Ha suscitato un
discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata
dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la
congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.
A mio avviso per
valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire
sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di
giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo
trentennio.
Al riguardo ho
sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”)
riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due
giustizie: una paritaria e intergroupale,
che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e
intra)istituzionale, che denominava Temi. Le quali corrispondevano al diritto
(sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.
Nessuna
istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento,
anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’
dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).
L’una e l’altra
rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza,
autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un
po’ imprecisa).
Facevo notare in
quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e
cittadini aveva preso una piega tale da aumentare
la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella
all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio
in condizione di parità. Anzi l’aver affermato solennemente con la
modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare
di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di
comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.
Sotto tale
profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha
un suo indiscutibile pregio: che ha invertito
la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola. Le norme –
ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella
testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto
ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e
contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici
tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del
processo.
C’è un altro
aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la
nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso
della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs.
545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri,
periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie
giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e
altro).
Era stato anche
notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici
tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di
agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia
contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei
requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento
della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la
previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).
È comunque
incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo
trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere
erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali,
all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc. E per questo
anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in
giudizio. Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui
costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro
(pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni
della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile
la giustizia.
Anzi, se
controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e
privilegi della parte pubblica. Resta comunque molto lavoro da fare, nello
steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato
è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.
C’è da chiedersi
perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata
emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima.
Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e
testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre,
facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto
disapplicato o poco applicato.
L’importante è
procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e
prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui
si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo
(senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.
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