martedì 27 ottobre 2015

Letture: 4. A.B. MARIANTONI, F. OBERSON: Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book, 1991.

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Dell’amico Alberto Mariantoni non sentivo il bisogno di leggere gli scritti, perché ne sentivo quasi quotidianamente la viva voce, lui abitando in Svizzera e io in Italia. Molte delle cose che mi raccontava assumono ora contorni indefiniti nella mia memoria e non mi arrischio a riferirne. La nostra conoscenza risale all’ultima fase della sua vita, quando - con disgusto - aveva smesso di svolgere la sua professione giornalistica e viveva della sua pensione, che poteva spendere solo in Svizzera, non in Italia, dove avrebbe desiderato ritornare. L’operazione Zambon fatta per Dinucci io vorrei qui tentarla per l’amico Mariantoni che non aveva più neppure la copia d’archivio dei numerosi articoli che aveva scritto per i giornali svizzeri. Avevo già intrapreso questa operazione editoriale, dedicando a lui in questo blog un’apposita homepage, che adesso riprendo e spero di completare con l’aiuto dei suoi numerosi amici, che non si conoscono fra di loro ma periodicamente si riuniscono e incontrano per conservarne insieme la memoria. Intanto, mi si impone in questa rubrica la rilettura attenta, anche con ampi estratti, di un volume che scrisse nel 1991 insieme a F. Oberson, dal titolo profetico: «Gli occhi bendati sul Golfo». Ricopio la fascetta editoriale, riassuntiva del contenuto: «Uno scambi di informazioni tra un politologo specialista del mondo arabo e un saggista svizzero. Il quadro medio-orientale risulta una catena di frodi e imposture». Il libro è stato da me preso in prestito in una biblioteca che lo aveva in catalogo. All’Autore non ne era rimasta copia e credo sia introvabile. Questa scheda di lettura viene divisa in due parti. Nella Prima annoterò le mie riflessione estemporanee in corso di lettura, nella Seconda riporterò per esteso ampie sezioni del libro, ormai introvabile. È anche una forma di omaggio alla memoria dell’amico ormai passato a miglior vita.

Parte Prima
Annotazioni sul testo


Intanto chi era Alberto, oltre ad essere un amico, improvvisamente venuto a mancare il 23 ottobre 2012? Nel 1991, all’ultima pagina degli “occhi bendati” così si legge: «È nato a Rieti nel 1947. Di nazionalità italiana, attualmente risiede in Svizzera, dove ha conseguito la laurea di giornalismo e diversi diplomi universitari in scienze politiche e sociali. Politologo e giornalista di grande esperienza e molto noto a livello internazionale, è collaboratore dei maggiori quotidiani e periodici europei e di molte emittenti radiotelevisive italiane, francesi e svizzere. È specialista di politica estera e di relazioni internazionali; con particolare riferimento ai paesi arabi e musulmani e dell'Africa centrale e occidentale. Ha al suo attivo decine di inchieste e di reportages su zone di guerra e di conflitti politici soprattutto in area mediorientale. È inoltre autore di oltre centocinquanta interviste ai protagonisti politici dei paesi del Terzo Mondo e della vita politica internazionale».

Di questa sua attività giornalistica, che ora ci appare come un lascito prezioso, andremo a fare ricerca e raccolta. Gli “Occhi bendati” si aprono pure con una citazione, ben diversa da quella con cui Furio Colombo inizia il suo libretto su Israele. È tratta da Michel Sabbah, Patriarca Latino di Gerusalemme ed apparve sul Quotidiano Al-Faji il 24 dicembre 1990:
Michel Sabbah
«Il cuore del problema è in
Terra santa, a Gerusalemme.
Fino a quando la città santa sarà
un terreno di scontro, il Medioriente
resterà un vulcano che potrà esplodere
in qualunque momento».
Citazione quanto mai attuale: non stiamo assistendo proprio in questi giorni all’ennesima eruzione del vulcano? La partita che si sta giocando è malamente riportata dai nostri media, le cui cronache sono praticamente dettate dal governo israeliano, che già almeno dal 1982 aveva iniziato la sua “Hasbara”, volta a controllare all’estero la narrativa su Israele. Chi vuol vedere ciò che accade sa ormai che deve togliersi dagli occhi la “benda” quotidianamente servita dal mainstream. Personalmente, ho trovata assai istruttiva la pronta e adirata reazione israeliana alla proposta francese presso il Consiglio di Sicurezza di un controllo internazionale dei Luoghi Santi, che era una vecchissima richiesta del Vaticano, contemplata perfino nella famosa risoluzione sulla “spartizione”, se non erro. Ancora una volta vi è stato il rifiuto degli USA, che malgrado apparenti divergenze continua a fornire tutta la sua protezione para-mafiosa al governo di Israele. Dubito che la geopolitica del Medioriente potrà mutare di molto finché non si spezza il legame Usrael.

Andiamo ora al libro di pagine 226, finito di stampare nell’ottobre del 1991. Dalla Premessa sullo “scopo dell’opera” estraiamo questo brano: «La guerra del Golfo, in ordine di tempo, è stato l’ultimo episodio di una serie di tragedie che per più di quarant’anni hanno sconvolto e messo a soqquadro il Medioriente. Mai guerra fu così tanto reclamizzata e, simultaneamente, così poco spiegata ed approfondita. Siamo veramente sicuri che le forze alleate difendevano il diritto internazionale? Quale ruolo hanno giocato gli interessi economici e petroliferi dell’Occidente? Difficile, per il semplice spettatore, districare l’ingarbugliata matassa di quel conflitto e focalizzare le vere ragioni di quell' ennesimo dramma… ».  La data chiave di partenza è il 1948. «Secondo Mariantoni, la creazione artificiale dello Stato di Israele - che egli definisce il «big bang» iniziale - è all’origine, direttamente o indirettamente, di tutti i cataclismi e le reazioni a catena che hanno sconvolto questa parte del mondo... [questo studio] svela pure il vero volto di Israele, rompendo con le menzogne fino ad ora erette a livello di dogma».

Alberto B. Mariantoni
E qui voglio narrare un aneddoto che costituisce una delle mie consuete conversazioni telefoniche con Alberto. Non me le sono annotate o registrate, ma ricordo perfettamente il fatto in sé esemplificative. Mi aveva spiegato una delle tecniche di corruzione che venivano applicate verso i giornalisti. Si offriva ad Alberto una somma di denaro se soltanto accettava di consegnare a non so chi il testo del suo articolo prima che andasse in edicola. Sorpreso, Alberto chiedeva: “ma non potete aspettare qualche mezz’ora, per leggerlo direttamente appena uscito?”. Mi spiegò che era una tecnica di corruzione alla quale lui non si piegò mai, mentre altri suoi colleghi accettarono l’offerta e mi disse anche un nome, che io ho però dimenticato e non mi sono allora annotato: non era comunque un nome a me noto, ma io non sono mai stato una grande lettore di giornali. Ovviamente, se lui avesse accettato, sarebbe stato sempre ricattabile, per aver accettato del denaro. Infine, gettata la maschera, sapendo che lui non avrebbe mai mutato il suo pensiero e le sue opinioni, gli si offriva del denaro alla semplice condizione che lui non si occupasse più di determinate questioni.

Dell’esistenza di una siffatta “censura” si trova conferma verso la fine di questo ulteriore brano della Premessa editoriale: «L’ obiettivo principale di quest’opera è dimostrare che il quadro mediorientale non è altro che una catena di frodi, di menzogne e di imposture. In una parola: un cumulo di mistificazioni criminali! L’inviato speciale lascia il posto all’analista politico per svelare i complessi meccanismi che hanno permesso alle grandi potenze, Stati Uniti in testa, di esercitare le loro influenze e le loro pressioni su quella regione del mondo. Oberson pone tutte le domande possibili dello spettatore impegnato e Mariantoni, senza reticenze o timori, risponde e dimostra i meccanismi di una guerra programmata, smascherando l’informazione condizionata dalla censura e vagliando senza remore le vere poste in gioco in quel conflitto» (p. 8). Si noti il passaggio da “inviato speciale” – che arrivava sul luogo sempre prima degli altri – ad “analista politico”. Ricordo le discussioni che avevo con lui sulla massima giornalistica dei “fatti separati dalle opinioni”, cosa che ovviamente non significa essere privi di opinioni e della capacità di pensare, come spesso traspare oggi dai racconti di numerosi giornalisti che popolano i media.

È utile riportare la parte restante della Premessa editoriale perché è una buona sintesi del contenuto del libro, che andremo poi ad analizzare in dettaglio: «La constatazione finale di quest’opera è abbastanza amara. Oggi più che mai, il nuovo ordine mondiale sembra essere un “assetto internazionale” ad esclusivo uso e consumo degli Stati Uniti. La tragedia curda, la “pax siriana” nel Libano, i “giochi di prestigio” israelo-americani sulla questione palestinese, la fame in Iraq, non sono soltanto le conseguenze del dopoguerra del Golfo, ma le prime avvisaglie di una situazione che contribuirà inevitabilmente a partorire altri drammi ed altre tragedie. Saddam Hussein l’aveva predetto. Con il suo discorso del 12 agosto del 1990, aveva proposto di legare la soluzione dei molteplici problemi del Medioriente alla sua invasione/annessione del Kuwait. Sarebbe stato veramente immorale negoziare con il boia di Bagdad per tentare di mettere la parola fine allo stato d’illegalità continua e costante che regna nel Medioriente da più di quarant”anni?». La Premessa è datata Roma-Ginevra agosto 1991. Non si era ancora avuta la seconda guerra del Golfo e la definitiva distruzione dell’Iraq con la caduta di Saddam. Blair non aveva ancora consumato le sue bugie e le sue tardive scuse senza pentimento. Per i media sono dei “boia”, dei “macellai”, dei “dittatori” tutti quelli che non si chiamano Blair o Bush o Comesivuole purché nostri padroni al potere...

Un piccolo particolare sui nostri uomini di governo... giusto per averne un confronto comparativo con i “tiranni” di cui guai a parlar bene o a mantenersi neutri nelle decretazione mediatica di condanna e demonizzazione... Ho visto ier sera un film sulla vicenda Ambrosoli / Sindona, che termina con l’assassinio di Ambrosoli ordinata da Sindona, le cui frodi finanziarie erano state svelate da Ambrosoli... Nella fiction compaiono personaggi storici come Andreotti e il suo Evangelisti, che nel film appare grande amico e complice di Sindona... Dell’Andreotti storico io ricordo una frase virgolettata riportata dall’Espresso che allora io leggevo ogni settimana... Ero studente o da poco laureato e ricordo che Andreotti Presidente del Consiglio in quegli anni non sapevo dare migliore consiglio a noi giovani in cerca di lavoro che di «fare fagotto» ed andarsene all’estero per cercare lavoro. Non era gentile e affabile l’Uomo... lo Statista, certamente fra i maggiori che la storia italiana del dopoguerra ha partorito... Quella citazione fa il paio con altra, documentaria, riportata nella fiction: non è l’attore, ma proprio lo spezzone di una intervista concessa da Andreotti, che sull’uomo Ambrosoli che nel film appare come un “martire” per il “Paese”, altro di meglio non trova da dire che: «se l’era andata a cercare» la fine che aveva fatto. Da una parte Saddam, oppure Geddafi, o ancora sulla scena, Assad; dall’altra i nostri statisti, grandissimi come Andreotti, o da ridere come l’attuale Matteo Renzi, le cui frottole quotidiane scassano il telecomando. E dunque? Vale la regola hobbesiana del rapporto protezione / obbedienza, per la quale l’unico criterio certo di legittimità di un Capo di governo è non la forma istituzionale (parlamento, monarchia, direttorio, gabinetto, ecc.) con la quale esercita il suo potere, ma la capacità effettiva di fornire protezione (e benessere) al suo popolo. Per Geddafi la differenza fra come stavano i libici sotto di lui e come stanno adesso è di assoluta evidenza. Caduto Saddam, l’Iraq “liberato” e passato nelle mani degli americano conta finora due milioni di morti civili e distruzioni immani quali in nessun modo si potranno mai attribuire al “boia di Bagdad”. Si ricordi, del resto, che in Hobbes il Leviatano è una “mostro feroce”, il più feroce di tutti, ma non è la sua “ferocia” che ne fa venir meno la “legittimità”, bensì il venir meno della funzione per la quale il Leviatano esiste, e cioè la “protezione” che deve fornire ai sudditi davanti a chi attenta alla loro vita: due milioni di morti civili fatti nel solo Iraq dalla “ingerenza umanitaria” degli USA senza considerare le distruzioni infinite! Saddam - “boia di Bagdad - di certo non poteva avere nessun interesse a uccidere tutto il suo popolo e a distruggere tutto il suo paese, o a venderlo come fanno i governanti nostrani.

Siamo nell’estate del 1991, quando nel libro-intervista il saggista svizzero Oberson chiede al politolo-giornalista Mariantoni, che da vent’anni gira in lungo e largo la situazione del mondo arabo, come egli potrebbe riassumere la situazione generale del mondo arabo. Mariantoni, assai pessimista, offre questo quadro generale, riferito - non si dimentichi - alla prima metà del 1991:

«Dalla Mauritania all’Afghanistan, infatti, il «quadro» è piuttosto deludente ed inquietante. Si tratta di una regione dove, da più di quarant’anni, regna l’arbitrio e l’ingiustizia, e nella quale i diritti più elementari dell’uomo sono sistematicamente scherniti e calpestati. Una regione dove la minaccia di guerra è costante e latente, e dove il pericolo di scontri politici e sociali è all’ordine del giorno. Per meglio rendersene conto, però, è necessario fare una rapida e succinta carrellata sui diversi paesi di questa regione.

La Mauritania è governata da una dittatura militare. Le lascio immaginare il «clima» nel quale vivono gli abitanti di questo paese ... tanto sul piano delle libertà civili che su quello della vita di tutti i giorni. L’economia è moribonda. La tratta degli schiavi è tutt’ora praticata nelle regioni più interne del paese, nonostante l’interdizione ufficiale del governo. Senza contare la guerra che potrebbe scoppiare da un momento all’altro con il vicino Senegal.
Hassan II (1929-1999)

Nel Marocco, il nostro «amico» Hassan II è sempre contornato dalla stessa oligarchia feudo-finanziaria. La metà del territorio marocchino è praticamente proprietà privata di una sola persona: Sua Maestà il Re. La pretesa libertà di stampa e d’opinione, così come il multipartitismo, sono «marcati» a vista dalla polizia del regime. La guerra contro il popolo Sahraui ha svuotato le casse dello Stato senza risolvere il conflitto. La gioventù è frustrata e delusa, «scalpita» per mancanza di sbocchi concreti all’interno della società e le sue rivolte sono sistematicamente represse nel sangue. L’economia agonizza. E questo nonostante le entrate in monete forti provenienti dall’emigrazione e dal turismo.

Chadli Bedjedid (1929-2012)
Dopo ventisei anni di potere assoluto in Algeria, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) è in piena crisi. Dal 1988 non fa che subire il rigetto politico, economico e sociale della maggioranza della popolazione. Per evitare al paese una rivoluzione islamica degli adepti del FIS (Fronte islamico della salvezza), il Presidente Chadli Bedjedid ha autorizzato il multipartitismo ed il ritorno in Algeria di alcuni leaders storici, fin lì in esilio, come Ait Ahmed ed Ahmed Ben Bella. Più di quaranta partiti recentemente organizzati si contendono ormai le spoglie dell’ex granaio della Francia coloniale. I militari, restati fedeli al ricordo del regime di Boumedienne, potrebbero essere tentati - dopo la proclamazione della legge marziale (revocata poi il 29 settembre 1991) e l’arresto dei principali leaders del FIS, rispettivamente nel giugno e nel luglio 1991 - di «mettere d’accordo» tutta questa gente, fomentando, magari, un colpo di Stato.

Ben Alì (n. 1936)
Nonostante l’eliminazione politica del “Combattente supremo” (l’anziano Habib Burguiba) nel 1987, la Tunisia ed il regime del Presidente Ben Ali continuano a degenerare. Eppure una promessa di liberalismo politico, mai mantenuta, aveva fatto posto alle «tempeste di sabbia» generate da Burguiba negli ultimi anni del suo «regno». Poi, quasi immediatamente, Ben Ali si è ricordato che era stato allievo della scuola militare francese di Saint Cyr, che era stato responsabile della polizia tunisina e ministro degli Interni. Il suo regime si è quindi strutturato sull’immagine di un sistema poliziesco ed inquisitore. Inutile meravigliarsi dell’assenza di libertà di stampa e d’opinione, nonché della mancanza di elementari garanzie legali e costituzionali. La società tunisina è in effervescenza: i conflitti sociali aumentano d'intensità, la repressione s’intensifica e le prigioni sono piene. In clandestinità, i fondamentalisti del gruppo Anhada spiano qualsiasi occasione per prendere il potere. L’esplosione generale può prodursi in qualsiasi momento, senza preavviso.

Ufficialmente libera ed ammmistrata dalla Glamahmya (un sistema di democrazia diretta), la Libia è governata da una dittatura politico-militare uscita dal colpo di Stato dello settembre 1969. Dopo un breve e florido periodo, l’economia libica è divenuta inevitabilmente dipendente dall’iniziativa pubblica e dalla sola risorsa energetica del paese, il petrolio. Tra tutti i paesi del Maghreb, la Libia è la più prospera, ma l’uomo della strada non sembra affatto trarre profitto dalla ricchezza del paese. La libertà d’opinione non esiste che per coloro che appoggiano il regime gheddafiano. Per gli altri, è la repressione. li sospetto e la paura regnano a tutti i livelli. Gli interessi privati di certi dirigenti si frammischiano senza vergogna con quelli dello Stato. Il clientelismo e la corruzione imperano. L’imitazione pedissequa e l’omertà sono di rigore. La violenza gratuita e l’arbitrario sono una costante. Tutto ciò, naturalmente, all’insaputa del «Leader» della rivoluzione che vive trincerato nella regione della Sirte, tra i ghedafeda, i membri della sua tribù natale. Ufficialmente Gheddafi dice di essere un vero nazionalista arabo, al di sopra della «mischia» e molto attaccato all’indipendenza ed al benessere del suo popolo. In realtà, non è che un «neuropatico depressivo», per giunta manipolato, nel corso degli ultimi anni, da una banda d’affaristi senza scrupoli appartenenti alla sua stessa famiglia o al suo seguito.

In Egitto, le cose non vanno affatto meglio. E questo nonostante l’immagine di marca apparentemente bonaria ed il suo allineamento sulla politica occidentale in occasione del conflitto del Golfo. Il regime egiziano resta una dittatura politico militare sostenuta e manipolata da un «iceberg» d’affaristi e di speculatori autoctoni legati alla finanza internazionale ed alla politica di Washington. L’uomo di paglia dell’Egitto, il Presidente Mubarak, è soprannominato «la vache qui rit» ... Per quest’ex generale d’aviazione non è affatto una disquisizione accademica dire che «vola» molto, molto basso! Il potere, in Egitto, è monopolizzato dal NPD, il Partito nazionale democratico, che ha ridotto il Parlamento al ruolo di semplice comparsa. Dieci anni dopo l’assassinio di Sadat nel 1981, le «leggi speciali» decretate all’epoca sono state prorogate «sine die» il 18 maggio 1991... Questa eccezionalità della legislazione permette al Rais egiziano di far arrestare i «pericolosi rivoluzionari» ed i «terroristi islamici». In realtà, la maggior parte di questi prigionieri non sono che dei semplici cittadini, esasperati e scontenti del regime. L’amico americano, il Presidente George Bush, ha dato una boccata d’ossigeno al suo omologo egiziano, annullando i debiti militari del paese che erano calcolati in miliardi di dollari, per «servizio reso», in concomitanza con la guerra del Golfo! Quest’intervento finanziario non è che un momentaneo palliativo all’inevitabile disastro economico che grava sul paese, ma permette a Mubarak di evitare la rivolta popolare che potrebbe prodursi in Egitto come nel 1977.

Il centro-nord del Sudan, a maggioranza musulmana, è controllato da una giunta militare. Il sud, cristiano-animista, è in piena rivolta. Alla guerra civile che continua ad insanguinare il paese dall’epoca di Nimeiry, s’aggiungono la malnutrizione dovuta al sottosviluppo ed all’arretratezza agricola ed industriale, e le epidemie per mancanza d’infrastrutture sanitarie. Questo paese è uno dei più disastrati della Terra, sia sul piano materiale che morale.

Saremmo tentati di credere che il solo paese «occidentale» della regione che stia sotto una buona «stella» sia Israele. Tuttavia, dall’epoca della sua fondazione nel 1948, lo Stato ebraico vive in una situazione di guerra permanente con i suoi vicini arabi. Il «clima» sviluppatosi con l’Intifada nei Territori occupati rende la situazione più esplosiva che mai dal 1987. La reazione dei Palestinesi si spiega attraverso i soprusi - vessazioni, espulsioni, arresti, confisca delle terre, distruzioni d’abitazioni e massacri d’ogni genere - che quest’ultimi hanno subito in Cisgiordania e Gaza, nel Golan ed a Gerusalemmeest, nel corso degli ultimi ventiquattro anni. All’interno dello Stato propriamente detto - ufficialmente democratico - il sistema politico israeliano è apertamente discriminante. Pratica una distinzione sistematica tra i cittadini nazionali ebrei ed i cittadini arabi autoctoni (con passaporto israeliano) o installati nel paese prima della guerra dei Sei giorni nel 1967 (16% della popolazione). La discriminazione è esercitata a tutti i livelli: politico, religioso, amministrativo, finanziario, sociale, educativo, culturale. Per non citare che un esempio, il 92% delle terre del paese appartengono allo Stato che le affitta esclusivamente ai soli israeliani di religione ebraica. Il rifiuto sistematico dei dirigenti israeliani di partecipare ad una Conferenza di pace con i Palestinesi, dimostra chiaramente che il clima di guerra perdurerà ancora per molto tempo in questa regione.

Analizziamo il Libano dopo quindici anni di guerra “civile”: centomila morti, trecentomila feriti, un milione di sfollati, due milioni di esiliati, cinquanta miliardi di dollari di distruzioni. Oggi, il Libano ha ufficialmente ritrovato la “pace”, mi correggo, “la pax siriana”! Quarantamila soldati siriani continuano ad occupare 1'85% del territorio libanese, mentre il restante 15% è sempre controllato dagli israeliani e dai loro alleati libanesi del sud del paese. I «mukabarat» (agenti della polizia politica e dei servizi segreti) di Damasco sono presenti dappertutto: persino negli uffici e negli appartamenti privati del “Presidente” libanese Elias Hraui e dei membri del “governo” del primo ministro Omar Karamé. Il governo fantoccio di Beirut obbedisce a bacchetta al Presidente siriano Hafez el-Assad, con la benedizione del re Fahd d’Arabia Saudita e dei suoi amici della Lega Araba. Il Parlamento libanese è completamente illegale. È stato eletto nel 1972 - dunque prima dell’inizio della guerra scoppiata nel 1975 - dal 12% della popolazione e continua, nonostante tutto, a rimanere in carica, usurpando sfacciatamente un mandato elettorale che avrebbe dovuto finire nel 1976! Dopo la morte o le dimissioni di 40 deputati, i parlamentari mancanti sono stati nominati d’ufficio da Damasco ... Inutile sottolineare che la libertà di stampa e d’opinione, come il rispetto dei diritti dell’uomo, appartengono ormai ad un vago ricordo del passato. Dopo gli accordi di Taef nel 1989, l’eliminazione del generale Aoun nel 1990 e la firma dell’accordo siro-libanese del maggio 1991, il Libano ha perduto la sua libertà e la sua indipendenza, divenendo, così, un semplice protettorato siriano; con l’avallo, naturalmente, degli Stati Uniti e delle Potenze occidentali. A quando l’annessione pura e semplice dell’ex Libano al «Bilad Esh-Sham», la Grande Siria?

In Siria, la setta religiosa dei «Nusayris» o «Alauiti» rappresenta meno del 12% della popolazione, ma questo non impedisce affatto ai suoi adepti di monopolizzare la totalità del potere di questo paese. A sua volta, questa setta è manipolata dalla «mafia» familiare del Presidente Hafez el-Assad, divenuto «maestro» nell’arte di opprimere i suoi concittadini attraverso gli arresti indiscriminati, le torture, le esecuzioni sommarie o la sparizione pura e semplice. La Siria non è altro che un gigantesco campo di concentramento, dove la libertà, la democrazia e la giustizia sono state definitivamente bandite dal vocabolario comune. È una specie di universo orwelliano dove ognuno spia e sospetta chiunque ma questo, naturalmente, non sembra affatto che, in questo momento (come già avvenuto in passato con il regime di Saddam), giudica questo regime estremamente valido ed indispensabile alla strategia statunitense nella regione mediorientale. Prima dell’ultimo conflitto del Golfo, la Siria non era altro che la copia conforme del suo vicino, l’Iraq. Quest’ultimo, in più, conosce, oggi, le terribili conseguenze del dopoguerra: circa 150.000 morti, distruzioni incalcolabili, due milioni di Curdi rifugiati nei «no men's land» garantiti dall'ONU, migliaia di sciiti irakeni massacrati dalla repressione brutale dell’esercito di Bagdad o in fuga verso il vicino Iran. E malgrado ciò, Saddam Hussein ed il «clan» degli al-Takriti sono sempre al potere.


In Arabia Saudita e nell’insieme delle petromonarchie del Golfo, il potere è sempre tenuto da un pugno di privilegiati che scambiano sistematicamente le casse dei loro Stati per un portafoglio personale. In questi Stati, amministrati da subdole e feroci dittature, a torto ritenute di «diritto divino», i re, gli emiri, gli sceicchi, nonché le loro famiglie, hanno tutti i diritti: compreso quello di vita e di morte sui loro sudditi; il resto della popolazione, nessun diritto. Senza contare lo stato di semi-schiavitù nel quale vivono i lavoratori stranieri ...


La Giordania, popolata per oltre il 60% da Palestinesi, sta scivolando verso 1’integralismo islamico. L’economia è in pieno sfacelo. La famiglia regnante (Hashemita) teme più che mai che la soluzione del problema palestinese passi attraverso la creazione di uno Stato sul suo territorio. 


I due Yemen, recentemente unificati, sono alla mercè dei gruppi fondamentalisti ed islamisti («islamista» = colui che utilizza l’Islam esclusivamente come un’ideologia politico-religiosa e rivoluzionaria per la conquista del potere; da non confondere con «islamologo» = colui cioè che studia ed approfondisce i problemi di questa religione). Folle ogni giorno più numerose reclamano 1’applicazione della Sharia (la legislazione musulmana) ed il recupero politico di tre province del nord del paese, annesse militarmente dall’Arabia Saudita negli anni ‘30.

L’Iran di Rafsandjani (il nuovo «Shah») vive in piena dittatura politica. Le promesse della rivoluzione del 1979 non sono più che un ricordo. il clientelismo del potere favorisce una minoranza di privilegiati, a discapito delle masse sempre più numerose di «mustazafin» (diseredati). I vecchi metodi repressivi, già utilizzati dalla famigerata Savak dell’epoca dello Shah, sono ritornati di moda; e 1’integralismo religioso (da non confondere con l’islamismo rivoluzionario predicato da Khomeini) adottato dagli attuali responsabili del regime di Teheran, sembra non avere più nulla da invidiare all’arretratezza culturale e politica del wahhabismo saudita.


All’estremo limite di questa regione, infine, resta l’Afghanistan. Dimenticato dall’opinione pubblica e «messo in soffitta» dai governi dei paesi occidentali, questo paese continua ad essere martoriato dalla guerra civile. I sovietici hanno lasciato ufficialmente Kabul, ma il loro «supervisore» personale, l’attuale Presidente comunista Nagibullah, resta più che mai al potere. I milioni di rifugiati afghani dovranno ancora attendere, prima di poter rientrare nel loro paese» (pp. 11-17). 
Non si dimentichi che questo quadro risale alla prima metà del 1991 ed era ciò che allora appariva ad Alberto Mariantoni, la cui prima visita nei luoghi da lui descritti risaliva al 1969. Mi dispiace davvero di non aver annotato le cose che mi raccontava della sua passata esperienza. In particolare, ne voglio qui ricordare una, abbastanza divertente, ma con tutte le cautele già espresse, di mancata annotazione. Mi raccontava Alberto di non aver mai ricevuto in tutta la sua carriera una sola querela per diffamazione, essendo lui sempre molto attento a ciò che scriveva ed a poterlo documentare in caso di repliche e smentite. Vi fu un solo caso in cui ricevette una querela e fu quando ebbe a intervistare il presidente di uno Stato, credo il Libano. E disse per bocca del Presidente intervistato che certe persone erano dei ladri o delle spie. Trattandosi della parola del Presidente di uno Stato, sarebbe stato mancanza di tatto fare la registrazione dell’intervista. Si fidò... Poi le persone “diffamate” gli mossero querela e lui si sarebbe trovato a mal partito, se il Presidente non avesse confermato ciò che lui aveva scritto, fidandosi. Non solo il Presidente confermò mandando una lettera al Giudice, ma disse che sarebbe venuto personalmente a testimoniare, confermando ciò che aveva detto ad Alberto Mariantoni. Era davvero divertito, ed io con lui, quando mi raccontava Alberto come gli avvocati della controparte scapparono via immediatamente dall’aula, appena fu letta la lettera del Presidente...

Non si dimentichi inoltre come Alberto Mariantoni ritornò a fare il giornalista proprio dalle pagine virtuali di questo blog, quando scrisse battendo sul tempo gli altri il suo mirabile articolo sulla Libia, facendo vedere come in realtà ad essere attaccata non era ma Libia, ma l’Italia! E ricordo che nelle conversazioni di quel periodo il suo giudizio su Gheddafi era diverso da quello del 1991. Pur mantenendo riserve di giudizio, Alberto era del parere che il “dittatore” avesse fatto sempre il bene del suo Paese e che non vi era nessuna alternativa migliore a Gheddafi stesso:  la storia di questi ultimi anni, con la Libia che precipita sempre più in basso, conferma pienamente l’esattezza di quel giudizio. Lo stesso si può dire di tutti i paesi dove le potenze occidentali intervengono per stabilire la “democrazia”, i “diritti umani” e quant’altro: la situazione che creano si rivela di gran lunga peggiore della precedente! E ciò dimostra l’ipocrisia delle potenze occidentali e la vera natura delle loro intenzioni, ossia quella che adesso si chiama la “strategia del caos” permanente e la depredazione delle risorse petrolifere, oltre che il mantenimento dello «Stato ebraico di Israele» come frontiera dell’Occidente: “la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”, come recitava un sito sionista...

Procedendo nella lettura, essendo ormai il libro introvabile, mi rendo conto che alcune parte siano decisamente da ripubblicare. Pertanto divido questa scheda in due parti. La Prima dove svolgo le mie riflessioni, con citazioni o estratti commentati. La seconda tutta di Estratti. Incomincio con il Secondo Capitolo, che è poi quello centrale che dà senso a tutto il libro ed è ancora di grande attualità.

Parte Seconda
UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO

1. La creazione dello Stato dIsraele.

Proclamazione dello Stato d’Israele
Il 14 maggio 1948, esempio unico nella storia dell’umanità, uno Stato sovrano veniva proclamato nel Medioriente, grazie ad una decisione extra-nazionale: lo Stato d’Israele. Quella decisione era il risultato di un voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ottenuto il 29 novembre del 1947, attraverso il metodo della maggioranza dei due terzi dei votanti ed in particolare con 33 voti a favore, 13 contro, e 10 astensioni. Dunque, con un solo voto di scarto. Questo voto, a sua volta, faceva seguito ad un’altra presa di posizione internazionale: quella della Commissione speciale delle Nazioni Unite per la Palestina. Commissione che si era pronunciata il 31 luglio 1947 (con 25 sì, 13 no, e 17 astensioni), a favore di una spartizione di quel territorio in due Stati indipendenti con unione economica: l’uno ebreo e l’altro arabo, ed una zona internazionale (la città di Gerusalemme) su diretto controllo dell’ONU.

La proclamazione dello Stato d’Israele, il voto dell’ONU e le prese di posizione internazionali prendevano spunto da un certo numero di argomenti:


1. La Dichiarazione Balfour. In altre parole, la famosa lettera inviata a Lord Lionel de Rothschild, il 2 novembre del 1917, da Arthur J. Balfour, l’allora segretario di Stato agli Esteri della corona d’Inghilterra. In quella lettera, approvata dal Gabinetto di Sua Maestà, il Ministro britannico aveva in particolare dichiarato che il suo governo considerava «con simpatia l’edificazione in Palestina d’un “centro nazionale” per il popolo ebreo» e che avrebbe fatto «tutto il possibile per  facilitare quell’obiettivo». Una promessa condizionata dal paragrafo seguente: «Essendo ben inteso che niente dovrà limitare i diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, o portare pregiudizio ai diritti ed alla situazione politica che gli Ebrei godono negli altri Paesi». Prese di posizione analoghe erano state rese note dalla Francia, sia nel giugno del 1917 (in particolare dal segretario generale del ministero degli Esteri, Jules Cambon) che nel febbraio del 1918, dal Ministro degli Esteri Stéphen Pichon.

2. Un certo numero di prese di posizione da parte delle Potenze Alleate che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, avevano espresso il loro sostegno nei confronti della Dichiarazione Balfour, in occasione della Conferenza di San Remo del 1922 e della Convenzione anglo-americana del 1924.


3. I risultati della Conferenza sionista mondiale del 1945 a Londra e le raccapriccianti rivelazioni concernenti la politica di sterminio degli Ebrei, praticata in Europa dal Terzo Reich, dal 1942 al 1945. Le cifre ufficiali parlavano in quell’epoca dell’eliminazione di circa il 73 % della popolazione israelita europea.


4. Le tesi sioniste, secondo le quali «il ritorno degli Ebrei in Terra Santa era, in definitiva, un atto di giustizia nei confronti di un popolo che era stato estirpato dalla Palestina due mila anni prima, ed era stato perseguitato ovunque nel mondo, a causa della sua particolarità etnica e religiosa». Questo ritorno, secondo la stessa tesi, sarebbe avvenuto senza creare problemi, in quanto la Palestina, era «una terra senza popolo» che poteva senz’altro ospitare «un popolo senza terra». Il contesto nel quale la proclamazione dello Stato ebraico verrà effettuata corrisponde alla fine del Mandato britannico sulla Palestina. L’amministrazione di questo territorio - affidato dalla Società delle Nazioni alla Gran Bretagna il 16 settembre del 1922 dopo la disintegrazione dell’Impero Ottomano - doveva cessare, infatti, il 15 maggio del 1948 a mezzanotte, come previsto da una decisione del Foreign Office del 13 maggio precedente. A questo bisogna aggiungere le posizioni politiche arabe. Senza rifare tutta la storia della controversia tra arabi e britannici, e tra arabi e coloni ebrei, diciamo, per riassumere, che la maggior parte dei Palestinesi e degli Stati arabi della regione, dal 1921 si erano accanitamente opposti sia alla creazione di un «foyer» ebreo in Palestina che all’idea di dividere quella terra con gli emigrati israeliti provenienti dall’Europa. L’opposizione araba a questi progetti si era tradotta nei fatti, con lo scoppio di sanguinose insurrezioni in Palestina nel 1922, nel 1928, nel 1929, nel 1933, nel 1936 e nel 1937. Senza contare lo stato di tensione continua che si era manifestato in Palestina e nei diversi Paesi arabi della regione, in concomitanza con gli alterni avvenimenti provocati dalla seconda guerra mondiale. Nonostante quest’opposizione, ed a qualche ora dalla fine del Mandato britannico sulla Palestina, David Ben Gurion (presidente del Comitato esecutivo dell’Agenzia ebraica mondiale), in presenza del Consiglio nazionale ebreo (un organismo rappresentante, simultaneamente, le organizzazioni sioniste del mondo e la comunità israelita palestinese), proclamerà, a Tel-Aviv, lo Stato d’Israele. «Alea iacta erat»: il dato era tratto ... Quest’avvenimento è
ciò che io definisco il «big bang» iniziale della situazione mediorientale.


a. Il «big bang» iniziale. 


- Non pensa che sia un po’ semplicistico, se non «tendenzioso», voler per forza attribuire alla creazione dello Stato d’Israele, la totalità dei fatti e misfatti che sono avvenuti nel Medioriente negli ultimi quarantatré anni?


- Capisco la sua incredulità ed il suo sbalordimento. Salvo rare eccezioni, chiunque, in Occidente, reagirebbe come Lei.


Visto dall’Occidente, infatti, è evidente che il problema che sto cercando di spiegare sia completamente assurdo. Lo Stato d’Israele - per noi occidentali - risponde ai crismi della legalità: è uno Stato sovrano e, per giunta, creato a partire da un accordo ed una decisione internazionali.


Visto dal Medioriente, invece, lo stesso avvenimento non ha affatto assunto le stesse caratteristiche percettive. In particolare nel 1948! Tenga conto che per la totalità delle popolazioni e degli Stati arabi, la creazione dello Stato d’Israele fu considerata, in quell’epoca, semplicemente un crimine.


- Perché un crimine?


- Poiché rimetteva completamente in discussione l’integrità territoriale del «Dar el-Islam» (il Paese dei musulmani); un’integrità che ai loro occhi esisteva dal 637 d.C. (epoca della conquista musulmana della Palestina) e che era stata interrotta, soltanto per qualche anno, durante la breve parentesi delle Crociate.


- Questa loro reazione non era contraddittoria? Gli ebrei, che io sappia, nel mondo arabo, non avevano mai subito, fino ad allora, delle persecuzioni simili ai «pogrom» ... tanto meno, dei tentativi di sterminio!


- È giusto. Ma è qui che si situa un altro problema di interpretazione del fenomeno dell’emigrazione ebrea in Palestina.


All’interno del «Dar el-Islam», gli ebrei autoctoni, sebbene in minoranza, non erano mai stati effettivamente «maltrattati»; anche se, a causa della «Dhimma» musulmana (l’accordo di «protezione» religiosa), venivano considerati (come nel caso delle minoranze cristiane) cittadini di seconda classe ed erano costretti a subire un certo numero di soprusi politici ed economici.


Nel caso del «centro ebreo» preconizzato da Balfour o dello Stato d’Israele proclamato da Ben Gurion, non si trattava più di israeliti autoctoni, ma di europei giudaizzati. Agli occhi degli Arabi, addirittura di semplici europei! Ed era naturale che quelle popolazioni considerassero la massa d’emigrati ebrei europei che stava dilagando sulla Palestina dall’inizio del secolo, come un fatto coloniale.


Potrei aggiungere che la percezione degli Arabi a proposito della decisione dell'ONU di autorizzare la creazione dello Stato d’Israele, non attenuava per niente la loro intransigenza nei confronti degli israeliti europei. Al contrario, l’irrigidiva ancora di più. E questo per il semplice motivo che quella decisione era stata presa da un organismo occidentale.


La maggior parte degli Stati arabi, allora indipendenti, avevano aderito all’ONU, ma questo non faceva loro dimenticare che, visto dal Medioriente, quest’ultimo appariva un «carrozzone» occidentale, inventato dalle potenze Alleate per meglio perpetuare, nel tempo, i rapporti di forza che erano scaturiti tra le Nazioni alla fine della seconda guerra mondiale.


- «Carrozzone» o no, l’ONU aveva votato la spartizione della Palestina in due Stati: uno Ebreo e l’altro Arabo. Perché gli Arabi rifiutarono quella decisione?


- Se domani si formasse un’organizzazione che si ispira alle gesta del Duca di Borgogna - magari riconosciuta dall’ONU - gli abitanti del Giura svizzero sarebbero disposti, secondo Lei, a spartire il loro territorio con quella gente?


- Credo di no, ma il caso degli Ebrei è diverso: erano scampati all’Olocausto, allo sterminio nazista, e permettere loro di rifarsi una vita era il minimo dei gesti umanitari che la comunità internazionale potesse compiere nei loro riguardi!

- Certo, ma che aveva risposto il re Abdallah di Transgiordania (l’attuale regno di Giordania) , a quanti cercavano di convincerlo con gli stessi argomenti? «Gli Ebrei - dirà - hanno subito dei torti da parte dei Tedeschi? Ebbene, sono i Tedeschi che debbono pagare quei torti, attraverso la cessione di una parcella del loro territorio nazionale».


b. Il problema israeliano.


- Visto che quella soluzione era irrealizzabile, che bisognava fare del popolo ebreo?


- lo non parlerei affatto di popolo ... In che cosa, infatti, la particolarità di appartenere ad una religione - nel caso specifico al giudaesimo - darebbe ai suoi adepti il diritto di definirsi «popolo»? Ha mai sentito parlare di popolo cristiano, di popolo animista o buddista? Di popolo scintoista, zoroastriano, induista ecc.?


- Vorrebbe dire che il popolo ebreo non esiste?


- In ogni caso non nel senso che viene propagandato dai sionisti o dagli attuali responsabili dello Stato d’Israele. Quest’ultimi, infatti, hanno piuttosto la tendenza a fare una certa «confusione» tra la nozione di popolo, definita da Oppenheim (un popolo è un aggregato d’individui dei due sessi che abitano in comunità, indipendentemente dal fatto di appartenere a razze e credenze differenti, o avere un colore diverso), e quella di «razza», considerata come un «popolo eletto» ...


Per me, invece, gli Ebrei non sono altro che degli israeliti. Della gente, cioè, che crede o si riconosce, in generale, nella religione o nella cultura giudaica; quantunque non si possa affermare che ci sia una sola interpretazione di quella religione o una manifestazione monolitica di quella cultura tra coloro che tendono ad ostentare la loro ebraicità. Non dimentichi, inoltre, che si può essere israeliti - come nel caso di quanti che si dichiarano atei - anche senza doversi necessariamente riferire alle idee del giudaesimo religioso o alla cultura che ne deriva.



Lo stesso dicasi dei cittadini che appartengono allo Stato d’Israele. Anche in questo caso, sono convinto che si tratti di israeliti, israeliti che posseggono la particolarità di aver deciso di vivere insieme, in comunità. Questo è un loro diritto. Come è nel diritto di qualsiasi «setta» religiosa di riunirsi e vivere in comunità, per esempio, nell’ambito di un «hashram». Ma non vedo come, però, una qualunque comunità religiosa o culturale possa trasformarsi in «popolo-razza» o autodefinirsi «comunità di individui a parte», aventi, per giunta, «una storia e dei caratteri etnici, morfologici e linguistici comuni» ... come affermano i sionisti in generale; arrogandosi il diritto, poi, come nel caso degli Israeliani, di rivendicare una terra che sarebbe appartenuta, all’incirca duemila anni fa, a dei loro ipotetici antenati, gli Ebrei della storia.

È come se una comunità culturale spagnola o iugoslava che s’ispira alla civiltà etrusca, pretendesse rivendicare il possesso della Toscana o dell’Umbria, quando è incontestabile che queste due regioni sono integrate, da più di duemila anni, alla storia ed alle tradizioni politiche e culturali dell’Italia.


- Per quale motivo, allora, i sionisti e gli Israeliani parlerebberodi «popolo-razza»?


- È semplice: grazie all’assurdo comportamento avuto dagli Europei, nel corso dei secoli, nei confronti degli israeliti. Non dimentichiamoci, infatti, che è relegando i Giudei nei ghetti che si è dato spazio e credibilità alla nozione di «popolo ebreo»! Era logico, quindi, che i sionisti ne prendessero spunto, facendone «un’idea-forza» per la loro battaglia d’emancipazione.


Analizziamo, ora, il contesto nel quale la nozione di «popolo-razza» ha assunto la dimensione che oggi conosciamo.


Per giustificare ideologicamente il «ritorno» delle comunità israelite nella «terra degli avi», gli intellettuali dell’Organizzazione sionista mondiale, nel XIX secolo, pensarono bene di sfruttare l’ambiguità che esisteva in Europa tra «ebrei=adepti di una religione a parte» ed «ebrei=razza a parte», per inventare di sana pianta un legame «biologico» ed «antropologico» con gli Ebrei della storia o «Bené Israel» (i figli di Israele).


Secondo numerosi studiosi di questo campo, i discendenti di Abramo sono stati, volta a volta, storicamente identificati sia negli «Heriu-scià» (quelli che vivono sulle sabbie), sia negli «Amu» o «Iuntiu» (un popolo nomade conosciuto dagli antichi egizi), sia negli «Ivrin» (quelli che passano), sia negli

 




(Segue)

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