IL DOPPIO CIRCUITO (*)
Maurice Hauriou (1856-1929) |
Gianfranco Miglio (1918-2001) |
I regimi politici che hanno vitalità e quindi durata sono quelli che realizzano un equilibrio tra i due circuiti: quello per così dire della legittimità, del rapporto governanti-governati e l’altro della relazione tra potere apicale ed aiutantato. Anzi, per allungarne la durata (e a parte guerre e conquiste) il primo circuito deve far aggio sul secondo. Chi esercita il potere ha comunque bisogno sia del consenso dei governati che dell’organizzazione di governo, cioè degli aiutanti. E non sempre – anzi raramente – il modo per ottenere il consenso degli uni non va a scapito dal mantenere quello degli altri.
L’aveva visto chiaramente Settimio Severo, del quale si dice avesse consigliato ai figli di accattivarsi quello dei soldati, e disinteressarsi degli altri. Il consiglio dell’imperatore fu seguito da tanti, con risultati, alla lunga, tutt’altro che positivi. Eliogabalo, che di Settimio era il nipote e regnò circa un decennio dopo, fu costretto a subire la richiesta delle legioni che avevano minacciato di saccheggiare Antiochia (una grande città dell’Impero) se non avessero ottenuto dei donativi; minaccia – anche con modalità diverse - più volte ripetuta nel periodo di decadenza dell’Impero; e, talvolta, anche eseguita, come per Autun. Per cui come scrive Rostovzev, era difficile convincere i soldati imperiali “che le città dell’Impero non erano loro nemiche”. E tale conseguenza, nei confronti della pervasiva burocrazia romana del dominato, fu tratta – all’inverso - anche dalla popolazione civile nei confronti dell’amministrazione imperiale. Scriveva Salviano di Marsiglia (nel V secolo d.C.) “Passiamo ora a un’altra mostruosità inqualificabile che ha origine da quella empietà appena accennata e che, sconosciuta ai barbari, è di casa per i Romani: costoro con l’esazione delle tasse si confiscano i beni a vicenda. Ma che dico! non a vicenda, perché sarebbe sicuramente più sopportabile se ognuno patisse di ritorno ciò che ha fatto patire agli altri. Più grave è il fatto che sono poche persone a confiscare i beni di una massa di gente”: il risultato, scrive Salviano, fu che la popolazione, per sfuggire alle angherie della burocrazia imperiale, emigrava verso le zone occupate dai barbari o dai ribelli.
L’esito finale (a lungo termine) di aver privilegiato l’aiutantato rispetto ai governati, anzi di aver fatto vessare i secondi dai primi, fu una delle cause, (forse la principale) della distruzione della sintesi politica, cioè l’Impero romano d’occidente, perché aiutantato e governati si percepivano reciprocamente come nemici. Al punto che questi ultimi preferivano il rapporto politico d’amicizia con i barbari, all’origine dei regni romano-barbarici e dell’Europa medievale e moderna.
D’altra parte e osservando il tutto da un altro punto d’osservazione, ossia da un altro presupposto del politico (Freund), cioè quello del comando/obbedienza, un potere non può sostenersi – se non nel “breve periodo” - solo sulla coazione e sul relativo apparato, organizzato per esercitarlo. Come scrive Rostovzev descrivendo il governo del tardo impero romano tale sistema può essere definito come terrorismo permanente (1), il cui tratto saliente è “il crescente sviluppo del principio della coazione in tutti i rapporti del Governo con la popolazione, particolarmente nel campo delle imposte e del lavoro obbligatorio. Accanto alle imposte, ma molto più oppressivo e non meno metodicamente applicato, si svolgeva il sistema di requisire viveri, materie prime, manufatti, denari, navi, bestie da soma e uomini per condurle, e così via”.
Un sistema politico che si basi sull’aiutantato e sulla coazione, è prevalentemente un sistema il cui elemento essenziale e “vitale” è incutere paura. E acutamente Montesquieu sosteneva che il principio di governo del dispotismo è la paura.
Spesso tuttavia un sistema del genere non è (neanche) economico. Caracalla, destinatario del consiglio del padre (insieme al fratello Geta da lui assassinato) fu costretto a reperire somme enormi per comprare il favore dei militari “per riempire il tesoro dell’imperatore fu allora costretto a ricorrere a provvedimenti straordinari. Dione enumera integralmente le fonti delle entrate dell’imperatore, che derivano in prima linea dal sistematico drenaggio della ricchezza delle classi abbienti” (2). E così il sistema di governo si rivelò (come spesso ripetutosi nella storia) economicamente disastroso per lo Stato, ma lucroso per i funzionari imperiali; i quali gestivano i “flussi” di denaro e altre utilità. Il tasso di corruzione della burocrazia aumentò (come assai spesso capita quando s’incrementano funzioni esercitate, beni e somme amministrate): “Le relazioni tra lo Stato e i contribuenti assumevano l’aspetto di una rapina più o meno metodica: lavoro forzato, prestazioni forzate di cose, prestiti o donativi forzati erano il sistema corrente. L’amministrazione era corrotta e immorale” (3).
Il tutto avveniva soprattutto perché quel sistema appariva come il percorso più facilmente percorribile “per mantenere in moto le ruote dello Stato ed impedirne lo sfacelo finale” (4). Questo nel breve periodo; ma come già cennato, col tempo finì per perdere l’impero, con l’epilogo dei sudditi che scappano nei territori occupati dai Germani per sfuggire a rapine ed angherie dell’aiutantato imperiale (5).
Neppure il potenziamento sia in termini numerici (pare che l’esercito di Diocleziano fosse da una volta e mezzo a quasi il doppio, per effettivi, di quello di Augusto) che di risorse consumate, aveva portato l’apparato militare (componente essenziale dell’aiutantato) a migliorare il rendimento. Nel IV e V secolo diventano ricorrenti (e poi permanenti) le invasioni del territorio imperiale da parte dei barbari. Mentre Augusto era sconfitto a Teutoburgo, in Germania, ben oltre il Reno e Marc’Aurelio combatteva in Boemia, al di là del limes, le grandi battaglie di quel periodo (da Argentoratum ad Adrianopoli e ai Campi Catalauni) erano combattute in “casa”. Con quali sofferenze per la popolazione è facile immaginare.
D’altra parte il tutto non era limitato solo all’apparato militare, ma anche all’amministrazione civile (6); e soprattutto, come notato da molti “dopo Diocleziano lo Stato, per porre riparo alla grave crisi, che alla metà circa del terzo secolo aveva colpito l’impero, assunse poteri ed esercitò ingerenze straordinarie ed ebbe la pretesa di disciplinare tutta la vita economica” (7).
Scrive Miglio che le indagini più recenti sulla fine dell’Impero romano d’occidente “dimostrano che la ragione per la quale l’Impero romano si è inabissato, trascinando in questo collasso l’intero mondo classico, è un macroscopico squilibrio fra rendite politiche da una parte, che il mondo antico privilegiava e considerava le sole accettabili per gli elementi altolocati e le rendite di mercato, cioè la produttività dell’economia dall’altra” (8).
2.0 Miglio distingue tra i “sudditi” della sintesi politica non due, ma tre categorie (o fasce) in base alla “rendita politica” che viene loro assicurata (la quale è sempre fondata sulla costrizione). Le fasce che ne derivano sono:
a) quella dei cittadini non attivi politicamente che devono una fedeltà passiva, cioè obbedienza (9) al vertice, da cui ottengono protezione.
b) “Diversa è invece la posizione (seconda fascia) che si crea nel caso dei seguaci attivi, cioè gli ‘aiutanti’ del potere politico. Costoro prestano ai capi politici una fedeltà attiva, ossia atti e comportamenti continuati, per far si che coloro che detengono il potere lo conservino… Nei loro riguardo i capi politici prestano una protezione attiva” (10). Tale protezione attiva oggi si manifesta in più modi, coerentemente all’evoluzione dello Stato, divenuto da assoluto a “di diritto” e poi “sociale”. Così uno dei modi “nuovi” sono le garanzie istituzionali (institutionellen garantien) spesso rivolte, sotto la (esternata) volontà di voler tutelare la funzione pubblica, a proteggere i funzionari pubblici delle conseguenze di atti illeciti.
La distinzione politologica tra vertice politico, aiutantato e base fatta da Miglio è triadica. Come nota tale studioso quella più usuale, risalente a Mosca e Pareto, è dicotomica: governanti/governati. Anche se ritiene che “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica” (11). Il che pone il problema di identificare l’aiutantato: secondo Miglio ciò può farsi seguendo il criterio della quantificazione del comando, perché in ogni sistema politico c’è “chi comanda di più e chi di meno” (12). Ne deriva (anche quale ulteriore criterio) che “il comando è maggiore quanto maggiore è la discrezionalità” (13).
c) A queste Miglio aggiunge una terza fascia. Alla quale riconduce “quelli ai quali si estorcono le risorse per erogare le paghe politiche. Sono i seguaci che potremmo definire dominati. Prima di tutto sono i nemici vinti, ‘i tributari’ – come avviene negli imperi, sia classici che contemporanei (sovietico o statunitense) – che senza accorgersene subiscono un’estorsione di risorse” (14). “A costoro normalmente la classe politica dà una protezione che possiamo definire ‘negativa’. È la protezione nei riguardi di se stessi: consiste nel garantire la sopravvivenza” onde, aggiunge Miglio, “costoro, in cambio della sopravvivenza, devono prestare un tributo” (15).
Alle tre categorie corrispondono dei termini che ne definiscono il ruolo principale: “obbedienza” per la prima; “sottocomando” per la seconda; “dominio/dominati” per la terza.
Essenziale alla sintesi politica è il consenso dei governati: scriveva Miglio che questa è adesione, con-sentire, ossia sentire con qualcuno. Idem sentire de re publica. E questa adesione si ha rispetto all’azione dei governanti, dato che la politica è volta all’agire (16). E’ il successo dell’azione che determina il costituirsi e il mantenersi della leadership; come il fallimento a provocarne il tramonto (17).
A Donoso Cortés si deve una lettura dell’evoluzione dello Stato moderno: tanto meno questo gode d’autorità tanto più estende il proprio potere, soprattutto attraverso l’incremento dell’“aiutantato” (18).
L’autorità della religione e il consenso che essa diffonde è nel pensiero dello spagnolo il legame sociale che sopperisce alla debolezza del governo; di converso se quella viene meno, si espande il potere – politico - dello Stato (19).
Se si laicizza la teoria di Donoso, si arriva alla tesi di Miglio del “tornaconto differito” (20).
In una società secolarizzata le ideologie permettono quel “tanto di utopia” che assicura il futuro auspicato. Scrive Miglio che “I sistemi politici nei quali più forte è questo richiamo utopico – ed è più creduto - sono i più stabili. C’è un nesso fra efficacia dell’obbligazione e del rapporto politico e grado di utopia. Definisco questa condizione come presenza di un tornaconto differito”. Mentre il rapporto di contratto-scambio (che contrappone a quello politico) tende ad esaurirsi presto “Laddove c’è politica, scopriamo che tanto maggiore è la presenza di ‘politico’, quanto maggiore è il differimento del tornaconto. Sotto questo profilo abbiamo esempi cospicui” (21).
I sistemi politici “vivono nel sogno, dell’utopia; E quanto più l’utopia è tale, è protesa nel futuro, tanto più si ottiene il sacrificio e la coesione dei seguaci”: Tornando alla religione, “talune grandi religioni che danno una rappresentazione complessa e impegnata della trascendenza, discendono notevoli ideologie, si possono cioè ricavare potenti ideologie politiche. Questo avviene perché nessun differimento è più integrale e totale di quello che rimette lo scopo finale dell’esistenza in un altro mondo. Questo è il livello massimo di differimento: Tutta la civiltà medievale poggia su questo grandioso differimento ai fini della vita ultraterrena: E questo rese possibile un’aggregazione politica particolarmente stabile, duratura, malgrado tutte le sue trasformazioni, come quella caratteristica dei sistemi politici cresciuti sul mondo cristiano medievale”.
3.0 Tuttavia oltre che di sogni (e di favole per diffonderli) il potere politico ha bisogno di risorse, e quindi di rendite politiche. Sogni e favole, scriverebbe Pareto, sono le derivazioni il cui residuo è il potere e i mezzi per esercitarlo e mantenerlo.
Favole e sogni hanno una funzione essenziale: ridurre la resistenza dei governanti alle vessazioni (e predazioni) del governo e della burocrazia. Perché è evidente che gli interessi economici dei governati da un lato, e dei governanti e dell’aiutantato dall’altro, sono contrapposti: ad ogni aumento di risorse prelevate dal governo corrisponde una riduzione di quelle disponibili per i governati e viceversa.
Per far dimenticare o comunque attenuare la percezione di tale opposizione, occorre “ricostruire” un senso d’unità e di comunanza di scopi tra governati e governanti. E qua i mezzi sono tanti, molti dei quali elencati da Puviani nella Teoria dell’illusione finanziaria. Ma uno è il prediletto: far leva sulle motivazioni etiche e religiose: ai tempi d’oggi, in Europa e soprattutto in Italia, su solidarietà e buonismo. Come negare sostegno e consenso a chi sostiene di essere così sollecito della sorte degli sfortunati? E su questo si costruiscono burocrazie pubbliche (ed affari privati); strutture di solidarietà e volontariato (spesso a pagamento) (22).
D’altra parte illustrando la tipologia della rendita politica Miglio individuava all’inizio “una prima categoria di rendite politiche: la più diffusa, la più generale, quella che appare in tutti i sistemi politici di tutti i tempi e di tutti i luoghi. E’ quella costituita da coloro che assumono professionalmente una funzione pubblica” (23), cioè in primis il personale “di carriera” (cioè i burocrati) (24); al secondo posto pone “La seconda grande categoria di rendite politiche è quella connessa all’attività dei partiti politici. Questi sono da sempre macchine per la produzione di rendite politiche” ; chi scrive pensa che Miglio l’abbia elencata come seconda perché la prima categoria della rendita è connessa ad una regolarità della politica (e dell’istituzione): quella della classe politica, o meglio (e comunque) del seguito del vertice, dell’organizzazione, senza la quale nessuna sintesi politica (e non solo) può esistere; anche se tale funzione dei partiti d’esser “macchine per l’erogazione di rendite politiche” (25) è diffusa, non limitata al moderno partito “parlamentare” e successivamente (anche) di massa (26). La rendita politica può essere erogata legalmente o non legalmente, attraverso prassi illecite e, in molti casi penalmente rilevanti (27). Il carattere necessario dell’organizzazione (e così dell’aiutantato) fa si che i rimedi contro tali comportamenti illeciti siano difficili (talvolta, raramente, impossibili o altamente inopportuni).
4.0 Una differenza essenziale tra il privato che intraprende e il funzionario che provvede è costituita dalla responsabilità dell’uno e dell’altro e dal rischio che corrono. In primo luogo perché il privato che intraprende risponde con tutto il proprio patrimonio per l’attività che svolge; dato che caratteristica della burocrazia moderna (e non solo) è che i mezzi con cui opera sono di proprietà dell’amministrazione – e gli atti del burocrate presi per conto dell’amministrazione – tale responsabilità (la più efficace forma della stessa) non esiste o è estremamente ridotta riguardo al funzionario. Sono previste per il funzionario altri «tipi» di responsabilità: penale, contabile, disciplinare, civile (rarissima): nulla che abbia l’efficacia di quella civile “comune”.
A tale proposito e in particolare di quello che tra i diversi tipi di responsabilità “pubblica” è quello generale (perché conseguente alla natura e struttura dell’aiutantato e del suo rapporto col vertice politico), e cioè quella disciplinare (e il controllo gerarchico). Marx scriveva argutamente “La gerarchia punisce il funzionario in quanto esso pecca contro la gerarchia o commette un peccato veniale per essa, ma lo prende sotto la sua protezione non appena è la gerarchia che pecca in lui, e per di più la gerarchia si persuade difficilmente dei peccati dei suoi membri” (28) (quindi era poco efficace). Il tutto oltre allo sviluppo cennato delle institutionellen garantien nello Stato di diritto (e poi “sociale”).
Oltretutto nello Stato imprenditore e tuttofare del XX secolo la crescita dei compiti statali, oltre che influire sul piano quantitativo (con aumento dei prelievi, delle spese e degli impiegati) ha agito su quello qualitativo, facendo proliferare poteri, controlli e funzioni in ambiti prima non regolati (o poco regolati) della vita economica e della società.
5.0 L’attuale situazione italiana conferma quanto sostenuto da molti, tra cui – per la caduta dell’Impero romano d’occidente – gli storici (e non), prima citati. Ossia che la burocratizzazione fa decadere (prima) l’economia e (poi) lo Stato.
A tale proposito occorre ricordare che dal 2000 al 2013 mentre il PIL italiano è calato del 7%, la pressione fiscale è aumentata del 5% (con ovvio peggioramento per i governati, e correlativo miglioramento, per l’aiutantato e i governanti, del relativo rapporto). Nello stesso periodo per la Germania il PIL aumentava del 15% e la pressione fiscale si riduceva del 6%; per la Svezia il PIL s’incrementava del 21% e la pressione fiscale calava del 14% (dati Confcommercio).
La spesa della P.P.A.A. in percentuale del PIL è aumentata di circa 3 punti tra il 2001 e il 2012: non si ha sentore di miglioramento nei servizi.
Si legge poi nei dati della ragioneria generale dello Stato che la spesa per retribuzioni pubbliche è aumentata tra il 2003 e il 2011 di quasi 30 miliardi di euro (v. www.rgs.mef.gov.it), ancorchè il personale risulti diminuito di circa 180.000 unità nello stesso periodo.
Anche se tali cifre andrebbero ragionate sotto diversi profili, in primo luogo che la grande maggioranza dei pubblici impiegati non è adibita a posizioni di “sottocomando” e pertanto in senso stretto, è l’aiutantato dell’aiutantato, (anche se fruisce di “rendita politica”), e che sono state prese misure di (qualche) contenimento della spesa per il personale, resta il fatto che, in presenza di un PIL stazionario o decrescente, l’esborso relativo (per il personale) è aumentata di circa il 15% nel periodo considerato.
Continuando in tale elencazione – minima – di dati, quando l’IVA fu istituita in Italia (1972) l’aliquota era il 12%; ora è il 22% (e pare destinata ad aumentare ancora; forse nel 2018 arriveremo al raddoppio).
Nello stesso periodo l’incremento del PIL che agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso era intorno al 4-5% annuo è diventato, da alcuni anni - di segno negativo: l’Italia da circa 7 anni fa soltanto passi indietro.
Ancor peggio va se si confrontassero gli (assai più fumosi) dati sui servizi resi dall’apparato pubblico. Il giudizio popolare diffuso è che questo funzioni assai male e lentamente, al punto di rendere solo una parte (modesta) di quanto consuma (la “macchina” di Giustino Fortunato); il che giustifica ancor meno il crescente prelievo di risorse.
Invero le classifiche internazionali non danno risultati lusinghieri. Secondo il World Economic Forum, come esposto nella relazione 2015, l’Italia, dopo il Venezuela, ha il governo meno efficiente del mondo. Anche per l’innovazione tecnologica l’Italia non ha una posizione confortante: sta tra il 40° e il 55° posto a seconda delle annate. Si noti che gli Stati presi in esame in dette relazioni sono 139 e non tutti quelli esistenti. L’efficienza della giustizia civile, come disse qualche anno fa il Presidente della Cassazione, è al 156° posto di un’altra classifica internazionale. Il tutto stride in modo evidente con le graduatorie sui dati economici generali, per cui l’Italia, nel pianeta, è all’8° posto per il PNL (10° per il PNL a parità di potere d’acquisto), secondo dati del 2012; al 32° posto per il PIL individuale (dati 2014). Per questo ultimo occorre tener conto che, in detta classifica, vi sono Stati caratterizzati da situazioni del tutto particolari come quelli produttori di petrolio (rendite petrolifere elevate e popolazione scarsa); nonché piccoli Stati caratterizzati da estesa fornitura di servizi (come il Lussemburgo) e poca popolazione e così via. Basti dire che, in tale graduatoria, gli USA sono solo al 10° posto.
Altri studi – tra i tanti – vedono sempre l’Italia prossima al fanalino di coda e, nei casi migliori, a metà del gruppo. Uno studio della CGIA di Mestre la colloca, per efficienza della P.A. al 15° posto tra i paesi dell’area euro (su 17); un altro dell’Unioncamere del Veneto al 15° posto tra gli Stati aderenti all’Unione Europea. Copiosa è poi la dottrina sull’inefficienza (o comunque di critica) alla P.A. italiana (29).
Quel che parimenti colpisce è che sia a livello di messaggi mediatici (del governo) come (forse) nelle convinzioni di parte dell’opinione pubblica, ove si manifesti una necessità, un’urgenza che colpisce l’immaginazione collettiva si provvede procedendo subito a emanare leggi (e ove possibile atti amministrativi) che sanzionino più afflittivamente i comportamenti (quasi sempre dei governati) ritenuti illeciti: cioè intensificando la coazione annunciata: che sia poi esercitata è tutto da vedere (a parte casi – quasi sempre episodici – volti a dare un contentino all’opinione pubblica). Anzi dato il basso livello di efficienza dell’apparato di governo è probabile che sia più annunciata che esercitata. Quando si parla di rigore e lo si identifica tout court col senso dello Stato (o qualche quissimile) si fa una sineddoche. Il senso dello Stato, ossia dell’istituzione politica per eccellenza, richiede di tenere conto che questo si fonda sulle relazioni vertice/seguito: cioè di comando/obbedienza, pouvoir disciplinaire/pouvoir statutaire (Hauriou), diritti/doveri (di cittadinanza). E stante che il potere consiste nel fatto che il comando sia obbedito nella comunità (Weber), concorrono a ciò (e alla vitalità e durata dell’istituzione) tanto la possibilità concreta di eseguire i comandi quanto quella che siano (per lo più spontaneamente) obbediti. La disponibilità del paziente vi concorre quanto l’autorità dell’agente.
Scambiare l’aumento di potere di coercizione e della quantità e misure delle sanzioni per un (ristretto) senso dello Stato è non comprendere i termini essenziali del rapporto tra capo e seguito.
In tutto ciò è dimenticato, anche a detrimento dell’interesse dello Stato, quanto scriveva Luigi Einaudi in materia di riscossione delle imposte seguendo Adam Smith “Il pagamento dell’imposta è già abbastanza oneroso per il contribuente, senza che i danni suoi debbano ancora crescere a cagione della mala maniera tenuta nel riscuoterla. Se l’imposta non è definita in maniera sicura, il contribuente è incerto rispetto al suo onere, non sa se debba o no intraprendere un’industria o un commercio, si trova in balìa delle estorsioni degli esattori” (30).
Resta il fatto che il livello di coazione pare intensificarsi: e che l’annuncio del “maggior rigore” (pare) gradito – e creduto – da parte dell’opinione pubblica. Peraltro il tutto pone nuovamente la questione del rapporto - prima cennato ricordando Donoso Cortés - tra potere ed autorità. Al riguardo, in primo luogo, occorre distinguere i due termini e i relativi concetti.
Senza poterci addentrare in problemi di storia delle idee, la distinzione tra l’uno e l’altro concetto più rispondente all’uso l’ha data Kojève, per il quale l’autorità ha il proprio connotato distintivo nel fatto di essere obbedita non incontrare opposizione né reazioni da parte di coloro ai quali gli atti (e i comandi) dell’autorità sono rivolti (se questa trova opposizione non è autorità).
La definizione di Kojève porta a escludere che la burocrazia abbia in sé autorità, perché è per essenza un “potere” caratterizzato in misura più o meno intensa dalla relativa potestà di coazione organizzata secondo norme di legge e costituente la principale articolazione dell’apparato “servente” dello Stato (31).
Tenuto conto della necessità di un vertice che difetta d’autorità di ricorrere più estesamente al potere di coercizione, questo allora diventa un altro sintomo, sia del calo dell’autorità, che del contributo dato a ciò dall’incremento del potere burocratico (a sua volta dovuto allo scemare dell’autorità) e quindi alla coazione.
Scriveva Pareto riguardo al rapporto governati-governanti e ai sentimenti che lo denotano, in particolare quello di gerarchia, che questo connota necessariamente ogni gruppo politico, anche la democrazia “La gerarchia si trasforma, ma sussiste pur sempre nelle società che in apparenza proclamano l’uguaglianza degli individui. Vi si costituisce una specie di feudalità temporanea, nella quale dagli alti politicanti si scende sino agli infimi” (32). I sentimenti dei superiori (delle élites) “sono sentimenti di protezione e di benevolenza, ai quali si aggiungono spesso sentimenti di dominazione e di orgoglio”; quelli dei governati “Sono sentimenti di soggezione, di affetto, di riverenza, di timore” (33).
Ovviamente è difficile che tali sentimenti si sviluppino e si mantengano laddove la situazione generale è in via di peggioramento (v. i dati sul PIL e la pressione fiscale) ed è accompagnata dalla diffusa convinzione dell’inidoneità, della grettezza e della modestia della classe dirigente (aiutantato meno esposto, ma compreso): i vari scandali, connotati (anche) dall’essere costituiti spesso da ruberie modeste quanto diffuse (le spese a carico dei contribuenti per pranzi, vacanze, lingerie) che aggiungono al danno il disprezzo per personaggi di così piccina levatura, contribuiscono a distruggere l’immagine della classe politica. Hegel, riguardo alla burocrazia, ma il giudizio vale parimenti per chiunque eserciti il potere (in specie ma non solo, quotidiano) sosteneva: “Nel comportamento e nella formazione dei funzionari ha luogo il punto in cui le leggi e le decisioni del governo toccano la singolarità e vengono fatte valere nella realtà. È questo quindi il luogo da cui dipendono tanto la soddisfazione e la fiducia dei cittadini verso il governo, quanto l’attuazione o l’indebolimento e vanificazione degli intenti del governo stesso” (34). Se l’amministrazione e la burocrazia sono poco efficaci, costose e spesso corrotte, e così il “potere quotidiano”, le ripercussioni sul sistema di governo sono assicurate.
5.0 Quanto alla decadenza economica dell’Italia si potrebbe replicare che non è provato che a determinarla sia la burocratizzazione crescente (e così l’ingessatura della società). Questo è sicuramente vero. Scelte avventate o intempestive (come l’adesione all’euro e le modalità di questa) o del tutto infelici, come quelle (ripetute) relative alla gestione del debito pubblico aumentato di circa 20 punti, mentre, negli ultimi anni, la politica economica restrittiva contribuiva a causare la recessione economica, hanno il ruolo di concause nel determinarlo. Ancor più lo ha la fase “discendente” del ciclo politico, ossia della senescenza della classe dirigente della Repubblica.
Miglio attribuiva un ruolo determinante sulla senescenza della classe politica a quella – corrispondente - dell’ideologia (della “tavola dei valori”) di cui è portatrice. Secondo lo studioso lariano l’ideologia è “quel complesso di dottrine (usando il termine in un significato ristretto e specifico) che servono ad aggregare il seguito. Quando abbiamo studiato la genesi del rapporto di autorità e di leadership politica, abbiamo detto che il leader è colui il quale propone una certa interpretazione del reale” (35) e le ideologie invecchiano “un’ideologia invecchia perché entra in conflitto con il mutamento dei rapporti, cosa che non riguarda la struttura delle relazioni politiche … Quello che cambia sono le posizioni delle stratificazioni sociali, la tecnologia” (36). Le ideologie avvizziscono cioè per il mutamento dell’(insieme della) situazione reale. E “L’ideologia politica è così non solo il fattore con cui una classe politica combatte la sua battaglia per il potere, una bandiera di combattimento, ma è anche prima di tutto una bandiera di identificazione … L’ideologia è allora indissolubile dalla relativa classe politica, come aveva intuito Gaetano Mosca, per questa ragione profonda” (37).
Aggiunge Miglio che anche se l’elaborazione/gestione dell’ideologia è compito di una particolare categoria dell’aiutantato, quello degli intellettuali, la decisione nelle scelte ideologiche, appartiene al capo (38).
Nella realtà della concorrenza di più possibili concause, occorre considerare se una di queste possa identificarsi in un “corto circuito” tra legittimità/autorità e consenso da un lato e “scambio” vertice-aiutantato.
L’essenza dei due rapporti (e le “prestazioni corrispettive”) non coincide se non in parte: dipende da quello che da il vertice da un lato e restituisce la base (della comunità o degli aiutanti) dall’altro.
Come scritto sopra, nel primo caso (la prima fascia di Miglio) la prestazione reciproca è quella tra protezione ed obbedienza; per la seconda fascia la prestazione “corrispettiva” è tra protezione attiva da un lato e fedeltà attiva (con connesso, per lo più, esercizio di sottocomando) dall’altro.
Un carattere distintivo del primo rapporto è la legittimità, cioè la convinzione che l’autorità abbia il diritto di guidare (e comandare) la comunità. Miglio si attiene alla tripartizione dei tipi di legittimazione corrispondente alla classificazione weberiana del potere: carismatico, tradizionale e razionale-legale. Ma ne aggiunge una quarta “Quando Weber lavorava a migliorare questa classificazione, alla fine della sua vita… la sua attenzione era concentrata su quello che si stava rivelando il quarto tipo di legittimazione dell’autorità: il regime delle moderne burocrazie, il tipo burocratico di legittimazione” (39). In effetti, a prescindere dal fatto che la legittimità è un rapporto tra vertice e base della comunità politica e l’aiutantato (cui va ricondotta la burocrazia, o meglio, il di essa strato dirigente) non è comunque “vertice”, manca, in tale classificazione, un altro “tipo” di legittimità: quello hobbesiano del rapporto tra protezione ed obbedienza, onde il suddito deve e, quel che più conta, ha l’interesse ad obbedire a chi assicura una protezione efficace. Decisiva è quindi la capacità del sovrano e dell’organizzazione statale a mantenere la pace all’interno e difendere la comunità dai nemici esterni. L’autorità politica si legittima, nel pensiero di Hobbes, per la capacità di assolvere tale funzione. Il dovere di obbedienza dei sudditi viene meno quando l’autorità non è più in grado di offrire protezione. Il protego ergo obligo è così la sostanza del rapporto politico.
Se la protezione non è efficace non c’è, più che il dovere, l’interesse ad obbedire. Lo scambio tra protezione ed obbedienza cessa.
E così si depotenzia (o viene meno del tutto) il rapporto tra capo e seguito, e questo non può essere sostituito da quello tra vertice ed aiutantato. L’ordine è efficace quanto è obbedito (per lo più) spontaneamente dalla comunità; se non lo è e si basa essenzialmente sulla coercizione, l’ordinamento non è vitale.
6.0 Il pensiero politico ha dedicato una grande attenzione al “ciclo politico”. Ossia alla nascita, vita (e morte) delle sintesi politiche. È inutile ripetere quanto scrivevano – tra gli altri – Polibio, Vico e Machiavelli (40). Più interessante è quanto sosteneva Mosca, e soprattutto Pareto. Il quale vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”), soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante senescente tende poi a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente” (e altro). Quando i barbari provocano la caduta dell’impero romano d’Occidente, invertono le tendenze ricordate.
Miglio scrive che, come tutte le relazioni sociali, l’autorità (e quindi la classe dirigente) segue il ciclo vitale (nascita, maturità, decadenza, morte) (41). Il carisma del fondatore/i dapprima si trasforma in invocazione alla legittimità (della successione al potere della leadership carismatica), poi, al tramonto, diviene (esclusivamente) un richiamo accigliato all’osservanza di regole preventivamente e legalmente statuite, cioè alla legalità. Il tutto si accompagna alla sclerosi del sistema, quando il vertice perde il contatto (l’adesione) delle masse (42). Allora avviene che una nuova leadership può avere successo, denunciando i capi in carica come non più capi degni di essere seguiti, ma solo dei burocrati sfruttatori” (43).
In Italia il ciclo politico della Repubblica si apriva nel 1945 dopo una guerra persa e l’occupazione militare con l’arrivo al governo, propiziato dai vincitori, di una nuova classe politica; la quale provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione; per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.
Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente).
Ciò che più interessa è che da quasi quarant’anni (prima, cioè, del crollo del comunismo e dell’ordine di Yalta) si nota il progressivo “scollamento” tra vertice e seguito, col calo del consenso di quest’ultimo. Ne ricordiamo alcuni aspetti, in primo luogo quelli “quantitativi”;
1) Il 18/04/1948 il complesso dei partiti che aveva votato la costituzione conseguì oltre l’80% dei suffragi del corpo elettorale italiano, consenso ampio, che legittimava il nuovo regime (e la costituzione repubblicana); alle ultime elezioni – dopo che gran parte di quei partiti erano scomparsi e spezzoni delle vecchie classi dirigenti di quelli sopravvivono in altre formazioni – i partiti che si dichiarano favorevoli al mantenimento della costituzione rappresentano (forse) il 20% del corpo elettorale;
2) i votanti alle elezioni politiche, che fino agli anni ’80 erano circa il 90% degli aventi diritto, sono poco più del 70%; ancor più significativo è il calo dei votanti alle elezioni amministrative;
3) mentre fino a metà degli anni ’80 nei referendum abrogativi il “SI” vinceva (cioè prevaleva l’assenso popolare al Parlamento che aveva elaborato o mantenuto le leggi sottoposte alla consultazione), dopo ha vinto quasi sempre il “NO” (il cui senso politico è l’inverso). In alcuni referendum (quelli sul finanziamento pubblico ai partiti) nei due periodi considerati il risultato si è invertito (dal SI al NO).
Cui si aggiungono quelli “qualitativi”:
4) L’ordine di Yalta è venuto meno col crollo del comunismo;
5) una campagna giudiziario-mediatica (“mani pulite”) è riuscita a demolire gran parte del sistema partitico della Repubblica “nata dalla Resistenza”.
6) lo spazio politico dei partiti variamente “antagonisti” è cresciuto dal 10-15% dei votanti fino agli anni ’80 al 35% delle ultime elezioni politiche.
7) altra circostanza significativa: è cresciuto il ruolo pubblico del personale non-politico (burocratico e tecnocratico). Nel 2000 il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei Ministri (cioè i vertici dell’ordinamento costituzionale) in carica, avevano fatto “carriera” prevalentemente od esclusivamente fuori dalle assemblee elettive. Nel 2011 era varato un governo composto tutto da personale non politico. Luttwak sosteneva all’inizio di quell’andazzo: “I governi tecnici a mio avviso sono un abuso, la negazione della democrazia. Rappresentano lo spirito autoritario ereditato in Italia dal fascismo, dalla forza del comunismo e dall’influenza della Chiesa” (44).
Il tutto non migliorava la situazione (anzi); lo scarso gradimento del corpo elettorale nei confronti del governo Monti (extra-parlamentare, essendo il Presidente del Consiglio e tutti i ministri “tecnici”, nel senso di non politici e non parlamentari) era espresso nelle successive, deludenti tornate elettorali dove si presentavano liste richiamatesi al senatore (a vita, di nomina presidenziale) Monti. Nella seconda delle quali i suffragi raccolti erano pari al 0,7% di quelli espressi. Di converso – e per reazione – otteneva un grande successo il Movimento 5 Stelle, salito in pochi anni al 25% dei voti scrutinati.
Quanto al governo tecnico (ma meglio sarebbe definirlo tecno-burocratico, data la provenienza di buona parte dei componenti dai ranghi della pubblica amministrazione, e più ancora, il carattere e l’ispirazione di molti dei provvedimenti adottati), resta il fatto che la tendenza di affidare ai “tecno-burocrati” posizioni e funzioni di governo è il contrario di quanto avviene negli ordinamenti statali moderni.
Max Weber notava che “Che i moderni «ministri» e «capi dello Stato» siano i soli funzionari ai quali non viene richiesta alcuna qualificazione specializzata, dimostra che essi sono funzionari solo in senso formale e non in senso materiale, proprio come il «direttore generale» di una grande impresa privata per azioni. L’imprenditore capitalistico è altrettanto appropriato quanto il «monarca». Il potere burocratico ha dunque inevitabilmente, alla sua testa, almeno un elemento non puramente burocratico” (45). E insiste sul concetto che (l’uomo) il politico è per natura e per funzione diverso dal burocrate (46), e questo dipende in larga parte, dalla specie di responsabilità dell’uno e dell’altro, derivante dal relativo potere, di prendere decisioni in un caso, di eseguirle nell’altro (47). Il carattere tecno-burocratico del vertice fa si che il “corpo burocratico” divenga sostanzialmente autoreferenziale.
D’altra parte se il governo è affidato a tecnici non politici e soprattutto non-eletti la responsabilità (e l’interesse) degli stessi non è verso il demos né a favore di questo, ma verso chi li ha nominati (o “cooptati”) all’incarico. A questi e non al demos va la lealtà, la fedeltà (e l’interesse) del tecnico di governo. Aspettarsi qualcosa di diverso denota una robusta dose d’ingenuità (anche se non è escluso che possa capitare).
Peraltro il potere della burocrazia non può, di per sé (solo) produrre legittimità contrariamente a (ma più che altro ridimensionando) quanto sostiene Miglio (48). Può bensì concorrere a produrla, ovvero ad aiutare il vertice politico, col realizzare una protezione efficacie o, riducendola, se consegue modesti risultati.
Se si prendono le mosse della concezione hobbesiana della legittimità la burocrazia quindi concorre (in misura non indifferente) a quella. Occorre tuttavia precisare alcune circostanze che concorrono a ridimensionare il ruolo legittimante della burocrazia.
In primo luogo che la legittimità è un rapporto tra vertice e base politica.
Nessuno, che ci risulti, ha mai associato direttamente la legittimità non alla testa, ma al corpo del potere politico: cioè alla struttura “servente” del potere, la catena di comando che dall’autorità porta alla base; perché il potere che – indubbiamente – gli aiutanti esercitano è subordinato all’ “apicale”; è questo che gode della legittimità e ha la responsabilità politica che deriva dall’esercizio del potere supremo. Il quale consiste nel dare direttive, emanare norme, prendere decisioni, riconducibili alle funzioni di guida politica.
Le disposizioni prese dalla burocrazia hanno carattere secondario, in quanto fondate, anche se mediatamente, su quelle, ovvero sulla volontà dell’autorità legittima. Una norma eseguita in modo formalmente corretto e con la procedura prescritta legalmente non rende legittima l’autorità che l’ha emanata, se quella (o anche questa) è rifiutata dalla comunità.
Se un potere legittimo rende tale anche l’apparato servente con una sorta di emanazione non è sostenibile il contrario. Un esercizio perfetto dei tratti ideali di una burocrazia professionalmente valida: correttezza, capacità di esecuzione, razionalità formale e materiale (v. Weber) non legittima il potere apicale (che può essere quello dell’usurpatore, del nemico occupatore o del tiranno) né gli atti da questi compiuti, ove odiosi al sentire comune dei componenti la comunità.
Se comunque è possibile individuare come componenti della legittimità sia la concezione hobbesiana col sinallagma protezione-obbedienza, sia il consenso non solo verso il potere ma, più genericamente, verso l’istituzione e l’ordine che questa garantisce, non pare possibile isolare quale destinatario esclusivo la burocrazia o, in senso lato, il potere amministrativo.
Quindi, da un canto la burocrazia può contribuire solo limitatamente alla legittimazione (rapporto in cui si colloca a latere); dall’altro sussiste sempre l’opposizione tra percettori e pagatori della rendita politica.
7.0 Circuito maggiore e circuito minore sono ambedue necessari ed ineludibili, come cennato. Anzi l’amministrazione burocratica moderna che è, fatte le debite differenze, comune tanto allo Stato quanto ad altre istituzioni pubbliche e private, non è “sostituibile” come scriveva Max Weber. Pertanto il potere burocratico non “appare destinato a sparire con la forma politica-Stato: anzi “oltre lo Stato” c’è la burocrazia. Perché, costituendo questa aiutantato, lo stesso superamento della forma-Stato e il passaggio a una diversa istituzione e classe dirigente non renderà superfluo l’aiutantato del potere, il “seguito attivo” di chi lo esercita. E da cui, ovviamente, è condizionato. Anche in un altro tipo di sintesi politica, non è verosimile che sarà smentita la profezia di Max Weber” (49). Ma reciprocamente non è possibile che un’amministrazione anche burocratica – per quanto efficiente possa essere sia in grado di sostituire la politica, la classe politica e il politico con se stessa, come se una comunità umana potesse essere guidata da un potere di per se “intermedio” (tra vertice e base), da un aiutantato di servizio alla direzione politica (e all’istituzione).
Scrive Miglio che c’è “un nesso tra efficacia dell’obbligazione e del rapporto politico e grado di utopia”, utopia che ha il pregio di essere mobilitante di costituire, mantenere, rinsaldare il rapporto tra capo e seguito, e così la vitalità e la durata dell’istituzione politica (50). Conseguenza è che se in una sintesi politica si conta soprattutto sull’aiutantato che è un ceto percettore di rendita e motivato più sul vivere di politica (o meglio di Stato) che per la politica (per lo Stato), si perde il sostegno decisivo.
C’è un momento in cui il prelievo della rendita politica, oltre a trovare poco o punto legittimazione dai successi della classe dirigente, diventa comunque insopportabile, onde l’equilibrio si rompe: Miglio scrive di momento X “in cui, rotto l’equilibrio, il sistema si autodistrugge” (51). In effetti quel momento appare assai vicino nel caso in cui – come l’Italia di oggi – la rendita politica, alimentata soprattutto con la pressione fiscale, continua ad aumentare, mentre il PNL e il PIL individuale decrescono per parecchi anni consecutivi. I sintomi – la perdita di consenso della classe politica “vecchia” nelle competizioni elettorali, la crescita dei partiti “contestati”, il decrescere dei votanti, ci sono tutti e prima sono stati diffusamente ricordati.
Ogni comunità umana si regge su un “tasso” di partecipazione emotiva ed istituzionale, di consenso, d’integrazione, che non può confondersi con un impiego, con un lavoro stipendiato in un ufficio. Max Weber chiamava di converso l’amministrazione burocratica “spirito rappreso” e “macchina inanimata”. Ma quanto può durare una comunità politica in cui “lo spirito rappreso” ha preso il posto dell’ “anima”, il timbro del sentimento, la coazione quello dell’adesione, il potere “d’ufficio” quello dell’autorità? Ovvero sia soltanto una «organizzazione burocratica, con la sua specializzazione del lavoro tecnico, la sua delimitazione delle competenze, i suoi regolamenti e i suoi rapporti di obbedienza ordinati gerarchicamente» (52)? Ove la burocrazia non sia più la componente servente di un organismo con un vertice politico e una rappresentazione ideale –condivisa - della società, ma sia essa stessa l’ordinamento comunitario senza vertice e, (di conseguenza, senza consenso di base) (53) viene a mancare la vitalità all’istituzione. Quello che secondo Santi Romano, rende durevoli gli ordinamenti. Nel lungo periodo la burocratizzazione fa decadere la comunità che ne è affetta. E il ciclo, come scriveva, tra gli altri, Hauriou, si rinnova.
Teodoro Klitsche de la Grange
NOTE
(*) Questo scritto è la rielaborazione, con ampliamenti di un capitolo del saggio “Funzionarismo” (Liberilibri, Macerata 2013). Mi scuso con i lettori di quel saggio che troveranno, in questo, delle ripetizioni.
(1) “Il sistema d’amministrazione tenuto dalla burocrazia militarizzata era essenzialmente dettato dall’alto; e il carattere di esso era conseguenza naturale dell’assoluta instabilità del potere imperiale. Esso può definirsi quale sistema di permanente terrorismo, che di tratto in tratto assumeva forme acute” v. Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1953, p. 521 (i corsivi sono nostri).
(2) V. Rostovzev, op. cit., p. 609
(3) V. Rostovzev op. cit., p. 588. Scriveva Mazzarino ne La fine del mondo antico Milano 1982 citando Zosimo “Teodosio mandò gli esattori delle pubbliche imposte a riscuotere il tributo con la massima diligenza … E così si potè vedere che, se l’umanità dei barbari aveva lasciato qualche cosa, gli esattori delle imposte portavano via anche quella; infatti, per le tasse dovute i contribuenti davano non solo denaro, ma anche l’ornamento femminile ed ogni genere di vesti, sino agli indumenti intimi; ed in seguito a questa esazione di imposte città e campagna erano piene di lamenti e di pianto, e tutti invocavano i barbari e cercavano l’aiuto dei barbari” (v. op. cit. p. 66). E ricordando le pagine di Saviano “le rapine dei barbari non sono intollerabili come le esazioni tributarie dei Romani” (op. cit. p. 69). Riporta poi un passo di Löwenklav su Costantino “Dice Zosimo che Costantino fu prodigo, una volta arrivato al trono, perché esaurì le finanze dello stato con immense largizioni, fece grandissime spese superflue, impiegò denaro in moltissime costruzioni inutili … l’essenziale era, per lui, non rinunciare alla politica di un’abbondante emissione e largizione di moneta. All’istesso modo, ci si dice che fu liberale coi soldati, e che pure Zosimo lo attesta: né poteva essere altrimenti, avendo egli ottenuto il potere per mezzo dell’esercito e dovendo dunque perseverare per quella via” (op. cit. p. 97). E Mazzarino cita un anonimo che scriveva “Cominciò sotto Costantino l’emissione abbondante di oro; ne seguì che, anche per acquisti di poca importanza, base della transizione fosse la moneta d’oro anziché quella di bronzo … Fra i mali intollerabili che colpiscono lo Stato c’è la frode nell’emissione e circolazione della moneta d’oro, essa sollecita, negli acquisti, l’astuzia fraudolenta del compratore, profitta della dura necessità in cui il venditore si trova; e questi inconvenienti impediscono un normale svolgimento degli affari … A questi mali che colpiscono le provincie per l’avidità di ricchezze, si aggiunge la cupidigia esecranda dei governatori, rovina del contribuente. Essi, senza rispetto alcuno per la magistratura che ricoprono, si credono mandati in provincia per spremere i contribuenti” (Op. cit. p. 50-51).
(4) V. Rostovzev op. cit., p. 574.
(5) Negli Elementi di scienza politica Mosca scrive: “Può accadere che la quantità di ricchezza, che la classe che adempie alle altre funzioni che non siano le economiche assorbisce e consuma, diventa troppo esagerata…in questo caso viene a scemare immancabilmente la produzione stessa. Colla diminuzione della ricchezza vanno di pari passo l’emigrazione od una maggiore mortalità nelle classi povere ed infine l’esaurimento dell’intero corpo sociale. Sono questi appunto i fenomeni che scorgiamo al declinare degli Stati burocratici, li vediamo infatti nell’epoca che seguì il massimo svolgimento burocratico dell’Egitto antico e più visibilmente ancora durante la decadenza dell’impero romano” op. cit., p. 90.
(6) Sostiene Rostovzev che “I membri del Senato erano ormai per lo più antichi generali dell’esercito, ch’erano saliti dai gradi più bassi del servizio militare … a un tempo, essa era un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri: Vedremo sul capitolo seguente come sulle rovine dell’antica aristocrazia terriera, imperiale e municipale, era venuta su una nuova classe di proprietari, per lo più antichi soldati e ufficiali. Accanto ad essi si trovavano ancora alcuni degli antichi grandi proprietari di terre … Ecco dunque la gente che ormai era rappresentata dal Senato; non più la borghesia cittadina asservita e mezzo rovinata” op. cit. p. 537. Quindi indipendentemente dal quantum di potere esercitato, il Senato del periodo tardo antico era ancora rappresentativo dello strato dirigente della società imperiale. Anche S. Mazzarino ritiene che “Gli uomini si sentivano oppressi dalla burocrazia. I contadini non amavano il loro stato. Per sfuggire ai tributi, si rifugiavano sotto il patrocinio dei potenti. L’invasione dei barbari è dunque inseparabile dalle difficoltà all’interno” La fine del mondo antico Milano 1988, p. 193. (il corsivo è mio).
(7) V. G. Mosca, op. cit., p. 375, e prosegue: “per assicurare la continuità di ciò che ora sarebbero i servizi pubblici, ne proibì l’abbandono a coloro che vi erano addetti e costrinse i loro figli a seguire il mestiere di padre. Infine l’amministrazione era fortemente inquinata dal vizio, che è la maledizione e la fonte di ogni debolezza dei regimi burocratici, cioè dalla venalità. Il funzionario romano del basso impero generalmente badava più al suo interesse privato che all’interesse pubblico che era incaricato di tutelare, e per molte notizie è noto che talora, anche nei gradini più elevati della scala burocratica, nulla era possibile di ottenere senza ricchi presenti”.
(8) G. Miglio, Lezioni di politica a cura di A. Vitale, vol. II, Mulino, Bologna 2011 e prosegue “Quando un’agricoltura impoverita, per tutta una serie di ragioni, non fu più in grado di alimentare con il suoi tributi il coacervo delle risorse da cui si traevano le rendite politiche, il sistema si afflosciò e si inabissò”, p. 358.
(9) V. G. Miglio, Lezioni di politica a cura di A. Vitale, vol. II, Mulino, Bologna 2011, pp. 330ss. A questi la classe politica fornisce “prima di tutto protezione: tutelano l’esistenza, cioè garantiscono con law and order che le persone e i loro beni non siano in pericolo. Protezione, dunque, significa che la classe politica al potere deve essere in grado di tutelare la sintesi politica, i cittadini, da eventuali aggressioni dall’esterno” a cui si aggiunge “un’altra prestazione fondamentale: la tutela (che si riferisce alla protezione dei beni) del principio pacta sunt servanda. Ossia viene garantita l’efficacia del contratto, che consente ai cittadini che non aspirano a rendite politiche, di scambiare beni e prestazioni e quindi di sopravvivere”, op. loc. cit.
(10) Miglio, op. cit., p. 332; e prosegue “Tutti i capi politici nel processo storico, i veri capi politici, hanno sempre protetto in modo particolare i loro aiutanti, i loro collaboratori più fedeli. Anzi, i politologhi indicano che la vera capacità del capo politico è la protezione diretta, attiva dei loro seguaci. Quante volte nel processo storico un principe ha personalmente mandato a morte coloro che avevano offeso o ucciso un loro aiutante! Cioè hanno esercitato una giustizia diretta, manifestando così la protezione”.
(11) Op. cit p. 362.
(12) La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?» Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando? Op. cit. p. 364 e aggiunge “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata” (p. 365).
(13) Op. cit p. 368
(14) Op. cit., p. 334.
(15) Op. cit., p. 335.
(16) Scrive Miglio “Quella che era una mera convivenza di individui con rapporti che si andavano ispessendo diventando continuativi, regolari, dal momento in cui si accetta di compiere un’azione, si accetta anche una divisione di ruoli, di funzioni … L’azione presuppone però anche il raggiungimento di un certo scopo … Ne consegue il fattore determinante dell’aggregazione politica, che è, dopo l’azione, il risultato dell’azione, che diventa poi determinante anche per la nascita del leader … Quindi: successo o fallimento dell’azione. Questo ha un effetto, com’è intuitivo, di grandissima importanza sui rapporti tra i potenziali seguaci e il potenziale leader … E’ ovvio che l’insuccesso toglie valore alla capacità persuasiva del leader”. (Op. cit. p. 199).
(17) “L’aver sott’occhio la realtà di un insuccesso fa si che a un certo punto soltanto il successo riesca a radicare il potere” (Miglio op. cit. p. 200).
(18) V. Donoso Cortes, Discurso sobre la dictadura.
(19) V. “ Nei tempi del feudalesimo la religione si trovava nel suo apogeo …Cosa succede ,signori, a quell’epoca nel mondo politico…basta (il governo) il più debole di tutti, e così si stabilisce la monarchia feudale,… la più debole di tutte le monarchie; con lo scemare del “termometro” religioso, saliva quello politico, dice Donoso. La riforma Luterana ha come conseguenza gli eserciti permanenti (un soldato è uno schiavo in uniforme, afferma Donoso); a questo seguirono la polizia, il centralismo amministrativo. Per questo lo spagnolo vede, in assenza di una reaccion religiosa….no se adonde hemos de parar. E prevede una tirannia di tipo nuovo “ un tirano general, colosal, universal immenso” senza le limitazioni fisiche che divennero le tirannie “classiche” prive dei mezzi moderni.
(20) Scrive Miglio “Quando abbiamo identificato l’oggetto dell’0bbligazione politica, abbiamo visto che esso si sostanzia in un’attesa di sicurezza in merito ai bisogni che ci si aspetta di dover fronteggiare nel futuro: Questo spiega perché ogni ideologia politica contenga –poco o tanto- un’utopia nel senso di qualcosa che ancora non c’è, che riguarda il futuro” op. cit. p. 337.
(21) Ciò è vero, ma fino a un certo punto. Lo prova il crollo del comunismo, per il quale il “tornaconto differito” è durato qualche decennio. Ma indubbiamente il comunismo ha sempre avuto la potente stampella della “tirannia burocratica”. La quale pur con i mezzi moderni, è durata assai meno del dominato romano.
(22) Il concetto dell’illusione finanziaria nelle due forme distinte da Puviani dell’evocazione e dell’occultamento è ripetutamente illustrata nell’opera di Puviani. Per riassumerlo riportiamo questi due brevi brani tratti nelle prime pagine “Per illusione finanziaria s’intende una rappresentazione erronea delle ricchezze pagate o da pagarsi a titolo d’imposta o di certe modalità del loro impiego … I giudizi nelle spese pubbliche, coll’occultare certi impieghi di danaro, col metterne in evidenza altri, riescono ordinariamente ad esagerare il valore dello stato, ma talvolta anche a scemarlo oltre i giusti limiti. Anche i giudizi erronei sulla imposizione possono accrescere eccessivamente l’entità di questa o attenuarla, il quale ultimo caso avviene assai più di frequente” v. Teoria dell’illusione finanziaria rist. Milano 1973 p. 6.
(23) Op. cit. p. 341 (il corsivo è mio).
(24) Nel diritto amministrativo è normale distinguere già nella posizione del funzionario nell’Ente e verso l’Ente due tipi di rapporti: quello di servizio e quello d’ufficio. Tra i molti ricordiamo quanto scriveva M.S. Giannini “In ogni caso, tra l’ente e il titolare d’ufficio corrono due rapporti distinti. Vi è un rapporto di servizio, che è un rapporto di carattere patrimoniale, attinente alla remunerazione delle prestazioni del titolare dell’ufficio…l’altro è il rapporto d’ufficio, che è un rapporto di carattere organizzatorio…Il rapporto d’ufficio non attiene al titolare dell’ufficio nella sua meterialità di soggetto (persona, gruppo di persone, ecc.), ma attiene ad una qualità giuridica che la norma attribuisce al titolare dell’ufficio, di agire producendo effetti giuridici che non gli si imputano, esercitando potestà che come soggetto materiale non avrebbe: il prefetto, come persona fisica, non potrebbe ordinare alla forza pubblica di accedere coattivamente in una proprietà privata, anzi nessun soggetto ha tale potere: lo ha lo Stato, che lo attribuisce all’organo prefetto (e ad altri); chi lo esercita è il titolare dell’organo” (v. Diritto Amministrativo, Milano 1970 p. 248 ss.) e ricorda che “Nello scorso secolo la dottrina enucleò la nozione di «rapporto d’immedesimazione organica» per determinare la posizione del titolare dell’organo”. La distinzione giuriodica tra detti due rapporti di Weber avvalora la distinzione tra aiutantato e governati. Mentre quest’ultimi – in democrazia – hanno il diritto d’esercitare funzioni pubbliche ma non hanno né quello d’esser retribuiti, né l’inserimento (stabile e duraturo) nell’organizzazione dell’Ente (nella specie, quello politico per eccellenza, cioè lo Stato), gli aiutanti sono retribuiti e inseriti nell’organizzazione.
(25) Op. cit. p. 343.
(26) V. Miglio, op. cit. 343 ss.
(27) V. Miglio, op. cit. p. 346 ss.
(28) K. Marx, La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico p. 74.
(29) Senza voler citare i “classici” (da Fortunato a Sturzo a Puviani), tra i contributi comparsi negli ultimi anni si ricordano: A. Giangrande Italia degli sprechi, B. Carotti – E. Cavalieri, La nuova semplificazione in Giornale di Diritto Amministrativo n. 20, F. Tartaglia Estetica della pubblica amministrazione Padova 2011 (v. in particolare pp. 85 ss.)
(30) In Principi di scienza della finanza 4ª Ed. Torino 1948 p. 132 (il corsivo è mio). E faceva notare come imposte, tariffe e tasse dovessero essere modulate con aliquote tali da non rendere appetibile l’evaderle (cioè moderate) . Se a queste considerazioni di buon senso, si sostituisce, fra i tanti e tanto sovente ripetuti, l’enunciato perentorio di un Ministro (dell’economia e finanza) secondo il quale “pagare le imposte è bellissimo”, il risultato è (probabilmente) di non ottenere un euro di più e (sicuramente) di irritare i contribuenti i quali, nella stragrande maggioranza, pagano le imposte senza l’entusiasmo del Ministro, che le preleva. Anche Francesco Saverio Nitti criticava la tesi secondo cui l’ordinamento finanziario era “uno scambio”: questo perché comunque v’è coazione: “Lo Stato, secondo alcuni teorici, è dunque un produttore di servizii pubblici: questi servigi vengono scambiati con i cittadini, che ne hanno bisogno. Vi sarebbe niente altro che una permuta. Questa dottrina non è meno antiscientifica della precedente. Come può esservi scambio quando vi è coazione? Non vi è scambio senza un rapporto di equivalenza; non vi è permuta che non sia consensuale. E d’altra parte si può considerare tutta l’opera dello Stato come un insieme di servizi pubblici permutabili? Credere che i funzionari pubblici si adoperino per soddisfare i bisogni collettivi dei contribuenti e che questi a loro volta lavorino per provvedere al mantenimento de’ funzionari pubblici, e che secondo il Bastiat, rimangano immutati da ambo le parti in tutti i casi i principii dello scambio, è concezione quasi puerile” (v. Principi di scienza delle finanze, Napoli 1903, p. 55).
(31) Kojève distingue quattro tipi di autorità: del Padre, del Signore, del Capo, del Giudice, a sua volta suddivisibili in sottospecie, A. Kojève, La nozione di Autorità, Milano 2011, p. 27 ss., v. anche sulla nozione d’autorità l’interessante studio di J. Fueyo, L’idea di “auctoritas”: genesi e sviluppo, trad. it. in «Behemoth» n. 47, 2010; è poi interessante quanto scriveva Pareto nel Trattato di Sociologia generale par. 583 ss. (rist. Milano 1981) che dato che l’autorità non poggia su dimostrazioni razionali, ma su credenze “in molti casi rimane il dubbio se l’autorità è fonte della credenza, o invece la credenza – o meglio i sentimenti che ad essa corrispondono – è fonte dell’autorità. In altri moltissimi pare che si sia un seguito di azioni e di reazioni” v. par. 588; e l’avvertenza che il consenso all’autorità (di più uomini) va valutato cum grano salis “Accade ciò, ad esempio, quando si discorre dell’ «universal consenso» poiché è certo che nessuno ha mai potuto assicurarsene presso tutti gli uomini che hanno vissuto, o che vivono sul globo terrestre; ed è pure certo che la maggior parte di essi, il più delle volte, non intenderebbe minimamente le domande alle quali si pretende che diano tutti la stessa risposta” op. cit. par. 589.
Anche Michels ha trattato del concetto d’autorità e del tipo d’atteggiamento che genera nei governati che è d’uopo ricordare almeno per quelli propensi all’obbedienza, tenendo conto che “E’ quindi necessario che il regime di disciplina politica che fatalmente deriva dal governo di una élite sia ispirato da parte della masse non da venerazione nel senso di prostrazione cadaverica … ma invece da masse ispirate da una adesione cosciente, consapevole (perché la consapevolezza non esclude l’entusiasmo né questo quella) all’operato dei capi carismatici, per essere con esse lavoranti e, ove occorra, doloranti”; onde “Ne scaturiscono quattro atteggiamenti principali: 1) la pieghevolezza naturale dell’uomo debole, o tradizionalista ….4) viceversa l’accettazione dell’autorità o in linea di principio o per necesità tecnica o strutturale della società”; e aggiunge che “L’autorità presuppone dunque sempre una credenza, o in un potere in sé, o in chi è al potere, od è supposto di esservi e di parteciparvi, o in una persona provvista, o creduta tale, di doti speciali” (v. Studi sulla democrazia e l’autorità a cura di C. Gambescia e Jeronimo Molina, Ed. Il Foglio, Piombino 2015, p. 60
(32) Trattato di sociologia generale, § 1153 e prosegue “È cosa assurda il figurarsi che l’antica feudalità in Europa fosse imposta esclusivamente dalla forza; si manteneva in parte per sentimenti di vicendevole affetto… Si può ritenere la stessa cosa per la clientela romana, per le maestranze del medio-evo, per le monarchie, ed, in generale, per tutti gli ordinamenti sociali ove esiste una gerarchia”.
(33) Op. cit., § 1156. E continua: “Il provare questi sentimenti è condizione indispensabile per la costituzione delle società animali, l’addomesticamento degli animali, la costituzione delle società umane” e descrive il sentimento di autorità in termini non lontani da quello di Kojéve.
(34) Op. cit., § 295.
(35) Op. cit. p. 303.
(36) Op. cit, p. 309.
(37) Op. cit. p. 313.
(38) “Questo dipende dall’analisi, che abbiamo condotto, delle funzioni del capo politico. Infatti, una di queste era proprio la decisione in ordine all’ideologia. Nelle società antiche prende l’aspetto di decisione sul terreno religioso, sul culto, mentre in quelle più avanzate, più tarde, come le nostre, la decisione e la gestione dell’ideologia è in ordine a determinate tavole di valori, a determinati punti di valore scelti dal capo politico”. Op. cit. p. 314. Sul rapporto tra aiutantato e proletariato intellettuale v. R. Michels, op. cit., pp. 75 ss.
(39) Op. cit., p. 63.
(40) Sul punto sia consentito rinviare al mio scritto La decadenza italiana, in Civium Libertas 2014.
(41) Scrive Miglio che “nel momento in ci si fonda l’autorità, quest’ultima incomincia a scaricarsi … l’aggregazione politica nel momento in cui si forma, per la natura e struttura di questo stesso processo, comincia a invecchiare (op. cit. p. 202).
(42) Op. cit. p. 207.
(43) Miglio Op. cit. p. 209.
(44) V. Dove va l’Italia?, Roma 1997 p. 76.
(45) Wirtschaft und gesellschaft trad. it. a cura di P. Rossi, Vol. I°, Milano 1980 p. 216 (il corsivo è mio).
(46) “Per il senso della sua posizione, egli è qualcosa di diverso dagli altri funzionari, come l’imprenditore e il direttore generale nell’economia privata; o, più esattamente, che egli deve essere qualcosa di diverso. E così è di fatto. Quando un dirigente è, nello spirito della sua prestazione, un «funzionario», sia pure capacissimo – ossia un uomo abituato a compiere diligentemente e onorevolmente il proprio lavoro secondo il regolamento e gli ordini ricevuti – quest’uomo non è da impiegare né a capo di un’impresa economica privata né a capo di uno stato”. Op. cit. nel vol. IV, Milano p. 503.
(47) “La differenza consiste nella specie di responsabilità dell’uno e dell’altro; partendo da questo criterio si può determinare, certo in larga misura, anche la natura delle pretese che si connettono al carattere specifico del dell’uno e dell’altro. Un funzionario il quale – torniamo a ripetere – riceve un ordine a suo giudizio sbagliato può – e deve – fare osservazioni. Se il superiore insiste nell’ordine, non è soltanto dovere del funzionario, ma suo onore eseguirlo come se esso corrispondesse alla sua convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale. E’ indifferente che il superiore sia un «organo di autorità» o una «corporazione» o un’ «assemblea»: così richiede lo spirito dell’ufficio. Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo”. Il concetto di esecuzione va preso nel senso di Weber v. Op. cit. p. 503 ss.
(48) Op. cit. p.63
(49) V. (e pluribus) Wirtschaft und gesellschaft trad. it. cit. vol. V, Milano 1980, p. 502.
(50) “Per generazioni le classi politiche riescono a ottenere il sacrificio di ogni vantaggio immediato, di ogni materiale e preciso vantaggio, dai propri seguaci, in attesa di una realtà protesa nel futuro” mentre il “differimento dello scopo è essenziale per capire anche la dinamica della rendita politica, che è un’immediata monetizzazione” Lezioni di scienza della politica, vol. II, Bologna 2011, p. 339.
(51) Op. cit. p. 210
(52) V. Weber, op. ult. cit., p. 501.
(53) V. «In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari» (già citato nell’introduzione) M. Weber, op. loc. cit.
(*) Questo scritto è la rielaborazione, con ampliamenti di un capitolo del saggio “Funzionarismo” (Liberilibri, Macerata 2013). Mi scuso con i lettori di quel saggio che troveranno, in questo, delle ripetizioni.
(1) “Il sistema d’amministrazione tenuto dalla burocrazia militarizzata era essenzialmente dettato dall’alto; e il carattere di esso era conseguenza naturale dell’assoluta instabilità del potere imperiale. Esso può definirsi quale sistema di permanente terrorismo, che di tratto in tratto assumeva forme acute” v. Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1953, p. 521 (i corsivi sono nostri).
(2) V. Rostovzev, op. cit., p. 609
(3) V. Rostovzev op. cit., p. 588. Scriveva Mazzarino ne La fine del mondo antico Milano 1982 citando Zosimo “Teodosio mandò gli esattori delle pubbliche imposte a riscuotere il tributo con la massima diligenza … E così si potè vedere che, se l’umanità dei barbari aveva lasciato qualche cosa, gli esattori delle imposte portavano via anche quella; infatti, per le tasse dovute i contribuenti davano non solo denaro, ma anche l’ornamento femminile ed ogni genere di vesti, sino agli indumenti intimi; ed in seguito a questa esazione di imposte città e campagna erano piene di lamenti e di pianto, e tutti invocavano i barbari e cercavano l’aiuto dei barbari” (v. op. cit. p. 66). E ricordando le pagine di Saviano “le rapine dei barbari non sono intollerabili come le esazioni tributarie dei Romani” (op. cit. p. 69). Riporta poi un passo di Löwenklav su Costantino “Dice Zosimo che Costantino fu prodigo, una volta arrivato al trono, perché esaurì le finanze dello stato con immense largizioni, fece grandissime spese superflue, impiegò denaro in moltissime costruzioni inutili … l’essenziale era, per lui, non rinunciare alla politica di un’abbondante emissione e largizione di moneta. All’istesso modo, ci si dice che fu liberale coi soldati, e che pure Zosimo lo attesta: né poteva essere altrimenti, avendo egli ottenuto il potere per mezzo dell’esercito e dovendo dunque perseverare per quella via” (op. cit. p. 97). E Mazzarino cita un anonimo che scriveva “Cominciò sotto Costantino l’emissione abbondante di oro; ne seguì che, anche per acquisti di poca importanza, base della transizione fosse la moneta d’oro anziché quella di bronzo … Fra i mali intollerabili che colpiscono lo Stato c’è la frode nell’emissione e circolazione della moneta d’oro, essa sollecita, negli acquisti, l’astuzia fraudolenta del compratore, profitta della dura necessità in cui il venditore si trova; e questi inconvenienti impediscono un normale svolgimento degli affari … A questi mali che colpiscono le provincie per l’avidità di ricchezze, si aggiunge la cupidigia esecranda dei governatori, rovina del contribuente. Essi, senza rispetto alcuno per la magistratura che ricoprono, si credono mandati in provincia per spremere i contribuenti” (Op. cit. p. 50-51).
(4) V. Rostovzev op. cit., p. 574.
(5) Negli Elementi di scienza politica Mosca scrive: “Può accadere che la quantità di ricchezza, che la classe che adempie alle altre funzioni che non siano le economiche assorbisce e consuma, diventa troppo esagerata…in questo caso viene a scemare immancabilmente la produzione stessa. Colla diminuzione della ricchezza vanno di pari passo l’emigrazione od una maggiore mortalità nelle classi povere ed infine l’esaurimento dell’intero corpo sociale. Sono questi appunto i fenomeni che scorgiamo al declinare degli Stati burocratici, li vediamo infatti nell’epoca che seguì il massimo svolgimento burocratico dell’Egitto antico e più visibilmente ancora durante la decadenza dell’impero romano” op. cit., p. 90.
(6) Sostiene Rostovzev che “I membri del Senato erano ormai per lo più antichi generali dell’esercito, ch’erano saliti dai gradi più bassi del servizio militare … a un tempo, essa era un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri: Vedremo sul capitolo seguente come sulle rovine dell’antica aristocrazia terriera, imperiale e municipale, era venuta su una nuova classe di proprietari, per lo più antichi soldati e ufficiali. Accanto ad essi si trovavano ancora alcuni degli antichi grandi proprietari di terre … Ecco dunque la gente che ormai era rappresentata dal Senato; non più la borghesia cittadina asservita e mezzo rovinata” op. cit. p. 537. Quindi indipendentemente dal quantum di potere esercitato, il Senato del periodo tardo antico era ancora rappresentativo dello strato dirigente della società imperiale. Anche S. Mazzarino ritiene che “Gli uomini si sentivano oppressi dalla burocrazia. I contadini non amavano il loro stato. Per sfuggire ai tributi, si rifugiavano sotto il patrocinio dei potenti. L’invasione dei barbari è dunque inseparabile dalle difficoltà all’interno” La fine del mondo antico Milano 1988, p. 193. (il corsivo è mio).
(7) V. G. Mosca, op. cit., p. 375, e prosegue: “per assicurare la continuità di ciò che ora sarebbero i servizi pubblici, ne proibì l’abbandono a coloro che vi erano addetti e costrinse i loro figli a seguire il mestiere di padre. Infine l’amministrazione era fortemente inquinata dal vizio, che è la maledizione e la fonte di ogni debolezza dei regimi burocratici, cioè dalla venalità. Il funzionario romano del basso impero generalmente badava più al suo interesse privato che all’interesse pubblico che era incaricato di tutelare, e per molte notizie è noto che talora, anche nei gradini più elevati della scala burocratica, nulla era possibile di ottenere senza ricchi presenti”.
(8) G. Miglio, Lezioni di politica a cura di A. Vitale, vol. II, Mulino, Bologna 2011 e prosegue “Quando un’agricoltura impoverita, per tutta una serie di ragioni, non fu più in grado di alimentare con il suoi tributi il coacervo delle risorse da cui si traevano le rendite politiche, il sistema si afflosciò e si inabissò”, p. 358.
(9) V. G. Miglio, Lezioni di politica a cura di A. Vitale, vol. II, Mulino, Bologna 2011, pp. 330ss. A questi la classe politica fornisce “prima di tutto protezione: tutelano l’esistenza, cioè garantiscono con law and order che le persone e i loro beni non siano in pericolo. Protezione, dunque, significa che la classe politica al potere deve essere in grado di tutelare la sintesi politica, i cittadini, da eventuali aggressioni dall’esterno” a cui si aggiunge “un’altra prestazione fondamentale: la tutela (che si riferisce alla protezione dei beni) del principio pacta sunt servanda. Ossia viene garantita l’efficacia del contratto, che consente ai cittadini che non aspirano a rendite politiche, di scambiare beni e prestazioni e quindi di sopravvivere”, op. loc. cit.
(10) Miglio, op. cit., p. 332; e prosegue “Tutti i capi politici nel processo storico, i veri capi politici, hanno sempre protetto in modo particolare i loro aiutanti, i loro collaboratori più fedeli. Anzi, i politologhi indicano che la vera capacità del capo politico è la protezione diretta, attiva dei loro seguaci. Quante volte nel processo storico un principe ha personalmente mandato a morte coloro che avevano offeso o ucciso un loro aiutante! Cioè hanno esercitato una giustizia diretta, manifestando così la protezione”.
(11) Op. cit p. 362.
(12) La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?» Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando? Op. cit. p. 364 e aggiunge “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata” (p. 365).
(13) Op. cit p. 368
(14) Op. cit., p. 334.
(15) Op. cit., p. 335.
(16) Scrive Miglio “Quella che era una mera convivenza di individui con rapporti che si andavano ispessendo diventando continuativi, regolari, dal momento in cui si accetta di compiere un’azione, si accetta anche una divisione di ruoli, di funzioni … L’azione presuppone però anche il raggiungimento di un certo scopo … Ne consegue il fattore determinante dell’aggregazione politica, che è, dopo l’azione, il risultato dell’azione, che diventa poi determinante anche per la nascita del leader … Quindi: successo o fallimento dell’azione. Questo ha un effetto, com’è intuitivo, di grandissima importanza sui rapporti tra i potenziali seguaci e il potenziale leader … E’ ovvio che l’insuccesso toglie valore alla capacità persuasiva del leader”. (Op. cit. p. 199).
(17) “L’aver sott’occhio la realtà di un insuccesso fa si che a un certo punto soltanto il successo riesca a radicare il potere” (Miglio op. cit. p. 200).
(18) V. Donoso Cortes, Discurso sobre la dictadura.
(19) V. “ Nei tempi del feudalesimo la religione si trovava nel suo apogeo …Cosa succede ,signori, a quell’epoca nel mondo politico…basta (il governo) il più debole di tutti, e così si stabilisce la monarchia feudale,… la più debole di tutte le monarchie; con lo scemare del “termometro” religioso, saliva quello politico, dice Donoso. La riforma Luterana ha come conseguenza gli eserciti permanenti (un soldato è uno schiavo in uniforme, afferma Donoso); a questo seguirono la polizia, il centralismo amministrativo. Per questo lo spagnolo vede, in assenza di una reaccion religiosa….no se adonde hemos de parar. E prevede una tirannia di tipo nuovo “ un tirano general, colosal, universal immenso” senza le limitazioni fisiche che divennero le tirannie “classiche” prive dei mezzi moderni.
(20) Scrive Miglio “Quando abbiamo identificato l’oggetto dell’0bbligazione politica, abbiamo visto che esso si sostanzia in un’attesa di sicurezza in merito ai bisogni che ci si aspetta di dover fronteggiare nel futuro: Questo spiega perché ogni ideologia politica contenga –poco o tanto- un’utopia nel senso di qualcosa che ancora non c’è, che riguarda il futuro” op. cit. p. 337.
(21) Ciò è vero, ma fino a un certo punto. Lo prova il crollo del comunismo, per il quale il “tornaconto differito” è durato qualche decennio. Ma indubbiamente il comunismo ha sempre avuto la potente stampella della “tirannia burocratica”. La quale pur con i mezzi moderni, è durata assai meno del dominato romano.
(22) Il concetto dell’illusione finanziaria nelle due forme distinte da Puviani dell’evocazione e dell’occultamento è ripetutamente illustrata nell’opera di Puviani. Per riassumerlo riportiamo questi due brevi brani tratti nelle prime pagine “Per illusione finanziaria s’intende una rappresentazione erronea delle ricchezze pagate o da pagarsi a titolo d’imposta o di certe modalità del loro impiego … I giudizi nelle spese pubbliche, coll’occultare certi impieghi di danaro, col metterne in evidenza altri, riescono ordinariamente ad esagerare il valore dello stato, ma talvolta anche a scemarlo oltre i giusti limiti. Anche i giudizi erronei sulla imposizione possono accrescere eccessivamente l’entità di questa o attenuarla, il quale ultimo caso avviene assai più di frequente” v. Teoria dell’illusione finanziaria rist. Milano 1973 p. 6.
(23) Op. cit. p. 341 (il corsivo è mio).
(24) Nel diritto amministrativo è normale distinguere già nella posizione del funzionario nell’Ente e verso l’Ente due tipi di rapporti: quello di servizio e quello d’ufficio. Tra i molti ricordiamo quanto scriveva M.S. Giannini “In ogni caso, tra l’ente e il titolare d’ufficio corrono due rapporti distinti. Vi è un rapporto di servizio, che è un rapporto di carattere patrimoniale, attinente alla remunerazione delle prestazioni del titolare dell’ufficio…l’altro è il rapporto d’ufficio, che è un rapporto di carattere organizzatorio…Il rapporto d’ufficio non attiene al titolare dell’ufficio nella sua meterialità di soggetto (persona, gruppo di persone, ecc.), ma attiene ad una qualità giuridica che la norma attribuisce al titolare dell’ufficio, di agire producendo effetti giuridici che non gli si imputano, esercitando potestà che come soggetto materiale non avrebbe: il prefetto, come persona fisica, non potrebbe ordinare alla forza pubblica di accedere coattivamente in una proprietà privata, anzi nessun soggetto ha tale potere: lo ha lo Stato, che lo attribuisce all’organo prefetto (e ad altri); chi lo esercita è il titolare dell’organo” (v. Diritto Amministrativo, Milano 1970 p. 248 ss.) e ricorda che “Nello scorso secolo la dottrina enucleò la nozione di «rapporto d’immedesimazione organica» per determinare la posizione del titolare dell’organo”. La distinzione giuriodica tra detti due rapporti di Weber avvalora la distinzione tra aiutantato e governati. Mentre quest’ultimi – in democrazia – hanno il diritto d’esercitare funzioni pubbliche ma non hanno né quello d’esser retribuiti, né l’inserimento (stabile e duraturo) nell’organizzazione dell’Ente (nella specie, quello politico per eccellenza, cioè lo Stato), gli aiutanti sono retribuiti e inseriti nell’organizzazione.
(25) Op. cit. p. 343.
(26) V. Miglio, op. cit. 343 ss.
(27) V. Miglio, op. cit. p. 346 ss.
(28) K. Marx, La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico p. 74.
(29) Senza voler citare i “classici” (da Fortunato a Sturzo a Puviani), tra i contributi comparsi negli ultimi anni si ricordano: A. Giangrande Italia degli sprechi, B. Carotti – E. Cavalieri, La nuova semplificazione in Giornale di Diritto Amministrativo n. 20, F. Tartaglia Estetica della pubblica amministrazione Padova 2011 (v. in particolare pp. 85 ss.)
(30) In Principi di scienza della finanza 4ª Ed. Torino 1948 p. 132 (il corsivo è mio). E faceva notare come imposte, tariffe e tasse dovessero essere modulate con aliquote tali da non rendere appetibile l’evaderle (cioè moderate) . Se a queste considerazioni di buon senso, si sostituisce, fra i tanti e tanto sovente ripetuti, l’enunciato perentorio di un Ministro (dell’economia e finanza) secondo il quale “pagare le imposte è bellissimo”, il risultato è (probabilmente) di non ottenere un euro di più e (sicuramente) di irritare i contribuenti i quali, nella stragrande maggioranza, pagano le imposte senza l’entusiasmo del Ministro, che le preleva. Anche Francesco Saverio Nitti criticava la tesi secondo cui l’ordinamento finanziario era “uno scambio”: questo perché comunque v’è coazione: “Lo Stato, secondo alcuni teorici, è dunque un produttore di servizii pubblici: questi servigi vengono scambiati con i cittadini, che ne hanno bisogno. Vi sarebbe niente altro che una permuta. Questa dottrina non è meno antiscientifica della precedente. Come può esservi scambio quando vi è coazione? Non vi è scambio senza un rapporto di equivalenza; non vi è permuta che non sia consensuale. E d’altra parte si può considerare tutta l’opera dello Stato come un insieme di servizi pubblici permutabili? Credere che i funzionari pubblici si adoperino per soddisfare i bisogni collettivi dei contribuenti e che questi a loro volta lavorino per provvedere al mantenimento de’ funzionari pubblici, e che secondo il Bastiat, rimangano immutati da ambo le parti in tutti i casi i principii dello scambio, è concezione quasi puerile” (v. Principi di scienza delle finanze, Napoli 1903, p. 55).
(31) Kojève distingue quattro tipi di autorità: del Padre, del Signore, del Capo, del Giudice, a sua volta suddivisibili in sottospecie, A. Kojève, La nozione di Autorità, Milano 2011, p. 27 ss., v. anche sulla nozione d’autorità l’interessante studio di J. Fueyo, L’idea di “auctoritas”: genesi e sviluppo, trad. it. in «Behemoth» n. 47, 2010; è poi interessante quanto scriveva Pareto nel Trattato di Sociologia generale par. 583 ss. (rist. Milano 1981) che dato che l’autorità non poggia su dimostrazioni razionali, ma su credenze “in molti casi rimane il dubbio se l’autorità è fonte della credenza, o invece la credenza – o meglio i sentimenti che ad essa corrispondono – è fonte dell’autorità. In altri moltissimi pare che si sia un seguito di azioni e di reazioni” v. par. 588; e l’avvertenza che il consenso all’autorità (di più uomini) va valutato cum grano salis “Accade ciò, ad esempio, quando si discorre dell’ «universal consenso» poiché è certo che nessuno ha mai potuto assicurarsene presso tutti gli uomini che hanno vissuto, o che vivono sul globo terrestre; ed è pure certo che la maggior parte di essi, il più delle volte, non intenderebbe minimamente le domande alle quali si pretende che diano tutti la stessa risposta” op. cit. par. 589.
Anche Michels ha trattato del concetto d’autorità e del tipo d’atteggiamento che genera nei governati che è d’uopo ricordare almeno per quelli propensi all’obbedienza, tenendo conto che “E’ quindi necessario che il regime di disciplina politica che fatalmente deriva dal governo di una élite sia ispirato da parte della masse non da venerazione nel senso di prostrazione cadaverica … ma invece da masse ispirate da una adesione cosciente, consapevole (perché la consapevolezza non esclude l’entusiasmo né questo quella) all’operato dei capi carismatici, per essere con esse lavoranti e, ove occorra, doloranti”; onde “Ne scaturiscono quattro atteggiamenti principali: 1) la pieghevolezza naturale dell’uomo debole, o tradizionalista ….4) viceversa l’accettazione dell’autorità o in linea di principio o per necesità tecnica o strutturale della società”; e aggiunge che “L’autorità presuppone dunque sempre una credenza, o in un potere in sé, o in chi è al potere, od è supposto di esservi e di parteciparvi, o in una persona provvista, o creduta tale, di doti speciali” (v. Studi sulla democrazia e l’autorità a cura di C. Gambescia e Jeronimo Molina, Ed. Il Foglio, Piombino 2015, p. 60
(32) Trattato di sociologia generale, § 1153 e prosegue “È cosa assurda il figurarsi che l’antica feudalità in Europa fosse imposta esclusivamente dalla forza; si manteneva in parte per sentimenti di vicendevole affetto… Si può ritenere la stessa cosa per la clientela romana, per le maestranze del medio-evo, per le monarchie, ed, in generale, per tutti gli ordinamenti sociali ove esiste una gerarchia”.
(33) Op. cit., § 1156. E continua: “Il provare questi sentimenti è condizione indispensabile per la costituzione delle società animali, l’addomesticamento degli animali, la costituzione delle società umane” e descrive il sentimento di autorità in termini non lontani da quello di Kojéve.
(34) Op. cit., § 295.
(35) Op. cit. p. 303.
(36) Op. cit, p. 309.
(37) Op. cit. p. 313.
(38) “Questo dipende dall’analisi, che abbiamo condotto, delle funzioni del capo politico. Infatti, una di queste era proprio la decisione in ordine all’ideologia. Nelle società antiche prende l’aspetto di decisione sul terreno religioso, sul culto, mentre in quelle più avanzate, più tarde, come le nostre, la decisione e la gestione dell’ideologia è in ordine a determinate tavole di valori, a determinati punti di valore scelti dal capo politico”. Op. cit. p. 314. Sul rapporto tra aiutantato e proletariato intellettuale v. R. Michels, op. cit., pp. 75 ss.
(39) Op. cit., p. 63.
(40) Sul punto sia consentito rinviare al mio scritto La decadenza italiana, in Civium Libertas 2014.
(41) Scrive Miglio che “nel momento in ci si fonda l’autorità, quest’ultima incomincia a scaricarsi … l’aggregazione politica nel momento in cui si forma, per la natura e struttura di questo stesso processo, comincia a invecchiare (op. cit. p. 202).
(42) Op. cit. p. 207.
(43) Miglio Op. cit. p. 209.
(44) V. Dove va l’Italia?, Roma 1997 p. 76.
(45) Wirtschaft und gesellschaft trad. it. a cura di P. Rossi, Vol. I°, Milano 1980 p. 216 (il corsivo è mio).
(46) “Per il senso della sua posizione, egli è qualcosa di diverso dagli altri funzionari, come l’imprenditore e il direttore generale nell’economia privata; o, più esattamente, che egli deve essere qualcosa di diverso. E così è di fatto. Quando un dirigente è, nello spirito della sua prestazione, un «funzionario», sia pure capacissimo – ossia un uomo abituato a compiere diligentemente e onorevolmente il proprio lavoro secondo il regolamento e gli ordini ricevuti – quest’uomo non è da impiegare né a capo di un’impresa economica privata né a capo di uno stato”. Op. cit. nel vol. IV, Milano p. 503.
(47) “La differenza consiste nella specie di responsabilità dell’uno e dell’altro; partendo da questo criterio si può determinare, certo in larga misura, anche la natura delle pretese che si connettono al carattere specifico del dell’uno e dell’altro. Un funzionario il quale – torniamo a ripetere – riceve un ordine a suo giudizio sbagliato può – e deve – fare osservazioni. Se il superiore insiste nell’ordine, non è soltanto dovere del funzionario, ma suo onore eseguirlo come se esso corrispondesse alla sua convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale. E’ indifferente che il superiore sia un «organo di autorità» o una «corporazione» o un’ «assemblea»: così richiede lo spirito dell’ufficio. Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo”. Il concetto di esecuzione va preso nel senso di Weber v. Op. cit. p. 503 ss.
(48) Op. cit. p.63
(49) V. (e pluribus) Wirtschaft und gesellschaft trad. it. cit. vol. V, Milano 1980, p. 502.
(50) “Per generazioni le classi politiche riescono a ottenere il sacrificio di ogni vantaggio immediato, di ogni materiale e preciso vantaggio, dai propri seguaci, in attesa di una realtà protesa nel futuro” mentre il “differimento dello scopo è essenziale per capire anche la dinamica della rendita politica, che è un’immediata monetizzazione” Lezioni di scienza della politica, vol. II, Bologna 2011, p. 339.
(51) Op. cit. p. 210
(52) V. Weber, op. ult. cit., p. 501.
(53) V. «In unione con la macchina inanimata, essa è all’opera per preparare la struttura di quella servitù futura alla quale un giorno forse gli uomini saranno costretti ad adattarsi impotenti, come i fellah dell’antico Egitto, qualora un’amministrazione e un approvvigionamento razionale mediante funzionari – pur ottimi dal punto di vista puramente tecnico – costituiscano per essi il valore ultimo ed esclusivo che deve decidere sul modo di dirigere i loro affari» (già citato nell’introduzione) M. Weber, op. loc. cit.
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