Nell’imminenza
dello scadere del termine entro il quale
la vigente legislazione prescrive che debbano essere confermati o sostituiti i grands-commis statali dopo
l’insediamento del governo post-elettorale, si è acceso il dibattito su
conferma o ricambio dei suddetti servitori
dello Stato.
Ovviamente il
PD, il quale a dispetto del fatto di non aver mai ottenuto una maggioranza dei
votanti è stato sempre al governo (o nell’area
di governo) negli ultimi dieci anni – fatta eccezione per il Governo Conte 1 -,
con relative nomine, accusa il governo di voler fare lo stesso: di ricoprire le
caselle dei personaggi ossequienti alla nuova maggioranza quanto i loro
predecessori a PD (e sodali). Condendo il tutto con l’usuale ricorso alla megliocrazia: che i loro nominati erano
bravi, colti, esperti, educati, buoni, umanitari (ecc. ecc.). Mentre quelli
nominandi dal governo Meloni sono mediocri, ignoranti, dilettanti, ecc. ecc.
Argomento involontariamente comico: se l’Italia avesse avuto una
tecno-burocrazia così eccellente non si capisce come – da trent’anni – sia
ferma, anzi in decadenza. O meglio la spiegazione è meno confortante per il PD
di quanto lo sia ritenerne corresponsabile la dirigenza burocratica.
Ma, a parte la
propaganda, il rapporto tra potere burocratico, potere politico, ma soprattutto
democrazia è uno dei principali dello Stato moderno. Già agli albori, durante
la rivoluzione francese (cioè nello Stato allora “forse” il più burocratizzato
del pianeta) i rivoluzionari lo avvertivano ampiamente. Sia nelle correnti (e
soluzioni) più moderate; ma più chiaramente e decisamente alla Convenzione la
tensione tra dirigenza eletta dal popolo e civils
servants è percepita e “risolta” dai giacobini. Saint-Just diceva alla
Convenzione “Tutti coloro che il governo
impiega sono parassiti… e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che
la corrompono, la osteggiano, la dissanguano… gli uffici hanno preso il posto
delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è virtù, è mestiere… C’è un’altra classe
corruttrice, è la categoria dei funzionari”
Del pari Robespierre riteneva “L’interesse del popolo è il bene pubblico;
l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere
buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli
è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al
popolo”. Da ciò la necessità di controllarli.
È inutile
continuare col ricordare tutti i pensatori che hanno giudicato come antitetiche
burocrazia e democrazia. La soluzione – nelle varie applicazioni che ha avuto –
come osservava Max Weber, è stata di
sottoporre gli apparati burocratici all’indirizzo, nomina e controllo di un
vertice politico, responsabile verso il corpo elettorale e quindi “rimovibile”
a scadenza fissa. Un vertice non necessariamente fornito delle caratteristiche
fondamentali della burocrazia (sapere specializzato, durata del rapporto,
selezione “dall’alto”, professionalità) proprio perché di designazione e conferma
“dal basso”.
Se non fosse
così, o si dovrebbe ricorrere alle istituzioni delle poleis democratiche, dove tutte – o quasi - le cariche erano
elettive, ovvero se i burocrati apicali non fossero responsabili verso il vertice
politico (e conservassero i propri connotati tipici) dire addio alla democrazia possibile.
Max Weber nel
distinguere la figura del capo e del funzionario da un particolare valore alla
“specie di responsabilità dell’uno e dell’altro”. Il funzionario ha come dovere
di eseguire un ordine, anche se non lo condivide “come se esso corrispondesse
alla sua intima convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere
di ufficio è superiore alla sua volontà personale”; di converso, prosegue Weber
«Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo… se egli non
trova il modo di dire al suo superiore – sia esso il monarca o il demos – “o ricevo adesso questa
istruzione o me ne vado”, vuol dire che è un “rammollito” come Bismarck ha
battezzato il tipo». Questo se capo e funzionario seguono l’ethos del rispettivo ruolo.
Ma se non lo
seguono la questione cambia; in Italia vige il nicodemismo ma soprattutto la sfrontatezza coniugata all’ambizione
di voler occupare posizioni pubbliche pur riservandosi il diritto di sindacare
o mal eseguire le direttive “dall’alto”. Delle quali la pretesa ad esercitare
la funzione senza la fiducia del vertice politico è l’aspetto più eclatante.
Che è poi un “capitolo” della mentalità consociativa tutt’altro che sminuita
dalla “bipolarizzazione” la quale ha ispirato la legislazione elettorale
dell’ultimo trentennio.
Cambiare i
vertici amministrativi della pubblica amministrazione non è così una lesione
alla democrazia, ma il rispetto della volontà popolare espressa nelle votazioni
e della responsabilità che ne consegue. Anche perché il ruolo della dirigenza
generale e del vertice politico è ordinato (tra l’altro) dall’art. 4 del D.lgs.
165/2000 il quale per il vertice dispone “Gli organi di governo esercitano le funzioni
di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi ad attuare ed adottando gli altri atti
rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa
e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano in
particolare:… e) le nomine, designazioni
ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni”; mentre “Ai
dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi
tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa… Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della
gestione e dei relativi risultati”.
Il fatto che
diverse norme di legge dispongono la “conferma” (o la sostituzione) dell’apice
della dirigenza burocratica al cambiamento del vertice politico risponde al
“circuito” democratico: per il quale chi governa deve avere il consenso dei
governati, attuarne la volontà e avere la responsabilità verso i medesimi. E
quindi il potere di controllare, sostituire e confermare coloro che – non
essendo “funzionari onorari” ma di carriera, non sono nominati né confermabili
dal corpo elettorale. Verso il quale quello di nominare gli apici dirigenziali
non è un diritto ma un dovere. Una responsabilità cui non ci si può sottrarre.
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