Quanto si legge
e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo
schema argomentativo seguente:
a) si prende un
manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti
applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
b) li si applica
alla situazione concreta
c) e ne consegue
inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto
internazionale
Questo nei casi
meno bellicosi; negli altri, in cui
la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il
sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc.
ecc.
Nulla da
obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la
ricorrenza di circostanze attenuanti
(come gli scontri pluriennali nel Donbass - quasi, a leggere certi “pezzi”, una
guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.
Tuttavia tale
ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e
filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo
all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico
e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno
(e quanto ne consegue) il risultato è diverso.
In effetti da
secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed
“essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo
internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere
perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una
comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non
foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio
l’inverso: salus rei publicae suprema lex.
Il che ha
comportato una diversa valutazione
della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei
teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo
fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati
sovrani titolari dello jus belli, ma
anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e
modi: guerre per lo più preventive.
Come scriveva
Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità
di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò
riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è
sempre di per se illecita (malum) ma
può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto
di contrastare/reprimere i torti (iniuriae),
dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire
le decisioni, come all’interno delle unità politiche.
Diritto,
esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio
legittimo del diritto di (muovere)
guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme
classiche dell’invasione, del blocco
navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino
ad arrivare al c.d. soft power.
Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa
dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina
democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i
russi a sbarazzarsi del regime autocratico
del (nuovo) zar.
Ma chi lo
sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area”
occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto
impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui
fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un
po’ ristretto e molto strabico nel pensiero
della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi
assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese
russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo
di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle
rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello
precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che
hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda)
situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?
Pertanto appare
secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia
liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della
suddetta versione.
Piuttosto,
guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa
durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin,
come a suo tempo Kennedy – non voglia al
proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente
avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a
circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo
che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla
difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare
che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa
(Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti
dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.
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