Versione 1.0
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A torto Diego considera “vecchio” questo suo scritto del 28 luglio 2007, apparso dapprima sul suo sito e poi ripreso da un siti specializzato su quei “diritti umani”, la cui teorica ha sempre suscitato in me invincibili perplessità. Non già nel senso che io sia contrario ai cosiddetti “diritti umani”, non sempre facili da definire nel loro contenuto e nel loro numero, per non parlare poi della loro concreta tutela, ma nel senso che ogni “diritto” è per sua natura “umano”, non esistendo un diritto animale, azionato dagli stessi animali. Il primo diritto umano è già la vita stessa, nel senso del rapporto protezione/obbedienza di Thomas Hobbes, e non nel senso banale di Giuliano Ferrara, un diritto quest’ultimo disumano e contrario diritto naturale, che in Hobbes conferisce alla madre un diritto di vita e di morte sul figlio, che potrebbe essere semplicemente “abbandonato” nei suoi primi anni di vita dalla madre ed in questo modo condannato a morte certa. Il diritto hobbesiano alla vita significa poi un diritto pieno a ciò che una vita umana comporta. Hobbes ci dice al riguardo molto di più e molto meglio di quanto non sappiano fare gli odierni giuristi positivisti chiosatori e produttori di pessime leggi, che non riescono neppure a venire applicate per la loro pessime confezione.
Scritto da Diego Ianiro
sabato 28 luglio 2007
Nell’aprile del 1986 avevo appena compiuto otto anni, e mi sembrava che il mondo stesse per finire, agonizzante, sotto la nube tossica di Chernobyl. Lo capivo da tanti segnali: la carne in scatola, mai mangiata prima, le facce cupe in televisione, che costituiva già gran parte del mio mondo, e quella sensazione come di attesa che, a pensarci bene, ancora oggi mi terrorizza. Era successo qualcosa che non riuscivo a comprendere appieno ma che, da una zona remotissima e oscura, ci minacciava tutti inesorabilmente, senza possibilità di scampo
Quella storia deve avermi colpito talmente da ritrovarmi, negli anni appena successivi, a cercare e leggere avidamente qualsiasi cosa riguardasse l’evento che, in differita, anche noi avevamo vissuto. In realtà ero spinto dalla volontà di capire come fossero andate veramente le cose. E fu così che mi imbattei nel resoconto di un superstite (ma malato terminale di cancro all’epoca dell’articolo), e della sua descrizione di una situazione paradossale.
Questo signore raccontava che al momento dell’esplosione del reattore, e con gli impianti di raffreddamento saltati, gli addetti furono mandati a “raffreddare” il ventre aperto del mostro, il nocciolo nucleare fuso, direttamente con pompe ad acqua e senza alcuna protezione. Lui era uno di costoro, probabilmente ignari del pericolo, che si ritrovarono ad innaffiare con acqua una reazione nucleare fuori controllo. Mi colpì l’immagine di quest’uomo, nelle stanze di decontaminazione poche ore dopo, che guardandosi nudo allo specchio si scoprì abbronzato come se avesse vissuto un anno ai tropici.
Col senno di poi non so di quel racconto quanti dettagli tendessero al vero e quanti al romanzato: erano passati almeno sei anni e quindi c’era tutto l’interesse di mostrare all’occidente le “disattenzioni” del regime sovietico nei confronti dei propri lavoratori. Ma quella scena profondamente inquietante di persone che, di fronte all’irreparabile, pensano di poterlo “spegnere” con un po’ d’acqua non mi ha abbandonato fino ad oggi. Perché è una metafora potente, adatta soprattutto a quello che quotidianamente vedo accadere in Palestina.
E’ una metafora utile a far capire cosa vedo quando, due giorni fa, leggo su Ha’aretz che nel corso del loro incontro Olmert ha proposto ad Abbas di negoziare un accordo che prevede la creazione di uno Stato palestinese sul 90% dei Territori e sulla Striscia. Vedo quella scena perché in data luglio 2007 non è solo la ridicola pretesa di ripristinare le stesse condizioni-trappola alle quali fu sottoposto Arafat nel 2000, pochi mesi prima della “passeggiata” di Sharon, a rendere il tutto decisamente grottesco, così come il fatto che né Olmert né tantomeno Abbas siano nelle condizioni di rappresentare qualcuno oltre se stessi, ma lo è il fatto che non ci sono più, se mai ci sono state, le condizioni materiali per una soluzione a “due stati”.
L’ANP, e con esso il sogno della Palestina “libera”, è stato irrimediabilmente compromesso da quanto è accaduto tra Fatah e (il democraticamente eletto) Hamas nel mese di giugno: con una simile rottura, dai contorni anche e soprattutto geografici, è superfluo persino continuare a tergiversare sulle possibilità di un territorio sul quale stabilire lo Stato dei palestinesi. Con Abbas -il “collaborazionista”- che non riesce a rappresentare più neanche la totalità dei membri del suo partito, poi, è chiaro che tutta l’impresa di un nuovo “accordo” per i due stati non ha più solo i contorni della farsa, ma quelli della tragedia.
Questo teatrino tenta di mascherare il fatto che ci troviamo di fronte a una vittoria schiacciante, l’esito di una strategia pianificata con cura da un uomo e portata avanti con dedizione dal governo israeliano: parlo di quello che si può tranquillamente chiamare “Piano Sharon” e del quale scriverò diffusamente in seguito. Basti per ora sapere che, dal 2000 ad oggi, Israele è riuscito a spezzare l’unica cosa rimasta “integra” ai palestinesi: la loro coesione interna “di popolo” e la fiducia nell’istituto democratico maturata nonostante l’occupazione. Quello che però in pochi comprendono è che questo nuovo (tacito) ’67 – e non a caso sul blog di un ufficiale di Tsahal ho letto “qui si respira un’aria da Guerra dei Sei Giorni” – rappresenta davvero un “finale di partita” in quella scacchiera che avrebbe opposto agli israeliani l’“avversario” palestinese. Ed è un finale al quale, forse, gli stessi israeliani sono impreparati: con Gaza diventata ufficialmente Hamasland, entità separata e separabile , cosa farne dei Territori, quelle isole-gabbie recintate con intorno le colonie, e degli oltre due milioni di persone che ci vivono? Con il feticcio di un’“Autorità Nazionale” erano ancora gestibili, ma adesso che quell’Autorità ne ha persa tutta, di autorità, chi può amministrarli?
In breve questa vittoria ha riproposto un problema antico, al quale, in assenza di meglio e nell’impossibilità di eliminare/espellere i palestinesi, si vuole rispondere ripristinando la solita vecchia risoluzione che non ha funzionato neanche quando c’erano delle (minime) condizioni per farlo: gli accordi per i “due stati”. Acqua buttata sul reattore esploso, appunto. Bisogna rendersi conto che, quando il danno è fatto e non ci sono soluzioni per riparare, occorre ricostruire. E lo Stato Unico, dal Mediterraneo al Giordano, è l’unica soluzione realisticamente ed eticamente praticabile per una ricostruzione, per una pace duratura. Lo sanno molti osservatori internazionali, così come tanti palestinesi: Israele deve assorbire i palestinesi, assimilarli nel suo tessuto sociale per trasformarsi in una vera democrazia. Altrimenti la posta sarà sempre più alta, e i danni inimmaginabili.
La strada verso lo Stato Unico è, se non proprio verticale, certamente in salita. Non solo perché dopo sessanta anni di atrocità convivere con chi ha ucciso i miei figli non è proprio il massimo della giustizia divina che uno si aspetterebbe, ma anche perché c’è un punto, sul quale si “costituisce” lo stesso Israele, che rende inconciliabile l’assimilazione dei palestinesi con i principi dello Stato, ed è l’attributo “Ebraico” che lo caratterizza e lo rende unico nel panorama internazionale. Questo è il solo vero ostacolo allo Stato Unico. E, per affrontarlo e superarlo, occorre andare al cuore della Costituzione di Israele che, scopriremo in seguito perché, una Costituzione non ce l’ha. Non ancora.
Infatti esistono numerosi progetti e tentativi di redigere una Carta Costituzionale che però non trovano grande eco all’interno di Israele, figuriamoci da noi qui.
Una delle proposte più interessanti che ho trovato in rete è la “Costituzione Democratica” studiata da Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel – la cui ultima versione è stata pubblicata nel marzo scorso (link). Adalah (“Giustizia” in arabo) è un’organizzazione israeliana per i diritti umani indipendente e senza scopo di lucro. Finalità dell’associazione è permettere alla “minoranza” araba (circa il 20% della popolazione, percentuale in costante aumento) di Israele di godere degli stessi diritti della “maggioranza” ebraica. Ma perché, si domanderà qualcuno, non è vero che Israele - l’ “unica democrazia del Medioriente” (come spesso si legge) – garantisce pari diritti a tutti? Non proprio, e scopriremo perché.
Sul sito dell’organizzazione ci sono due pagine molto ben documentate sulla storia degli arabi israeliani: da non confondere con i palestinesi tout court (quelli di Gaza e Cisgiordania, per intenderci), questa “minoranza” è ciò che resta delle popolazioni arabe all’interno del territorio israeliano dopo le deportazioni del 1948. Fino al 1966 è stato loro imposto un regime di “military rule”nonostante fossero stati dichiarati cittadini d’Israele nel 1948:
-Military rule placed tight controls on all aspects of life for the Palestinian minority. These measures of control included severe restrictions on movement, prohibitions on political organization, limitations on job opportunities, and censorship of publications. - [dal sito di Adalah]
Anche dopo il 1966 non sono mai stati completamente assimilati né considerati come minoranza, ma semplicemente come “arabi israeliani” o “non ebrei”. Senza una specifica legislazione, l’appartenere ad uno status di “cittadini di seconda classe” è stato sempre giustificato dal fatto che non fosse loro richiesto di prestare servizio militare (questo non vale per i Drusi). In realtà le norme antidemocratiche attuali sono molto più esplicite, per esempio:
-la Legge sui Matrimoni […] rinnovata ed estesa dal parlamento israeliano proprio la scorsa settimana [aprile 2005, nda], questa legge stabilisce che non saranno riconosciuti dallo stato di Israele i matrimoni fra palestinesi israeliani e palestinesi che vivono nei territori occupati. Simili restrizioni al matrimonio non si applicano agli ebrei israeliani. – [J. Petrovato “Israel/Palesatine Democracy”, www.zmag.org 18 Aprile 2005]
Ma se Israele è una “democrazia” che “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente da religione, razza e sesso”, e nello specifico “appeal […] to the Arab inhabitants of the State of Israel to preserve peace and participate in the upbuilding of the State on the basis of full and equal citizenship and due representation in all its provisional and permanent institutions”, come recita la Dichiarazione di Indipendenza del 1948, com’è stata possibile una simile discriminazione, contraria agli stessi principi fondanti dello Stato?
A ben vedere questa contraddizione era già palese in quel documento, che si apre con la dichiarazione di “[…] establishment of a Jewish State in Eretz-Israel”. Come può uno stato che si definisce “ebraico”, ovvero che si fonda su un preciso e limitato assunto identitario, garantire pari diritti a chi a quell’identità non appartiene (non sente di appartenere/non è riconosciuto come appartenente a), ma si trova sul territorio di quello stato? La storia “costituzionale” di Israele è il tentativo, fino ad oggi fallito, di conciliare questi due aspetti programmatici del nazionalismo sionista: una democrazia per soli ebrei. Da costituire in territorio già abitato non da secoli, ma da millenni. Il principale ideologo dello Stato Ebraico sapeva benissimo che per realizzare una cosa simile in Palestina, ovvero in un territorio già occupato, sarebbe stato necessario allontanare la popolazione residente, come mostra un celebre passo tratto dal suo diario (12 giugno 1895) spesso utilizzato (opportunamente tagliato) dalla propaganda antisionista:
- Tenteremo di sospingere la popolazione povera oltre le frontiere procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra. I proprietari terrieri passeranno dalla nostra parte (“The property owners will come over to our side”). Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e con attenzione (“discreetly and circumspectly”) - [T. Herzl “The complete diaries” vol. I, p.88 - N.Y. Herzl Press, 1969]
Herzl chiama “penniless” e “poor” (in trad. inglese, l’originale è tedesco) questa popolazione genericamente non-ebraica, discriminandola non su base etnico/religiosa (è lecito quindi immaginare che vi includesse anche i sefarditi), ma in base allo status economico/sociale. La catena di eventi storici che dall’inizio della grande immigrazione ebraica del 1935 portarono alla risoluzione 181 dell’ONU, rese palese che il “problema” non ebraico era in larga misura un “problema arabo” dalle rinnovate aspirazioni nazionaliste, troppo complesso e stratificato per poter essere definitivamente “allontanato”, e alla scadenza del mandato britannico era chiaro che questa “liberazione” del territorio da tutti i residenti non ebrei sarebbe stata impossibile, anche se parte degli eventi immediatamente successivi che portarono alla Nakba furono l’estremo tentativo di realizzarla. Cosa, questa, pacificamente ammessa dagli stessi storici israeliani (Pappe in testa).
Per non perdere l’attributo democratico, fortemente voluto anche dal carattere principalmente socialista del movimento sionista, lo Stato Ebraico finalmente realizzato non avrebbe potuto omettere dalla sua dichiarazione d’indipendenza quella clausola che garantisce pari diritti ai residenti non ebrei. Ma se veramente rispettata, quella clausola avrebbe distrutto sul nascere il sogno sionista della democrazia per soli ebrei. In che modo, allora, in Israele è stato giuridicamente possibile non assicurare completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti, nel momento in cui sulla carta quest’uguaglianza sembrava dover essere garantita?
In primo luogo bisogna specificare che “violare” quella clausola della dichiarazione d’indipendenza non è un atto incostituzionale, in quanto tale dichiarazione non ha valore costituzionale così come siamo soliti intenderlo. Infatti da una pagina del sito della Knesset scopriamo che
- in a series of decisions the Supreme Court ruled that the Proclamation of Independence does not have the validity of a constitutional law, and that it is not a supreme law, in light of which laws and regulations that contradict it are nullified. – [www.Knesset.gov.il]
Questo ci riporta ad un’altra questione: cos’è che ha “valore costituzionale” in Israele, paese che si vorrebbe far rientrare a pieno titolo tra gli “stati di diritto” che si fondano sul principio di legalità nel solco della tradizione post illuminista? In effetti Israele, non avendo una carta costituzionale, dispone di una serie di “Basic Laws” (14 in tutto dal 1958 al 2001, più sette “Laws of Special Interest” tra cui la famosa Legge del Ritorno) che definiscono a grandi linee i principi guida dello stato. La dichiarazione di indipendenza del 1948 non rientra tra queste leggi, però l’art. 1 di due basic laws piuttosto recenti, la “Human Dignity and Liberty” (1992) e la “Freedom of Occupation” (1992/94), sancisce, in maniera meno specifica, il rispetto dei valori indicati in quella proclamazione:
- the basic human rights in Israel are based on recognition of the value of man, the sanctity of his life and his being free, and they will be respected in the spirit of the principles (mentioned) in the proclamation of the establishment of the State of Israel – [ibid.]
Ma possono le “basic laws” considerarsi una forma di costituzione? Non è chiaro. In merito il sito della Knesset si esprime così:
- Israel has no written constitution in the formal sense, even though it has a constitution in the material sense - in other words, laws and basic rules that lay down the foundations of the system of government and the rights of the individual. Some of these are formulated in basic laws, some are scattered in other laws, and part - at least until the passing of basic laws dealing with human and civil rights - were interpreted and formulated in a series of decision by the Supreme Court. – [ibid.]
Quindi la rete di basic e special laws, più le decisioni della Corte Suprema rappresenterebbero una costituzione de facto. O meglio, un “apparato costituente” in fieri, considerando l’arco temporale e la possibilità più o meno aperta di aggiungervi leggi. Non è molto chiaro, ma lo è ancora meno quando nella pagina sulle “basic laws” dello stesso sito (istituzionale) apprendiamo che:
- Regarding the question of the superiority of the basic laws over other laws, there are differences of opinion. Some claim that the basic laws are not superior to an ordinary law, unless they include a specific stipulation to the contrary. […] Others claim that the superiority of basic laws stems from the fact that they are the product of the Knesset acting as the Constituent Assembly, and that from their mere definition as "basic laws" one may conclude that they are constitutionally superior. – [ibid.]
Nel senso, dopo sessanta anni lo statuto giuridico delle “basic laws” è ancora da definire, e in gran parte dipende dall’arbitrio dell’Alta Corte di Giustizia a seconda dei casi! La realtà dei fatti è che di una costituzione vera e propria, “imposta” dalla stessa risoluzione 181 dell’Assemblea Generale ONU del 29 novembre 1947 (la prima di una lunga serie di risoluzioni – solo del Consiglio di Sicurezza ad oggi ne sono 72 – ignorate da Israele), lo Stato Ebraico non è stato in grado di dotarsi nel corso di oltre mezzo secolo dalla sua nascita. E non perché siano mancati tentativi di redazione e adozione, anzi: a questo titolo è bene qui ricordare un aneddoto raccontato da Jacob Taubes, grande filosofo ebreo, in un testo del 1985 (tradotto in italiano nella raccolta “In divergente accordo” – Quodlibet 1996). Taubes si trovava nel 1949 a Gerusalemme con una borsa da ricercatore. Dovendo tenere - da novizio - un corso su Descartes, ritenne necessario procurarsi un testo dove il concetto di “legge” fosse analizzato sia dal punto di vista giuridico che filosofico e teologico.
- Soltanto nella Dottrina della Costituzione di Carl Schmitt si trovava una trattazione del problema nomos/lex/legge che poteva aiutarmi a circoscrivere la questione. – [J. Taubes ibid. p.30]
Taubes si recò dal direttore della Biblioteca per richiedere il testo: con Gerusalemme divisa, l’accesso al Monte Scopus, dove si trovava la biblioteca, era limitato ai soli militari di guardia. Quindi l’Università ebraica, che era stata trasferita in città, girava le richieste di consultazione dei testi della biblioteca ai soldati. Ovviamente questa procedura – che contravveniva alle disposizioni della tregua - richiedeva tempo, e un testo poteva arrivare anche dopo tre mesi: troppo per il giovane Taubes. Eppure il nostro venne richiamato, solo due settimane dopo, per ritirare il libro di Schmitt:
- Il direttore della biblioteca mi spiegò che il giorno successivo alla mia richiesta era giunta una chiamata urgente dal Ministero della Giustizia: il ministro Pinchas Rosen […] aveva bisogno della Dottrina della Costituzione [...] per risolvere alcuni difficili problemi nei progetti di costituzione dello Stato d’Israele – [ibid.]
Questo episodio stupì non poco il giovane ricercatore: un testo di Carl Schmitt, massimo teorico del Diritto sotto il regime nazionalsocialista, veniva utilizzato come “ispirazione” per la Costituzione dello Stato Ebraico! A meno di cinque anni dalla Shoah!
- Confesso che lo stordimento in me fu più forte della diffidenza all’idea che la costituzione dello Stato d’Israele (che per fortuna a tutt’oggi non esiste) venisse sviluppata lungo le linee tracciate dalla Dottrina della Costituzione di Carl Schmitt. [ibid. p. 31]
Ho riportato questo lungo aneddoto per arrivare al punto: non è solo un grande filosofo ebreo a rendersi conto, nel 1985, che per fortuna una Costituzione di Israele non esiste, ma sono i vari Ministeri della Giustizia che si sono susseguiti dal 1948 ad aver capito l’impossibilità tecnica di dotare lo Stato Ebraico di una Costituzione propriamente detta. Impossibile superare l’impasse dell’ “ebraico” e “democratico” da tenere insieme nella stessa carta per un territorio non omogeneamente ebraicizzato: o si rinuncia alla democrazia, facendo di Israele un’etnocrazia (o una teocrazia, se il valore viene dato all’aspetto “confessionale” dell’identità) in effetti troppo simile all’idea di fondo che aveva animato i sostenitori “ariani” del Terzo Reich, o si rinuncia per sempre a quell’ebraico sul quale lo stato stesso si è costituito e senza il quale non sembra avere più alcuna ragion d’essere. Per superare quest’ovvietà, ad Israele è bastato “semplicemente” non arrivare mai a formalizzarla. Le scuse ipocritamente adottate nel corso del tempo per “giustificare” questa non-formalizzazione sono da manuale, e in parte chiariscono quanto detto fin qui, come riporta il sito della Knesset:
- The main arguments put forward by those opposed to the constitution, headed by David Ben-Gurion and the religious parties, were: the idea of the constitution developed in previous centuries, against the background of social and economic struggles that no longer exist; despite and perhaps even because of the absence of a written constitution in Great Britain, the rule of law and democracy there are solid, and civil freedoms are upheld; the Proclamation of Independence includes within it the basic principles of any progressive constitution, and the Transition Law of 1949, which was passed by the Constituent Assembly, constitutes a fulfillment of the state's obligations towards the United Nations on this issue; only a minority of the Jewish people is in Israel, and the state does not have the right to adopt a constitution that will bind the millions that have not yet arrived; because of the nature and special problems of the state, it is difficult to reach a consensus regarding the spiritual principles which are to shape the image of the people and the essence of its life, and the debate about the constitution could lead to a cultural war between the religious and secular communities; the State of Israel is in the midst of a continuous process of change and crystallization, and this does not go together with a rigid constitution. – [www.knesset.gov.il]
Semplicemente, una Costituzione vera e propria sarebbe costretta a scegliere tra l’estendere effettivamente i diritti civili a tutti i cittadini, come in una normale democrazia, e il formalizzare a chiare lettere una società con diritti di casta che di democratico ha ben poco, con buona pace delle “simpatie” dell’Occidente.
Questa situazione “ambigua”, mai normalizzata, dello Stato d’Israele come “Stato di Diritto” si è potuta reggere fino ad ora grazie ad uno “stato di emergenza permanente” reiterato nel corso del tempo, con il quale “sospendere” il principio di legalità. Fino al 1967 erano le stesse circostanze storiche ad allontanare dall’agenda di governo la “normalizzazione” dello stato: con una guerra scoppiata all’indomani dell’indipendenza, mantenere un breve periodo di “military rule” per gli arabi israeliani significava tenere sotto controllo una situazione potenzialmente esplosiva. Ma mantenerla per quasi venti anni già dimostra come fosse chiara la necessità di prolungare l’emergenza ad libitum, a spese della democrazia.
Dopo la schiacciante vittoria della Guerra dei Sei Giorni, una di quelle “guerre preventive” che impareremo a conoscere bene solo diversi anni dopo, l’aporia si mostrò in tutta la sua portata: finito lo “stato d’emergenza” con cui la sensazione di assedio permanente da parte dei Paesi confinanti soffocava Israele, il vincitore indiscusso di quella guerra lampo si trovò all’improvviso a dover fronteggiare una minaccia interna ben più grave. Senza l’emergenza la normalizzazione era alle porte, e con essa la fine del sogno sionista.
Il ’67 è uno spartiacque nella storia del Medioriente: rappresenta una sorta di “presa di coscienza” sia per Israele che per la comunità internazionale di quello che sarebbe potuto succedere senza uno “stato di emergenza permanente”. Da questo punto comincia a delinearsi una precisa strategia volta, dal fronte delle potenze straniere, a destabilizzare con la presenza di Israele l’intera regione (e con questo intendo tutta l’area che dalla sponda est del Mediterraneo comprende i paesi del Golfo Persico) a vantaggio delle grandi compagnie petrolifere e, da quello interno sionista, a continuare a mantenere in sospeso la normalizzazione dello Stato che una carta costituzionale avrebbe garantito.
Con l’occupazione della Cisgiordania (che da questo momento diventerà “Territori Occupati”) e della Striscia, Israele riportava il proprio status (e il diritto internazionale tutto) ad una condizione pre-westfaliana: non applicando la Quarta Convenzione di Ginevra lo Stato Ebraico non poteva essere considerato legalmente “occupante” (nonostante spingesse a colonizzare i territori palestinesi mentre vi manteneva il costante controllo militare), e - grazie a questo ulteriore buco giuridico, rafforzato dalla scusa israeliana che, non avendo mai fatto parte di nessuno Stato, i Territori avrebbero avuto uno status da indicare come “conteso” – Israele si ritrovava tecnicamente a non avere più “confini” definiti.
In assenza di una chiara estensione territoriale, definire la cittadinanza israeliana diventa un’impresa sempre più arbitraria, e cede il passo alla definizione sionista basata su istanze identitarie di tipo etnico/confessionale, la cittadinanza etnica della Legge del Ritorno, finendo per legittimarla sempre e comunque. Lo status dei coloni è di cittadini israeliani residenti, nonostante si trovino in territorio che israeliano non è, o non dovrebbe essere. Contemporaneamente, sfruttando l’aspetto “confessionale” dell’identità, la guerra Israelo-Palestinese viene inserita in un contesto culturale da conflitto religioso che ne mistifica e stravolge la reale portata di conflitto giuridico nel consesso delle Nazioni Unite: è solo grazie alla connivenza delle potenze straniere che un simile “buco” del diritto internazionale si sia potuto mantenere così a lungo. Non basta emanare risoluzioni se nessuno si muove per farle rispettare. Allo stesso tempo si inaugura, nei confronti di Israele, la consuetudine del “fatto compiuto”: non avendo alcun arbitro internazionale a regolamentarne le infrazioni, automaticamente si ingenera un processo di legittimazione che fa di quello stato di emergenza cronicizzato la norma dello Stato Ebraico e, di riflesso, del popolo palestinese.
Se l’emergenza, la situazione eccezionale che dura dalla fondazione dello Stato, diventa norma per effetto di un Laissez-faire generalizzato agli ordini più delle non-regole del libero mercato che di quelle del diritto internazionale, la necessità di dotarsi di una Carta Costituzionale (di una norma, appunto) si allontana definitivamente sotto il principio guida della difesa: l’acronimo inglese di Tsahal, l’esercito israeliano, è infatti IDF – Israeli Defence Force. Le “forze di difesa” israeliane occupano, colpiscono civili, impediscono i movimenti di una popolazione che non è interna allo Stato: tutto questo diventa, incredibilmente, normale. Tra i pochi ad accorgersene, in Italia, sarà un grande intellettuale di origine ebraica, Franco Fortini, che per la sua netta presa di posizione contraria alla politica israeliana si troverà, nel 1989 (a settantadue anni!) a dover interrompere la collaborazione con il Corriere della Sera.
I fatti del ’67 inaugurano un periodo di disordine assoluto in cui la società israeliana si militarizza sistematicamente al fine di mantenere “in ostaggio” la popolazione palestinese, senza assimilarla ma allo stesso tempo non avendo la possibilità di espellerla, nel paradossale tentativo di estendere a tempo indeterminato lo stato di emergenza che permette al “Jewish and democratic state” di esistere nonostante la contraddizione.
C’è una “coincidenza” che è in grado di mostrare se è giusto parlare di politica delle popolazioni in ostaggio: chi è arrivato a leggere fin qui, avrà notato che la military rule sugli arabi israeliani si interrompe -dopo quasi venti anni- nel 1966 ed esattamente un anno dopo è come se venisse ripristinata, eliminando anche quelle poche tutele di cui godevano gli arabi in Israele, a tutta la popolazione palestinese (esclusi, ovviamente, i profughi “ospitati” negli Stati Sovrani limitrofi). Questa continuità temporale fa sorgere il legittimo sospetto che nel 1967 la politica dell’occupazione non fosse una semplice conseguenza, ma un’operazione pianificata consapevolmente per ottenere i “benefici” effetti dello stato di emergenza permanente.
In quest’ottica è chiaro come tutto il successivo accalorarsi per il processo di pace “a due stati” altro non sia stato che uno specchietto per le allodole volto a nascondere dietro velleità nazionaliste il volto di una popolazione che probabilmente avrebbe voluto “risiedere” –con tutti i diritti e doveri del caso- nel luogo dove lavorava: i palestinesi si sono sempre dimostrati la forza lavoro più economica per Israele (ma approfondire tale aspetto ci porterebbe su strade impervie…).
Se questo è chiaro a noi oggi, lo fu già e ancora di più per Arafat che a Camp David nel 2000 si vide presentare, pubblicizzata come “miglior offerta” mai concessa dal governo israeliano, una cartina del futuro “Stato Palestinese” in cui questo si mostrava –per quanto riguarda la West Bank- frammentato, senza continuità territoriale: un arcipelago di terra circondato dalle colonie. Improponibile se non come guanto di sfida gettato in faccia. Su quella mappa, Arafat vide tutta la portata della finzione dei due stati e rinunciò. I nostri media ci fecero credere, e questo lo ricordo davvero bene, che il problema fosse sorto solo sullo status di Gerusalemme, e che per questo Arafat (il colpevole) avrebbe “fatto naufragare” (il termine utilizzato più spesso) il processo di pace. Nessuno ci fece vedere quelle mappe, così come furono presentate, se non molto dopo – mentre tutto il sangue della Seconda Intifada ci inondava l’attenzione.
All’indomani di Camp David il fallimento colpì di sponda anche Barak, e le elezioni erano alle porte. L’allora leader del Likud sapeva che Arafat aveva compreso l’impossibilità dei “due stati” perché Israele non avrebbe mai voluto (né potuto) concedere un vero stato ai palestinesi. La sua strategia fu grande: da buon veterano del ’48, del ’67 e del ‘73, nonché ex Ministro della Difesa, Sharon agì come solo i militari sanno fare. Attaccando. Quel 28 settembre 2000 non salì da solo sulla Spianata, ma con mille uomini armati: questa manovra spettacolare gli garantì la vittoria elettorale sei mesi dopo. Cavalcando l’onda della rivolta di Al-Aqsa, e dei livelli massimi di “emergenza” che rappresentava, attivò la più grande macchina repressiva che il millennio appena scoccato avesse visto. Soldati, mezzi militari, missili guidati ma, soprattutto, lo strumento più potente: l’ingegneria edile. Sharon riuscì a rendere la West Bank fisicamente isolata e spezzettata, in modo che quella frammentazione fosse duratura non solo sulla carta. Calibrò le barriere sui tracciati delle colonie, escludendo progressivamente e inesorabilmente Gerusalemme Est dal resto (da “quel che resta”) della Cisgiordania.
Ritirò i coloni da Gaza per ritrasferirli nella West Bank, facendo della Striscia un’isola per il tiro al bersaglio di Tsahal e catturando contemporaneamente le simpatie dei media occidentali ancora increduli davanti al macello di Jenin. Spezzò definitivamente l’autorità di Fatah agli occhi dei palestinesi, prima bombardando Arafat a Ramallah, poi non considerando il successore Abbas come interlocutore plausibile. Minando Fatah dall’interno garantì il successo di Hamas, che fino a quel punto non riusciva a decollare, fornendo agli occhi dei palestinesi l’unica risposta apparentemente credibile di fronte a tanta violenza.
Sharon ha rimodellato i termini del conflitto con una strategia illuminante, e la sua vittoria è sotto gli occhi di tutti: un reattore aperto e fumante che contamina gli stessi israeliani. E non basterà un po’ d’acqua a spegnerlo, ci vuole una ricostruzione, una rifondazione. Si chiama Costituzione Democratica.
Diego Ianiro
Editing in progress
A torto Diego considera “vecchio” questo suo scritto del 28 luglio 2007, apparso dapprima sul suo sito e poi ripreso da un siti specializzato su quei “diritti umani”, la cui teorica ha sempre suscitato in me invincibili perplessità. Non già nel senso che io sia contrario ai cosiddetti “diritti umani”, non sempre facili da definire nel loro contenuto e nel loro numero, per non parlare poi della loro concreta tutela, ma nel senso che ogni “diritto” è per sua natura “umano”, non esistendo un diritto animale, azionato dagli stessi animali. Il primo diritto umano è già la vita stessa, nel senso del rapporto protezione/obbedienza di Thomas Hobbes, e non nel senso banale di Giuliano Ferrara, un diritto quest’ultimo disumano e contrario diritto naturale, che in Hobbes conferisce alla madre un diritto di vita e di morte sul figlio, che potrebbe essere semplicemente “abbandonato” nei suoi primi anni di vita dalla madre ed in questo modo condannato a morte certa. Il diritto hobbesiano alla vita significa poi un diritto pieno a ciò che una vita umana comporta. Hobbes ci dice al riguardo molto di più e molto meglio di quanto non sappiano fare gli odierni giuristi positivisti chiosatori e produttori di pessime leggi, che non riescono neppure a venire applicate per la loro pessime confezione.
(segue)
Scritto da Diego Ianiro
sabato 28 luglio 2007
Nell’aprile del 1986 avevo appena compiuto otto anni, e mi sembrava che il mondo stesse per finire, agonizzante, sotto la nube tossica di Chernobyl. Lo capivo da tanti segnali: la carne in scatola, mai mangiata prima, le facce cupe in televisione, che costituiva già gran parte del mio mondo, e quella sensazione come di attesa che, a pensarci bene, ancora oggi mi terrorizza. Era successo qualcosa che non riuscivo a comprendere appieno ma che, da una zona remotissima e oscura, ci minacciava tutti inesorabilmente, senza possibilità di scampo
Quella storia deve avermi colpito talmente da ritrovarmi, negli anni appena successivi, a cercare e leggere avidamente qualsiasi cosa riguardasse l’evento che, in differita, anche noi avevamo vissuto. In realtà ero spinto dalla volontà di capire come fossero andate veramente le cose. E fu così che mi imbattei nel resoconto di un superstite (ma malato terminale di cancro all’epoca dell’articolo), e della sua descrizione di una situazione paradossale.
Questo signore raccontava che al momento dell’esplosione del reattore, e con gli impianti di raffreddamento saltati, gli addetti furono mandati a “raffreddare” il ventre aperto del mostro, il nocciolo nucleare fuso, direttamente con pompe ad acqua e senza alcuna protezione. Lui era uno di costoro, probabilmente ignari del pericolo, che si ritrovarono ad innaffiare con acqua una reazione nucleare fuori controllo. Mi colpì l’immagine di quest’uomo, nelle stanze di decontaminazione poche ore dopo, che guardandosi nudo allo specchio si scoprì abbronzato come se avesse vissuto un anno ai tropici.
Col senno di poi non so di quel racconto quanti dettagli tendessero al vero e quanti al romanzato: erano passati almeno sei anni e quindi c’era tutto l’interesse di mostrare all’occidente le “disattenzioni” del regime sovietico nei confronti dei propri lavoratori. Ma quella scena profondamente inquietante di persone che, di fronte all’irreparabile, pensano di poterlo “spegnere” con un po’ d’acqua non mi ha abbandonato fino ad oggi. Perché è una metafora potente, adatta soprattutto a quello che quotidianamente vedo accadere in Palestina.
E’ una metafora utile a far capire cosa vedo quando, due giorni fa, leggo su Ha’aretz che nel corso del loro incontro Olmert ha proposto ad Abbas di negoziare un accordo che prevede la creazione di uno Stato palestinese sul 90% dei Territori e sulla Striscia. Vedo quella scena perché in data luglio 2007 non è solo la ridicola pretesa di ripristinare le stesse condizioni-trappola alle quali fu sottoposto Arafat nel 2000, pochi mesi prima della “passeggiata” di Sharon, a rendere il tutto decisamente grottesco, così come il fatto che né Olmert né tantomeno Abbas siano nelle condizioni di rappresentare qualcuno oltre se stessi, ma lo è il fatto che non ci sono più, se mai ci sono state, le condizioni materiali per una soluzione a “due stati”.
L’ANP, e con esso il sogno della Palestina “libera”, è stato irrimediabilmente compromesso da quanto è accaduto tra Fatah e (il democraticamente eletto) Hamas nel mese di giugno: con una simile rottura, dai contorni anche e soprattutto geografici, è superfluo persino continuare a tergiversare sulle possibilità di un territorio sul quale stabilire lo Stato dei palestinesi. Con Abbas -il “collaborazionista”- che non riesce a rappresentare più neanche la totalità dei membri del suo partito, poi, è chiaro che tutta l’impresa di un nuovo “accordo” per i due stati non ha più solo i contorni della farsa, ma quelli della tragedia.
Questo teatrino tenta di mascherare il fatto che ci troviamo di fronte a una vittoria schiacciante, l’esito di una strategia pianificata con cura da un uomo e portata avanti con dedizione dal governo israeliano: parlo di quello che si può tranquillamente chiamare “Piano Sharon” e del quale scriverò diffusamente in seguito. Basti per ora sapere che, dal 2000 ad oggi, Israele è riuscito a spezzare l’unica cosa rimasta “integra” ai palestinesi: la loro coesione interna “di popolo” e la fiducia nell’istituto democratico maturata nonostante l’occupazione. Quello che però in pochi comprendono è che questo nuovo (tacito) ’67 – e non a caso sul blog di un ufficiale di Tsahal ho letto “qui si respira un’aria da Guerra dei Sei Giorni” – rappresenta davvero un “finale di partita” in quella scacchiera che avrebbe opposto agli israeliani l’“avversario” palestinese. Ed è un finale al quale, forse, gli stessi israeliani sono impreparati: con Gaza diventata ufficialmente Hamasland, entità separata e separabile , cosa farne dei Territori, quelle isole-gabbie recintate con intorno le colonie, e degli oltre due milioni di persone che ci vivono? Con il feticcio di un’“Autorità Nazionale” erano ancora gestibili, ma adesso che quell’Autorità ne ha persa tutta, di autorità, chi può amministrarli?
In breve questa vittoria ha riproposto un problema antico, al quale, in assenza di meglio e nell’impossibilità di eliminare/espellere i palestinesi, si vuole rispondere ripristinando la solita vecchia risoluzione che non ha funzionato neanche quando c’erano delle (minime) condizioni per farlo: gli accordi per i “due stati”. Acqua buttata sul reattore esploso, appunto. Bisogna rendersi conto che, quando il danno è fatto e non ci sono soluzioni per riparare, occorre ricostruire. E lo Stato Unico, dal Mediterraneo al Giordano, è l’unica soluzione realisticamente ed eticamente praticabile per una ricostruzione, per una pace duratura. Lo sanno molti osservatori internazionali, così come tanti palestinesi: Israele deve assorbire i palestinesi, assimilarli nel suo tessuto sociale per trasformarsi in una vera democrazia. Altrimenti la posta sarà sempre più alta, e i danni inimmaginabili.
La strada verso lo Stato Unico è, se non proprio verticale, certamente in salita. Non solo perché dopo sessanta anni di atrocità convivere con chi ha ucciso i miei figli non è proprio il massimo della giustizia divina che uno si aspetterebbe, ma anche perché c’è un punto, sul quale si “costituisce” lo stesso Israele, che rende inconciliabile l’assimilazione dei palestinesi con i principi dello Stato, ed è l’attributo “Ebraico” che lo caratterizza e lo rende unico nel panorama internazionale. Questo è il solo vero ostacolo allo Stato Unico. E, per affrontarlo e superarlo, occorre andare al cuore della Costituzione di Israele che, scopriremo in seguito perché, una Costituzione non ce l’ha. Non ancora.
Infatti esistono numerosi progetti e tentativi di redigere una Carta Costituzionale che però non trovano grande eco all’interno di Israele, figuriamoci da noi qui.
Una delle proposte più interessanti che ho trovato in rete è la “Costituzione Democratica” studiata da Adalah – The Legal Center for Arab Minority Rights in Israel – la cui ultima versione è stata pubblicata nel marzo scorso (link). Adalah (“Giustizia” in arabo) è un’organizzazione israeliana per i diritti umani indipendente e senza scopo di lucro. Finalità dell’associazione è permettere alla “minoranza” araba (circa il 20% della popolazione, percentuale in costante aumento) di Israele di godere degli stessi diritti della “maggioranza” ebraica. Ma perché, si domanderà qualcuno, non è vero che Israele - l’ “unica democrazia del Medioriente” (come spesso si legge) – garantisce pari diritti a tutti? Non proprio, e scopriremo perché.
Sul sito dell’organizzazione ci sono due pagine molto ben documentate sulla storia degli arabi israeliani: da non confondere con i palestinesi tout court (quelli di Gaza e Cisgiordania, per intenderci), questa “minoranza” è ciò che resta delle popolazioni arabe all’interno del territorio israeliano dopo le deportazioni del 1948. Fino al 1966 è stato loro imposto un regime di “military rule”nonostante fossero stati dichiarati cittadini d’Israele nel 1948:
-Military rule placed tight controls on all aspects of life for the Palestinian minority. These measures of control included severe restrictions on movement, prohibitions on political organization, limitations on job opportunities, and censorship of publications. - [dal sito di Adalah]
Anche dopo il 1966 non sono mai stati completamente assimilati né considerati come minoranza, ma semplicemente come “arabi israeliani” o “non ebrei”. Senza una specifica legislazione, l’appartenere ad uno status di “cittadini di seconda classe” è stato sempre giustificato dal fatto che non fosse loro richiesto di prestare servizio militare (questo non vale per i Drusi). In realtà le norme antidemocratiche attuali sono molto più esplicite, per esempio:
-la Legge sui Matrimoni […] rinnovata ed estesa dal parlamento israeliano proprio la scorsa settimana [aprile 2005, nda], questa legge stabilisce che non saranno riconosciuti dallo stato di Israele i matrimoni fra palestinesi israeliani e palestinesi che vivono nei territori occupati. Simili restrizioni al matrimonio non si applicano agli ebrei israeliani. – [J. Petrovato “Israel/Palesatine Democracy”, www.zmag.org 18 Aprile 2005]
Ma se Israele è una “democrazia” che “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente da religione, razza e sesso”, e nello specifico “appeal […] to the Arab inhabitants of the State of Israel to preserve peace and participate in the upbuilding of the State on the basis of full and equal citizenship and due representation in all its provisional and permanent institutions”, come recita la Dichiarazione di Indipendenza del 1948, com’è stata possibile una simile discriminazione, contraria agli stessi principi fondanti dello Stato?
A ben vedere questa contraddizione era già palese in quel documento, che si apre con la dichiarazione di “[…] establishment of a Jewish State in Eretz-Israel”. Come può uno stato che si definisce “ebraico”, ovvero che si fonda su un preciso e limitato assunto identitario, garantire pari diritti a chi a quell’identità non appartiene (non sente di appartenere/non è riconosciuto come appartenente a), ma si trova sul territorio di quello stato? La storia “costituzionale” di Israele è il tentativo, fino ad oggi fallito, di conciliare questi due aspetti programmatici del nazionalismo sionista: una democrazia per soli ebrei. Da costituire in territorio già abitato non da secoli, ma da millenni. Il principale ideologo dello Stato Ebraico sapeva benissimo che per realizzare una cosa simile in Palestina, ovvero in un territorio già occupato, sarebbe stato necessario allontanare la popolazione residente, come mostra un celebre passo tratto dal suo diario (12 giugno 1895) spesso utilizzato (opportunamente tagliato) dalla propaganda antisionista:
- Tenteremo di sospingere la popolazione povera oltre le frontiere procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra. I proprietari terrieri passeranno dalla nostra parte (“The property owners will come over to our side”). Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e con attenzione (“discreetly and circumspectly”) - [T. Herzl “The complete diaries” vol. I, p.88 - N.Y. Herzl Press, 1969]
Herzl chiama “penniless” e “poor” (in trad. inglese, l’originale è tedesco) questa popolazione genericamente non-ebraica, discriminandola non su base etnico/religiosa (è lecito quindi immaginare che vi includesse anche i sefarditi), ma in base allo status economico/sociale. La catena di eventi storici che dall’inizio della grande immigrazione ebraica del 1935 portarono alla risoluzione 181 dell’ONU, rese palese che il “problema” non ebraico era in larga misura un “problema arabo” dalle rinnovate aspirazioni nazionaliste, troppo complesso e stratificato per poter essere definitivamente “allontanato”, e alla scadenza del mandato britannico era chiaro che questa “liberazione” del territorio da tutti i residenti non ebrei sarebbe stata impossibile, anche se parte degli eventi immediatamente successivi che portarono alla Nakba furono l’estremo tentativo di realizzarla. Cosa, questa, pacificamente ammessa dagli stessi storici israeliani (Pappe in testa).
Per non perdere l’attributo democratico, fortemente voluto anche dal carattere principalmente socialista del movimento sionista, lo Stato Ebraico finalmente realizzato non avrebbe potuto omettere dalla sua dichiarazione d’indipendenza quella clausola che garantisce pari diritti ai residenti non ebrei. Ma se veramente rispettata, quella clausola avrebbe distrutto sul nascere il sogno sionista della democrazia per soli ebrei. In che modo, allora, in Israele è stato giuridicamente possibile non assicurare completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti, nel momento in cui sulla carta quest’uguaglianza sembrava dover essere garantita?
In primo luogo bisogna specificare che “violare” quella clausola della dichiarazione d’indipendenza non è un atto incostituzionale, in quanto tale dichiarazione non ha valore costituzionale così come siamo soliti intenderlo. Infatti da una pagina del sito della Knesset scopriamo che
- in a series of decisions the Supreme Court ruled that the Proclamation of Independence does not have the validity of a constitutional law, and that it is not a supreme law, in light of which laws and regulations that contradict it are nullified. – [www.Knesset.gov.il]
Questo ci riporta ad un’altra questione: cos’è che ha “valore costituzionale” in Israele, paese che si vorrebbe far rientrare a pieno titolo tra gli “stati di diritto” che si fondano sul principio di legalità nel solco della tradizione post illuminista? In effetti Israele, non avendo una carta costituzionale, dispone di una serie di “Basic Laws” (14 in tutto dal 1958 al 2001, più sette “Laws of Special Interest” tra cui la famosa Legge del Ritorno) che definiscono a grandi linee i principi guida dello stato. La dichiarazione di indipendenza del 1948 non rientra tra queste leggi, però l’art. 1 di due basic laws piuttosto recenti, la “Human Dignity and Liberty” (1992) e la “Freedom of Occupation” (1992/94), sancisce, in maniera meno specifica, il rispetto dei valori indicati in quella proclamazione:
- the basic human rights in Israel are based on recognition of the value of man, the sanctity of his life and his being free, and they will be respected in the spirit of the principles (mentioned) in the proclamation of the establishment of the State of Israel – [ibid.]
Ma possono le “basic laws” considerarsi una forma di costituzione? Non è chiaro. In merito il sito della Knesset si esprime così:
- Israel has no written constitution in the formal sense, even though it has a constitution in the material sense - in other words, laws and basic rules that lay down the foundations of the system of government and the rights of the individual. Some of these are formulated in basic laws, some are scattered in other laws, and part - at least until the passing of basic laws dealing with human and civil rights - were interpreted and formulated in a series of decision by the Supreme Court. – [ibid.]
Quindi la rete di basic e special laws, più le decisioni della Corte Suprema rappresenterebbero una costituzione de facto. O meglio, un “apparato costituente” in fieri, considerando l’arco temporale e la possibilità più o meno aperta di aggiungervi leggi. Non è molto chiaro, ma lo è ancora meno quando nella pagina sulle “basic laws” dello stesso sito (istituzionale) apprendiamo che:
- Regarding the question of the superiority of the basic laws over other laws, there are differences of opinion. Some claim that the basic laws are not superior to an ordinary law, unless they include a specific stipulation to the contrary. […] Others claim that the superiority of basic laws stems from the fact that they are the product of the Knesset acting as the Constituent Assembly, and that from their mere definition as "basic laws" one may conclude that they are constitutionally superior. – [ibid.]
Nel senso, dopo sessanta anni lo statuto giuridico delle “basic laws” è ancora da definire, e in gran parte dipende dall’arbitrio dell’Alta Corte di Giustizia a seconda dei casi! La realtà dei fatti è che di una costituzione vera e propria, “imposta” dalla stessa risoluzione 181 dell’Assemblea Generale ONU del 29 novembre 1947 (la prima di una lunga serie di risoluzioni – solo del Consiglio di Sicurezza ad oggi ne sono 72 – ignorate da Israele), lo Stato Ebraico non è stato in grado di dotarsi nel corso di oltre mezzo secolo dalla sua nascita. E non perché siano mancati tentativi di redazione e adozione, anzi: a questo titolo è bene qui ricordare un aneddoto raccontato da Jacob Taubes, grande filosofo ebreo, in un testo del 1985 (tradotto in italiano nella raccolta “In divergente accordo” – Quodlibet 1996). Taubes si trovava nel 1949 a Gerusalemme con una borsa da ricercatore. Dovendo tenere - da novizio - un corso su Descartes, ritenne necessario procurarsi un testo dove il concetto di “legge” fosse analizzato sia dal punto di vista giuridico che filosofico e teologico.
- Soltanto nella Dottrina della Costituzione di Carl Schmitt si trovava una trattazione del problema nomos/lex/legge che poteva aiutarmi a circoscrivere la questione. – [J. Taubes ibid. p.30]
Taubes si recò dal direttore della Biblioteca per richiedere il testo: con Gerusalemme divisa, l’accesso al Monte Scopus, dove si trovava la biblioteca, era limitato ai soli militari di guardia. Quindi l’Università ebraica, che era stata trasferita in città, girava le richieste di consultazione dei testi della biblioteca ai soldati. Ovviamente questa procedura – che contravveniva alle disposizioni della tregua - richiedeva tempo, e un testo poteva arrivare anche dopo tre mesi: troppo per il giovane Taubes. Eppure il nostro venne richiamato, solo due settimane dopo, per ritirare il libro di Schmitt:
- Il direttore della biblioteca mi spiegò che il giorno successivo alla mia richiesta era giunta una chiamata urgente dal Ministero della Giustizia: il ministro Pinchas Rosen […] aveva bisogno della Dottrina della Costituzione [...] per risolvere alcuni difficili problemi nei progetti di costituzione dello Stato d’Israele – [ibid.]
Questo episodio stupì non poco il giovane ricercatore: un testo di Carl Schmitt, massimo teorico del Diritto sotto il regime nazionalsocialista, veniva utilizzato come “ispirazione” per la Costituzione dello Stato Ebraico! A meno di cinque anni dalla Shoah!
- Confesso che lo stordimento in me fu più forte della diffidenza all’idea che la costituzione dello Stato d’Israele (che per fortuna a tutt’oggi non esiste) venisse sviluppata lungo le linee tracciate dalla Dottrina della Costituzione di Carl Schmitt. [ibid. p. 31]
Ho riportato questo lungo aneddoto per arrivare al punto: non è solo un grande filosofo ebreo a rendersi conto, nel 1985, che per fortuna una Costituzione di Israele non esiste, ma sono i vari Ministeri della Giustizia che si sono susseguiti dal 1948 ad aver capito l’impossibilità tecnica di dotare lo Stato Ebraico di una Costituzione propriamente detta. Impossibile superare l’impasse dell’ “ebraico” e “democratico” da tenere insieme nella stessa carta per un territorio non omogeneamente ebraicizzato: o si rinuncia alla democrazia, facendo di Israele un’etnocrazia (o una teocrazia, se il valore viene dato all’aspetto “confessionale” dell’identità) in effetti troppo simile all’idea di fondo che aveva animato i sostenitori “ariani” del Terzo Reich, o si rinuncia per sempre a quell’ebraico sul quale lo stato stesso si è costituito e senza il quale non sembra avere più alcuna ragion d’essere. Per superare quest’ovvietà, ad Israele è bastato “semplicemente” non arrivare mai a formalizzarla. Le scuse ipocritamente adottate nel corso del tempo per “giustificare” questa non-formalizzazione sono da manuale, e in parte chiariscono quanto detto fin qui, come riporta il sito della Knesset:
- The main arguments put forward by those opposed to the constitution, headed by David Ben-Gurion and the religious parties, were: the idea of the constitution developed in previous centuries, against the background of social and economic struggles that no longer exist; despite and perhaps even because of the absence of a written constitution in Great Britain, the rule of law and democracy there are solid, and civil freedoms are upheld; the Proclamation of Independence includes within it the basic principles of any progressive constitution, and the Transition Law of 1949, which was passed by the Constituent Assembly, constitutes a fulfillment of the state's obligations towards the United Nations on this issue; only a minority of the Jewish people is in Israel, and the state does not have the right to adopt a constitution that will bind the millions that have not yet arrived; because of the nature and special problems of the state, it is difficult to reach a consensus regarding the spiritual principles which are to shape the image of the people and the essence of its life, and the debate about the constitution could lead to a cultural war between the religious and secular communities; the State of Israel is in the midst of a continuous process of change and crystallization, and this does not go together with a rigid constitution. – [www.knesset.gov.il]
Semplicemente, una Costituzione vera e propria sarebbe costretta a scegliere tra l’estendere effettivamente i diritti civili a tutti i cittadini, come in una normale democrazia, e il formalizzare a chiare lettere una società con diritti di casta che di democratico ha ben poco, con buona pace delle “simpatie” dell’Occidente.
Questa situazione “ambigua”, mai normalizzata, dello Stato d’Israele come “Stato di Diritto” si è potuta reggere fino ad ora grazie ad uno “stato di emergenza permanente” reiterato nel corso del tempo, con il quale “sospendere” il principio di legalità. Fino al 1967 erano le stesse circostanze storiche ad allontanare dall’agenda di governo la “normalizzazione” dello stato: con una guerra scoppiata all’indomani dell’indipendenza, mantenere un breve periodo di “military rule” per gli arabi israeliani significava tenere sotto controllo una situazione potenzialmente esplosiva. Ma mantenerla per quasi venti anni già dimostra come fosse chiara la necessità di prolungare l’emergenza ad libitum, a spese della democrazia.
Dopo la schiacciante vittoria della Guerra dei Sei Giorni, una di quelle “guerre preventive” che impareremo a conoscere bene solo diversi anni dopo, l’aporia si mostrò in tutta la sua portata: finito lo “stato d’emergenza” con cui la sensazione di assedio permanente da parte dei Paesi confinanti soffocava Israele, il vincitore indiscusso di quella guerra lampo si trovò all’improvviso a dover fronteggiare una minaccia interna ben più grave. Senza l’emergenza la normalizzazione era alle porte, e con essa la fine del sogno sionista.
Il ’67 è uno spartiacque nella storia del Medioriente: rappresenta una sorta di “presa di coscienza” sia per Israele che per la comunità internazionale di quello che sarebbe potuto succedere senza uno “stato di emergenza permanente”. Da questo punto comincia a delinearsi una precisa strategia volta, dal fronte delle potenze straniere, a destabilizzare con la presenza di Israele l’intera regione (e con questo intendo tutta l’area che dalla sponda est del Mediterraneo comprende i paesi del Golfo Persico) a vantaggio delle grandi compagnie petrolifere e, da quello interno sionista, a continuare a mantenere in sospeso la normalizzazione dello Stato che una carta costituzionale avrebbe garantito.
Con l’occupazione della Cisgiordania (che da questo momento diventerà “Territori Occupati”) e della Striscia, Israele riportava il proprio status (e il diritto internazionale tutto) ad una condizione pre-westfaliana: non applicando la Quarta Convenzione di Ginevra lo Stato Ebraico non poteva essere considerato legalmente “occupante” (nonostante spingesse a colonizzare i territori palestinesi mentre vi manteneva il costante controllo militare), e - grazie a questo ulteriore buco giuridico, rafforzato dalla scusa israeliana che, non avendo mai fatto parte di nessuno Stato, i Territori avrebbero avuto uno status da indicare come “conteso” – Israele si ritrovava tecnicamente a non avere più “confini” definiti.
In assenza di una chiara estensione territoriale, definire la cittadinanza israeliana diventa un’impresa sempre più arbitraria, e cede il passo alla definizione sionista basata su istanze identitarie di tipo etnico/confessionale, la cittadinanza etnica della Legge del Ritorno, finendo per legittimarla sempre e comunque. Lo status dei coloni è di cittadini israeliani residenti, nonostante si trovino in territorio che israeliano non è, o non dovrebbe essere. Contemporaneamente, sfruttando l’aspetto “confessionale” dell’identità, la guerra Israelo-Palestinese viene inserita in un contesto culturale da conflitto religioso che ne mistifica e stravolge la reale portata di conflitto giuridico nel consesso delle Nazioni Unite: è solo grazie alla connivenza delle potenze straniere che un simile “buco” del diritto internazionale si sia potuto mantenere così a lungo. Non basta emanare risoluzioni se nessuno si muove per farle rispettare. Allo stesso tempo si inaugura, nei confronti di Israele, la consuetudine del “fatto compiuto”: non avendo alcun arbitro internazionale a regolamentarne le infrazioni, automaticamente si ingenera un processo di legittimazione che fa di quello stato di emergenza cronicizzato la norma dello Stato Ebraico e, di riflesso, del popolo palestinese.
Se l’emergenza, la situazione eccezionale che dura dalla fondazione dello Stato, diventa norma per effetto di un Laissez-faire generalizzato agli ordini più delle non-regole del libero mercato che di quelle del diritto internazionale, la necessità di dotarsi di una Carta Costituzionale (di una norma, appunto) si allontana definitivamente sotto il principio guida della difesa: l’acronimo inglese di Tsahal, l’esercito israeliano, è infatti IDF – Israeli Defence Force. Le “forze di difesa” israeliane occupano, colpiscono civili, impediscono i movimenti di una popolazione che non è interna allo Stato: tutto questo diventa, incredibilmente, normale. Tra i pochi ad accorgersene, in Italia, sarà un grande intellettuale di origine ebraica, Franco Fortini, che per la sua netta presa di posizione contraria alla politica israeliana si troverà, nel 1989 (a settantadue anni!) a dover interrompere la collaborazione con il Corriere della Sera.
I fatti del ’67 inaugurano un periodo di disordine assoluto in cui la società israeliana si militarizza sistematicamente al fine di mantenere “in ostaggio” la popolazione palestinese, senza assimilarla ma allo stesso tempo non avendo la possibilità di espellerla, nel paradossale tentativo di estendere a tempo indeterminato lo stato di emergenza che permette al “Jewish and democratic state” di esistere nonostante la contraddizione.
C’è una “coincidenza” che è in grado di mostrare se è giusto parlare di politica delle popolazioni in ostaggio: chi è arrivato a leggere fin qui, avrà notato che la military rule sugli arabi israeliani si interrompe -dopo quasi venti anni- nel 1966 ed esattamente un anno dopo è come se venisse ripristinata, eliminando anche quelle poche tutele di cui godevano gli arabi in Israele, a tutta la popolazione palestinese (esclusi, ovviamente, i profughi “ospitati” negli Stati Sovrani limitrofi). Questa continuità temporale fa sorgere il legittimo sospetto che nel 1967 la politica dell’occupazione non fosse una semplice conseguenza, ma un’operazione pianificata consapevolmente per ottenere i “benefici” effetti dello stato di emergenza permanente.
In quest’ottica è chiaro come tutto il successivo accalorarsi per il processo di pace “a due stati” altro non sia stato che uno specchietto per le allodole volto a nascondere dietro velleità nazionaliste il volto di una popolazione che probabilmente avrebbe voluto “risiedere” –con tutti i diritti e doveri del caso- nel luogo dove lavorava: i palestinesi si sono sempre dimostrati la forza lavoro più economica per Israele (ma approfondire tale aspetto ci porterebbe su strade impervie…).
Se questo è chiaro a noi oggi, lo fu già e ancora di più per Arafat che a Camp David nel 2000 si vide presentare, pubblicizzata come “miglior offerta” mai concessa dal governo israeliano, una cartina del futuro “Stato Palestinese” in cui questo si mostrava –per quanto riguarda la West Bank- frammentato, senza continuità territoriale: un arcipelago di terra circondato dalle colonie. Improponibile se non come guanto di sfida gettato in faccia. Su quella mappa, Arafat vide tutta la portata della finzione dei due stati e rinunciò. I nostri media ci fecero credere, e questo lo ricordo davvero bene, che il problema fosse sorto solo sullo status di Gerusalemme, e che per questo Arafat (il colpevole) avrebbe “fatto naufragare” (il termine utilizzato più spesso) il processo di pace. Nessuno ci fece vedere quelle mappe, così come furono presentate, se non molto dopo – mentre tutto il sangue della Seconda Intifada ci inondava l’attenzione.
All’indomani di Camp David il fallimento colpì di sponda anche Barak, e le elezioni erano alle porte. L’allora leader del Likud sapeva che Arafat aveva compreso l’impossibilità dei “due stati” perché Israele non avrebbe mai voluto (né potuto) concedere un vero stato ai palestinesi. La sua strategia fu grande: da buon veterano del ’48, del ’67 e del ‘73, nonché ex Ministro della Difesa, Sharon agì come solo i militari sanno fare. Attaccando. Quel 28 settembre 2000 non salì da solo sulla Spianata, ma con mille uomini armati: questa manovra spettacolare gli garantì la vittoria elettorale sei mesi dopo. Cavalcando l’onda della rivolta di Al-Aqsa, e dei livelli massimi di “emergenza” che rappresentava, attivò la più grande macchina repressiva che il millennio appena scoccato avesse visto. Soldati, mezzi militari, missili guidati ma, soprattutto, lo strumento più potente: l’ingegneria edile. Sharon riuscì a rendere la West Bank fisicamente isolata e spezzettata, in modo che quella frammentazione fosse duratura non solo sulla carta. Calibrò le barriere sui tracciati delle colonie, escludendo progressivamente e inesorabilmente Gerusalemme Est dal resto (da “quel che resta”) della Cisgiordania.
Ritirò i coloni da Gaza per ritrasferirli nella West Bank, facendo della Striscia un’isola per il tiro al bersaglio di Tsahal e catturando contemporaneamente le simpatie dei media occidentali ancora increduli davanti al macello di Jenin. Spezzò definitivamente l’autorità di Fatah agli occhi dei palestinesi, prima bombardando Arafat a Ramallah, poi non considerando il successore Abbas come interlocutore plausibile. Minando Fatah dall’interno garantì il successo di Hamas, che fino a quel punto non riusciva a decollare, fornendo agli occhi dei palestinesi l’unica risposta apparentemente credibile di fronte a tanta violenza.
Sharon ha rimodellato i termini del conflitto con una strategia illuminante, e la sua vittoria è sotto gli occhi di tutti: un reattore aperto e fumante che contamina gli stessi israeliani. E non basterà un po’ d’acqua a spegnerlo, ci vuole una ricostruzione, una rifondazione. Si chiama Costituzione Democratica.
Diego Ianiro
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