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Antonio Caracciolo
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ROTTURE DELLA COSTITUZIONE
1. A parlare di rotture della Costituzione il primo problema che si pone è di definizione. Non essendo il termine espresso nel testo costituzionale, quindi non connotato dal costituente ma elaborato dai giuristi, il definiens di “rottura” varia a secondo dell’opinione degli interpreti.
Limitandoci alla dottrina, e a qualche opinione di giurista che possa esemplificare un particolare modo d’intendere la rottura abbiamo:
1) La concezione di Carl Schmitt, secondo il quale la rottura è la “violazione di disposizioni legislative costituzionali in uno o più casi determinati, ma come eccezione, ossia con il presupposto che le disposizioni trasgredite per il resto continuino immutate ad esser valide e non sono quindi né definitivamente soppresse né temporaneamente private della loro vigenza (sospese)”; a sua volta suddivisibili in “a) Rottura che non rispetta la costituzione, ossia violazione eccezionale di una disposizione legislativa costituzionale senza riguardo al procedimento previsto per le modifiche della costituzione” e “b) Rottura che rispetta la costituzione, ossia violazione eccezionale di una disposizione legislativa costituzionale in uno o più casi determinati, dove o una legge costituzionale ammette questa violazione eccezionale (per es. art. 48 comma 2 cost.) ovvero è osservato il procedimento prescritto per le modifiche della costituzione” .
2) La concezione di Mortati, a opinione del quale le leggi di rottura hanno carattere eccezionale e sono legittime: “Ove si accetti il punto di vista sviluppato nella prima parte, in ordine al rapporto fra la costituzione materiale e quella formale, bisognerebbe ritenere che le deroghe di cui si parla siano consentite nei limiti dello scopo supremo di preservazione dei valori fondamentali inerenti al tipo proprio dell’ordinamento vigente ...” .
3) La concezione, diffusa, secondo cui la rottura ha carattere puntuale mentre la deroga è permanente: ambedue costituiscono eccezioni rispetto alla normativa della Costituzione formale .
2. Ovviamente tutte tali opinioni sono legittime perché, non essendoci un concetto legislativamente definito, ogni interprete può connotarlo come vuole (la definizione è quindi “stipulativa” o, meglio, convenzionale, e come tale accettata o meno). A tale proposito occorre tuttavia rilevare come le diverse connotazioni del termine dipendano da:
a) la concezione di cosa sia “costituzione”;
b) quella di cosa sia “rottura”.
Mentre su questo secondo aspetto la convergenza è diffusa, in quanto la rottura va iscritta nella categoria dell’eccezione, e in particolare nella specie dell’eccezione puntuale (ovvero per uno o più casi determinati, e non per “classi” di oggetti o casi), sul primo la convergenza è largamente inferiore. Basti ricordare che il concetto che ne da Schmitt presuppone sia la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali, sia il concepire la costituzione come decisione fondamentale sulla forma dell’unità politica “Tutto quello che c’è all’interno del Reich tedesco nella legalità e nella normatività, vale soltanto sulla base e nell’ambito di queste decisioni. Esse formano la sostanza della costituzione” mentre “Le altre normative, le enumerazioni e le delimitazioni delle competenze nei singoli dettagli, le leggi, per le quali per motivi determinati è scelta la forma della legge costituzionale, sono di fronte a quelle decisioni relative e secondarie; la loro particolarità esteriore è caratterizzata per il fatto che possono essere rimosse o modificate soltanto con il procedimento di modificazione aggravata dall’art. 76” .
Quanto alla tesi di Mortati, anch’essa dev’essere ricollegata alla concezione di costituzione materiale, e del rapporto di questa con quella formale .
Senza arrivare all’esame di tutte le posizioni sostenute dai giuristi che se ne sono occupati, e tenuto conto del carattere “stipulativo” e comunque non ricavabile dalla normativa delle definizioni, occorre andare alla ricerca di un concetto di rottura che sia quanto più possibile “comprendente”, cioè consenta di associarvi il maggior numero di attributi (descrizione esauriente) e distinguerlo dai concetti degli istituti più vicini (deroga, sospensione della Costituzione, o anche violazione di questa) .
A tale proposito un contributo decisivo ce lo offre Machiavelli, nel descrivere i connotati della dittatura romana. Machiavelli sostiene, confutando i detrattori dell’istituto della dittatura che “La quale cosa non fu bene, da colui che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d’ogni ragione creduta. Perché e’ non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l’autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio”; l’istituto invece prevedeva che “il Dittatore era fatto a tempo e non in perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante la quale era creato; e la sua autorità si estendeva in potere deliberare per se stesso circa i rimedi di quello urgente pericolo, e fare ogni cosa senza consulta, e punire ciascuno sanza appellagione; ma non poteva fare cosa che fussi in diminuzione dello stato, come sarebbe stato tòrre autorità al Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi della città e farne de’ nuovi”. Per cui sostiene “E veramente intra gli altri ordini romani questo è uno che merita essere considerato e numerato intra quegli che furono cagione della grandezza di tanto imperio: perché senza uno simile ordine le cittadi con difficultà usciranno dagli accidenti istraordinari... E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo... Perché quando in una repubblica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”. Si noti che nel passo citato , il Segretario fiorentino, pone l’alternativa essenziale “o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli”.
Analizzando quindi la descrizione di Machiavelli, i caratteri salienti (a parte la coincidenza lessicale tra il termine “rottura” e quel “rompergli”), sono:
a) che degli ordini (cioè dell’ordinamento, della Verfassung dello Stato) deve far parte il rimedio (i rimedi) straordinario/i per fronteggiare l’emergenza.
b) che se questi non sono previsti, lo Stato è mal costituito, perchè rischia di rovinare per serbare gli “ordini” privo com’è del/dei rimedio/i straordinario/i; (questo a meno di non violare la costituzione e gli “ordini”).
c) Il tutto conferma la validità della concezione per cui salus rei publicae suprema lex; e il prevalere di questa sull’altro fiat justitia, pereat mundus (almeno quand’è in questione l’esistenza della comunità).
d) E il carattere eccezionale della dittatura (e di istituti vicini e similari) come la rottura rispetto all’ordinamento, che deriva dall’essere limitata (da altri poteri) e norme: contrariamente alla legge di revisione costituzionale destinata a non avere particolari limitazioni , quale esercizio del potere costituente (o del più ridotto potere di revisione).
Questi limiti sono: nel tempo; rispetto agli “ordini” (non può derogare i poteri degli organi costituzionali ordinari “Senato o Popolo”); e circoscritto anche all’ “affare” (vale per la soluzione di una crisi, di carattere cioè speciale e non generale). Si fonda sulla necessità sopraggiunta, che può ricorrere nella vita di uno Stato, per cui non è possibile trattarla e superarla con il mezzo (e la legge) ordinario (anzi queste potrebbero essere – e in genere sono – d’impaccio). D’altra parte, come sostiene De Maistre “ Non è in potere dell’uomo creare una legge che non abbia bisogno di un’eccezione” .
Coniugando la concezione di Machiavelli e quella di de Maistre, abbiamo che un ordinamento si compone sia di istituti, regole, modelli normali che di istituti, regole, modelli eccezionali. Mancando gli uni o gli altri l’ordinamento è mal costituito.
Da questo consegue che l’eccezione non si contrappone a ordinamento ma a norma. L’istituzione, come nel paragone dello scacchiere di Santi Romano, muove come pedine non solo le norme, ma la stessa organizzazione normale, che modifica, limita o sospende con decisioni, organi, uffici di carattere straordinario.
Un’ulteriore conseguenza è che l’eccezione è tale rispetto ad una regolarità, ma ciò non significa che concreti sempre una violazione od una trasgressione – situazioni indubbiamente con le quali presenta una certa somiglianza – dell’ordinamento giuridico. Ciò non solo per motivi formali, cioè per la legalità (se prevista) delle rotture e delle correlative attribuzioni di potestà, ma anche per la necessità di queste al perseguimento dei fini generali ed all’attuazione e conservazione dell’ordinamento .
Ancor più l’eccezione costituita delle “rotture” è relativa e non assoluta: è relativa perché rispetto alla costituzione e più ancora all’organizzazione costituzionale le “rotture” non implicano annullamento, abolizione, abrogazione della costituzione, come sarebbe se la rottura fosse assoluta e totale, cioè eversiva dei poteri e degli organi costitutivi dalla forma di Stato e di governo .
3. Il carattere distintivo rispetto ai concetti più prossimi a quello di rottura (e cioè deroga e violazione della costituzione) impone di ricercare il criterium differentiae rispetto a questi.
Quanto alla deroga, ha in comune rispetto alla rottura, di essere un’eccezione alle disposizioni costituzionali: così gli artt. 57, 3° comma (attribuzione di un numero di senatori minore al Molise e alla Valle d’Aosta rispetto a quello ordinario) e 87, 2° comma (sui delegati all’elezione del Presidente della Repubblica, o il divieto di ricostituzione del P.N.F.) quale eccezione rispetto all’art. 49 della Costituzione.
Ma a differenza della rottura, la deroga è permanente, di carattere eccezionale ma non puntuale e specifica (orientata alla soluzione di un “affare”); non è connotata dalla “causa finale” della salvaguardia dell’ordinamento (per non rovinare ...).
Quanto alla violazione della Costituzione il discorso va direttamente alla concezione di questa.
Se si prescinde dalla distinzione tra Costituzione e leggi costituzionali, e si identifica la Costituzione con quella formale in vigore, occorre comunque distinguere se le “rotture” siano autorizzate da quella, ovvero no.
Quanto al primo caso, ricorrente in numerosi testi costituzionali (come l’art. 16 della vigente Costituzione francese; l’art. 48 della Costituzione di Weimar) il problema non si pone, perché le previsioni di poteri eccezionali, comportamenti, limitazioni anche a diritti garantiti dalla Costituzione e a situazioni comunque protette da norme costituzionali, non costituisce violazione della Costituzione, perché previsti da quella, con l’indicazione delle circostanze eccezionali e delle procedure da seguire.
Si pone invece laddove le “rotture” non siano “autorizzate” dalla Costituzione formale o, se previste, siano adottate al di fuori dei casi indicati e/o senza seguire il procedimento prescritto.
A seguire la concezione di Santi Romano dello jus involuntarium costituzionale le rotture possono essere ricondotte a due delle specie indicate da giurista siciliano: ovvero ai principi generali e fondamentali “impliciti nella stessa esistenza dello Stato” (come la decisione per l’esistenza quale comunità politica organizzata) ; e, ancor più, alla necessità che “implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogni sociali, che impone una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti” .
La giuridicità, come sostiene Romano, è data dall’esigenza istituzionale; e questa supera e ricomprende la legalità – anche costituzionale (non lo scrive ma è implicito e coerente al suo pensiero). Per cui le rotture, come i decreti o le ordinanze di necessità (di cui tratta) possono essere non solo praeter legem, ma anche contra legem (costituzionale).
Quello che sicuramente non possono è essere contro la costituzione. Anche se Santi Romano non esplicita mai la distinzione, come fa Schmitt, tra Costituzione e leggi costituzionali, questa può essere assimilata (anche se la coincidenza è parziale) al rapporto tra istituzione e norma, ripetuto in più passi dal giurista siciliano. Per cui quella muove la norma e non è da questa vincolata. Così la rottura, anche se non conforme alla legalità costituzionale, si distingue comunque da una rivoluzione o da un colpo di Stato perché non modifica l’assetto dei poteri pubblici (“Senato o popolo”) e così rispetta l’essenza della Costituzione; e perché non è finalizzata all’eversione di quell’assetto e neppure delle stesse disposizioni legislative costituzionali modificate (se non, in quel caso, a un fine specifico e per il tempo strettamente necessario allo scopo). Sostanzialmente, come scriveva Machiavelli a proposito della dittatura, è un modo di conservazione e non di modificazione (duraturo) dell’ordinamento. Per cui non si può parlare di violazione della Costituzione ma semmai di violazione delle leggi costituzionali.
4. A questo punto penso sia chiaro che a distinguere la rottura è, principalmente lo scopo della medesima. Se non è prevista dalla Costituzione formale gode dello status (raro) di essere un potere che non ha fondamento legislativo (base normativa scritta) ma solo uno scopo ed è legittimato (e distinto) proprio da quello. Che ne costituisce anche il limite intrinseco: una “rottura” che non si limitasse a risolvere una crisi, non fosse legata ad una situazione determinata, all’occasione che l’ha resa necessaria diverrebbe una revisione costituzionale, connotata da una volontà innovatrice e duratura.
Così le “rotture” hanno il carattere, come scriveva Forsthoff per le misure “amministrative”, di actio più che di ratio. Tuttavia, com’è noto, non sono le sole ad avere tale carattere, che, anzi, secondo il giurista tedesco, era connaturale all’azione (e al provvedimento) amministrativo. Diversamente da quelli, le rotture hanno l’effetto di derogare a norme (leggi) costituzionali, mentre per gli atti amministrativi (d’emergenza) ci si limita (talvolta) a quelle legislative ordinarie o ad altri caratteri denotanti la straordinarietà, senza arrivare alla deroga (puntuale) alla legislazione costituzionale.
Piuttosto altro carattere delle rotture che le differenzia – oltre alla normativa derogata da altri istituti – è quello del particolare carattere e importanza vitale dello scopo. Se questo per gli organi e la normativa straordinaria consiste nell’attività necessaria a riportare a una vita normale popolazioni sconvolte da cataclismi naturali o da turbative gravi dell’ordine pubblico, nel caso della rottura la”causa finale” dev’essere “prima” : nel senso che l’esigenza deve consistere nell’alternativa tra rottura e rovina dell’ordinamento. Ovvero dev’essere in gioco l’esistenza della comunità o la forma nella quale questa esiste ed agisce.
Inoltre, dato che la rottura può non essere legale (nel senso di prevista dalla Costituzione formale) ma si fonda sulla necessità (v. sopra), occorre, per distinguerla da colpi di Stato e rivoluzioni, che sia legittima: cioè volta a salvaguardare (l’esistenza) e la forma in cui la comunità è organizzata.
5. Resta da vedere, sempre nel caso che la rottura non sia prevista, chi la possa porre in essere.
A parte la risposta ovvia, che lo è il titolare del potere costituente, questo, per il caso di forma di Stato monarchica, facilmente se ne può servire, ma è difficilmente esercitabile se si tratta di democrazia; nel qual caso, dovrebbe competere all’organo immediatamente rappresentativo (cioè il corpo elettorale).
Tuttavia in situazione d’urgenza il corpo elettorale non è l’organo più adatto a deliberare, nel qual caso compete all’organo che ha la competenza alla direzione politica dello Stato: in una Repubblica presidenziale il Presidente, in una Repubblica parlamentare il Parlamento.
7. Sempre nel caso della mancata previsione nel testo costituzionale delle rotture, si pone il problema di come possano essere legittimate a posteriori. A questo si può assimilare il caso che le rotture (previste dalla Costituzione) siano state deliberate senza osservare la procedura prevista o da un organo non competente.
Il problema della legittimazione a posteriori di un atto non conforme alla legalità, anche costituzionale, è stato affrontato più volte, e con particolare insistenza, da Santi Romano .
Il quale, coerentemente a quanto sopra esposto, fondava il potere di porre in essere atti illegali sulla necessità. Ma non trascurava né l’opportunità né l’importanza della legittimazione degli atti così presi, e ancor più delle (radicali) trasformazioni costituzionali, fino al caso estremo di un nuovo ordinamento. Il giurista siciliano fa al riguardo una doppia distinzione: tra diritto e legalità e tra questa e la legittimità. Quanto alla prima afferma “Quel che a noi sembra innegabile è che la dichiarazione dello stato d’assedio equivale ad una sospensione delle leggi comuni e quindi ad una temporanea abrogazione di esse: il che il Governo non può fare in base ad una legge, ma occorre, perché vi sia autorizzato, che sorga un’altra fonte del diritto che vinca la legge medesima, cioè la necessità. Ne viene che lo stato d’assedio è atto giuridico, ma illegale: donde la necessità che gli organi statuali che normalmente hanno l’ufficio di dichiarare il diritto, lo dichiarino anche quando esso, eccezionalmente, è stato dichiarato da altri” . Quanto alla seconda: “Ciò non basta perché il colpo di Stato si distingua abbastanza nettamente dai così detti provvedimenti di necessità. Questi in primo luogo, se sono a considerarsi illegali, non sembra che possano dirsi illegittimi: ci sono dei casi in cui, secondo la dottrina che sembra più accettabile, è perfettamente giuridico non osservare una legge, salvo a riparare in seguito formalmente a questa inosservanza. La quale non è, come, a prima vista, potrebbe supporsi, qualche cosa di fatto, ma è regolata, così nel suo procedimento, come, in parte, nel suo contenuto, da norme vere e proprie di diritto” . E prosegue col distinguere i provvedimenti di necessità in cui “le mutazioni che nell’ordinamento costituzionale sono introdotte, per mezzo dei provvedimenti di cui è parola, hanno il carattere più spiccato della provvisorietà, in quanto presuppongono che, venute meno certe condizioni straordinarie, anche l’ordinario regime venga in tutto ripristinato. Non d’instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale è quindi in tal caso parlarsi, ma della momentanea sospensione di quello già esistente”. E indica quale criterio principale per identificare la legittimazione di un ordinamento nuovo “legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. Su quale base logica tale concetto riposi è appena necessario mostrare. La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa corrispondenza effettivamente esista, che non sia un’illusione o qualche cosa di artificialmente provocato, si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito” .
Applicando alle rotture costituzionali i criteri indicati da Santi Romano per le ordinanze di necessità e gli ordinamenti nuovi, la loro legittimazione può non avvenire con le procedure previste dalla legge (come una legge di “sanatoria costituzionale”) che, se non prevista dalla Costituzione formale, non può essere legalmente sanata: ma tutto sommato è irrilevante perché la legittimazione della rottura avviene con la di essa efficacia e congruità a risolvere la situazione d’emergenza, e l’accettazione della medesima. La quale non è un procedimento giuridico, ma uno stato (e quindi un’indagine) di fatto e si basa sull’opinione, ripetuta anche dal giurista siciliano che “legittimo è qualunque Stato che esista di fatto”. Per cui se questo esiste superando la crisi, la “rottura” ha compiuto la sua funzione.
Per concludere, nel caso delle rotture (e della loro legittimazione) vale quanto ripetuto da più filosofi e giuristi: che non è tanto decisivo e rilevante l’esistenza di una competenza o una procedura all’uopo o che vi sia un Tribunale per giudicare sulla legittimità delle rotture, perché in certi frangenti vale l’ “appello a Dio”, come sosteneva Locke. E che è, in diritto costituzionale, analogo al “Er gibt Keinen Prätor... zwischen Staaten” di Hegel nel diritto internazionale.
Teodoro Klitsche de la Grange
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