domenica 14 giugno 2009

Carlo Mattogno: Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodogia. – Cap III § 8.7: Le «operazioni di sterminio».








Homepage
Precedente - Successivo
Introduzione. – Capitolo I. Paragrafo: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9. Capitolo II: § 1. - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 1.4 - 1.5 - 1.6 - 1.7 - 2 - 3 - 3.1 - 3.1.1 - 3.1.2 - 4 - 5 - 6 - 7. Capitolo III: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 8.1 - 8.2 - 8.3 - 8.4 - 8.5 - 8.6 - 8.7 - 8.8 - 8.9 - 9 - 10. Capitolo IV: § 1 - 2 - 3. Capitolo V: § 1 - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 2 - 2.1 - 2.2 - Conclusione - Appendice - Abbreviazioni - Bibliografia - Note.
Rinvii:
Testo integrale - Graf -

CAPITOLO III
I «centri di sterminio»

8.7
Le «operazioni di sterminio»

Nel paragrafo «La “catena”» Hilberg riporta acriticamente altri stralci di testimonianze. Già il titolo stesso è fuorviante, perché egli lo giustifica così:
«Nonostante gli errori e i contrattempi, questo sistema fu perfezionato a un grado tale da giustificare la definizione che ne venne data da parte di un medico delle SS: la catena (am laufenden Band)» (p. 1032).

Con tale espressione egli intende l’intera «serie di operazioni» in cui si articolava il presunto processo di sterminio, a cominciare dall’annuncio di un nuovo convoglio. La fonte addotta da Hilberg è il già citato affidavit di Friedrich Entress del 14 aprile 1947, NO-2363 (nota 399 a p. 1069). Ma il testimone si riferiva in modo esclusivo ai crematori di Birkenau:
«Accanto alle camere a gas c’erano i forni crematori, sicché i crematori potevano effettuare lo sterminio dei detenuti “am laufenden Band”».

Questa espressione significa in senso letterale «su nastro trasporatore», in senso figurato «senza interruzione, incessantemente».
Questa testimonianza, dunque, non giustifica affatto la «catena» di Hilberg.

Le pagine 1033-1034 contengono vari aneddoti insignificanti tratti da testimonianze, con qualche errore di traduzione: «idziecie na spalenie?» non significa «sarete arrostiti?», ma «andate alla cremazione?»; la prima banchina ferroviaria di Auschwitz non era ovviamente «situata nel campo di Birkenau», ma tra il campo di Auschwitz e quello di Birkenau. Questo però è un errore del traduttore.

Hilberg afferma poi:
«A Birkenau, l’illusione era la regola. Non era sempre né semplice né possibile, poiché si verificava spesso che almeno qualche deportato avesse letto il cartello Auschwitz, quando il treno aveva attraversato il deposito ferroviario, o visto le fiamme che uscivano dai camini o sentito lo strano e nauseante odore dei forni crematori» (p. 1036).

La fonte della prima affermazione, quella relativa al «cartello Auschwitz», è: «Elie Wiesel, Night, New York 1969 (trad. it. La Notte, Giuntina, Firenze 1975»(nota 441 a p. 1070). Il senso è che i detenuti sapevano già che Auschwitz era un «centro di sterminio», perciò, leggendo il relativo cartello, non potevano essere illusi. Ciò però è esplicitamente smentito dal racconto di Wiesel:

«Ma si arrivò in una stazione. Chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome:- Auschwitz. Nessuno l’aveva mai sentito dire» (478).

Anche Primo Levi, che Hilberg cita alla pagina seguente, manifestò la medesima ignoranza:
«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra» (479).

Hilberg dimentica inoltre di aver citato qualche pagina prima la testimonianza di un deportato che commentò così il cartello Auschwitz: «Noi non sapevamo che cosa significasse» (p. 1033).

La storia assurda dei camini fiammeggianti (480) è tratta dal libro di Olga Lengyel Five Chimneys, Chicago-New York 1947 (nota 442 a p. 1070), in cui l’autrice ha raccolto tutte le storie propagandistiche più insensate che circolavano nell’immediato dopoguerra, tra le quali, quella dell’ «edificio di mattoni rossi con un camino da cui si levavano grosse lingue di fuoco» (481), è quasi irrilevante. Ella riferì infatti che un medico francese del Sonderkommando, il dottor Pasche, le aveva fornito le cifre dei gasati dal maggio a 16 luglio 1944: 1.314.000 (482) - in meno di tre mesi, più di quanto Hilberg attribuiva all’intera esistenza del campo: 1.000.000! (p. 1318).
Ed ecco la descrizione dei crematori di Birkenau, da lei ottenuta, si deve presumere, sempre da questa fonte di prima mano:
«Delle quattro unità crematorie esistenti a Birkenau, due erano enormi e permettevano ai tedeschi di eliminare una grande quantità di cadaveri, mentre le altre due erano piuttosto piccole; ogni unità comprendeva un forno, una grande anticamera e una camera a gas. Su ognuna di queste, si ergeva una grande ciminiera che era di solito alimentata da nove fornelli; nel complesso i quattro forni di Birkenau erano scaldati da un totale di trenta fuochi. Ogni forno era inoltre provvisto di larghe aperture, ammontanti in totale a centoventi, in ognuna delle quali potevano trovar posto tre cadaveri per volta, il che comportava l’impiego di trecentosessanta cadaveri per operazione. E ciò era solo il principio della “Tabella di produzione” nazista.
Trecentosessanta cadaveri ogni mezz’ora: questo era il tempo necessario per ridurre in cenere la carne umana; faceva settecentoventi cadaveri all’ora e diciassettemiladuecentottanta per ogni turno di ventiquattro ore; e i forni, con macabra efficienza, funzionavano giorno e notte.
A questo, poi, bisogna anche aggiungere le “fosse della morte” che riuscivano a distruggere altri ottomila cadaveri al giorno, cosicché i corpi umani eliminati in un sol giorno ammontavano a circa ventiquattromila [sic]» (483).

L’immane capacità di cremazione di 25.280 cadaveri in 24 ore è pura fantasia, mentre la struttura dei forni deriva dal travisamento del ben noto rapporto Wrba-Wetzler, che, non meno fantasiosamente, indicava la presenza in ciascuno dei crematori II e III di Birkenau di 9 forni a 4 muffole raggruppati a semicerchio intorno al camino, mentre in realtà si trattava di 5 forni a 3 muffole disposti in linea retta lungo l’asse longitudinale della sala forni (484). La Lengyel scambiò i 9 forni del rapporto in questione con 9 «fornelli» che alimentavano (?) la «ciminiera» e aggiunse di sua iniziativa un forno con 120 muffole!

Hilberg racconta poi la leggendaria ribellione di «un convoglio proveniente da Belsen» (p. 1036), al quale è collegata l’edificante storiella della donna ebrea che disarmò e sparò all’SS Schillinger, uccidendolo. Le fonti sono Höss e Müller (nota 446 a p. 1070). Il primo riferisce che ad Auschwitz giunsero vari trasporti da Belsen, che richiedevano particolari precauzioni, perché potevano essere informati del destino che li attendeva. Egli narra poi la rivolta riassunta da Hilberg, nel corso della quale, tra le SS, ci fu una sola vittima, accoltellata (485). Höss non menziona nessuna vittima di SS da colpi di arma da fuoco, né fa il nome di Schillinger. In realtà, il Kalendarium di Auschwitz registra un solo presunto trasporto dal campo di Bergen-Belsen in data 23 ottobre 1943, in cui Danuta Czech inserisce la storiella summenzionata (486). Dico «presunto» perché non esiste alcun documento che attesti la realtà storica di questo trasporto. D’altra parte, la morte dell’SS-Unterschaführer Josef Schillinger non è menzionata in nessuno dei Sonderbefehle successivi, che informavano anche su eventuali decessi di SS al campo, come nel caso delle tre vittime della presunta rivolta del “Sonderkommando”, gli SS-Unterscharführer Rudolf Erler, Willi Freese e Josef Purke (487).
Müller non fa altro che riprendere e ampliare fantasiosamente le dichiarazioni di Höss e la registrazione del Kalendarium (488).

Hilberg prosegue raccontando altri aneddoti. Il primo riguarda Primo Levi:
«Un giovane intellettuale italiano, che si trovava all’ospedale di Auschwitz per un gonfiore al piede, sentì dire da un detenuto polacco non ebreo: “Du Jude, kaputt. Du schnell Krematorium fertig”(Sei fregato, Ebreo, pronto per il crematorio, finito)» (p. 1037).

Il riferimento, come ho accennato sopra, è a Primo Levi, il quale però si trovava all’ospedale per i detenuti (Krankenbau) di Monowitz, non di Auschwitz (489). Alla pagina seguente Levi descrive così la vita all’ospedale:
«La vita del K-Be è vita di limbo. I disagi materiali sono relativamente pochi, a parte la fame e le sofferenze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si lavora, e, a meno di commettere qualche grave mancanza, non si viene percossi. La sveglia è alle quattro, anche per i malati; bisogna rifare il letto e lavarsi, ma non c’è molta fretta né molto rigore. Alle cinque e mezzo distribuiscono il pane, e si può tagliarlo comodamente a fette sottili, e mangiare sdraiati con tutta calma; poi ci si può riaddormentare, fino alla distribuzione del brodo di mezzogiorno. Fin verso le sedici è Mittagsruhe, riposo pomeridiano; a quest’ora c’è sovente la visita medica e la medicazione, bisogna scendere dalle cuccette, togliersi la camicia e fare la fila davanti al medico. Anche il rancio serale viene distribuito nei letti; dopo di che, alle ventuno, tutte le luci si spengono, tranne la lampadina velata della guardia di notte, ed è il silenzio» (490).

Primo Levi trascorse all’ospedale per i detenuti tre settimane, dal 30 marzo al 20 aprile 1944 (491).
Ed ecco un altro aneddoto:
«Una giovane donna di diciannove anni chiese al comandante del campo delle donne di Auschwitz, Hössler, di risparmiarla. “Hai vissuto abbastanza, - rispose. - Su, piccola, vieni”» (p. 1037).

La fonte è la testimonianza di Helene Klein al processo Belsen (nota 453, p. 1071). La testimone raccontò che, nel corso di una selezione che ebbe luogo nel gennaio 1944, fu «scelta per la camera a gas», ma prima che Hössler le prendesse il numero di matricola, si nascose. Dopo di che andò da lui e gli chiese di risparmiarla; questi, che ovviamente non si era accorto di nulla, le rispose come riferito da Hilberg (492). Una storiella tanto inverosimile che fu giustamente considerata «pura invenzione» dall’avvocato della difesa, il maggiore inglese Munro (493).

A p. 1043 Hilberg fornisce un altro esempio eclatante della sua sorprendente credulità:
«A un altro gruppo fu assegnato il compito di scrostare i cinquanta centimetri di grasso che si erano depositati all’interno delle canne dei camini» dei crematori di Birkenau.

Egli trae quest’assurdità dal racconto di una tale Irene Schwarz, «sopravvissuta»(nota 507 a p. 1073). In realtà, in un forno crematorio, il grasso era la sostanza combustibile dei cadaveri che bruciava prima e meglio, senza lasciare alcun deposito solido, ma soltanto gas combusti.

Il resoconto della presunta procedura di sterminio ad Auschwitz, che Hilberg espone alle pagine 1038-1039, illustra perfettamente il suo metodo di lavoro dell’estrapolazione di frasi da testimonianze contraddittorie per creare un quadro fittizio apparentemente coerente e suffragato da molte testimonianze:
«Nel momento in cui entravano nelle camere a gas, le vittime si accorgevano che le docce, finte, non funzionavano [nota 459].
Dall’esterno, si azionava l’interruttore che spegneva tutte le lampade contemporaneamente [nota 460],
e una vettura della Croce Rossa arrivava con lo Zyklon [nota 461].
Una SS, che indossava una maschera antigas, provvista di un filtro speciale, apriva lo sportello di vetro che era situato sopra la griglia e vuotava una bottiglia [sic] dopo l’altra nella camera a gas. Nonostante la dose letale fosse di un milligrammo per chilo di peso [corporeo], e l’effetto supposto rapido, l’umidità poteva rallentare la velocità di diffusione del gas [nota 462].
L’Untersturmführer Grabner, ufficiale politico del campo, cronometrava l’operazione [nota 463]» (p. 1038).

Segue una lunga descrizione che esaminerò a parte sotto.
In queste poche righe Hilberg chiama in causa cinque testimoni e un giudice: Sehn [nota 459], Nyiszli [nota 460], Bendel [nota 461], Höss e Müller [nota 462], Perry [recte: Pery] Broad [nota 463].
Queste frasi estrapolate, inoltre, si riferiscono spesso a un contesto diverso da quello del racconto di Hilberg. Così Sehn non dice affatto che «le vittime si accorgevano che le docce, finte, non funzionavano», ma afferma soltanto che da esse «non uscì mai acqua» (494). L’affermazione che «l’Untersturmführer Grabner, ufficiale politico del campo, cronometrava l’operazione», è del tutto fuori luogo. Broad si riferiva all’unica presunta gasazione omicida, che avrebbe osservato da lontano nel luglio 1942 al crematorio I di Auschwitz e che descrisse nel rapporto del 13 luglio 1945, di cui citò uno stralcio nel suo affidavit del 14 dicembre 1945. In questo stralcio si legge: «Dopo altri due minuti Grabner abbassa il suo orologio» (495). Da questa semplice frase Hilberg desume che Grabner cronometrava di norma la durata delle presunte gasazioni nei crematori di Birkenau. Dove poi egli abbia letto dello «sportello di vetro che era situato sopra la griglia» resta enigmatico. Nessuno dei testimoni da lui addotti ne fa cenno. La «dose letale» dell’acido cianidrico «di un milligrammo per chilo di peso» è tratta dal documento NI-9912 (p. 961 e nota 70 a p. 1053); tuttavia Sehn rileva:
«L’acido cianidrico (HCN o CHy) è estremamente tossico. Un uomo è avvelenato inalando aria che ne contenga non più di 0,12 milligrammi per litro (cioè lo 0,0012 [recte: 0,012]%)» (496).

Hilberg non si chiede neppure la ragione di questi dati così divergenti.
Parimenti errato è che «l’umidità poteva rallentare la velocità di diffusione del gas». Al riguardo, nella testimonianza di Höss citata da Hilberg non c’è nulla, mentre in quella di Müller si dice:
«L’esperienza ci aveva insegnato che quando i cristalli di Zyklon venivano a contatto con acqua o erano esposti a forte umidità, il gas non mostrava la sua efficacia così intensamente come in altri casi» (497).

Il testimone, dunque, non menziona affatto la «velocità di diffusione del gas».
La pretestuosità del metodo di lavoro di Hilberg appare particolarmente evidente in queste due frasi:
«Dall’esterno, si azionava l’interruttore che spegneva tutte le lampade contemporaneamente [testimone Nyiszli], e una vettura della Croce Rossa arrivava con lo Zyklon [testimone Bendel]».

Ma la testimonianza di Nyiszli contiene entrambe le indicazioni:
«In base alle mie osservazioni personali... so che si chiudevano le porte e si spegnevano centralmente le luci appena la massa delle persone era nelle camere a gas. In questo momento arrivava un’automobile della Croce Rossa verniciata di nero. Dalla vettura scendevano un ufficiale SS e un SDG. Avevano in mano 4 barattoli smaltati» (498).

Che bisogno c’era di trarre la seconda indicazione dalla testimonianza di Bendel?

Hilberg continua il suo racconto sulla procedura di sterminio ad Auschwitz così:
«Quando i primi cristalli passavano allo stato gassoso sul pavimento della camera, le vittime cominciavano a urlare. Per sfuggire al gas che saliva dal pavimento, i più forti facevano cadere i più deboli, scalando i corpi a terra per prolungare la vita, cercando di raggiungere le sacche d’aria non ancora invase dal gas. L’agonia durava circa due minuti, e mentre le grida si smorzavano, i morti si accatastavano gli uni sugli altri. In quindici minuti (talvolta cinque), tutti gli occupanti della camera a gas erano morti.
Si aerava, allora, la stanza per far uscire il gas e, dopo circa mezz’ora si apriva la porta. I cadaveri erano accatastati a piramide, alcuni in posizione seduta o semiseduta, i bambini e i vecchi sotto. Nel posto in cui era stato introdotto il gas, c’era uno spazio vuoto, dal quale le vittime si erano allontanate e, schiacciati contro la porta, si potevano vedere i cadaveri degli uomini, che, terrorizzati, avevano cercato di forzarla. I corpi erano rosa, con macchie verdi. Alcuni avevano la bava alla bocca, altri sangue dal naso. Alcuni erano coperti da escrementi e urina; una donna incinta aveva cominciato il travaglio. Le corvé speciali di Ebrei (Sonderkommando[s]), muniti di maschere a gas, trascinavano fuori i cadaveri che si trovavano vicino alla porta per liberare il passaggio e lavavano i corpi con getti d’acqua, bagnando, allo stesso tempo, le sacche di gas velenoso che rimanevano tra i cadaveri. In seguito, i Sonderkommando[s] dovevano separare i cadaveri così accatastati» (p. 1038).

Hilberg rimanda al libro di Müller, all’affidavit di Nyiszli dell’8 ottobre 1947 (NI-11710), a quello di Broad del 14 dicembre 1945 (NI-11397), a quello di Höss del 5 aprile 1946 (PS-3868) e all’articolo di Sehn (nota 464 a p. 1071).
La struttura principale del racconto è tratta dall’affidavit di Nyiszli e dal libro di Müller. Nyiszli dichiarò:
«Poiché i granuli di gas cadevano sul pavimento, il gas si sviluppava anzitutto negli strati d’aria più bassi e saliva poi gradualmente in alto. Perciò posso dichiarare che i cadaveri, alla fine della gasazione, non erano sparpagliati nel locale, ma in un mucchio come una torre. Probabilmente i più forti avevano sopraffatto i più deboli, si erano arrampicati su coloro che giacevano sotto per prolungare la loro vita raggiungendo strati [d’aria] ancora senza gas. Accadeva così che le donne e i bambini per lo più giacevano sotto» (499).

L’anno prima, Nyiszli aveva pubblicato un libro di memorie (tradotto anche in inglese (500) e incomprensibilmente ignorato da Hilberg) in cui aveva scritto che lo Zyklon-B era «cloro in forma granulosa» (501) e poiché questo gas è più pesante dell’aria, inventò la storia che esso inondava la presunta camere a gas dal basso verso l’alto, come se fosse acqua:
«I cadaveri non giacciono alla rinfusa in lungo e in largo, ma in un mucchio alto un piano. La spiegazione di ciò è che il gas dei granuli caduti, prima pervade lo strato d’aria sopra al pavimento con le sue esalazioni mortali e solo gradualmente riempie gli strati più alti dell’aria. Questo costringe gli sventurati a calpestarsi reciprocamente, ad arrampicarsi gli uni sugli altri. Più in alto, il gas li raggiunge più tardi» (502).

Ma, come rilevò Georges Wellers,
«i vapori dell’ acido cianidrico sono più leggeri dell’aria, perciò salgono in alto nell’atmosfera» (503),

esattamente il contrario di quanto dichiarato da Nyiszli. Lo scenario da lui delineato è dunque completamente inventato. Per concludere, come ho documentato altrove, il testimone Müller plagiò sfrontatamente il libro di Nyiszli attraverso la traduzione tedesca apparsa nel 1961 nella rivista Quick di Monaco col titolo Auschwitz. Tagebuch eines Lagerarztes (504), tra l’altro, riportando quasi alla lettera la scena fittizia della gasazione (505).
Da Müller, Hilberg ha tratto anche la descrizione dei cadaveri, che però il testimone aveva a sua volta ripreso dal cosiddetto rapporto Gerstein (506). Un altro plagio!
Hilberg descrive dunque una scena puramente fittizia. Egli vi aggiunge addirittura del suo. Ad esempio, quando scrive che «una donna incinta aveva cominciato il travaglio», mentre la sua fonte dice soltanto che «molte donne erano sporche di sangue mestruale nelle gambe» (507); o quando afferma che «i corpi erano rosa, con macchie verdi», ma la sua fonte asserisce che «parecchi erano blu (blau)» (508). In questo contesto il colore rosa è menzionato solo da Nyiszli, ma non in riferimento ai cadaveri, bensì allo Zyklon B, che era «in forma di granuli di colore rosa-lillà» (509).
Non meno fantasiosamente, Müller parla di «cristalli di Zyklon B blu-viola»(Blauviolette Zyklon-B-Kristalle)! (510). Hilberg, come ho già rilevato, ripete a pappagallo la storia dei «cristalli» senza neppure chiedersi da che cosa fosse costituito lo Zyklon B.
Egli aggiunge del suo anche quando afferma che, con getti d’acqua, si eliminavano «le sacche di gas velenoso che rimanevano tra i cadaveri»; la sua fonte dice invece:
«In tal modo si dovevano neutralizzare i cristalli di gas (511) che erano sparsi qua e là, ma si dovevano anche pulire i cadaveri» (512).


A proposito di Müller, in un altro studio ho esaminato in modo approfondito le sue varie dichiarazioni successive, dimostrando che
«nella sua deposizione al processo della guarnigione del campo di Auschwitz [11 dicembre 1947] (513) egli non menzionò affatto la sua attività come membro del cosiddetto “Sonderkommando” nei crematori di Birkenau. Nella dichiarazione pubblicata da Kraus e Kulka [1957], Müller la menzionò, ma vi dedicò appena il 45% della sua narrazione, che contiene soltanto una serie di aneddoti fantasiosi, come ad esempio quello del prelievo di carne umana ai detenuti fucilati per la coltura dei batteri (ma non più nel campo di Auschwitz, bensì nel crematorio V di Birkenau), quello del dissanguamento sistematico delle giovani donne (per gli ospedali militari tedeschi) o infine quello relativo all’SS-Hauptscharführer Otto Moll, che soleva gettare i bambini ebrei “nel grasso umano bollente”! (514). Lo stesso valore storico ha la storiella del Kapo che uccideva regolarmente dei detenuti ebrei ricevendo dalle SS l’unico rimprovero di essersi fatto male a una mano.
Nel suo libro di memorie (515), infine, Müller ha dedicato il 25% della narrazione ai fatti relativi al crematorio I e il restante 75% a quelli riguardanti i crematori di Birkenau: dallo 0% al 75%: uno sviluppo letterario sbalorditivo!» (516).

Quest’analisi non include il plagio di Müller menzionato sopra, in quanto si riferisce in modo specifico alle sue dichiarazioni relative al crematorio I di Auschwitz. Ma anche a questo riguardo egli egli proferì una serie incredibile di affermazioni false. Ecco qualche esempio.
Müller racconta che il personale del crematorio dimenticò di “spegnere i ventilatori (die Ventilatoren) di un forno” (an einem Ofen) (517) - il che è errato, perché ogni forno aveva un solo ventilatore - ed ecco quale ne fu la conseguenza:
«Le fiamme si erano già attizzate così vivamente e il calore aveva già raggiunto una tale intensità che i mattoni refrattari del camino si sciolsero e il forno bruciò, mentre dei mattoni caddero nel canale che univa il forno al camino» (518).

Un’altra dichiarazione insensata. La funzione della soffieria non era quella di attizzare il fuoco nel gasogeno, ma di apportare aria di combustione nella muffola. Poiché dalla soffieria arrivava aria fredda, se essa fosse stata lasciata accesa, il risultato sarebbe stato esattamente il contrario di quello raccontato dal testimone: le due muffole del forno si sarebbero raffreddate fino allo spegnimento del gasogeno per mancanza di tiraggio!
Inoltre nel periodo in questione, il maggio-giugno 1942, non bruciò, né si danneggiò alcun forno, sicché il relativo racconto di Müller è falso anche storicamente. In questo periodo si verificò un solo guasto, che però non riguardò i forni, bensì il “Kaminunterkanal”, cioè il condotto del fumo che collegava i tre forni al camino: furono sostituiti 50 mattoni refrattari, con l’impiego di 50 kg di malta refrattaria (519). Il 30 maggio l’ SS-Oberscharführer Josef Pollok informò Bischoff che la fasciatura del camino (Kamineinband) si era staccata e che nella muratura si erano aperte delle crepe (520). Ciò portò successivamente alla decisione di demolire il vecchio camino e di ricostruirlo, ma tutto ciò non ha alcuna relazione con la favola dell’incendio inventata dal testimone.
Questo fantomatico incendio – continua Müller – si propagò alla sala forni e fu domato solo a sera: il crematorio rimase fuori uso (521). La sua attività riprese dopo alcuni giorni (522), dunque alla fine di maggio, coll’arrivo di un trasporto di Ebrei dal ghetto di Sosnowitz (523); in tale occasione 600 persone furono gasate nella camera mortuaria del crematorio (524).
Ora, secondo il Kalendarium di Auschwitz, dopo il 24 maggio 1942 (giorno dell’assegnazione di Müller al crematorio) il primo trasporto ebraico proveniente da Sosnowitz giunse ad Auschwitz il 17 giugno e fu presuntamente gasato per intero nel “Bunker 1” di Birkenau! (525).
Dopo tre giorni di inattività, secondo il racconto di Müller, giunse un altro trasporto di alcune centinaia di persone, che fu parimenti gasato nella camera mortuaria del crematorio I (526). In questa occasione fu introdotto per la prima volta il presunto discorso ingannatore per tranquillizzare le vittime (527). Ciò avvenne alla fine di maggio del 1942, perché il testimone dichiara:
«In questo modo dalla fine di maggio del 1942 nel crematorio di Auschwitz scomparve un trasporto dopo l’altro» (528).

Perciò tutto si svolse dal 24 al 31 maggio: tre gasazioni e l’incendio. Tuttavia, secondo il “Kalendarium” di D. Czech, in questo periodo ad Auschwitz non arrivò alcun trasporto ebraico (529).
L’intera storia narrata dal testimone è pertanto completamente inventata. Alla luce di ciò, il giudizio sul libro di Müller espresso da Hilberg al processo Zündel suona patetico:
«Lo considero piuttosto preciso (rather accurate), sì. L’ho scorso pagina per pagina e mi è difficile trovarvi un errore, un errore materiale significativo in questo libro. Esso è straordinario».

Alla domanda dell’avvocato Christie se lo considerasse «un resoconto storico accurato di un testimone oculare», Hilberg rispose di sì (530). Poco dopo Hilberg definì Müller «una persona straordinaria, precisa, attendibile (a remarkable, accurate, reliable person)» (531). Ignoranza? Faciloneria? Malafede?

Torniamo all’esame dell’opera di Hilberg.
Dopo aver parlato del presunto incarico del capo della Gestapo Müller a Blobel, cui ho già accennato sopra, egli continua così:
«Blobel e il suo “Kommando 1005” si recarono, così, a Kulmhof per vedere ciò che si poteva fare delle fosse che si trovavano là. Costruì numerose pire e forni primitivi, e utilizzò perfino dell’esplosivo» (p. 1039).

Ma la presunta sperimentazione di Blobel a Chełmno era completamente ignota al giudice istruttore Wladysław Bednarz, che, nei risultati della sua indagine, si limitò a scrivere:
«Nella primavera del 1942 furono costruiti due crematori, dopo di che tutti i cadaveri vi furono cremati (inclusi i corpi che erano stati seppelliti in precedenza)» (532).

Hilberg cita esplicitamente questa fonte nella nota 16 a p. 1050. Tuttavia nella nota 471, che riguarda la costruzione di «pire e forni primitivi» summenzionata, Hilberg afferma:
«Pare che, verso la fine, Kulmhof abbia acquisito un crematorio. Jewish Black Book Committee, The Black Book, New York, 1946, p. 378».

Ma Bednarz, nella fonte citata da Hilberg, subito dopo il passo che ho citato sopra, dice:
«Non ci sono dettagli sui forni, perché l’inquirente non poté trovare testimoni che fossero stati nel bosco nel 1942 o nel 1943. Coloro che vivevano nei dintorni osservarono soltanto camini continuamente fumanti all’interno della recinzione. I forni furono fatti saltare in aria dalle autorità del campo il 7 aprile 1943. Tuttavia due nuovi forni furono costruiti nel 1944, quando ripresero le attività del campo».

Egli ne fornisce anche descrizione e dimensioni (533). Dunque Hilberg sapeva bene che - secondo il giudice Bednarz - a Chełmno erano stati costruiti due crematori nella primavera del 1942 senza alcun intervento di Blobel, ma si è guardato bene dal rilevare questa contraddizione.

In questo contesto Hilberg menziona «una macchina tritaossa (Knochenmühle» (p. 1039), per la quale rimando di nuovo al mio studio specifico sull’argomento (534). Qui prendo in esame la fine della narrazione di Hilberg:
«Quando Höss visitò Kulmhof, Blobel promise al comandante di Auschwitz che gli avrebbe mandato un trituratore “per sostanze solide”. Ma Höss preferiva distruggere i resti delle ossa con i martelli» (p. 1040).

La fonte è l’affidavit di Höss del 14 marzo 1946 (nota 475 a p. 1071). Qui il comandante di Auschwitz dichiarò:
«Dopo la pulizia delle fosse, i resti delle ceneri venivano schiacciati. Ciò avveniva su una piattaforma di cemento (auf einer Zementplatte) dove dei detenuti con mazzaranghe di legno polverizzavano i resti ossei» (535).

Questo testo fu successivamente copiato da Müller, che lo arricchì inventando le dimensioni della presunta piattaforma:
«Per poter eliminare rapidamente e senza dare nell’occhio le ceneri provenienti dai crematori e dalle fosse, Moll fece costruire vicino alle fosse presso il crematorio una superficie cementata di 60 metri di lunghezza e 15 di larghezza. Su di essa le ceneri delle fosse furono poi finemente polverizzate con pesanti mazzaranghe» (536).

Ma di questa enorme piattaforma, che aveva una superficie più estesa del crematorio V, vicino al quale avrebbe dovuto trovarsi, non esiste nessuna traccia documentaria, nessuna traccia materiale e nessuna traccia nelle fotografie aeree di Birkenau del 1944 (537).

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro dottore, lei compie un opera davvero meritevole col metterci a conoscenza delle opere di Mattogno. Il gigante ella letteratura olocaustica, questo Hilberg Raul, mostro sacro che viene citato quale " massimo esperto dell'Olocausto" e, al quale tutti facevamo deferenza, inopinatamente viene ricondotto alla sua vera statura: un coacervo di intenzionalità finalizzate an creare il sacro dogma; e in questo, riconosciamolo, un vero maestro.