domenica 14 novembre 2010

Un caso di coscienza nell’ospedale di Paderborn: del medico o del paziente?

Precedente - Successivo

Avrei altro in programma per la giornata e spero, anche con beneficio dei miei Cinque Lettori, di riuscire a racchiudere in breve spazio la riflessione in me sorta su una notizia di ieri, concernente il caso di un medico “ebreo”, che per problemi di coscienza – dice lui – non ha voluto operare in un ospedale tedesco un paziente, che aveva sul corpo il tatuaggio di una svastica o qualcosa di simile. Pare che in Germania le leggi sulla privacy siano molto più severe che in Italia e non è lecito andare alla ricerca dei nomi o di ulteriori dettagli, che però a noi non servono per la nostra riflessione, tipica e di scuola. Intanto, l’eco della notizia e la sua ricaduta sui media ci sembra decisamente più ampia di quella sulla mega-truffa americana, dove i contribuenti tedeschi sono stati allegramente frodati da falsi “sopravvissuti” all’«Olocausto». Su questa notizia sembra si voglia stendere un velo di silenzio. Eppure, è molto più grave. Riguarda sempre la Germania... Sarà un caso? Non sono un “complottista” di quelli che immaginano che vi sia un ordine che parta da Tel Aviv o da una Sinagoga e dica ad ognuno cosa deve o non deve fare. Credo basti immaginare una logica di schieramento, di campo, perché ognuno sappia autonomamente cosa fare e come comportatarsi, perfino cosa dire e quali argomenti usare. Ormai ho imparato a osservare i movimenti della stampa, il flusso delle notizie. Ho perfino coniato la metafora delle rondini di ottobre ossia dei “falsi stormi dell’informazione”, che richiamano o distolgono l’attenzione dei più, dei grandi numeri, della “massa”.

Su “La Repubblica”, quotidiano contro il quale ho promosso una causa civile che mi vedrà impegnato per anni, forse per decenni, essendo questi i tempi della giustizia civile in Italia, dico su “Repubblica”, lo stesso articolista che aveva edulcorato la notizia sulla mega-truffa, ha diretto il suo olimpico sguardo da New York all’ospedale di Paderborn, dove così conclude il fatto:
««…A quel punto il chirurgo non ci ha più visto. Ha chiesto al collega al suo fianco di operare lui, è uscito dalla sala operatoria, è andato direttamente a parlare con la moglie del paziente, che attendeva la fine dell'intervento. "Io non opererò suo marito, signora, non posso, perché sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette". L'altro chirurgo ha preso il suo posto, tutto è andato bene. Non si sa se il paziente abbia protestato o sporto denuncia, ma forse potrebbe non convenirgli. Per quanto anche l'omissione di soccorso sia perseguita con severità, nella Repubblica federale qualsiasi esibizione di simboli nazisti è reato penale» (fonte).
Sempre ieri, per una sorta di corrispondenza di amorosi sensi, la mia attenzione è caduta sulla sublime penna della signora Nirenstein, ancora per poco – mi auguro – nel parlamento italiano, dove il suo cuore batte tutto per Israele, pretendendo che “noi” siamo “loro”, come recita nel titolo di un suo libello: “Israele siamo noi”. La penna della signora non si è esercitata sulla mega-truffa di New York, ma si è espansa su Paderborn, dove ci ha fatto sapere che se fosse stato per lei, che si immagina nei panni del chirurgo “ebreo”, lei lo avrebbe operato il tedesco con la svastica sul corpo. Ma dopo aver esordito così procede con un lungo sproloquio, senza nè capo nè coda, ma che trova dignità di stampa sul “Giornale”, ne conclude con un «Possiamo condannarlo?» a discolpa del medico che ha infranto il giuramente di Ippocrate, salvo eventuale omissione di soccorso, prevista in genere da tutti i codici penali.

E qui, dopo una necessaria premessa, sul fatto e sul diritto, inizia la mia riflessione. Quando si dice: “avere il coltello dalla parte del manico” si tratta in genere di una metafora, di un modo di dire, ma in questo caso si indica proprio la realtà: un medico con il bisturi ed il suo paziente, in anestesia, su un tavolo operatorio. Ricordo tanti anni fa, in una corsia di ospedale, un paziente che diceva al medico di essere preoccupato, perché avrebbe dovuto essere operato pochi giorni dopo e non aveva trovato chi lo raccomandasse. Il medico gli chiese se per caso fosse un meridionale, essendo allora ben nota la propensione dei meridionali a cercare sempre una raccomandazione. Il paziente rispose un poco piccato: «Si! Perchè? Non sono un italiano?» Ogni volta che raccontavo l’episodio, suscitavo il sorriso di compatimento da parte di chi ascoltava. Ma ora, salendo dall’estremo sud dello stivale, all’estremo nord della Germania, a Paderborn, forse quel lontano mio ricordo, deve essere rivisitato con ben altra luce e intelligenza.

Con tipico etnocentrismo sia l’articolista di “Repubblica” sia la signora Nirenstein immaginano il caso tutto dal punto di vista di chi tiene per il manico il coltello, cioè il bisturi, e per nulla dal punto di vista di chi sta dall’altra parte, sul tavolo operatorio. E se questi, dopo che la signora Nirenstein ci ha dato un vivido ritratto del medico “ebreo”, avesse lui detto: «No! Io da te non voglio essere operato, perché temo che tu possa ammazzarmi...». Chi potrebbe dirlo? Un raptus, un trauma d’infanzia, l’influenza di una fiction... Ma non sarebbe neppure necessaria, forse, una motivazione. Sapendo che sei un “ebreo”, non voglio essere operato da te e chiedo un chirurgo di mia fiducia. Cosa sarebbe successo? Non si sarebbe gridato subito all’antisemitismo? La signora Nirenstein, appena di ritorno dal Canada*, dove insieme ad altri due deputati italiani, ha partecipato ad una interparlamentare per concordare misure legislative internazionali contro un presunto antisemitismo dilagante, non avrebbe forse indicato in questo ipotetico rifiuto un ulteriore caso di “antisemitismo”?

Sotto il profilo penale si discute – ma non abbiamo seguito e non seguiremo tutta la rassegna stampa sul fatto – se oltre alla violazione della regola deontologica del giuramento di Ippocrate che impone a ogni medico di curare ogni malato, non certo di ucciderlo o lasciarlo morire, non vi sia stato anche un reato penale di omissione di soccorso. Con stile sornione l’articolista di “Repubblica”, nel brano sopra riportato, ipotizza che al paziente non converrebbe denunciare il medico “ebreo” in quanto in Germania il suo tatuaggio – magari privatissimo, in quanto sulla natica destra – costituisce un titolo di reato severamente punito, magari con anni di carcere... E siamo qui ai 200.000 casi, di cui io cerco conferma o smentita statistica! Riusciamo intanto a capire come in Germania (e si vorrebbe anche in Italia) sia facile finire in galera per ogni quisquilia che disturbi un ebreo. Avrei qui un altro bel ricordo su cui soffermarmi, ma appesentirei un post che invece voglio chiudere al più presto, per occuparmi di altro.

Non sappiamo se l’articolista di “Repubblica”, ministro di verità e saggezza, abbia particolari informazioni, ma rebus sic stantibus chi ci impedisce di pensare che il paziente non sia già stato condannato proprio per quel tatuaggio? Chi ci impedisce di pensare che il medico “ebreo” non sia andato a denunciare il “paziente” dopo essersi rifiutato di operarlo? Chi ci impedisce di pensare che l’operazione consistesse proprio nell’asportazione del tatuaggio per non incorrere in nuove sanzioni penali? Non potendo avere notizie nel dettaglio, in ragione della legge tedesca sulla privacy, noi possiamo immaginare di tutto. E, del resto, ci interessa un caso tanto ipotetico quanto verosimile e realistico, non il singolo fatto concreto.

Un caso per riflettere su come a 65 anni dalla fine della guerra vi sia chi pensa di poter vivere ancora secoli a venire sulla “colpa” degli altri. Su di una “colpa” dichiarata da un Tribunale dei vincitori sui vinti: una barbarie che annulla di colpo secoli di civiltà giuridica. Ognuno sa, peraltro, che i Governi dei Paesi ai quali appartenevano i Giudici di un simile Tribunale, hanno commesso crimini affini o assimilabili e, certe volte, maggiori e più ributtanti di quelli palesemente ascritti o attribuiti ai vinti: prima, durante e dopo il processo di Norimberga. Inoltre, essendo passati 65 anni dalla fine della guerra, ed immaginando che per essere soldati bisognasse avere almeno 18 anni, si può calcolare che quasi nessuno di quella generazione viva ancora. È ben vero che nella megatruffa, sulla quale i media si affrettano ad allontare lo sguardo e l’attenzione della “massa”, vi sono stati parecchi casi di “sopravvissuti” all’«Olocausto» nazista, nati dopo il 1945.

E veniamo qui a “nazismo” e “fascismo”. Io vado sempre dicendo e scrivendo che in senso proprio non esistono più né nazisti né fascisti, essendo il fascismo e il nazismo finiti nel 1945. Inoltre, per chi è nato dopo quell’anno diventa oltremodo difficile sapere cosa siano stati quei regimi in quanto di essi si hanno soltanto narrazioni ufficiali e accreditate per legge. È in pratica proibita una libera e autonoma ricostruzione del passato storico che ha riguardato la vita dei nostri genitori e dei nostri avi, spesso diffamati soltanto per aver vissuto i loro anni maturi nella prima metà del XX secolo. Io credo perfino che molti giovani, fatti passare per neonazisti, non si rendano perfino conto di quel passato e, magari dicendosi nazisti – ma non ne ho mai conosciuto uno – intendano soltanto protestare, rivendicando un passato, cui è loro negato l’accesso, come fosse una porta chiusa, al di là della quale non si può entrare e per sapere cosa c’è dietro di essa bisogna solo attenersi o a quanto ce ne dice l’articolista di “Repubblica” o la signora Nirenstein o il medico di Paderborn, forse nato prima del 1945 e dunque “testimone” di quegli anni.

E concludo con una nota per i miei nemici in malafede. Io mi raffiguro una sorta di diaframma fra il mondo come poteva essere prima e dopo il 1945. Appartengo alla schiera di quanti vedono dopo quella data la Germania, l’Italia e l’Europa tutta interamente distrutta da una guerra civile iniziata nel 1914 o 1917 e nella quale, astutamente, si sono inseriti i nemici dell’Europa. Dico: distrutta, non liberata. Ai presunti Liberatori dico che, se credono di avere acquisito una legittimazione con cui opprimere quelli che vedono solo “distruzione”, dovrebbero fondare una siffatta legittimazione su ciò che pensano loro di aver saputo fare dopo il 1945. La mia impressione è che non abbiano fatto nulla di positivo e cercano la loro legittimità solo nella delegittimazione, demonizzazione e criminalizzazione di tutto ciò che è stato prima del 1945 e che per giunta, divenendo esso sempre più remoto, non ci è neppure concesso di conoscere, con i nostri mezzi critici e con la nostra propria testa. È così che il passato diventa sempre più mitico. Dobbiamo fidarci di lor signori, spesso più incolti di una capra, ma pronti a strillare come se li scannassero, appena uno dice loro cose non gradite o sentono dire ciò che non consentono sia neppure detto.

* Quelli del “Corriere canadese” sono tanto liberali e democratici che si sono ben guardati dal far passare un mio commento critico sulla notizia, pur essendo previsto un apposito spazio: “dite la vostra”. Il foglio canadese è in realtà una sorta di agenzia sionista, che pubblica sempre e solo notizie di “tendenza”, frequentemente riprese da una rassegna stampa cristiano sionista.

Nessun commento: