sabato 25 agosto 2012

Terza lettera del dottor Gianantonio Valli al signor Stefano Gatti

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G. Valli in Milano il 14 luglio 2012
Nel dare corso alla richiesta di ulteriore diffusione a queste “Terza Lettera” che mi perviene sulla mia posta elettronica, confermo alcuni miei giudizi introduttivi. Premetto che non sono uno “storico revisionista”, come ci si ostina a farmi passare, ma un «filosofo del diritto», nel cui ambito disciplinare rientra perfettamente il tema della “libertà di pensiero”, che i nostri politici, infeudati ad Israele, stanno aggirando e svendendo. Dirò poi come. Qui mi limito ad alcune riflessioni, ispirate dal lodevole accanimento con cui il dott. Valli insegue il Signor Gatti, credo pagato da noi contribuenti per il suo “Osservatorio sul pregiudizio anti-ebraico”, che si risolve in una raccolta di articoli di stampa, redatti da degni colleghi dello stesso Gatti. In pratica, una specie di gioco delle tre carte, dove ricorrono circolarmente sempre gli stessi temi e gli stessi personaggi senza che si possa mai risalire ad una fonte documentata ed argomentata. Ed è qui la riflessione sulla quale voglio soffermarmi e richiamare l’attenzione. Se ripercorriamo la storia recente della “persecuzione” contro gli “ebrei”, vediamo che i suoi carattere distintivi – credo non contestati – siano stati la “discriminazione” e l’«esclusione». Ebbene, gli “ebrei” odierni non praticano essi in maggior misura una siffatta “discriminazione” ed “esclusione”? Al Palazzo di Giustizia in Roma, davanti a Flick e alla Di Cesare, ho gridato forte che il “vero” ed il “falso” possono essere noti all’uomo solo mediante un libero contraddittorio. Invece, costoro pretendono di fissare una strato sociale di reietti, ai quali non si debba riconoscere nessun diritto, neppure quello elementare della difesa... Il discorso è ampio e non ci vogliamo dilungare. Terminiamo con un suggerimento agli storici ed agli investigatori. Suggeriamo loro un ampliamento della ricerca sulla rete dei “sayanim”, ossia sulla loro esistenza accertata o meno nonché sulla loro funzione, sui loro metodi, sulla loro dislocazione, sulla loro identificazione, sulla loro pericolosità o meno per il nostro sistema democratico e per la tutela generale dei diritti di libertà dei cittadini, di tutti i cittadini, senza strati privilegiati. Fa quindi bene il dott. Valli, finché ne avrà la pazienza e costanza, a stanare il Signor Gatti, che per etica e diritto è tenuto a rendere conto delle sue affermazioni e non può sottrarsi alle contestazioni che da quelle affermazioni sorgono. Avesse taciuto, poteva starsene in silenzio, ma non può pretendere di lanciare il sasso e nascondere la mano. Se è questa l’«etica ebraica» di cui parla Donatella Ester Di Cesare lo andremo ad indagare in separata sede.

Antonio Caracciolo



Terza lettera 
del dottor Gianantonio Valli al signor Stefano Gatti

Gentile signor Stefano Gatti,

Stefano Gatti
vengo per la terza volta a sollecitarLe un chiarimento sull’aggettivo «famigerato», da Lei usato per definire la mia persona. Qualche collega di malpensiero mi sta istigando a non demordere da quella che si profila sempre più come la caccia ad un furbetto. Così essi La tacciano, pensi!, mentre io faccio di tutto per trovarLe giustificazioni, che so?, un colpo di calore, una delusione amorosa, un attacco ischemico o altre quisquilie. Altri mi sollecitano al contrario, all’insegna del de minimis non curat praetor, a sospendere questa polemica, peraltro garbata anche se monodirezionale.

    Mi avesse definito «farneticante» anziché «famigerato», avrei accolto l’aggettivo di buon grado, sapendo da che bocca sarebbe uscito. È il non sapere su cosa Lei si basi per il «famigerato», che mi accora. Anche perché, sapendolo, avrei cercato di emendarmi. Indubbiamente a questo mondo non c’è mai nulla che riesca a produrre il cento per cento di soddisfazione a tutti. Così, mentre A sta agitando il cappello con una serie di evviva, vediamo B aggrottarsi dubbioso. E lo stesso è per Y e Z. D’altra parte, il nocciolo del contendere mi è stato fornito su un piatto d’argento proprio da Lei.

    Ritengo poco tollerabile la malacreanza di ignorarmi, dopo avermi inferto un colpo di spillo. Egualmente inquietante giudico il suo sguardo da furbetto, ammiccante come quello di un ragazzino che, lasciato solo in casa, abbia scoperto la chiave della credenza delle marmellate. Potrei anche ritenerLa un giovanottello di animo diffidente. Uno che ritira la mano dopo avere scagliato la pietra. Un ritroso che si sottrae agli sguardi del pubblico per tema di venire considerato importante.

    Taluno ha commentato malignamente: «Povero Valli... scendere al livello di questi qua [o «di quelli là», non ricordo bene]!». Espressione forse scaturita da qualche malanimo antiebraico. A parte questo, Lei  mi sta diventando una droga. Una magnifica ossessione. Una ossessione che spero Le stia procurando intima soddisfazione, quando non una vera e propria notorietà intratribale. Del resto, non posso che rallegrarmi per il fatto che a Lei sia grato, dopo l’uscita allo scoperto, ritirarsi con modestia nella tana, senza traccia della sempiterna chutzpah. E mi cito:
Chutzpah: Termine aramaico significante un misto di «simpatica» sfrontatezza, improntitudine e insolenza, un’aggressività che comprende l’aver fegato e la faccia tosta, per Daniel Gordis la chutzpah è «estrema fiducia in se stessi al limite della sfrontatezza», «la sfacciataggine più disarmata, la spocchia più inammissibile che si possa immaginare: è un mix improbabile di cinismo e ingenuità, di simpatia e orrore, di sorriso e raccapriccio» per Elena Loewenthal, «caratteristica di carattere» super-ebraica per Moni Ovadia: testi tradizionali dicono Israele la più sfacciata fra le nazioni, affermando che «l’impudenza, perfino quando è diretta verso Dio, è utile»; Fölkel intride la definizione di humor noir: «Quando uno uccide sia il padre che la madre e, dopo, difendendosi al processo per omicidio, chiede le attenuanti per il fatto di essere rimasto orfano»; altrettanto incisivo Victor Ostrovsky: «Fai una cacata davanti alla porta di un tizio, poi bussi alla porta e gli chiedi della carta igienica»; Celso e Giuliano Imperatore l’avevano detta alazoneia superbia barbara; per sant’Ambrogio è un misto di superbia arroganza, versutia astuzia, procacitas insolenza e perfidia malvagità; l’arcivescovo di Lione Agobardo al’'epoca di Carlo Magno, Amolone e i polemisti medioevali la dicono insolentia Judaeorum.
    Grande popolo, il Suo! Ovviamente, escluse persone come Israel Shahak, Israel Shamir, Norman Finkelstein, Gilad Atzmon, Ariel Toaff, Spinoza, Uriel Da Costa, Elisha ben Abuya, Qohelet e pochi altri. La mia proverbiale obiettività mi spinge poi a provarLe quanto io sia equanime. Mi ricito:
Ben scrive invero, del giudaismo «religione-fattasi-popolo», Harold Cecil Robinson: «Non l’antisemitismo è all’origine della crisi che minaccia oggi il mondo, bensì l’odio degli ebrei contro tutti i popoli che non mettono a loro disposizione il proprio territorio per un’uso libero e indiscriminato [...] L’antigiudaismo non è il fatto primario, ma un fatto secondario, una conseguenza, la reazione a una fede che pone gli ebrei al di fuori e al di sopra dei popoli non ebrei, col pretesto ideologico che questi popoli devono essere guidati e sfruttati dagli ebrei in quanto popolo eletto».

 Se da una parte esistono quindi
figure virili quali Gedalja Ben Elieser, o
di tragica dirittura quali Otto Weininger, Arthur Trebitsch, Essad Bey, Albert Ballin, Walter Rathenau (del quale però non dimentichiamo il «consiglio» ai goyim, parafrasatoci da Robert Dun: «Sapete qual è la nostra missione sulla terra? Condurre ogni uomo ai piedi dei Sinai. Se non ascolterete Mosè, vi ci condurrà Gesù; se non ascolterete Gesù, sarà Karl Marx») e Max Naumann,
● altre di chiaro acume quali Osman Bey, Max Nordau, Karl Kraus, Norman Solomon, Moshe Carmilly-Weingarten, Yosef Hayim Yerushalmi, Jean Daniel, Edward Luttwak, Benjamin Ginsberg, Robert Friedman e Chaim Bermant,
● di una pur sfrontata schiettezza quali Martin Buber, Marcus Ravage e Nahum Goldmann, o
di qualche equilibrio quali Bernard Lazare, Anne Kriegel, Norman Cantor, Giorgio Israel e Noam Chomsky,
di condivisibili tesi quali Joseph Rothschild, Hans Jürgen Eysenck, Richard Herrnstein, Ralph Nader, Lori Wallach, Jeremy Rifkin ed Edward Goldsmith (sul cui fratello James manterremmo una qualche riserva),
di aperto coraggio quali Victor Gollancz, Michael Mandel, David Jacobs, Alejandro Teitelbaum, Alfred Lilienthal, Israel Shahak, Israel Shamir, Salcia Landmann, Harold Pinter, Gilad Atzmon, Yehudi Menuhin e il figlio Gerard, Michel Warschawski e Massimo Fini,
altre ancora ispiranti adesione come i sublimi Qohéle t ed Elisha ben Abuya, Da Costa e Spinoza o il quidam Enrico Paggi,
istintiva simpatia quali Harry Weinstok,
struggente stima quali Dov Eitan e Yoram Sheftel,
rispetto e sincera pena quali David Cole e Ariel Toaff,
persino ammirazione quali i revisionisti/antisionisti J.G. Burg, Joseph Benamou e Abraham Gurewitsch,

    e se l’Antica Sapienza ha per millenni rimbombato «attèm mèlach haaretz, voi siete il sale della terra», se Moses Hess, riecheggiato poi da Renan, ha scritto che «gli ebrei devono essere presenti come uno stimolo nel corpo dell’umanità occidentale, come una specie di lievito» (in “Triarchia europea”, 1841: il lievito à la Magris! per Renan «l’ebreo era destinato a servire come lievito nel progresso di ogni paese, invece di formare una nazione distinta sul pianeta», in «Dalla parte dei popoli semitici nella storia della civiltà», edito nel 1863 a Milano), se Emil Ludwig né Cohn ha confermato: «Ich halte die Juden zwar nicht für das Salz der Erde; der Pfeffer Europas aber sind sie bestimmt, Non considero certo gli ebrei il sale della terra, ma il pepe dell’Europa sì» (attirandosi l’ovvio commento di Wolf Meyer-Christian: «Senza volerlo, con tale motto egli conferma il diritto dell’odierna Europa a difendersi dall’ebraismo: dove il pepe non viene usato a giuste dosi, se viene offerto come cibo o gettato negli occhi agli ignari da mano criminale, provoca drastiche reazioni. Perché in un caso corrompe il sangue, nell’altro rovina la vista»), se ancora nel 1982 N. Voronel commenta « è come se l’elezione del popolo ebraico sia nella vita di diaspora. “Siamo il lievito [...] Il nostro compito è portare a fermentazione il piatto straniero”», e Sonja Margolina ribadisce che i confratelli hanno svolto, nella minestra delle culture europee, il ruolo delle «spezie», ammettendo però che in Russia hanno esagerato, talché quella minestra si è fatta immangiabile,

  dall’altra parte Arruolati invasati della multietnicità come i boss del Congresso Ebraico Europeo, Acceleratori della Fine come i Börne, Landauer, Mühsam, Toller, Georg Hermann, Coudenhove-Kalergi, Richetti, Polish ed Elio Toaff, le Luxemburg, Calabi Zevi (col rampollo Tobia), Diana Pinto e consorti, Nussbaum, Kopp, Jacob/Veil, Nirenstein, Chivassi Colombo, i Joseph Roth e Jacques Attali, l’odioso quartetto Daniel Cohn-Bendit, Bernard-Henry Lévy, André Glucksmann ed Alain Finkielkraut, gli Halter, i Derrida, Klarsfeld, Gourévitch, Wieviorka, Zygmunt Bauman, gli Aza-gury, Arrigo Levi, Guido Bolaffi, gli archetipici Furio Colombo e Gad Lerner, l'isterico Christopher Hitchens, gli Amos Luzzatto e Riccardo Di Segni, i Mieli, i Claudio Morpurgo, i Grinblat, Clark/Kanne/Nemerovsky, Jean Kahn, Patrick Weil, l’honoraire Claudio Magris, i Violante, gli Ovadia, i Winter, Teitelbaum, Ringer, Minc, il trio Enrico Modigliani, Emanuele Fiano e Riccardo Pacifici, i Morin, Markovits, Konrád, Peck, Broder, Wiesel, gli Steven Katz, i Gaubert, Narkiss, Bubis, Siegel, Michael Friedmann, Silberstein, David Rothkopf, Richard Falk, i Soros e quant'altri Supremi Docenti a partire dai Freud, Boas, Horkheimer e compagnia, per finire agli ex-Ehrenberg, Lewontin e Stephen Jay Gould,
    non solo contravvengono ai più elementari princìpi di onestà intellettuale, ma rendono indigeribile anche a noi – cosa invero seccante – la nostra minestra nel nostro piatto.
    Va bene che leggo nel Talmud – immarcescibile, attualissima norma di vita – espressioni un tantino troppo laudative nei confronti di noi goyim:

«Solo voi giudei siete uomini» – rassicura, instancabile ed ancor più autorevole, il Talmud – «mentre le altre genti dell'universo non sono composte da uomini, ma da animali» (Baba Mezia 114b). O anche, più esattamente con la prima edizione di Lazarus Goldschmidt, che riproduce anche il testo ebraico di Bomberg: «Voi [ebrei] siete chiamati uomini, e non [we'ên] i popoli del mondo sono chiamati uomini, ma bestie ['ellâh behêmâh]»; nella seconda edizione, priva dei riferimen-ti ebraici, Goldschmidt mantiene la traduzione della prima, ma mette le ultime due parole tra parentesi: «ihr heißt Men-schen, nicht aber heißen die weltlichen Völker Menschen (sondern Vieh)».
    Tali parole però, scrive ad Hermann De Vries De Heekelingen (1880-1941) monsignor Agostino Bea (di ascendenza «tedesca» con antico cognome Behar), rettore del Pontificio Istituto Biblico richiesto di consulenza per il processo intentato ad Oron/Losanna il 15-17 gennaio 1940 contro l'ex pastore evangelico «antisemita» Philippe Lugrin, accusato dai Nostri di avere manipolato passi talmudici, «formano la conclusione della frase, la quale vuole mostrare per quale ragione Rabba b. Abuha Elijahu poteva stare in un cimitero non-ebreo. Ecco la risposta: la legge proibisce il contatto con i cadaveri degli uomini, ma i non ebrei non sono uomini, ma bestie; dunque essi non sono contrari alla purezza levitica [«R. Simón b. Johaj sagte: Die Gräber der Nichtjuden sind nicht (levitisch) verunreinigend, denn es heißt: ihr aber seid meine Schafe, die Schafe meiner Weide, Menschen seid ihr», è il passo che immediatamente precede il suddetto 114b]. Si vede che l'argomentazione stessa richiede le parole "ma bestie". Se essi non sono uomini, che cosa sono?».
    Decisamente più edulcorate sia la versione della Soncino Press: «R. Simeon b. Yohai said: The graves of Gentiles do not defile, for it is written: And ye my flock, the flock of my pastures, are men; only ye are designated "men"», sia la spiegazione in nota: «Soltanto, ovviamente, dal punto di vista della contaminazione rituale. Cfr. Numeri XIX 14: Questa è la legge: Quando un uomo muore nella tenda, chiunque entra nella tenda e chiunque si trova nella tenda sarà impuro per sette giorni. (In ogni caso la frase perde tutta la sua violenza se ci si ricorda che è semplicemente un modo di dire talmudico per indicare "non umano" [is simply a Talmudic idiom denoting "inhuman"], e che il suo autore fu il Maestro Simeone, che era stato così crudelmente perseguitato [so bitterly persecuted] dai romani. V. Lazarus, The Ethics of Judaism, I, pp.261 ff.)». Il contrasto «bestiale» ebrei-goyim verrà comunque ribadito nel terzo Paese di Dio da The Jewish Frontier, febbraio 1939: «Ogni ebreo, fosse anche l'unico ebreo rimasto sulla faccia della Terra, ogni bambino ebreo, ogni vecchio è un testimone vivente dell'esistenza di una razza umana a confronto con una razza fatta solo di bestie» (in W.R. Frenz). Ed ancora: «Anche se i popoli del mondo somigliano fisicamente agli ebrei, essi somigliano loro soltanto come le scimmie agli uomini» (Keritot 6b tosaphot).
    Lo statuto esistenziale dei non-ebrei – gli orlim: «incirconcisi» (letteralmente: prepuzi), per via della loro esisten-za immonda e perversa nient'altro che animali... in particolare asini, cavalli, cani, maiali e loro carogne – è bene illuminato da quanto afferma Abodah Zarah 4a: «Il Maestro Chana figlio di Chanina richiamò l'attenzione su una contraddizione: È detto: "Io non provo ira" [Isaia XXVII 4], ed è detto: "Il Signore è un vendicatore e pieno d'ira" [Nahum «il-consolatore» I 2]. Questa non è una contraddizione: l'una sentenza parla degli ebrei, l'altra dei non-ebrei [vedi anche Berakot 7a]» e, poco più avanti, «Il Santo-chebenedettosia!, parlò a Israele: "Quando giudico gli ebrei, non li giudico allo stesso modo dei non-ebrei"». Eguali concetti in due scritti ebraici divulgativi del XVII secolo, citati da Johannes Eisenmenger e Roderich-Stoltheim/Fritsch: nello Jalkut Rubeni si legge: «Gli ebrei sono chiamati uomini perché le loro anime provengono dall'uo-mo più illustre; i non ebrei, le cui anime provengono dallo spirito impuro, sono chiamati porci»; nell'influentissimo Shenei luchot ha-berit, "Le due tavole del Patto" (composto dalle sezioni Derekh hayyim e Luchot ha-berit) di Rabbi Yeshayah Horowitz (il cabbalista Isaiah ben Abraham ha-Levi Horowitz detto, dalle iniziali della maggiore opera, Ha-Shelah ha-Ka-dosh, «il santo SheLaH», 1570-1626 o 1565-1630), compendio delle leggi giudaiche stampato ad Amsterdam nel 1649 e a Wilmersdorf nel 1686 in seconda edizione: «Sebbene i popoli del mondo assomiglino esteriormente agli ebrei, sono soltan-to ciò che sono le scimmie in confronto agli uomini» e «Per questo al non-ebreo è stata data figura umana: perché gli ebrei non si dovessero far servire dalle bestie».
    Anche il Midrash talpiot pubblicato a Varsavia nel 1875 da Elijah ben Salomim insegna al Popolo Eletto la diffe-renza che lo separa dal resto dell'umanità: «Dio ha creato i non-ebrei sotto forma umana perché essi non sono stati creati per altro scopo che per servire gli ebrei giorno e notte senza interruzione. Ora, non si addice ad un figlio di re [cioè ad un ebreo] l'essere servito da una bestia con le sembianze di un animale ma da una bestia con sembianze umane» (225d). Si-milmente predica, ai nostri giorni, Hatanya, il testo fondamentale dei Lubavitch/Chabad, il più potente ramo del chassidi-smo. Secondo questo testo-chiave, rileva Israel Shahak, «tutti i non-ebrei sono creature assolutamente sataniche “che non hanno nulla di buono". Persino i loro embrioni sono qualitativamente diversi da quelli ebraici. L'esistenza dei non-ebrei è "inessenziale", poiché tutto il creato fu creato unicamente "per il bene degli ebrei" [whereas all of creation was created so-lely for the sake of the Jews]».
    Per quanto tutto ciò sembri un po' «forte», altri passi confermano la sostanza di una forma mentis che porta Mac-Donald (II) a concludere che «l'impurità dei non-ebrei non fu solo teorica, ma ridusse le effettive possibilità di interazione coi non-ebrei»: «Il seme di un non-ebreo non è che il seme di un animale» (Jebamot 94b tosaphot); «Concludete che il Misericordioso ha dichiarato che il loro seme è libero, come è detto: "La cui carne è come la carne di un asino e l'effusione del loro seme come quella di un cavallo" [Ezechiele XXIII 20]» (Jebamot 98a); «Il seme di un non-ebreo ha lo stesso valore del seme di una bestia» (Ketubot 3b tosaphot); «Non è permesso [fare] poppare [un neonato ebreo] da una non-ebrea né da una bestia impura, ma se il bambino è in pericolo, niente va risparmiato per salvargli la vita» (tosephta Shabbat IX 22, da Gedaliah Alon, in MacDonald I); dato che i rabbini, rileva Gian Pio Mattogno, proibiscono di sedersi a tavola con un pa-gano, se un goy invita alle nozze del figlio non diciamo un solo ebreo, ma tutti gli ebrei della città, non per ciò questi, an-che se sono tutti tra loro, vanno assolti: per il fatto di consumare il pasto assieme agli idolatri, peccano anch'essi di idola-tria, come dice Esodo XXXIV 15, e ciò anche se mangiano e bevono cibi loro propri e vengono serviti da propri camerieri (tosephta Abodah Zarah IV 6);
    ancor più, «Il rapporto sessuale con un non-ebreo è come quello con le bestie» (Sanhedrin 74b tosaphot, riportato da padre Justinas/Iustinus Bonaventura Pranaitis in Christianus in Talmude Iudaeorum, sive Rabbinicae Doctrinae de Christianis Secreta, 130 pagine edite a San Pietroburgo nel 1892, tradotte in tedesco nel 1894 dal sacerdote austriaco Jo-seph Deckert quali Das Christentum im Talmud der Juden, oder Die Geheimnisse der rabbinischer Lehre über die Chri-sten, "Il cristianesimo nel Talmud degli ebrei, ossia I segreti della dottrina rabbinica sui cristiani"), per cui, conferma Mai-monide (Mishneh Torah, libro 5: "Il codice della santità"), una donna non-ebrea congiuntasi con un ebreo, in particolare con un sacerdote, «è soggetta ad essere messa a morte, poiché attraverso di lei un crimine è stato compiuto da un israelita, come [se si fosse congiunto] con un animale» (il sacerdote, invece, va solo fustigato); «Il Maestro Chija figlio di Abuja disse: Se uno si congiunge con una non-ebrea fa come se si fosse imparentato con gli idoli, poiché è detto: "e si è congiun-to con la figlia di un dio straniero" [Malachia II 11]; ma ha il dio straniero una figlia? Si deve piuttosto intendere il con-giungimento con una non-ebrea» (Sanhedrin 82a, che in tosaphot auspica: «possano così abbatterlo gli zelanti»);
    «Chi viene detta prostituta? Tutte le figlie non-ebree o una figlia ebrea che ha avuto a che fare con qualcuno [die mit jemandem zu tun gehabt, traduce Löwe: «che ha avuto rapporti sessuali»] che non può sposare a causa delle diverse proibizioni matrimoniali, o che ha avuto rapporti sessuali proibiti con un minorato [die mit einem Geschwächten verbote-nen Umgang gehabt], anche se poi li dovesse sposare. Di conseguenza se una donna ha avuto a che fare con un animale, benché la pena per tali atti sia la lapidazione, non è una prostituta, e un sacerdote può sposarla, poiché non ha avuto rapporti proibiti con un uomo» (Eben haeser 6, 8).
    «Se un non-ebreo o uno schiavo si congiunge con una Figlia d'Israele, il figlio che nascerà è come figlio di prostituta» o, con la Soncino,«if a heathen or a slave has intercourse with the daughter of an Israelite, the issue is mamzer» (Qiddushin 70a) e «Il figlio di un non-ebreo o di uno schiavo che si sono congiunti con una Figlia d'Israele è un bastardo» (Jebamot 16b). Similmente, vedi Ketubot 30a, Eben haeser 44, 8 («Se un ebreo ha promesso di sposare [o: si è fidanzato con] una non-ebrea o una schiava, o se un non ebreo o uno schiavo hanno promesso di sposare [o: si sono fidanzati con] un’ebrea, in ambo i casi tale atto non è valido») e Joreh deah 377, 1 (il termine mamzèr deriva da meam zar, letteralmente «da un popolo straniero»; un mamzèr può sposare solo una mamzèret o una proselita, non una vera ebrea). Scende poi in campo Maimonide: «Il comandamento: Non uccidere, significa: Non si uccida nessuno di Israele. Ma i non-ebrei, gli ereti-ci e i figli di Noè non sono israeliti» (Yad hazaqah IV 1, "Mano forte", libro meglio noto come Mishneh Torah, "Secondo insegnamento" o "Ripetizione della Legge": il Codice di Maimonide).
    Tra le basi di tale atteggiamento vedi le espressioni non proprio fraterne scagliate dal favoleggiato Padre Abra-mo/Abraamo contro il fido amministratore Eliezer, il quale, dopo che l'Altissimo ha espressamente vietato di unire Isacco ad una cananea, ha osato offrirgli la propria figlia: «Tu, Eliezer, sei uno schiavo e Isacco è nato libero: i maledetti non pos-sono unirsi con i benedetti» (Genesis Rabbah 612-13 e 636-37, Midrash Hagadol Genesi 388-89 e 770-71). Ed ancora, ac-cogliendo sospettoso Rebecca dopo quella caduta dal cammello che l'ha deflorata («Mio signore, mi sono spaventata ve-dendovi apparire a quel modo, e sono caduta a terra dove uno spunzone del cespuglio mi è penetrato fra le cosce»... cosa davvero credibile, visto che capita tutti i giorni ancor oggi), rivolto ad Isacco: «Gli schiavi sono capaci di qualsiasi tradimento. Porta questa fanciulla nella tua tenda e assicurati che sia ancora vergine, dopo questo lungo viaggio in compagnia di Eliezer!» (Yalqut Genesi 109, Midrash Hagadol Genesi 366 e 30-70, Genesis Rabbah 651-53, Midrash Agada Genesi 59-60, Midrash Leqah Tobh Genesi 111, 113, Mekhiltà de-Rabbi Shimon 45, Sepher Daat Zeqenim 13d e 14b, Sepher Ha-dar Zeqenim 9b; per la cronaca, il buon compagnon de route Eliezer, che era stato quasi condannato a morte per quel so-spetto crimine, a ricompensa viene preso dall'Eterno in Paradiso, benché ancora vivo).
    Ciononostante, lo ritenessi di qualche utilità per ammorbidirLe la tradizionale cervice, sarei disposto ad inviare qualche riga a un Bet din – ignoro la giurisdizione rabbinica di competenza – af-finché La richiamassero alla proverbiale onestà che affligge i Suoi congeneri.

    Nell’attesa che la pena irrogataLe consista nella lettura di una ventina – ma, volendo, anche più – di testi sull'Immaginario Olocaustico, dei quali vorrà poi stendere, in buon italiano, un non pre-giudiziale riassunto, mi dichiaro pronto a segnalarLe i migliori titoli. Ho però la vaga impressione che l'offerta non verrà presa in considerazione.
E spalanchi la mente! Butti al macero sia il Grande Hilberg dai piedi d'argilla che l'ololibelli-stica minore. In particolare la «filosofa» Donatella Ester Di Cesare (splendido il purimico «Ester»!). Della quale peraltro condivido l'indignazione per essere stata definita maliziosamente «la personifica-zione dell'idiozia» e «faccia da cartomante, da medium che fa le sedute spiritiche».

Non si tratta così una non-shiksa! La comprendo, povera crista, anche se, come tanti Suoi con-generi, persevera a becerare sugli Olodenti, gli Olocapelli, gli Olospazzolinidadenti fatti di Olocapelli, gli Olobottoni fatti con le Oloossa, le Oloceneri, le Oloprotesidentarie, i cumuli di Oloscarpe, le Oloossa, gli Oloparalumi, gli Ologuanti e gli Olopantaloni in Olopelle, gli Oloocchi infilzati a mo’ di farfalle, gli Olotesticoli fatti addentare dai cani o per i quali vengono appesi gli Olosterminandi, i cumuli di Oloocchiali e di Oloanelloni, gli Olosgabelli fatti di Oloossa, gli Olomaterassi fatti di Olocapelli, gli Olofertilizzanti fatti di Oloceneri, le Olofiamme vampeggianti dagli Olocamini, e via dicendo.

    Sperando di brindare presto con Lei alla vittoria di tutti i popoli liberati dall’oppressione us-raeliana, in prima fila l'eroica Siria di Bashar al-Assad, resto in attesa di una Sua resipiscenza.

Cuveglio, 24 agosto 2012

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