domenica 14 giugno 2009

Carlo Mattogno: Raul Hilberg e i «centri di sterminio» nazionalsocialisti. Fonti e metodogia. – Cap III § 8.6: “Segreto” e propaganda.








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Introduzione. – Capitolo I. Paragrafo: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9. Capitolo II: § 1. - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 1.4 - 1.5 - 1.6 - 1.7 - 2 - 3 - 3.1 - 3.1.1 - 3.1.2 - 4 - 5 - 6 - 7. Capitolo III: § 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 8.1 - 8.2 - 8.3 - 8.4 - 8.5 - 8.6 - 8.7 - 8.8 - 9 - 10. Capitolo IV: § 1 - 2 - 3. Capitolo V: § 1 - 1.1 - 1.2 - 1.3 - 2 - 2.1 - 2.2 - Conclusione - Appendice - Abbreviazioni - Bibliografia - Note.
Rinvii:
Testo integrale - Graf -

CAPITOLO III
I «centri di sterminio»
8.6
“Segreto” e propaganda


Nel paragrafo «Il segreto», Hilberg descrive le procedure mediante le quali le SS mantenevano appunto il «segreto» sui loro crimini, ma si trattava evidentemente di un segreto di Pulcinella, perché, a suo dire, tutti sapevano tutto. Tali procedure consistevano anzitutto nel «camuffamento verbale»:
«Il linguaggio in codice era un’altra misura di camuffamento. Il termine più importante, e forse il più ingannevole, utilizzato per definire collettivamente i centri di sterminio era l’“Est”. Questo appellativo è molto frequente durante le deportazioni» (p. 1028).

Infatti queste deportazioni erano proprio dirette all’Est!

Hilberg continua:
«Le camere a gas e i crematori di Auschwitz erano conosciuti sotto il nome di Spezialeinrichtungen (installazioni speciali), Badeanstalten (bagni) e Leichenkeller (cantine per cadaveri)».

Di questo «linguaggio in codice» avrebbero inoltre fatto parte espressioni come Sonderbehandlung (trattamento speciale), durchgeschleusst (incanalato, passato attraverso) e gesondert untergebracht (sistemazione speciale)(p. 1028).
La fonte, per quanto riguarda la citazione, è il già citato articolo di Sehn Concentration and extermination camp at Oświęcim (Auschwitz-Birkenau)(nota 375 a p. 1067), che - come ho già rilevato - è anche l’inventore di questo presunto «linguaggio in codice» per Auschwitz.
Delle espressioni «Badeanstalten» e «gesondert untergebracht» mi sono già occupato. Il termine Leichenkeller, come sanno tutti i lettori di Pressac, non era un “criptonimo”, ma il nome delle camere mortuarie seminterrate dei crematori II e III che appare regolarmente nelle piante. Esso del resto non è menzionato come tale da Sehn, che invece afferma che il termine «Spezialeinrichtungen», in una lettera del 16 dicembre 1942, designava i «crematori con enormi camere a gas» di Birkenau (455). Questo documento si riferisce tuttavia all’ «approvvigionamento idrico delle singole baracche lavatoio e cucina, nonché dei singoli crematori e di altre installazioni speciali»(Versorgung der einzelnen Wasch- und Küchenbaracken, sowie der Krematorien und sonstigen Spezialeinrichtungen)(456). Il termine in questione non poteva dunque essere un “criptonimo”, in quanto designava altre installazioni del tutto innocue, come ad esempio le quattro «Spezialbaracken» (baracche speciali) che rientravano nel progetto del campo ospedale per detenuti (Häftlingslazarett) nel settore BIII di Birkenau (457).
Il termine «durchgeschleusst» appare nel rapporto Korherr riguardo ai detenuti ebrei che erano stati fatti passare attraverso i campi del Governatorato generale e del Warthegau (458); esso si può considerare un “criptonimo” solo se si assume aprioristicamente che questi Ebrei non erano stati deportati all’Est, ma inviati in «centri di sterminio».
«Sonderbehandlung» era invece un termine burocratico che, a seconda delle circostanze e del contesto, designava sia l’uccisione, sia un trattamento di favore, come nel documento PS-660, in cui la «Sonderbehandlung di minoranze non polacche» significa esclusione dalle misure di deportazione e assenza di particolari limitazioni alla loro vita (459). Un altro caso, più noto, di «Sonderbehandlung » è quello - riferito da Kaltenbrunner a Norimberga - cui erano sottoposte alte personalità politiche, che erano detenute in due alberghi alpini con razioni viveri nove volte superiori a quelle della popolazione tedesca, champagne e altri privilegi (460).

Hilberg passa poi alla seconda procedura per mantenere il «segreto»:
«Una volta assicurato il camuffamento verbale, era necessario che le bocche restassero chiuse; così, tutto il personale del campo, soprattutto il personale direttivo, giurava di mantenere il silenzio» (p. 1028).

Egli aggiunge però che
«tuttavia, non tutte le persone coinvolte riuscirono a tenere per sé il peso di quello che sapevano» (p. 1029).

Egli cita testimonianze la cui veridicità non è verificabile (come la dichiarazione attribuita a Frieda Jörg), o, se è verificabile, risultano false (come quella di Gerstein che «vuotò il sacco» con von Otter) (461) e documenti interpretati in modo forzato (la circolare di Günther del 29 aprile 1943, in cui le «voci allarmanti» sulle deportazioni di Ebrei si riferiscono al luogo e alle condizioni del loro futuro impiego lavorativo ad Auschwitz) (p. 1029).

Indi Hilberg scrive:

«Un’altra misura precauzionale era strettamente legata al voto del silenzio: il controllo dei visitatori. Questi erano dignitari del Reich o del Partito, che si recavano nei campi per un’ “ispezione”. L’amministrazione del campo di concentramento si mostrava particolarmente suscettibile in fatto di ispezioni. Il 3 novembre 1943, Glücks ordinò che i bordelli e i forni crematori non fossero mostrati ai visitatori; naturalmente, delle installazioni in questione non si doveva nemmeno parlare. Quando un visitatore notò i camini e il fumo che usciva, c’era una risposta pronta: il forno crematorio stava funzionando per bruciare le vittime di un’epidemia» (p. 1029).

La direttiva di Glücks summenzionata era diretta a tutti i campi di concentramento (e non esclusivamente ai «centri di sterminio») e menzionava anche i bordelli: erano forse anche questi strumenti di «distruzione degli Ebrei»?

L’aneddoto finale, espresso con la notoria superficialità di molti testimoni del dopoguerra (fumavano «i camini», al plurale, ma funzionava «il forno crematorio», al singolare) (462), presuppone che nei crematori di Birkenau si cremassero esclusivamente cadaveri di presunti gasati. Nessuno storico olocaustico potrebbe sostenere seriamente una tale assurdità, tanto più in quanto esistono documenti che parlano esplicitamente del trasporto dei cadaveri dei detenuti immatricolati morti per cause naturali (anche di tifo) ai crematori (463).

Segue un’altra storiella sul campo di Bełżec, che risalirebbe al 31 agosto 1942. A Rawa Ruska (una località a meno di 30 km da Bełżec) un sottufficiale tedesco chiese a un poliziotto dove fosse diretto un convoglio di Ebrei: «A Bełżec (464). E poi? Il veleno (Gift) »(p. 1030). Il testo continua così:
«Io chiesi: “Gas”? Egli alzò le spalle. Poi disse ancora: “All’inizio, come credo, li hanno sempre fucilati» (465).

Il seguito della storiella è ambientata sul treno Rawa-Ruska-Chełm:
«Durante il tragitto, la donna fece un gesto in direzione di Bełżec. “Eccolo, arriva!”(Jetzt kommt es [schon] (466)!). Un odore dolciastro li prese alla gola. “Puzzano già”(Die stinken ja schon), disse la donna. “Non dire sciocchezze, è il gas”(Ach Quatsch, das ist ja das Gas), spiegò il marito» (p. 1030).

Il racconto va avanti così:

«Frattanto - avevamo percorso circa 200 metri - l’odore dolciastro si era trasformato in un intenso odore di bruciato (in einen scharfen Brandgerucht). “Viene dal crematorio” (Das ist vom Krematorium), disse il poliziotto» (467).

Ma, come Hilberg sapeva bene, a Bełżec non esistette mai un crematorio e - secondo la storiografia olocaustica -, l’arsione dei cadaveri cominciò nel dicembre 1942.
La medesima fonte riporta anche quest’altra storiella sulla presunta tecnica di sterminio a Bełżec:
«Si dice loro che devono andare alla disinfestazione e poi devono togliersi i vestiti, indi vanno in un locale dove anzitutto si immette un’ondata di calore (Hitzwelle) che contiene già una piccola dose del gas. Ciò basta per tramortirli. Il resto viene dopo. E poi vengono subito cremati» (468).

Durante la guerra storielle di tal fatta circolavano comunemente. A Bełżec si attribuivano metodi di sterminio ancora più fantasiosi: la folgorazione in molte varianti (pavimento costituito da piastra metallica elettrificata, fili elettrici scoperti che passavano sul pavimento e sui muri, vasca piena d’acqua elettrificata munita di elevatore che sollevava i cadaveri e li portava al «crematorio», stufa o forno elettrico, locali sotterranei - ai quali i treni accedevano attraverso tunnel - forniti di pavimento che era al tempo stesso un enorme montacarichi per calare le vittime in una sottostante cisterna di folgorazione e una piastra di cremazione mediante corrente ad alta tensione), la rarefazione dell’aria per mezzo di una pompa aspirante, treni della morte con pavimento cosparso di calce viva, senza contare la «fabbrica di sapone con grasso umano», ecc. (469).
Hilberg tace completamente queste testimonianze, che contrastano con la sua tesi delle gasazioni con gas di un motore Diesel; tace il fatto che la storia della folgorazione ricevette una sanzione ufficiale addirittura al processo di Norimberga, all’udienza del 19 febbraio 1946 (470). Anzi, egli cerca addirittura di avvalorare la sua tesi ricorrendo, nel capitolo sulle deportazioni, a una testimonianza del dopoguerra irrilevante (471):
«Le informazioni che filtravano dai campi erano talvolta molto precise. Nel distretto di Lublino, giunsero fino al presidente del consiglio del ghetto di Zamość, Mieczyslaw Garfinkiel. [...]. Qualche giorno dopo, due o tre Ebrei stranieri che erano scappati da Bełżec, gli parlarono di persone uccise con il gas in baracche» (p. 509).

Hilberg si riferisce alla «testimonianza orale» di Mieczyslaw Garfinkiel del 5 ottobre 1945 inserita negli atti del processo Bełżec (nota 345 a p. 868), di cui l’estratto più saliente era già stato pubblicato nel 1948. Il testimone dichiarò:
«Comunque, alla fine di marzo del 1942, alcuni Ebrei di cui non conosco i nomi mi raccontarono che erano stati portati a Bełżec ed erano riusciti a fuggire di lì, evitando miracolosamente la morte. Secondo ciò che dissero, tutti gli Ebrei portati a Bełżec vi erano stati uccisi con qualche gas tossico nelle baracche (472) summenzionate» (473) (corsivo mio).

A p. 1202 Hilberg riferisce che il New York Times del 26 novembre 1942 aveva riportato la notizia che gli Ebrei «a Bełżec erano uccisi con le scariche di corrente elettrica», ma solo per concludere che, nella stampa, «le affermazioni corrette» riguardo al presunto sterminio «avevano finito per mescolarsi alle voci delle scariche elettriche e della fabbricazione del sapone». Una variante della tesi olocaustica secondo cui queste voci erano «come un’ombra proiettata dalla realtà, come un prolungamento della realtà» (474), ma questa pretesa «realtà» era anch’essa costituita da semplici voci.

Gli aneddoti insignificanti di Hilberg non finiscono qui. Egli scrive ancora:
«Un ferroviere, osservando le recinzioni e le guardiole di Auschwitz I su un lato dei binari e quelle di Auschwitz II sull’altro, concluse che era “era proprio nel mezzo” (mitten drin)» (p. 1031).

Non è facile capire perché egli attribuisca a questa frase pronunciata da un certo Willy Hilse il 9 dicembre 1964 (nota 389 a p. 1068) una importanza tale da richiedere la citazione del testo tedesco. È un dato di fatto che «proprio nel mezzo» c’era la ferrovia, che distava (in linea d’aria) circa 900 metri dalla recinzione di Auschwitz e circa 700 da quella di Birkenau, ma che c’entra questo col presunto sterminio ebraico?

Subito dopo Hilberg riporta questa storiella:

«Un altro funzionario delle ferrovie notava che un odore dolciastro impregnava il suo appartamento e che i vetri erano ricoperti da una pellicola bluastra» (p. 1031).

Anche in questo caso (si tratta di un’altra testimonianza del 1964) non si capisce come ciò si colleghi al presunto sterminio. La favola dell’ «odore dolciastro» della cremazione, al pari di quella dei «cristalli» di Zyklon B, era molto diffusa e si ritrova perfino nel libro di F.Müller: «süssliche Gerucht» (475).

A p. 1078 Hilberg presenta un’altro aneddoto su Auschwitz, basato sull’immancabile «testimonianza orale», questa volta del 1969 (nota 11 a p. 1125):
«Un ferroviere di Cracovia, responsabile degli orari dei treni della morte, ricordava che il suo diretto superiore gli ordinò di far partire i treni, ogni volta che una SS glielo chiedeva».

Auschwitz era al crocevia di tre linee ferroviarie gestite dalla Generaldirektion der Ostbahn in Krakau (Direzione generale delle ferrovie orientali in Cracovia): la 149 (Oderberg-Dzieditz-Auschwitz-Trzebinia-Cracovia e ritorno, con treni espresso per e da Vienna e Varsavia, alcuni dei quali si fermavano anche ad Auschwiitz), la 146d (Kattowitz-Auschwitz e ritorno) e la 532e (Cracovia-Auschwitz) (476). Ciascuna di queste linee aveva un orario specifico per il traffico ferroviario (477), ovviamente stilato in concordanza con quelli delle altre linee. La pretesa di Hilberg avrebbe dunque immancabilmente gettato nel caos l’intero sistema ferroviario che gravitava su Auschwitz.

Con una sorta di lapsus freudiano, Hilberg chiude il paragrafo esponendo la diceria del sapone fatto con grasso umano (pp. 1031-1032), quasi a suggello del fatto che tutte le testimonianze da lui addotte a riprova della presunta conoscenza dell’attività dei «centri di sterminio» hanno il medesimo grado di attendibilità. Come dire: voci infondate che culminano nella storiella del sapone umano.

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