogni campo del sapere.]
per stabilire l’esistenza del “peccato originale” di Israele, dovette a malincuore ammettere che non ci fu mai un “disegno” per rimuovere gli arabi palestinesi.
[Ed invece ci fu fin dai primordi del sionismo. I passi che si possono citare sono innumerevoli e di due generi: a) di tipo ideologico. Non è difficile fare una raccolta di testi sionisti dove l’elemento autoctono indigeno è considerato con fastidio, disprezzo, repulsione. Esistono poi i documenti che possono farsi datare fin dalla fondazione dello JNF, nel 1901. La politica di esproprio delle terre non lascia adito a dubbi sulle intenzioni dei coloni immigrati.]
La recente opera di rimozione del segreto di stato su milioni di documenti risalenti al Mandato britannico(1920-1948) e agli albori d’Israele, precedentemente inaccessibili a generazioni di scrittori e ignorati, o distorti, dai “nuovi storici” dipingono un quadro storico molto più preciso.
[Questo lavoro di precisione e narrazione su nuove basi lo fa appunto Ilan Pappe, nel suo volume istituzionale La pulizia etnica della Palestina. I lavori precedente, citati da Efraim sono quantomeno superati. Altri lavori, che hanno fatto perdere la tramontana ai «Corretti Informatori» documentano come i palestinesi rimasti nel 1948 fossero stati costretti ad una triste vita di delazione reciproca. Altro che “unico” Stato democratico del Medio Oriente. Meno male che è l’«unico»]
Questi documenti rivelano che la rivendicazione di esproprio non è solo completamente infondata, ma il contrario della verità.
[Mettetevi d’accordo. Pappe sostiene il contrario. Io non conosco né l'arabo né l’ebraico e non è mio mestiere andare a lavorare negli archivi israeliani. La soluzione è semplice: si pubblichino i documenti che si citano e li si rendano disponibili ad ognuno, su internet, in edizioni accessibili. Io lo faccio nel mio proprio ambito disciplinare.]
Ciò che segue è basato su nuove ricerche basate su questi documenti, i quali contengono molti fatti e dati che finora non erano stati pubblicati.

* * *

A partire dai primi anni ’20, i capi degli palestinesi arabi, lontani dall’essere quegli sfortunati oggetti di un assalto predatorio sionista, furono, contro la volontà di gran parte dei loro compatrioti, coloro che intrapresero un’ininterrotta campagna al fine di annientare la ripresa di vitalità della nazione ebraica.
[Ma che significa? Quale vitalità della nazione ebraica se si trattava di frangie minoritarie di immigrati? Sarebbero questi i nuovi documenti? Basta leggersi le statistiche note dell'immigrazione storica degli ebrei per smascherare come folle e demeziale l'immagine di una «ripresa di vitalità della nazione ebraica». Pappe rivela l’esistenza di un piano C, del 1946, che fondeva precedenti piani A e B, ora formulato nei seguenti termini:

Uccidere la dirigenza politica palestinese.
Uccidere gli istigatori palestinesi e i loro finanziatori.
uccidere i palestinesi cge agivano contro gli ebrei.
Uccidere gli ufficiali e i funzionari palestinesi (del sistema mandatario).
Danneggiare i trasporti palestinesi.
Danneggiare le fonti di sussistenza palestinesi: pozzi d’acqua, mulini, ecc.
Attaccare i villaggi palestinesi vicini che avrebbero potuto partecipare ad attacchi futuri.
Attaccare i club, i caffè, i ritrovi palestinesi, ecc. (Pappe, 43-44)]
La campagna culminò nel violento tentativo di fermare l’applicazione della risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947,
[Bel salto logico e storico! negli anni ’20 di Onu non esisteva neppure l'ombra e nessuno pensava che sarebbe mai esistito. Nel 1947 era appena nato e la commissione che si occupà della Palestina, l’UNSCOP, non aveva neppure la più pallida idea dei disastri che stava combinando. Sarebbe bastato riportare il tutto alla Corte Internazionale di Giustizia dell”Aia, istituita l’anno prima, perché venisse riconosciutà l’illegalità e l'immoralità della risoluzione Onu, così riassunto dallo storico palestinese Walid Khalidi: «La popolazione nativa della Palestina, così come la popolazione nativa di qualunque altro paese del mondo arabo, dell’Asia, dell’Africa, dell‘America o dell’Europa, si rifiuta di spartire la terra con una comunità di coloni» (cit. in Pappe, op. cit., 50)]
la quale richiedeva la nascita di due stati in Palestina. Se questi leader e le loro controparti negli stati arabi vicini avessero accettato la risoluzione dell’ONU,
[E meno male che esiste il detto la storia non si fa con i se. A non conoscere questo principio è addirittura uno storico sedicente tale. Se però si legge Pappe, si trovano pagine dove si comprende come queste illazioni di Efraim Karsh sono totalmente strampalate e staccate dal reale contesto dei fatti. In ogni caso nessun popolo che avesse avuto appena un poco di dignità avrebbe potuto accettare un piano di spartizione contrario al diritto ed all'etica, per giunto deciso sulle loro spalle. Questa pratica di rendere un popolo un mero oggetto del diritto anziché un soggetto sarà praticata fino ai nostri giorni, pretendendo che la pace per i palestinesi possa venire decisa fra gli Usa ed israele, tenendo eslcusi i palestinesi. Di questa mostruosità giuridica, che Carl Schmitt denunciava per la Germania uscita da Versailles, ci si deve infine essere accorti. Ma allo scopo di produrre un fantoccio come Abu Mazen al quale far firmare ciò che gli occupanti avessero deciso. In questi giorni sembra che perfino Abu Mazen abbia rifiutato il ruolo di utile idiota al quale era stato predestinato se provvidenzialmente Hamas non avesse scoperchiato l’inganno]
non ci sarebbe stata alcuna guerra e nessuna diaspora.
[Ma guarda un poco! Quei fessi di palestinesi si sono lasciati sfuggire un ghiotta occasione! Tucidide non sarebbe mai stato capace di così elevate ed acute riflessioni, degne dei posteri.]
La verità è che il movimento sionista fu sempre disponibile ad accettare l’esistenza nel futuro Stato ebraico
[Leggi sopra il piano C. Resta tuttavia l’assurdo piano concessorio di una banda di criminali assassini che occupano terre e villaggi altrui e pensano di poter pure essere magnanimi. Quanto poi ci si possa fidare di autentici criminali è cosa di cui ognuno può giudicare. E questo sarebbe lo storico messo in campo contro Ilan Pappe!]
di una consistente minoranza araba, che avrebbe partecipato senza discriminazioni “attraverso tutti settori della vita pubblica del paese”.
[Graziosa concessione di un’infima minoranza di coloni ad una stragrande maggioranza di nativi. Se questo non è razzismo della specie peggiore…]
Sono le parole di Ze'ev Jabotinsky, il padre fondatore di quella parte del Sionismo precursore del Partito Likud. In un famoso articolo del 1923, Jabotinsky affermò di essere pronto “ a prestare un giuramento che vincolasse noi e i nostri discendenti a non fare mai nulla contrario al principio dell’eguaglianza dei diritti, e che non tenteremo mai di espellere qualcuno”.
[Qui Efraim mente spudoratamente, poco mi importa se mente sapendo di mentire o crede a quel che dice. Non entro neppure nel merito di quanto sia da prendere sul serio il “classico” autore sionista da lui citato. Non sono questi i miei “classici”. Mi limito però a citare testuamente un passo di Ilan Pappe che confuta magistralmente le asserzioni di Efraim Karsh:
«Quando si affronta la ricostruzione di quella parte di un processo storico in cui un’ideologia astratta diventa realtà tangibile, ci sono due opzioni che noi storici possiamo scegliere. Nel caso della Palestina del 1948 la prima è quella di attirare l’attenzione del lettore sulla coerenza dei leader sionisti - da Herzl fino a Ben Gurion - nel loro desiderio di svuotare il futuro Stato ebraico di quanti più palestinesi possibile e poi di descrivere come tale desiderio si sia incontrato con le espulsioni reali perpetrate nel 1948. Questo approccio è rappresentato in modo eccellente dal lavoro dello storico Nur Masalha, che ha registrato meticolosamente per noi la genealogia del sogno e dei piani di espulsione dei "padri fondatori" sionisti". Masalha dimostra come il desiderio di dearabizzare la Palestina costituisse un pilastro decisivo del pensiero sionista proprio dal primo momento in cui il movimento fece il suo ingresso sulla scena politica, nella formulazione che gli aveva dato Theodor Herzl. Come abbiamo visto, i pensieri di Ben Gurion sulla questione erano già espressi chiaramente nel 1937. Il suo biografo Michael Bar-Zohar spiega: «Nelle discussioni interne, nelle direttive alla sua gente, il "Vecchio" mostrava una posizione chiara: era preferibile che il minor numero possibile di arabi rimanesse entro l’area dello Stato». L’altra opzione per noi storici è quella di concentrarsi su come si svilupparono i piani di azione e di cercare di dimostrare come, riunione dopo riunione, le decisioni sulla strategia e i suoi metodi si fusero gradualmente in un piano globale e sistematico di pulizia etnica. Io userò entrambe le opzioni.

Il problema di che cosa fare della popolazione palestinese nel futuro Stato ebraico era tema di intense discussioni nei mesi precedenti la fine del Mandato e un nuovo concetto stava spuntando nei corridoi del potere sionista: «l’equilibrio». È un termine che si riferisce all’«equiibrio demografico» tra arabi ed ebrei in Palestina: quando la bilancia pende a sfavore di una maggioranza o esclusività ebraica nel paese, la situazione viene descritta come disastrosa. E l’equilibrio, sia all’interno dei confini che l’ONU offrì agli ebrei sia all’interno di quelli definiti dalla leadership sionista stessa, era esattamente quello che appariva agli occhi della leadership ebraica: un disastro incombente.

La leadership sionista arrivò a dare due generi di risposta a questa situazione: una a uso pubblico, l’altra per il gruppo ristretto degli intimi che Ben Gurion aveva raccolto intorno a sé. La politica che cominciarono a diffondere pubblicamente in luoghi aperti alla discussione come le locali Assemblee del Popolo (il “parlamento” ebraico in Palestina) era la necessità di incoraggiare una massiccia immigrazione di ebrei nel paese. In circoli più ristretti i leader ammettevano che anche la crescita dell’immigrazione non sarebbe mai stata sufficiente a controbilanciare la maggioranza palestinese: bisognava combinare l’immigrazione con altri mezzi. Ben Gurion aveva già descritto questi mezzi nel 1937, quando discuteva con gli amici dell’assenza di una solida maggioranza ebraica in uno Stato futuro. Diceva che una tale “realtà” - la maggioranza palestinese nel paese avrebbe obbligato i coloni ebraici a usare la forza per realizzare il “sogno” - una Palestina puramente ebraica. Dieci anni dopo, il 3 dicembre 1947, in un discorso di fronte ai membri

anziani del suo partito, il Mapai (il partito dei lavoratori di Eretz Israel), spiegò più esplicitamente come affrontare le realtà inaccettabili che la Risoluzione di spartizione dell’ONU lasciava prevedere:


“C’è il 40 per cento di non ebrei nell’area assegnata allo Stato ebraico. Questa composizione non è una base solida per uno Stato ebraico. E dobbiamo affrontare questa nuova realtà con rigore e chiarezza. Tale equilibrio demografico mette in questione la nostra capacità di mantenere la sovranità ebraica... Soltanto uno Stato con almeno l’80 per cento di ebrei è uno Stato stabile e sostenibile”.


II 2 novembre, cioè quasi un mese prima che venisse adottata la Risoluzione dell’ONU, in un ambito diverso, l’Esecutivo dell’Agenzia ebraica, Ben Gurion per la prima volta spiegò nei dettagli e nei termini più chiari possibili che la pulizia etnica costituiva il mezzo alternativo o complementare per assicurarsi che il nuovo Stato fosse esclusivamente ebraico. I palestinesi all’interno dello Stato ebraico, disse ai presenti, potevano diventare una quinta colonna, e in questo caso potevano «essere arrestati in massa o espulsi; è preferibile espellerli».

Ma come realizzare questo obiettivo strategico? Simcha Flapan sostiene che in quel momento la maggioranza dei leader sionisti, sul punto di compiere un’espulsione di massa, si sarebbe fermata. In altre parole, se i palestinesi si fossero astenuti dall’attaccare obiettivi ebraici dopo che era stata adottata la Risoluzione di spartizione sarebbe stato difficile per il movimento sionista realizzare la visione di una Palestina etnicamente ripulita. Eppure anche Flapan ammette che il Piano Dalet fosse un master plan per la pulizia etnica della Palestina. A differenza, per esempio, dell’analisi che Benny Morris offre nella prima edizione del suo libro sull’origine del problema dei profughi, ma molto in linea con le modifiche che apportò nella seconda edizione, il modello per la pulizia etnica della Palestina, il Piano Dalet, non fu creato dal nulla. Questo divenne uno schema definitivo in risposta al modo in cui gli eventi si andavano gradualmente dispiegando sui campo, attraverso un tipo di politica studiata per quel caso particolare, che però col tempo si cristallizzò. Ma quella risposta era sempre inesorabilmente fondata sull’ideologia sionista e sul suo obiettivo, che era lo Stato puramente ebraico. Così, l’obiettivo principale fu chiaro fin dall’inizio - la dearabizzazione della Palestina - mentre i mezzi per raggiungerlo si svilupparono nella maniera più efficace in sintonia con la reale occupazione militare dei territori palestinesi che dovevano diventare il nuovo Stato ebraico d’Israele.

Adesso che il territorio era stato definito e la supremazia militare assicurata, il quarto passo che la leadership sionista si accinse a fare per completare l’espropriazione della Palestina fu di mettere in campo i veri e propri mezzi concreti che le avrebbero permesso di trasferire una popolazione così numerosa. All’inizio di dicembre del 1947, sul territorio del futuro grande Stato ebraico viveva un milione di palestinesi su una popolazione complessiva palestinese di un milione e trecentomila, mentre la comunità ebraica era una minoranza di 600.000 persone. (Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, p. 67-70).


Undici anni dopo, Jabotinsky presiedette la stesura di una bozza di costituzione per la Palestina ebraica. Secondo le disposizioni della bozza, arabi e israeliani avrebbero condiviso sia le prerogative che i doveri dello Stato, compreso il servizio militare e civile. Ebrei e arabi avrebbero goduto dello stesso trattamento giuridico, e “in ogni gabinetto dove il primo ministro è un ebreo, il vice primo ministro sarebbe stato offerto ad un arabo e viceversa”.
[Il problema della costituzione per la quale si tentò di scomodare perfino il “nazista” Carl Schmitt (vedi) è insolubile per una ragione semplice. Le moderne costituzioni, basate sul modello dello stato di diritto sorto dalla rivoluzione francese, sono incardinate sul principio dell'eguaglianza e perfino sul principio della tutela delle minoranze. Lo stato sionista nasce su base razziale, cioè ha un suo riferimento imprenscindibile nell’elemento ebraico, sia esso costituito da una razza in senso biologico o da una comunità cementata dalla religione ebraica, da Jahve ed il suo “popolo eletto” – come ha perfino riconosciuto Bush nella sua ultima visita gratificando gli israeliani come “popolo eletto" e quindi dando implicitamente di meri “bastardi” a tutti gli altri popoli, compreso quello americano, che in un certo senso è il più “bastardo” di tutti i popoli della terra –; razzista, cioè nel senso di una etnia che pone per se stessa un principio di superiorità rispetto a tutti gli altri popoli, come è indubbio e logico che un popolo “eletto” sia; nazista, per il combinato disposto di razziale e razzista, secondo la comune rappresentazione di ciò che il nazismo è. Una costituzione su questi fondamenti è impresentabile alla Comunità internazionale. Naturarlmente, Efraim Karsh ha un concetto alquanto vago di cosa una costituzione sia. Ed è per questo che può dire sciocchezze, che non hanno nulla a che fare né con la storia con la storia concreta dei fatti e delle idee inveratesi né con il diritto.]


Se questa fu la posizione della fazione più militante del movimento nazionale ebraico, la corrente maggioritaria del Sionismo non solo diede per scontato l’eguaglianza con la minoranza araba nel futuro Stato ebraico, ma si sforzò di promuovere la coesistenza arabo-israeliana. Nel 1919 Chaim Weizmann, allora l’emergente leader del movimento sionista, raggiunse un accordo di pace e cooperazione con l’emiro hashemita Faisal ibn Hussein, il vero capo del nascente movimento pan-arabo. Da allora fino alla proclamazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, il portavoce del movimento sionista s’incontro centinaia di volte con i leader arabi a tutti i livelli. Tra questi Abdullah ibn Hussein, il fratello maggiore di Faisal e fondatore dell’emirato della Transgiordania (in seguito il regno di Giordania), attuali ed ex-primi ministri della Siria, Libano, Egitto e Iraq, i consiglieri d più alto grado del re Abdul Aziz ibn Saud (fondatore dell’Arabia Saudita) e le elite arabe palestinesi di ogni estrazione.

Non più tardi del 15 settembre 1947, due mesi prima dell’approvazione della risoluzione di partizione dell’ONU, due inviati sionisti stavano ancora cercando di convincere Abdel Rahman Azzam, Segretario Generale della Lega Araba, che il conflitto palestinese “stava inutilmente assorbendo le migliori energie della Lega Araba”, e che sia arabi sia ebrei avrebbero grandemente beneficiato “ da politiche attive di cooperazione e sviluppo”. Dietro questa proposta risiedeva una antica speranza sionista: che cioè il progresso materiale apportato dagli insediamenti ebraici in Palestina avrebbe facilitato il cammino delle popolazioni arabe locali verso una riconciliazione permanente, se non addirittura una positiva attitudine al progetto di auto-determinazione ebraico. Come David Ben-Gurion, prossimo a diventare il primo primo ministro di Israele, affermò nel dicembre del 1947:

Se il cittadino arabo si sentirà a casa nel nostro stato… se lo stato lo aiuterà in modo veritiero e dedicato al fine di raggiungere il livello economico, sociale e culturale della comunità ebraica, allora la sfiducia araba si placherà di conseguenza e un ponte sarà costruito verso un alleanza semitica ebraica –araba.

Apparentemente, la speranza di Ben-Gurion si fondava su basi ragionevoli. Un flusso di immigrati ebrei e di capitali dopo la prima guerra mondiale stimolò la fino ad allora statica condizione economica della Palestina e migliorò la qualità della vita dei suoi abitanti arabi ben al di sopra del livello esistente negli stati arabi vicini. La crescita dell’industria e dell’agricoltura araba, in particolare nella produzione di agrumi, fu ampiamente finanziata dal capitale così ottenuto, e le conoscenze tecniche ebraiche contribuirono molto a sviluppare le coltivazioni arabe. Nei venti anni tra le due guerre mondiali, le piantagioni di agrumi di proprietà araba crebbero di sei volte così come fecero le terre dove crescevano le verdure, mentre il numero di uliveti aumentò di quattro volte.

Notevoli furono anche i progressi nel benessere sociale. Forse la cosa più significativa fu il drastico calo de tasso di mortalità tra la popolazione musulmana e le aspettative di vita crebbero dai 37,5 anni del 1926-27 ai 50 anni del 1942-1944 (rispetto ai 33 dell’ Egitto). Il tasso di crescita naturale crebbe di un terzo.

Il fatto che nulla di tutto questo stesse accadendo nei vicini paesi arabi dominati dai britannici, per non dire dell’India, può essere spiegato solamente dal decisivo apporto degli ebrei al benessere socioeconomico del Mandato in Palestina. Le autorità britanniche lo riconobbero in un rapporto di una commissione d’inchiesta presieduta da Lord Peel:

Il generale effetto benefico dell’immigrazione ebraica sul benessere arabo è illustrato dal fatto che la crescita della popolazione araba è più marcata nelle aree urbane influenzate dallo sviluppo ebraico. Un paragone sui dati del censimento del 1922 e 1931 mostrano che, sei anni fa, l’aumento percentuale ad Haifa è stato dell’86%, a Jaffa del 62%, a Gerusalemme del 37%, mentre in città puramente arabe come Nablus ed Hebron solo del 7% e a Gaza ci fu una flessione del 2 %.

Se alla grande maggioranza dei palestinesi arabi fosse stato consentito di decidere per se stessi, essi sarebbero stati molto probabilmente soddisfatti di trarre vantaggio dalle opportunità loro offerte. Questo è reso evidente dal fatto che, per tutto il periodo del Mandato, i periodi di pacifica coesistenza furono maggiori rispetto alle esplosioni di violenza, e queste ultime furono opera solo di una piccola frazione di palestinesi arabi. Sfortunatamente sia per arabi che ebrei, i desideri e le speranze della gente comune non furono prese in considerazione, come avviene raramente nelle comunità autoritarie ostili alla nozione di società civile o alla democrazia liberale. Nel mondo moderno, inoltre, non furono i poveri e gli oppressi a guidare le grandi rivoluzioni o a compiere i peggiori atti di violenza, quanto piuttosto le avanguardie militanti tra le classi della società meglio educate e più benestanti.

Così fu per i palestinesi. Nelle parole del rapporto Peel:

Abbiamo rilevato che sebbene gli arabi abbiano beneficiato dagli sviluppi del paese dovuti all’immigrazione ebraica, questo non ha avuto alcun effetto di riconciliazione. Al contrario… con quasi matematica precisione il miglioramento della situazione economica in Palestina ha significato il deterioramento della situazione politica.

In Palestina, gli arabi comuni venivano perseguitati e uccisi dai più alto-locati ( i “migliori”) nella comunità per il crimine di “vendere la Palestina” agli ebrei. Nel frattempo, quegli stessi “migliori” si arricchivano impunemente. Il leale pan-arabista Abdel Hadi, che giurò di combattere “fino a quando la Palestina fosse posta sotto un libero governo arabo oppure fosse diventata un cimitero per tutti gli ebrei nel paese”, facilitò la cessione di 7500 acri al movimento sionista, e alcuni dei suoi parenti, tutte rispettate figure politiche e religiose, andarono un passo oltre, vendendo interi lotti di terreno. Così fecero molti componenti della famiglia Husseini, il preminente clan arabo palestinese durante il periodo del Mandato, incluso Muhammad Tahir, padre di Hajj Amin Husseini, il famigerato muftì di Gerusalemme.

Fu la preoccupazione da parte del muftì di consolidare la propria posizione politica la vera ragione del massacro del 1929 in cui 133 ebrei furono trucidati e altre centinaia feriti - esattamente come la lotta per la preminenza politica che innescò il più lungo periodo di violenza palestinese-araba nel periodo 1936-39. Questa fu illustrata come una rivolta nazionalista contro il dominio britannico e i rifugiati ebrei che allora stavano arrivando con i piroscafi in Palestina, scappando dalla persecuzione nazista. In realtà, essa fu un enorme utilizzo della violenza che vide molti più arabi che ebrei o inglesi uccisi da bande armate arabe, le quali repressero e abusarono della popolazione araba, cosa che costrinse migliaia di arabi a fuggire dal paese in quello che fu un assaggio dell’esodo del 1947-1948.

Alcuni palestinesi-arabi, infatti, preferirono reagire e combattere contro i loro istigatori, spesso in collaborazione con le autorità britanniche e l’Hagana, la più grande organizzazione di difesa ebraica. Altri cercarono rifugio nei quartieri ebraici. Nonostante la paralisi provocata dall’atmosfera di terrore e uno spietato boicottaggio economico, la coesistenza arabo ebraica continuò su molti livelli pratici perfino durante periodi di tale agitazione, e fu ampiamente restaurata in seguito al loro calmarsi.

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Di fronte a un tale scenario, è facilmente comprensibile il motivo per cui la maggior parte dei palestinesi non volle avere nulla a che fare, 10 anni dopo, con il violento tentativo dell’ Alto Comitato Arabo (AHC) guidato dal muftì, l’effettivo “governo” dei palestinesi arabi, di sovvertire la risoluzione ONU sulla partizione del 1947. Con il ricordo del periodo 1936 – 39 ancora vivo nelle loro menti, molti scelsero di restare fuori dai combattimenti. In men che non si dica, numerosi villaggi arabi ( e alcune aree urbane) stavano negoziando accordi di pace con i loro vicini ebrei; altre località attraverso il paese agirono in modo simile senza il beneficio, però, di un accordo formale.

Nemmeno si può dire che i palestinesi comuni evitarono di sfidare silenziosamente la loro leadership. Nei suoi numerosi viaggi per la regione, Abdel Qader Husseini, comandante del distretto di Gerusalemme e parente stretto del muftì, trovò la popolazione indifferente, se non ostile, alle sua ripetuta chiamata alle armi. Ad Hebron, egli non riuscì a reclutare un singolo volontario alla forza armata salariata che stava cercando di formare in quella città; i suoi sforzi nelle città di Nablus, Tulkarem e Qalqiliya ebbero scarsa fortuna. Gli arabi dei villaggi da parte loro, furono perfino meno ricettivi alla sue richieste. In un posto, Beit Safafa, Abdel Qader venne umiliato e cacciato via dai locali arrabbiati perché il loro villaggio era stato trasformato in un centro da dove partivano attacchi contro gli ebrei. Quei pochi che risposero al suo appello, lo fecero in gran parte al fine di ottenere armi gratuitamente per la loro protezione personale per poi tornarsene a casa.

C’era una motivazione economica in questa ricerca di pacificazione. Lo scoppio delle ostilità orchestrato dall’ AHC provocò un marcato calo nel commercio e un correlativo aumento dei prezzi dei beni di consumo necessari. Molti villaggi, che dipendevano per la loro sussistenza dagli ebrei o sulle città con popolazione mista, non videro alcuna buona ragione nell’appoggiare l’esplicito obiettivo dell’ AHC di sottomettere gli ebrei affamandoli. Tale era la contrarietà alla guerra che all’inizio del febbraio 1948, oltre due mesi dopo l’inizio della campagna di violenza istigata dall’ AHC, Ben-Gurion poteva affermare che “i villaggi, nella loro gran parte, erano rimasti ai margini”.

L’analisi di Ben Gurion fu condivisa da generale iracheno Ismail Safwat, comandante in capo dell’esercito di liberazione arabo (ALA), la forza volontaria araba che fu più combattiva nei mesi che precedettero la proclamazione d’indipendenza di Israele. Safwat lamentava che solamente 800 dei 5000 volontari addestrati dall’ALA provenissero dalla Palestina, e che la maggior parte avesse disertato prima di completare l’addestramento oppure immediatamente dopo. Fawzi Qawuqji, il comandante locale dell’ALA non fu meno caustico, trovando i palestinesi “poco affidabili, eccitabili e difficilmente controllabili, e in un conflitto armato virtualmente inutilizzabili”.

Questo punto di vista riassumeva la maggior parte delle percezioni contemporanee durante i fatali sei mesi di combattimenti seguiti all’approvazione della risoluzione sulla partizione. Anche quando questi mesi videro la quasi completa disintegrazione della società arabo palestinese, nessuno la descrisse come un sistematico esproprio degli arabi da parte d egli ebrei. Al contrario: con la risoluzione di partizione, per lo più vista dai capi arabi come “ sionista nell’ispirazione, sionista per principio, sionista nella sostanza e sionista nella maggior parte dei dettagli” (secondo le parole dell’accademico palestinese Walid Khalidi) e con quegli stessi leader brutalmente franchi nella determinazione di sovvertirne i contenuti con l’uso delle armi, non c’era alcun dubbio circa l’identità di chi aveva istigato lo spargimento di sangue.

Nemmeno si può affermare che gli arabi provarono a nascondere la loro responsabilità. Mentre gli ebrei si accingevano a preparare le fondamenta per il loro Stato nascente e contemporaneamente sforzandosi di convincere i loro compatrioti arabi che essi sarebbero stati (come aveva detto Ben-Gurion) “eguali cittadini, eguali in tutto senza alcuna eccezione”, i capi palestinesi promisero che “se la partizione si fosse realizzata, essa sarebbe stata raggiunta solo sopra i corpi degli arabi della Palestina, i loro figli e le loro donne”. Qawuqji “giurò di gettare tutti gli ebrei a mare”. Abdel Qader Husseini affermò che “il problema della Palestina sarà risolto solo con la spada; tutti gli ebrei devono lasciare la Palestina.”

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Essi e i loro colleghi istigatori arabi fecero del loro meglio affinché tali minacce si realizzassero, utilizzando tutti mezzi a loro disposizione. In aggiunta alle forze regolari come quelle dell’ALA, guerriglieri e gruppi terroristici provocarono distruzione sia tra non combattenti sia tra unità da combattimento ebraiche. Sparatorie, colpi dei cecchini, imboscate, attentati esplosivi che nel mondo di oggi verrebbero considerate come crimini di guerra, erano all’ordine del giorno nelle vite dei civili. “ Gente innocente e inoffensiva, che pensa ai propri affari” scrisse il console generale americano a Gerusalemme Robert Macatee nel dicembre 1947,

viene colpita quando è sugli autobus, camminando per le strade e pallottole vaganti trovano persone innocenti perfino mentre dormono nei loro letti. Un donna ebrea, madre di cinque figli, fu colpita a Gerusalemme mentre stava appendendo i panni sul tetto. L’ambulanza che la stava trasportando d’urgenza all’ospedale fu mitragliato e, infine, chi partecipava al suo funerale fu attaccato e uno ad uno accoltellati fino alla morte.

Con l’aumentare del numero degli scontri, i civili arabi soffrirono a loro volta, e l’occasionale atrocità innescò cicli di violenza su larga scala. Così, l’uccisione nel dicembre del 1947 di sei lavoratori arabi, vicino alla raffineria di Haifa, perpetrata dal piccolo gruppo ebraico sotterraneo IZL fu seguito dal massacro immediato di 39 ebrei da parte dei loro colleghi arabi, così come l’uccisione di circa 100 arabi nella battaglia per il villaggio di Deir Yasin nell’aprile del 1948 fu “vendicato” nel giro di pochi giorni con l’uccisione di 77 tra infermiere e dottori ebrei sulla strada per l’ospedale Hadassah sul monte Scopus.

Tuttavia, mentre la leadership e i media ebraici descrissero questi eventi scioccanti per quello che in realtà erano, a volte non divulgando alcuni particolari al fine di evirare il panico e tenere la porta aperta alla riconciliazione arabo-ebraica, gli arabi dal canto loro non solo ingigantirono il numero delle vittime ad enormi proporzioni ma ne inventarono anche numerose che, però, non avvennero mai. La caduta di Haifa (21-22aprile) per esempio fece sorgere voci di massacri su larga scala, che circolarono per tutto il Medio Oriente e raggiunsero le capitali occidentali. Allo stesso modo, voci false furono fatte girare dopo la caduta di Tiberias (18 aprile), la battagli per Safed (nei primi di maggio) e a Jaffa dove alla fine di aprile il sindaco s’inventò un massacro di “centinaia di uomini e donne arabe”. I resoconti nei media arabi furono particolarmente scandalosi, tra cui la descrizione di fantomatici tatuaggi di falci e martelli sulle braccia dei combattenti IZL e accuse di distruzioni e stupri.

Fomentare un atmosfera di paura servì senza dubbio per raccogliere il più ampio consenso possibile a favore della causa palestinese e proiettare sugli ebrei l’immagine di brutali predatori. Ma fu anche un boomerang disastroso, diffondendo il panico all’interno della società palestinese. Questo, a sua volta aiuta a spiegare perché nell’aprile 1948 dopo quattro mesi di apparente progresso, questa fase dello sforzo bellico arabo fallì (sebbene all’inizio fosse la seconda, più ampia e prolungata fase che coinvolse le forze dei cinque stati arabi che avevano invaso la Palestina a metà maggio). Questo perché non solo la maggior parte dei palestinesi avevano rifiutato di unirsi alle ostilità, ma moltissimi avevano deciso di andarsene, lasciando le loro case per altri località nel paese o fuggendo nelle vicine terre arabe.

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In verità, molti erano partiti prima ancora dell’inizio delle ostilità e ancor di più fuggirono prima che la guerra raggiungesse la propria porta di casa. “Gli arabi stanno lasciando il paese con le loro famiglie in un numero considerevole e c’è un esodo dalle città miste dei centri arabi rurali” riferì Alan Cunningham l’Alto Commissario britannico nel dicembre 1947, aggiungendo un mese dopo che “ il panico tra la classe media persiste e vi è un costante esodo di chi si può permetter di lasciare il paese”.

Facendo eco a questi rapporti, le fonti d’intelligence di Hagana riportarono come a metà dicembre “ vi fosse una frenesia di andarsene in interi villaggi arabi” Prima della fine del mese, molte città palestinesi arabe si lamentavano dei gravi problemi creati dall’enorme flusso di gente dei villaggi e richiedevano all’AHC di aiutarli a trovare una soluzione a quella difficile situazione. Perfino i governi di Siria e Libano erano allarmati da questo precoce esodo, esigendo che l’AHC incoraggiasse i palestinesi a rimanere e combattere.

Ma non vi fu nessuno immediato incoraggiamento, né dall’AHC né da nessun altro. Infatti vi era una totale mancanza di coesione nazionale, per non dire di un senso condiviso di destino. Le città grandi e piccole agirono come se fossero unità a se stanti, pensando ai propri bisogni ed evitando qualunque piccolo sacrificio a favore delle altre città. Molti “comitati nazionali” ( i capi locali cioè) proibirono l’esportazione di alimenti e bevande dalle città ben rifornite verso le città e i villaggi più isolati. I commercianti arabi di Haifa si rifiutarono di alleviare una grave mancanza di farina a Jenin, mentre Gaza si rifiutò di esportare uova e pollame a Gerusalemme; ad Hebron guardie armate controllavano tutte le auto in partenza. Allo stesso tempo vi era una estesa attività di contrabbando, specialmente nelle città a popolazione mista, con prodotti alimentari che andavano verso i quartieri ebraici e viceversa.

La mancanza di una comune solidarietà fu similarmente evidenziata dal pessimo trattamento riservato alle centinaia di migliaia di rifugiati sparpagliati per il paese. Non solo non vi fu alcuno sforzo collettivo per alleviare la loro situazione, o anche una più esteso senso d’empatia che valicasse i confini del proprio vicinato, ma molti rifugiati furono maltrattati da chi temporaneamente li ospitava e furono soggetti al ridicolo e al disprezzo per la loro supposta codardia. Secondo un rapporto dell’intelligence ebraica: “ i rifugiati sono odiati ovunque vadano”.

Perfino le ultime vittime della guerra – i sopravissuti di Deir Yasin- non sfuggirono alla loro parte di maltrattamenti. Trovando rifugio nel vicino villaggio di Silwan molti furono presto ai ferri corti con i locali, al punto che il 14 aprile, appena cinque giorni dopo la tragedia, una delegazione di Silwan contattò gli uffici del AHC a Gerusalemme domandando che i sopravvissuti venissero trasferiti da qualche altra parte. Tuttavia nessuno aiuto per trovare loro una sistemazione fu immediato.

Alcune località si rifiutarono totalmente di accettare i rifugiati, per paura di gravare troppo sulle esigue risorse esistenti. Ad Acre le autorità impedirono di sbarcare agli arabi che fuggivano da Haifa; a Ramallah, la popolazione prevalentemente cristiana organizzò la propria milizia - non tanto per combattere gli ebrei quanto per impedire nuovi arrivi di musulmani. Molti sfruttarono la difficile situazione dei rifugiati in modo spregiudicato, in particolare approfittandosi di loro per quel che riguarda le necessità di base come trasporti e alloggi.

Nonostante tutto, i palestinesi continuarono a fuggire dalle loro case in numero sempre crescente. Ai primi di aprile circa 100.000 se n’erano già andati sebbene gli ebrei fossero ancora subendo dal punto di vista militare e non fossero certo in una posizione per costringere la popolazione araba ad abbandonare le loro case. ( Il 23 marzo, più di quattro mesi dopo l’inizio delle ostilità, il comandante in capo dell’ ALA, Safwat, notò con una certa sorpresa che gli ebrei “non hanno finora attaccato un solo villaggio arabo, se non in risposta ad una provocazione”). Con la dichiarazione d’indipendenza d’Israele il 14 maggio, il numero di rifugiati arabi era aumentato di tre volte. Persino allora, nessuno tra i 170.000-180.000 arabi che scapparono dai centri urbani e solo alcuni tra i 130-160.000 dai villaggi che avevano lasciato le loro case fu costretto dagli ebrei ad abbandonare le loro case.

Le eccezioni avvennero al culmine delle battaglie e furono dovute a considerazioni del caso di natura militare - ridurre il numero di perdite tra i civili, negare postazioni ai combattenti arabi ove non fossero disponibili forze ebraiche sufficienti per respingerli - piuttosto che per calcolo politico. Inoltre questi episodi furono accompagnati dagli sforzi di prevenire la fuga e incoraggiare il ritorno di chi lo aveva già fatto. Per citare un solo esempio, all’inizio di aprile un delegazione ebraica, comprendenti alti consiglieri sugli affari arabi, notabili locali e sindaci con stretti contatti con le località arabe vicine attraversarono dei villaggi arabi nella zona costiera, che si stava svuotando ad un passo impressionante, nel tentativo di convincere i loro abitanti a rimanere.

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Quello che più impressiona di questi sforzi da parte degli ebrei, è che avvennero in un momento in cui un enorme numero di palestinesi arabi erano “spinti” lontano dalle loro case proprio dai loro stessi capi e dalle forze militari arabe, sia che ciò fosse dovuto a considerazioni di natura militare sia per evitare che essi divenissero cittadini del nascente Stato ebraico. Nel più grande esempio in termini di dimensioni e notorietà, a decine di migliaia di arabi fu ordinato di lasciare la città di Haifa in base alle istruzione dell’AHC, nonostante gli strenui sforzi degli ebrei nel persuaderli a restare. Solo alcuni giorni prima alla comunità araba di 6000 persone di Tiberias toccò la stessa sorte, di essere cioè costretti dai propri capi a lasciare le loro case, in contrasto ai desideri degli ebrei locali. A Jaffa, la più grande città araba in Palestina, il municipio organizzò il trasferimento di migliaia di residenti sia per aria che per mare; a Gerusalemme l’AHC ordinò il trasferimento di donne e bambini, e un gruppo di capi locali spinse i residenti fuori dai propri quartieri.

Decine di migliaia di villaggi rurali furono sgombrati allo stesso modo in seguito all’ordine dell’AHC, di milizie locali arabe o dell’ALA. Entro poche settimane dall’arrivo di questa ultima in Palestina nel gennaio 1948, voci circolavano di ordini segreti rivolti agli arabi che vivevano in aree prevalentemente ebraiche di lasciare i loro villaggi al fine di usarli per scopi militari e per ridurre il rischio di diventare ostaggio degli ebrei.

Con l’inizio di febbraio questo fenomeno si era diffuso nella maggior parte del paese. Ottenne una considerabile spinta in aprile e maggio quando le forze dell’ALA e AHC erano ormai generalmente in rotta. Il 18 aprile, l’ufficio dell’ intelligence dell’ Hagana a Gerusalemme riportò la notizia di un nuovo ordine generale che ordinava di rimuovere le donne e i bambini da ogni villaggio in vicinanza alle località ebraiche. Dodici giorni dopo, la sua controparte ad Haifa riferì di un comando dell’ALA di evacuare tutti i villaggi arabi tra Tel Aviv e Haifa anticipando una nuova generale offensiva. Agli inizi di maggio, con l’intensificarsi degli scontri nella Galilea orientale, agli arabi locali venne ordinato di trasferire donne e bambini dalla zona di Rosh Pina, mentre nel sotto-ditretto di Gerusalemme, la Legione Araba Transgiordana diede l’ordine di sgomberare molta gente dai villaggi.

Per ciò che concerne il destino dei leader arabi, i quali misero i loro riluttanti connazionali su una traiettoria di collisione con il Sionismo a partire dagli anni ’20 e ’30 e che ora gli avevano trascinati indifesi in un conflitto mortale, essi si affrettarono a lasciare la Palestina e rimanendovial di fuori nel momento più critico. Seguendo l’indicazione di questi pezzi grossi, i capi locali si affrettarono in massa a lasciare il paese. L’Alto Commissario Cunningham riassunse ciò che stava accadendo con tipico sarcasmo britannico:

Voi dovreste sapere che il crollo del morale arabo in Palestina è in qualche modo dovuto all’aumentata tendenza di coloro che dovrebbero condurli a lasciare il paese… per esempio, a Jaffa il sindaco si è preso 4 gironi di vacanza 12 giorni fa e non ha più fatto ritorno, e metà dei componenti del comitato nazionale è partito. Ad Haifa i componenti arabi del municipio sono partiti tempo fa; i due capi dell’ esercito di liberazione araba (ALA) hanno lasciato il paese durante la recente battaglia. Ora anche il capo magistrato arabo è partito. In tutte le parti del paese la classe effendi ha continuato la propria evacuazione in un considerabile periodo di tempo e il fenomeno sta accelerando.

Arif al-Arifun, importante politico arabo durante il Mandato e il più autorevole tra gli storici palestinesi, descrisse questa prevalente atmosfera : “Ovunque uno andasse nel paese si sentiva ripetere questo: dove sono tutti i capi che dovrebbero mostrarci la strada? Dov’è l’AHC? Perché i suoi membri sono in Egitto in un momento in cui la Palestina, il loro paese, ha bisogno di loro?”

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Muhammad Nimr al-Khatib, un capo palestinese arabo durante la Guerra del 1948, riassunse la situazione con queste parole: “I palestinesi ebbero gli Stati arabi vicini che aprirono i loro confini e le loro porte ai rifugiati, mentre gli ebrei non avevano alternative se non trionfare oppure morire”.

Questa è abbastanza vero per gli ebrei, ma dimentica il motivo della fuga dei rifugiati e radicalmente falsifica la verità sulla loro ricezione altrove. Se non ricevettero la solidarietà dai loro compatrioti a casa, la reazione attraverso il mondo arabo fu, se possibile, ancora più aspra. Ci furono ripetuti richiami per il ritorno forzato dei rifugiati, o per lo meno dei giovani uomini pronti e arruolabili, molti dei quali arrivarono sotto la (falsa) scusa di diventare volontari nell’ALA. Con l’approssimarsi della fine del Mandato, il governo libanese rifiutò di rilasciare visti d’ingresso ai palestinesi maschi tra i 18 e 50 anni e ordinò a tutti gli “uomini abili e in salute” che fossero già entrati nel paese di registrarsi in modo ufficiale oppure essere considerati degli immigrati clandestini ed affrontare pienamente la risposta della legge.

Il governo siriano prese provvedimenti ancora più stringenti, proibendo l’accesso sul proprio territorio dei maschi palestinesi tra i 16 e 50 anni. In Egitto, una gran numero di manifestanti marciarono verso la sede della Lega Araba del Cairo presentando una petizione che prevedeva “per ogni palestinese abile e in condizione di maneggiare armi il divieto di rimanere all’estero”. Tale era il risentimento contro i palestinesi rifugiati che il direttore dell’istituto di educazione religiosa al-Azhar al Cairo, probabilmente la più importante autorità islamica, si sentì in dovere di emettere un decreto che faceva della protezione dei rifugiati un dovere religioso.

Il disprezzo per i palestinesi crebbe con il tempo. “La paura ha colpito i palestinesi arabi e sono scappati dal loro paese”, commentò Radio Baghdad la sera precedente l’invasione pan-araba di metà maggio del neonato stato d’Israele. “Queste sono parole dure veramente, tuttavia sono vere”. Il ministro degli interni libanese (e futuro presidente) Camille Chamoun usò termini più delicati , affermando che “ il popolo di Palestina, nella loro precedente lotta all’imperialismo e al Sionismo, dimostrarono di meritare l’indipendenza” ma “in questo momento decisivo della lotta non sono più degni allo stesso modo”

Non c’è da sorprendersi allora che così pochi tra i rifugiati palestinesi avessero biasimato il loro crollo ed diaspora sugli ebrei. Durante una missione di ispezione nel giugno 1949 Sir John Troutbeck, capo dell’Ufficio del Medio Oriente britannico al Cairo, e non un amico d’Israele o degli ebrei, fu sorpreso nelloscoprire che mentre i rifugiati

non esprimono risentimento contro gli ebrei ( o contro gli americani o contro di noi ) parlano con grandissima amarezza degli egiziani e degli altri stati arabi. “Noi sappiamo che è il nostro nemico” diranno, e si riferiscono ai loro fratelli arabi che, dichiarano, gli persuasero senza necessità a lasciare le loro case… Ho perfino sentito che molti dei rifugiati darebbero il benvenuto agli ebrei se fossero in procinto di conquistare il loro distretto.

Sessanta anni dopo il loro esodo, i rifugiati del 1948 e i loro discendenti rimangono negli squallidi campi dove sono stati tenuti per decenni dai loro compatrioti arabi, allevati nell’odio e in false speranze. Nel frattempo, i loro precedenti capi hanno sperperato tutte le successive opportunità d’indipendenza.

É davvero una tragedia per i palestinesi che i due leader che hanno segnato il loro sviluppo nazionale nel corso del ventesimo secolo - Hajj Amin Husseini eYasser Arafat, l’ultimo dei quali dominò la politica palestinese dalla metà degli anni ’60 fino alla morte nel 2004- furono dei megalomani estremisti accecati dall’odio anti-ebraico e profondamente ossessionati dalla violenza. Se il muftì avesse scelto di guidare il suo popolo verso la pace e la riconciliazione con i loro vicini ebrei, come egli stesso promise alle autorità britanniche che lo nominarono alla sua posizione di alto rango agli inizi degli anni ’20, i palestinesi avrebbero avuto nel 1948 il loro stato indipendente su di una consistente parte del Mandato della Palestina, e si sarebbero risparmiati la traumatica esperienza della diaspora e dell’esilio. Se Arafat avesse posto l’OLP sin dall’inizio su di un percorso di pace e riconciliazione, anziché renderla una delle organizzazione terroristiche con un numero di omicidi al proprio attivo tra più alti nei tempi moderni, uno Stato palestinese avrebbe potuto essere edificato alla fine degli anni ‘60 o agli inizi degli anni ’70, o nel 1979 come corollario al trattato di pace tra Egitto e Israele, o nel maggio 1999 come parte del processo di Oslo, o infine proprio in ultima istanza al summit del luglio 2000 di Camp David.

Invece, Arafat trasformò i territori posti sotto il suo controllo negli anni ’90 in un vero e proprio stato del terrore da cui egli lanciò una guerra totale ( la “intifada al-Aqsa”) subito dopo aver ricevuto l’offerta di uno stato indipendente palestinese nella striscia di Gaza e nel 92% della Cis-Giordania, con Gerusalemme Est come sua capitale. Nel corso della sua azione, egli sottopose, la popolazione della Cis-Giordania e della Striscia di Gaza ad un regime repressivo e corrotto nella peggiore tradizione della dittature arabe e sprofondò i loro standard di vita a livelli mai prima raggiunti.

Ciò che rende tutta questa situazione ancora più irritante è il fatto che Hajj Amin ed Arafat, tutt’altro che sfortunate aberrazioni, furono classici esempi di leader cinici e auto-referenziali prodotti dal sistema politico arabo. Proprio come la leadership palestinese durante il Mandato non ebbe scrupoli nell’incitare i propri concittadini contro il Sionismo e gli ebrei, mentre s’imbottiva le proprie tasche dei frutti dell’imprenditorialità ebraica, così i funzionari dell’OLP utilizzarono miliardi di dollari donati dagli stati arabi ricchi di petrolio e, durante l’era di Oslo, dalla comunità internazionale, per finanziare i loro lussuosi stili di vita mentre il palestinese medio si arrangiava come poteva per guadagnarsi da vivere.

Sei decenni dopo che il muftì e i suoi tirapiedi, rifiutando la risoluzione sulla partizione dell’ONU, condannarono la propria gente a vivere senza uno stato, le loro irresponsabili decisioni sono ripetute dalla presente generazione di leader palestinesi. Questo si applica non solo ad Hamas, che nel gennaio 2006 ha sostituito l’OLP alla guida dell’Autorità Palestinese, ma anche alla cosiddetta leadership moderata palestinese - a partire dal Presidente Mahmoud Abbas fino ad Ahmad Qureia (negoziatore degli Accordi di Oslo del 1993) e a Saeb Erekat, al primo ministro Salam Fayad – che si rifiuta di riconoscere l’esistenza stessa d’Israele come uno Stato ebraico e insiste nella piena attuazione del “diritto di ritorno”(dei rifugiati).

E così è per gli anti-sionisti occidentali che in nome della giustizia, nientemeno, richiedono oggi non una nuova e fondamentalmente diversa leadership araba, ma di smantellare lo Stato ebraico. Solo quando queste indoli cambieranno, i palestinesi arabi potranno realisticamente sperare di porsi alle spalle questa catastrofe auto-inflitta.

(traduzione di Frederick Dooley)


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Parte V
Pappe risponde a Karsh con il paragrafo sulla
“schedatura dei villaggi”


La schedatura dei villaggi

Ma non bastava solo assaporare l’eccitazione di attaccare un villaggio palestinese, ci voleva qualcosa di più: era necessaria una pianificazione sistematica. Il suggerimento venne da un giovane storico occhialuto dell’università ebraica, di nome Ben-Zion Luna, allora impiegato nel Dipartimento dell’istruzione dell’Agenzia ebraica. Luna sottolineò l’utilità di un registro dettagliato di tutti i villaggi arabi e propose che tale inventario fosse gestito dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF). «Questo sarebbe di grande aiuto alla redenzione del paese», scrisse al JNF. Non avrebbe potuto scegliere un uditorio migliore: la sua iniziativa di coinvolgere il JNF nella futura pulizia etnica avrebbe infuso ulteriore impeto e zelo ai piani di espulsione che seguirono.

Fondato nel 1901, il JNF è stato il principale strumento sionista per la colonizzazione della Palestina. Fungeva da agenzia del movimento sionista per comprare terre palestinesi sulle quali poi insediava gli immigrati ebrei. A partire dal v Congresso sionista capeggiò la sionizzazione della Palestina per tutti gli anni del Mandato. Fin dall’inizio era destinato a diventare il “custode”, per conto del popolo ebraico, della terra di cui i sionisti entravano in possesso in Palestina. Il JNF mantenne questo ruolo anche dopo la creazione dello Stato d’Israele, con l’aggiunta nel corso del tempo di altre missioni.

La maggior parte delle attività del JNF durante il periodo del Mandato e della Nakba era strettamente associata al nome di Yossef Weitz, capo del Dipartimento insediamenti. Weitz era la quintessenza del colonialista sionista. La sua priorità assoluta era quella di facilitare lo sfratto dei fittavoli palestinesi dalla terra comprata da proprietari assenteisti che probabilmente vivevano a una certa distanza dalla propria terra o anche fuori del paese, avendo il Mandato creato confini là dove prima non c’erano.

Tradizionalmente, quando la proprietà di un appezzamento di terra, o anche di un intero villaggio, cambiava di mano, ciò non significava che gli agricoltori o gli abitanti stessi del villaggio dovessero sgombrare; la Palestina era una società agricola e il nuovo proprietario terriero aveva bisogno che i fittavoli continuassero a coltivare le sue terre. Ma con l’avvento del sionismo le cose cambiarono. Weitz visitava di persona il pezzo di terra appena acquistato, spesso accompagnato dai suoi più stretti aiutanti, e incoraggiava i nuovi proprietari ebrei a buttar fuori i fittavoli locali, anche se il proprietario non sapeva che farsene di tutta quella terra. Uno dei più stretti aiutanti di Weitz, Yossef Nachmani, gli riferì una volta che «sfortunatamente» i fittavoli si rifiutavano di andarsene e alcuni dei nuovi proprietari ebrei si mostravano «codardi», come disse, «considerando la possibilità di lasciarli restare». Era compito di Nachmani e di altri aiutanti assicurare che tali «debolezze» non continuassero: sotto la loro supervisione quegli sfratti divennero rapidamente più diffusi ed efficaci.

L’impatto di tali attività all’epoca rimase limitato perché le risorse sioniste dopo tutto erano scarse, la resistenza palestinese forte e le politiche britanniche restrittive. Alla fine del Mandato nel 1948 la comunità ebraica possedeva all’incirca il 5,8 per cento della terra in Palestina. Ma ne volevano molta di più, anche solo per espandere le risorse disponibili e aprire nuove opportunità; è per questo che Weitz si entusiasmò quando sentì parlare della schedatura dei villaggi, suggerendo immediatamente di trasformarla in «progetto nazionale».

Tutti diventarono ferventi sostenitori dell’idea. Yitzhak Ben-Zvi, un esponente della leadership sionista, uno storico e in seguito il secondo presidente di Israele, spiegò in una lettera a Moshe Shertock (Sharett), capo del Dipartimento politico dell’Agenzia ebraica (successivamente primo ministro di Israele), che oltre a registrare topograficamente i villaggi, il progetto doveva includere anche la dichiarazione delle «origini ebraiche» di ciascun villaggio. Inoltre, era importante che l’Haganà sapesse quali villaggi fossero relativamente nuovi, perché alcuni erano stati costruiti “solo” durante l’occupazione egiziana della Palestina intorno al 1830.

Lo sforzo principale fu tuttavia quello di fare una mappatura dei villaggi, perciò fu reclutato per l’impresa un topografo dell’università ebraica che lavorava al Dipartimento cartografico mandatario. Egli consigliò di condurre rilevamenti fotografici aerei e mostrò orgogliosamente a Ben Gurion due di queste mappe per i villaggi di Sindiyana e Sabbarin (le mappe, ora negli Archivi di Stato israeliani, sono tutto ciò che rimane di quei villaggi dopo il 1948).

I migliori fotografi professionisti del paese furono invitati ad aderire all’iniziativa. Furono reclutati anche Yitzhak Shefer di Tel Aviv e Margot Sadeh, moglie di Yitzhak Sadeh, comandante del Palmach (le unità speciali dell’Haganà). Il laboratorio cinematografico operava nella casa di Margot dove una compagnia di irrigazione serviva da facciata: il laboratorio doveva restare nascosto alle autorità britanniche che avrebbero potuto considerarlo come un’iniziativa di intelligence illegale diretta contro di loro. Gli inglesi sapevano della sua esistenza, ma non riuscirono mai a individuare il nascondiglio segreto. Nel 1947 l’intero Dipartimento cartografico fu trasferito alla Casa Rossa`.

Gli sforzi dei topografi e degli orientalisti diedero come risultato finale delle schede dettagliate che gli esperti sionisti misero gradualmente insieme per ciascun villaggio della Palestina. Entro la fine degli anni Trenta questo “archivio” era quasi completo. Furono registrati precisi dettagli sulla collocazione di ogni villaggio, le vie di accesso, la qualità della terra, le sorgenti d’acqua, le principali fonti di reddito, la composizione sociopolitica, le affiliazioni religiose, i nomi dei mukhtar, il rapporto con gli altri villaggi, l’età degli uomini (dai sedici ai cinquant’anni) e molti altri dettagli. Una categoria importante era l’indice di “ostilità” (verso il progetto sionista), stabilito dal livello di partecipazione del villaggio alla rivolta del 1936. C’era un elenco di chiunque avesse preso parte alla rivolta e delle famiglie di coloro che avevano perso qualcuno nella lotta contro gli inglesi. Veniva riservata una particolare attenzione alle persone che si presumeva avessero ucciso ebrei. Come vedremo, nel 1948 queste ultime informazioni alimentarono le peggiori atrocità nei villaggi portando a esecuzioni di massa e torture.

I membri regolari dell’Haganà a cui era affidato il compito di raccogliere i dati nei viaggi di "ricognizione" nei villaggi si resero conto, fin dall’inizio, che questo non era un semplice esercizio accademico di geografia. Uno di questi era Moshe Pasternak, che nel 1940 si unì a una delle prime escursioni e operazioni di raccolta dati. Molti anni dopo ricordava:

Dovevamo studiare la struttura fondamentale del villaggio arabo. Ciò significa la sua conformazione e come meglio attaccarlo. Alla scuola militare, mi avevano insegnato come attaccare una moderna città europea, non un villaggio primitivo nel Vicino Oriente. Non potevamo confrontarlo [un villaggio arabo] con un villaggio polacco o austriaco. I villaggi arabi, a differenza di quelli europei, erano costruiti topograficamente sulle colline. Ciò significava che dovevamo individuare se era meglio avvicinarci al villaggio da sopra o entrarvi da sotto. Dovevamo addestrare i nostri "arabisti" [gli orientalisti che gestivano una rete di collaboratori] su come meglio lavorare con gli informatori.`

In effetti il problema rilevato in molte schede dei villaggi era come creare un sistema di collaborazionisti con persone che Pasternak e i suoi amici consideravano primitive e barbare: «Persone a cui piace bere caffè e mangiare riso con le mani, era molto difficile usarle come informatori». Nel 1943, ricordava, si aveva l’impressione di aver costruito una rete adeguata di informatori sul posto. Quello stesso anno le schede dei villaggi furono ristrutturate per renderle ancora più sistematiche. Questo era principalmente il lavoro di Ezra Danin, che avrebbe svolto un ruolo primario nella pulizia etnica della Palestina`.

Fu proprio il reclutamento di Ezra Danin, prelevato dalla sua fortunata azienda di agrumeti, che introdusse nel lavoro d’intelligence e nell’organizzazione delle schedature un nuovo livello di efficienza. Le schede nel periodo successivo al 1943 includevano descrizioni dettagliate dell’agricoltura, della terra coltivata, del numero di alberi nelle piantagioni, della qualità di ogni frutteto (persino di ogni singolo albero), della quantità media di terra per famiglia, del numero di automobili, dei proprietari di negozi, dei lavoratori nelle officine e dei nomi degli artigiani in ciascun villaggio e dei loro mestieri. Più tardi, si aggiunsero meticolosi dettagli su ogni clan e le affiliazioni politiche, la stratificazione sociale tra notabili e contadini comuni, e i nomi dei funzionari del governo mandatario.

E poiché la raccolta di dati creava una propria dinamica si possono trovare dettagli supplementari, che saltano fuori verso il 1945, come descrizioni delle moschee dei villaggi con i nomi dei loro imam, insieme a espressioni tipo «è un uomo comune» e anche descrizioni precise delle stanze di soggiorno all’interno delle case di questi dignitari. Verso la fine del periodo del Mandato le informazioni diventano più esplicitamente di ordine militare: il numero di guardie (la maggior parte dei villaggi non ne aveva) e la quantità e qualità delle armi a disposizione degli abitanti (generalmente antiquate o addirittura inesistenti).

Danin reclutò un ebreo tedesco, Yaacov Shimoni, che sarebbe in seguito diventato uno degli orientalisti eminenti di Israele, e lo incaricò di progetti speciali all’interno dei villaggi, in particolare della supervisione del lavoro degli informatori. Uno di questi fu soprannominato da Danin e Shimoni il “tesoriere” (hagizbar). Quest’uomo, che si dimostrò una buona fonte di informazioni per i raccoglitori delle schede, sovrintendeva la rete dei collaborazionisti tra il 1941 e il 1945. Fu scoperto nel 1945 e ucciso da militanti palestinesi.

A Danin e Shimoni presto si unirono altre due persone, Yehoshua Palmon e Tuvia Lishanski. Anche questi sono nomi da ricordare poiché parteciparono attivamente alla preparazione della pulizia etnica della Palestina. Lishanski, già negli anni Quaranta, si occupava di orchestrare campagne contro i fittavoli che vivevano su appezzamenti di terra che il JNF aveva comprato da proprietari terrieri, presenti o assenteisti che fossero, e concentrò tutte le sue energie nell’intimidazione e poi nello sfratto forzato di queste persone dalle terre che le loro famiglie coltivavano da secoli.

Non lontano dal villaggio di Furaydis e dall’insediamento ebraico “antico” di Zikhron Yaacov, dove oggi una via collega l’autostrada costiera a Marj Ibn Amir (Emeq Izrael) attraverso Wadi Milk, si trova un villaggio della gioventù (una specie di collegio per giovani sionisti) chiamato Shefeya. Era qui che venivano addestrate nel 1944 le unità speciali per il progetto di schedatura dei villaggi, ed era da qui che partivano per le missioni di ricognizione. Shefeya assomigliava molto a un "villaggio di spie" nella guerra fredda: ebrei che andavano in giro parlando arabo e cercando di simulare ciò che ritenevano essere i modi di vivere e i comportamenti abituali dei palestinesi di campagna.

Nel 2002, una delle prime reclute di questa base di addestramento speciale ricordava la sua prima missione di ricognizione nel vicino villaggio di Umm al-Zinat nel 1944. Il loro obiettivo era di ispezionare il villaggio e raccogliere informazioni del tipo: dove viveva il mukhtar, dove era situata la moschea, dove risiedevano i ricchi del villaggio e chi era stato attivo nella rivolta del 1936. Non era una missione molto pericolosa poiché gli infiltrati sapevano di poter sfruttare la tradizionale ospitalità araba, e furono persino invitati a casa dello stesso mukhtar. Non essendo riusciti a raccogliere in un giorno solo tutti i dati che cercavano, chiesero di essere invitati di nuovo. Per la seconda visita avevano ricevuto istruzioni di prendere informazioni sulla fertilità della terra, la cui qualità aveva fatto loro all’inizio un’ottima impressione. Nel 1948, Umm al-Zinat fu distrutto e tutti i suoi abitanti espulsi senza che vi fosse stato alcun genere di provocazione da parte loro.

L’aggiornamento finale delle schede dei villaggi venne fatto nel 1947. Si concentrava nel creare liste di persone “ricercate” in ogni villaggio. Nel 1948 le truppe ebraiche usarono queste liste per le operazioni di perquisizione-arresto da effettuare non appena ne avevano occupato uno. Gli uomini venivano messi in fila e quelli il cui nome era nella lista venivano poi identificati, spesso dalla stessa persona che aveva prima dato informazioni su di loro, ma che ora indossava un sacco di tela sulla testa con due buchi per gli occhi in modo da non essere riconosciuta. Gli uomini identificati venivano spesso uccisi sul posto. I criteri per l’inclusione in queste liste erano il coinvolgimento nel movimento nazionale palestinese, l’avere stretto legami con il leader del movimento, il Mufti al-Hajj Amin al-Husayni, e, come accennato, l’aver partecipato ad «azioni contro gli inglesi e i sionisti». Altre ragioni per essere inclusi nelle liste erano una varietà di accuse, quali «aveva fatto viaggi in Libano» o «arrestato dalle autorità britanniche per essere stato membro di un comitato nazionale del villaggio».

La prima categoria, coinvolgimento nel movimento nazionale palestinese, era definita in maniera molto ampia e poteva includere interi villaggi. L’affiliazione con il Mufti o il partito politico da lui capeggiato era molto comune. Dopo tutto, il suo partito aveva dominato la politica palestinese locale da quando il Mandato britannico era stato ufficialmente stabilito nel 1923. I membri del partito continuarono a vincere le elezioni nazionali e municipali e a occupare le posizioni principali nell’Alto Comitato arabo, che divenne il governo embrionale dei palestinesi. Agli occhi degli esperti sionisti questo costituiva un crimine. Se guardiamo le schede del 1947, vediamo che i villaggi con circa 1500 abitanti avevano di solito tra i venti e i trenta sospetti (per esempio, attorno al Monte Carmelo meridionale, a sud di Haifa, il villaggio di Umm al-Zinat ne aveva trenta, e quello vicino di Damun venticinque)».

Yigael Yadin ricordava che fu questa conoscenza minuta e dettagliata di ciò che accadeva in ogni singolo villaggio palestinese a consentire al comando militare sionista nel novembre del 1947 di concludere che «gli arabi palestinesi non avevano nessuno che li organizzasse adeguatamente». L’unico problema serio erano gli inglesi: «Se non fosse stato per gli inglesi, avremmo potuto domare la rivolta araba [l’opposizione alla Risoluzione di spartizione dell’ONU del 1947] nel giro di un mese».
Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, cit, Fazi editore, pp. 30-36: «La schedatura dei villaggi». Sono state omesse le note bibliografiche ed archivistiche, per le quali si rinvia al testo edito in traduzione italiana da Fazi, al costo di euro 19. ISBN: 978-88-8112-908-9



Parte VI
Il piano di spartizione dell’Onu: alle radici della legittimità dello Stato sionista

L’argomento principale di cui la propaganda israeliana si serve per giustificare un vero e proprio “sbarco” predatorio su terre che si ritenevano popolate da indigeni non meritevoli di sopravvivere è costituito da una improvvida, improvvista e scriteriata deliberazione di un organismo che le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale avevano pensato di creare per meglio affermare la loro egemonia nel mondo quale si presentava nel nuovo scenario dal quale erano per sempre escluse le potenze europee, Gran Bretagna compresa. È anche vero che nella sua dicotomia fra Assemblea che conta poco e Consiglio di Sicurezza che decide vi sono pure state innumerevoli condanne di Israele da parte della maggioranza degli stati che sono via via venuti a far parte della risuscita “Società delle Nazioni”, che aveva già dato pessima prova di sè. Ma in questo caso i governi israeliani non pensano di dover e poter baldanzosamente citare l'Onu. Anzi questo oltre ad essere sistematicamente sabotato nel suo funzionamente è pure regolarmente diffamato. Diventa perciò importante chiarire quell’infausta decisione dell’Onu che cadeva in una decennale premeditazione delle organizzazioni sioniste su quelli che erano i loro obiettivi a fronte della “ignoranza” delle popolazioni arabe e palestinesi sul “destino” che altri avevano preparato loro. È da dire che i palestinesi erano abituati a sottostara a diversi dominatori che si succedevano l'uno dopo l’altro. Non era una condizione diversa da quella degli italiani che cambiavano spesso padrone. Questa volta però non era come tutte le altre volte. Ora i palestinesi dovevano sparire e sloggiare. Politicamente erano alla merce dei loro invasori i quali avevano ben chiara in testa il concetto della distruzione di ogni forma politica di esistenza delle popolazione indigene. Riproduco tre pagine dal libro di Pappe dove è introdotto il capitolo della “spartizione” voluta dall’Onu e sfruttata dal nascente governo israeliano.


Il piano di spartizione dell’ONU

Nel 1947 l’ONU aveva solo due anni di vita e ben poca esperienza; la questione del futuro della Palestina fu affidata a un Comitato Speciale per la Palestina, l’UNSCOP (United Nations Special Committee for Palestine), ma nessuno dei suoi membri poteva contare su precedenti esperienze nella soluzione di conflitti, né sapeva molto della storia della Palestina.

Anche l’UNSCOP decise di appoggiare la spartizione come principio guida di una futura soluzione. Certo, per un po’ si prese in considerazione la possibilità di creare uno Stato democratico che comprendesse tutta la Palestina - il cui futuro sarebbe stato poi deciso dal voto di maggioranza della popolazione - ma tale idea fu successivamente abbandonata. Invece, l’UNSCOP raccomandò all’Assemblea Generale dell’ONU la spartizione della Palestina in due Stati, tenuti insieme come una federazione da un’unità economica. Inoltre, raccomandò che la città di Gerusalemme diventasse un corpus separatum sotto un regime internazionale amministrato dall’ONU. La relazione finale dell’UNSCOP prevedeva due futuri Stati, identici tranne che nell’equilibrio demografico interno, e quindi sottolineava la necessità che entrambe le entità adottassero norme liberali democratiche. Il 29 novembre 1947, tutto questo si tradusse nella Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale.

E chiaro che nell’approvare la Risoluzione di spartizione, l’ONU non tenne in alcun conto la composizione etnica della popolazione del paese. Se l’ONU avesse deciso che il territorio dove si erano insediati gli ebrei in Palestina doveva corrispondere alle dimensioni del loro futuro Stato, avrebbe concesso loro appena il 10 per cento della terra. Ma l’ONU accettò le rivendicazioni nazionaliste avanzate dal movimento sionista sulla Palestina e cercò, inoltre, di risarcire gli ebrei per l’Olocausto nazista in Europa.

Di conseguenza al movimento sionista fu “dato” uno Stato che comprendeva più di metà del paese. I membri dell’UNSCOP si erano orientati verso il punto di vista sionista anche perché sin dal 1918 la leadership palestinese si era opposta alla spartizione della propria terra. Nel passato, tale leadership, composta principalmente da notabili di città, non era quasi mai riuscita a rappresentare realmente la popolazione nativa della Palestina; tuttavia, questa volta ci riuscì e sostenne in pieno il risentimento popolare della società palestinese nei confronti dell’idea di “dividere” la terra natia con coloni europei che erano venuti a colonizzarla.

La Lega Araba, l’Organizzazione regionale interaraba, e l’Alto Comitato arabo (l’embrione del futuro governo palestinese) decisero di boicottare il negoziato con l’UNSCOP prima della Risoluzione ONU e non parteciparono alle discussioni sul modo migliore di porla in atto dopo il novembre del 1947. La leadership sionista non faticò a occupare questo vuoto e instaurò senza difficoltà un dialogo bilaterale con l’ONU per elaborare un piano sul futuro della Palestina. E questo un modo di agire che vedremo ripetersi spesso nella storia dei negoziati di pace sulla Palestina, soprattutto dopo il coinvolgimento degli Stati Uniti nel 1967: finora, “portare la pace in Palestina” è sempre stato inteso come un piano messo a punto esclusivamente dagli Stati Uniti e da Israele, senza che i palestinesi venissero consultati seriamente, né minimamente rispettati.

Il movimento sionista dominò così rapidamente i giochi diplomatici del ‘47 che la comunità ebraica si sentì così forte da esigere dall’UNSCOP uno Stato che comprendesse oltre l’80 per cento del territorio. Gli emissari sionisti ai negoziati ONU esibirono addirittura una mappa nella quale era segnato lo Stato che volevano, e che incorporava tutto il territorio che di lì a un anno Israele avrebbe occupato, cioè la Palestina del Mandato senza la Cisgiordania. Ma la maggioranza dell’UNSCOP pensava che questa richiesta fosse eccessiva e convinse gli ebrei ad accontentarsi del 56 per cento della terra. Inoltre, i paesi cattolici convinsero l’ONU a dichiarare Gerusalemme città internazionale data la sua importanza religiosa, quindi 1’UNSCOP respinse la richiesta sionista di includere la Città Santa nel futuro Stato ebraico.

Una spartizione del paese - a stragrande maggioranza palestinese - in due parti uguali si rivelò un disastro perché andava contro la volontà della popolazione indigena che costituiva la maggioranza. Con l’annuncio della propria intenzione di creare in Palestina due entità politiche uguali - ebraica e araba -, l’ONU violava i diritti fondamentali dei palestinesi e non teneva in alcun conto gli interessi del mondo arabo per la Palestina, proprio al culmine della lotta anticolonialista nel Medio Oriente.

L’impatto che tale decisione ebbe sul paese e sulla popolazione fu ben peggiore. Invece di calmare l’atmosfera, come era nelle intenzioni, la Risoluzione acuì le tensioni e fu la causa diretta del deterioramento del paese, che precipitò in una delle fasi più violente della sua storia. Già nel febbraio del 1947, quando gli inglesi annunciarono che si sarebbero ritirati dalla Palestina, le due comunità sembravano più che mai sull’orlo di un conflitto. Anche se non furono segnalati disordini prima dell’adozione da parte dell’ONU della Risoluzione di spartizione - il 29 novembre 1947 -, cresceva la preoccupazione nelle città a popolazione mista. Fino a che non fu chiaro quale direzione avrebbe preso l’ONU, la vita continuò in modo più o meno normale, ma non appena il dado fu tratto e la gente seppe che l’ONU aveva votato a stragrande maggioranza a favore della spartizione della Palestina, l’ordine pubblico venne a mancare e si diffuse un senso di triste presagio della resa dei conti che la divisione avrebbe comportato. II caos che segui provocò la prima guerra arabo-israeliana: la pulizia etnica dei palestinesi era iniziata.


Parte VII
Distruzione dei villaggi e massacro degli abitanti

In questa sezione si cercherà di documentare casi concreti di “pulizia etnica”, ovvero di sterminio. La trattazione nel libro di Pappe è sparsa lungo tutto il testo che non possiamo chiaramente riprodurre nella sua interezza. Ne estrarremo i brani più significativi, che cerheremo di integrare con illustrazioni e links tratti dalla rete.

(segue)

1 commento:

Anonimo ha detto...

palloncini neri per la Nakba:


http://guerrillaradio.iobloggo.com/archive.php?eid=1705