Sullo scorcio
del secolo scorso, appariva sicuro, a seguire la comunicazione imperante, che
l’assetto del pianeta era avviato all’uniformità,
dato che era diventato unipolare dopo
l’implosione del comunismo e dell’U.R.S.S., onde l’unica potenza egemone erano
gli U.S.A. Così la prospettiva che iniziava era che la politica – e il suo
scenario – si trasformavano dal pluriverso,
cui alcuni millenni di storia ci hanno abituati, all’universo. Una (sola) potenza egemone; uno il contesto (il pianeta
globalizzato); una la conseguenza, la pace; una avrebbe dovuto essere la forma
politica ossia la democrazia più liberal
che liberale; una l’ideologia, il rispetto dei diritti umani; uno il nemico,
chi a tanto bene si opponeva. E via unificando.
Poco tempo dopo,
con l’attentato dell’11 settembre, tale costruzione già presentava vistose e
sanguinarie falle: un’organizzazione più terroristica che partigiana aveva
colpito duramente il territorio U.S.A. A parte l’incrinarsi (a dir poco) delle
prospettive rosee, era evidente che il problema reale, che quelle avevano più
che sottaciuto, occultato, era ciò che millenni di pensiero politico avevano
considerato: le differenze tra gli uomini, il loro voler vivere in comunità
(relativamente) omogenee, in spazi costituenti il limite (anche giuridico) tra
interno ed esterno. Così chi afferma l’universo e l’uniformità non riduceva il
numero dei (possibili) nemici, ma lo incrementava di tutti coloro che non
concordavano né con l’egemonia di una
potenza, né con quella di una forma politica, né di un uguale “tavola dei
valori” per tutti i popoli del pianeta e via distinguendo.
Di guisa che
quello che con espressione involontariamente strapaesana la stampa nazionale
chiamava l’“ulivo mondiale” si è rivelato un moltiplicatore (o almeno un
non-riduttore) di zizzania planetaria.
Abbiamo avuto guerre etniche, partigiane, religiose oltre a quelle più
“tradizionali” di competizioni per la potenza e l’appropriazione (politica ed
economica).
A questo hanno
contribuito due elementi, l’uno consistente in una regolarità politica, quindi
ineliminabile: il conflitto. Da Machiavelli a Schmitt passando per Hobbes e
(tanti) altri lotta, conflitto e amico-nemico sono stati considerati intrinseci
alla natura umana. Per cui è impossibile eliminarli; ed è difficile ridurli,
anche se non impossibile.
In fondo sia la
teologia politica cristiana che il diritto internazionale westphaliano erano
volti a realizzarlo. In particolare la riduzione dei legittimi contendenti agli
Stati sovrani (justi hostes)
diminuiva il numero di guerre limitando chi ne poteva far uso, garantendo così
lunghi periodi di pace e comunque di guerre limitate
(guerres en dentelles) alle nazioni
europee. A ciò concorrevano altri precetti fondamentali del diritto pubblico
(internazionale e interno): il monopolio della violenza legittima e della
decisione politica, le frontiere (conseguenti al carattere territoriale delle
comunità sedentarie), le distinzioni giuridiche (romanistiche) tra nemico e
criminale e carattere pubblico della guerra. Il diritto di ciascuna comunità di
vivere secondo le proprie scelte e consuetudini, ovviamente all’interno del proprio
territorio, ne garantiva il pluralismo ed il rispetto da parte delle altre.
L’universo non è in linea con tale metodo
sperimentato nella storia, che è poi, come scriveva de Maistre, la politica
applicata. Buona parte dell’armamentario di propaganda spiegato, da ultimo (ma
non solo) nella guerra russo-ucraina è il contrario di quanto efficacemente
praticato in qualche secolo di storia d’Europa. Il nemico è un “criminale,
macellaio, pazzo”. Le sue pretese sono quelle di un malato grave, a Putin hanno
fatto anche delle visite psichiatriche via televisione con diagnosi tutte
infauste (dal tumore alla demenza).
Il fatto che quanto
fatto da Putin somigli assai alla politica dei suoi predecessori negli ultimi
secoli (da Pietro il grande a Caterina la grande passando per Alessandro I e
II, Nicola I), rivolti a guerreggiare per acquisire la supremazia nel (e
intorno al) Mar Nero, può avere due risposte: o che, per interessi, in primo
luogo geopolitici, la Russia tende a conquiste ed accessi ai “mari caldi” tra
cui in primis, il Mar Nero, e di tale
tendenza occorre tener conto; ovvero che la Russia da Pietro il Grande ad oggi
è stata governata per gran parte dalla sua storia, da dementi (tuttavia due dei
quali fregiati dagli storici con l’appellativo di “grande”). La lotta sarebbe
tra democrazia contro autoritarismo – argomento che ricorda assai quello del
“mondo libero” contro il “totalitarismo comunista” - solo che nel primo caso,
aveva fondamenti ben più seri. L’autoritario è ovviamente Putin (ma anche Erdogan,
Xi-Jin-Ping, Orban, Modi ecc. ecc.). Dimenticando che, se per difendere la
democrazia fosse necessario propiziare la guerra a Russia, Cina, India, ecc.
ecc., il confronto risulterebbe assai problematico. Argomenti che hanno tutti i
connotati comuni: a) di non riconoscere l’avversario come nemico giusto; b) di
considerare le frontiere come intollerabile limite d’influenza; c) e di
discriminare essenzialmente in base a “tavole di valori” nelle quali i “diritti
umani” rivestono un ruolo fondamentale.
Ora se è vero
che vivere in una democrazia liberale (reale, meno in quelle parlate come purtroppo – in parte – è
l’Italia) è molto meglio che vivere in uno Stato autoritario e forse anche in
una democrazia illiberale, è
parimenti vero che altro è tenersi il proprio modo di esistenza e rispettare
quello degli altri, altro è cercare di esportarlo con inopportune ingerenze, e
ancor più con guerre (dirette o per procura).
Ancor più quando
il fondamento è la diversità di valori, la cui conseguenza è, come scriveva
Schmitt, che valorizzarne alcuni significa comunque dis-valorizzare altri,
collocarli in una “scala” da quello superiore a quello inferiore. E quindi
discriminare coloro che condividono quelli “in basso”..
Come sosteneva
Max Weber la competizione tra valori crea una lotta dove non è possibile
“nessuna relativizzazione e nessun compromesso”. Onde Schmitt riteneva: “la
teoria dei valori celebra i suoi trionfi… nel dibattito sulla questione della
guerra giusta” perché crea così il nemico assoluto “Il non valore non ha nessun
diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per la imposizione
del valore supremo”[1].
Soprattutto per
questo il pluriverso è preferibile all’universo – in politica, e specialmente
nei rapporti tra popoli. E l’inclusione dell’orbe nell’urbs, capacità
di cui i Romani erano maestri, richiede secoli e rispetto delle differenze.
Tempo carente ed attitudine assente tra i globalizzatori. Onde il pluriverso,
fondato sul rispetto della diversità tra i popoli, possiede un’attitudine pacificatrice superiore all’
“alternativa” universalista.
[1] E prosegue: “Tutte le categorie
del diritto di guerra classico del jus
publicum europaeum – nemico giusto, motivo di guerra giusto,
proporzionalità dei mezzi e condotta conforme alle regole, debitus modus – cadono vittime, inesorabilmente, di questa mancanza
di valore”, v. Carl Schmitt, La tirannia
dei valori, A. Pellicani Editori, Roma 1987, p. 72.
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