domenica 7 giugno 2009

Reporter: 65. Robert Fisk e l’altro modo di informare

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Ho varcato la soglia delle oltre 500 pagine del libro di Robert Fisk sulle “Cronache mediorientali” ed ormai il suo autore mi è diventato familiare e leggere volentieri e con profitto le altre 700 pagine del libro. Mi sono però accorto che le sue cronache si fermano all’anno 2005. Mancano i quattro anni successivi, fino alla mattanza di Gaza ed oltre nella fase dello sterminio in atto, a piombo freddo e con il silenzio stampa sulla mattanza sempre in corso. Che in papa non sia andato a Gaza mi dispiace molto e mi toglie quel poco di devozione che forse mi era ancora rimasta: non è andato nell’unico posto dove doveva andare, nel luogo cioè dove oggi Cristo è messo in croce dagli stessi Giudei di 2000 anni fa! Ma torniamo a Fisk. Proprio per coprire gli anni mancanti ho voluto andare a vedere nell’archivio dei «Corretti Informatori». Non è difficile immaginare quanto possano “odiarlo”, loro che sono così esperti in “odio”. Ma dopo essersi abituati alla capacità di analisi di Fisk in oltre 500 pagine di libro, appaiono assai miseri gli infami commenti di denigrazione dei diffamatori di professione. Nel libro di Fisk in non poche pagine è anche descritto il ruolo complice di gran parte, se non praticamente tutta la stampa internazionale, nella copertura mediatica dell’ultima «guerra coloniale», quella appunto israeliana volta alla conquista ed al massacro degli indiani mediorientali. Non è qui metafora, ma vi è per davvero lo spirito con cui è stata costruita l’America: sullo sterminio degli indiani. In fondo, non si tratta che di ripetere ciò che è stato fatto con successo. Hitler e il nazismo sono soltanto uno schermo, un paravento. Ed è proprio su questa parte che dissento con Robert Fisk. Non posso fare a meno di lui per le sue “cronache mediorientali”, ma quando mi parla di storia europea sento tutta la sua debolezza e fragilità. Si prende in ognuno ciò che vi è di buono. E giudico così buoni gli articoli di Fisk sul Medio Oriente da prendere qui come criterio la trascrizione di tutti gli articoli che trovo nell’archivio di IC, depurandoli dagli infami quanto idioti commenti. Un’ultima osservazione. Anche sulla scorta delle digressioni al riguardo che si trovano nel libro non vi è dubbio che un ruolo come quello dei «Corretti Informatori» sia perfettamente assimilabile al sistema di intimidazione del giornalismo occidentale di cui parla appunto Fisk. Vi sono giornalisti che sono direttamente al soldo di Israele e non vi è di che stupirsi di ciò che scrivono. Ma non mettiamo in dubbio che vi sia chi lo faccia gratis et cum amore. Non li consideriamo idioti in sé o ingenui. Semplicemente fanno i loro interessi: sono sionisti. Sono “organici” al massacro, al genocidio, alla negazione di ogni principio acquisito di giustizia, anche se poi pretendono di insegnarci la morale oltre la storia, la filosofia, perfino la geografia, inventandosi un nuovo continente: Eurabia. Al massimo conosciamo l’Eurasia, che non è l’Eurabia. È altra cosa.
Vers.1.2 / 19.6.09
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Sommario: 1. Il genocidio iracheno. – 2. Un faro nell’Oceano della Menzogna. – 3. Il sorriso della morte. – 4. Annapolis come Oslo. – 5. Il ruolo dei giornalisti. – 6. La fine del dollaro. –

1. Il genocidio iracheno. – L’articolo è del 20 marzo 2008, quando ancora regnava Bush, il peggiore presidente di tutta la storia degli USA, come è stato definito da qualcuno. Nell’era di Obama non mi è ancora capitato di leggere analisi che mi persuadano. Preferisco ancora attendere. Intanto però è istruttivo riportare per intero – coma abbiamo sopra detto – l’articolo di Fisk a mo’ di aggiornamento rispetto al libro che si ferma ai fatti del 2005. Per la sua idiozia e la sua manifesta falsità dell’infame commento che precede l’articolo rinviamo a quanto sopra detto sul ruolo degli agenti mediatici come parte stessa del crimine. A fare “propaganda” sono coloro che tentano di infangare la professionalità di chi ha passato oltre metà della sua vita nei luoghi da cui riporta i fatti che accadono.
il Manifesto
del 20 marzo 2008

Robert Fisk
Iraq, cronaca di un inferno

Sono passati cinque anni e non abbiamo imparato nulla. Ad ogni anniversario sentiamo rimbombare i nostri passi, il selciato è sempre più sconnesso, la sabbia sempre più fine. Cinque anni di catastrofe in Iraq e mi viene da pensare a Churchill che alla fine chiamò la Palestina un «disastro infernale».

Ma abbiamo già fatto questi paragoni e sono volati via nella brezza del Tigri. L’Iraq è una palude di sangue. E, ciò nonostante, abbiamo forse dei rimorsi? Forse ci sarà una commissione di inchiesta. Forse. E poi l’inadeguatezza non è stata il nostro unico peccato.

Oggi siamo impegnati in una polemica sterile. Cosa non è andato per il verso giusto?
Come mai la gente - il senatus populusque romanus del mondo moderno - non si è ribellata quando abbiamo raccontato bugie sulle armi di distruzione di massa, sui legami tra Saddam, Osama bin Laden e l’11 settembre? Perché abbiamo permesso che accadesse? E come mai non abbiamo fatto un piano preciso su come gestire il dopoguerra?

Ora da Downing Street ci dicono che i britannici hanno tentato di far ragionare gli americani. In realtà ci abbiamo provato prima di giungere alla assoluta e totale convinzione che era giusto affrontare questa guerra illegale. Non c’è una grande pubblicistica sulla debacle irachena e ci sono precedenti per quanto riguarda la pianificazione del dopoguerra, ma non è questo il punto. La nostra situazione per ciò che concerne l’Iraq è molto, ma molto più terribile.

Quando nel 2003 gli americani lanciarono il loro attacco contro l’Iraq con i missili che fischiavano sul deserto diretti verso una centinaio di città e cittadine irachene, io me ne stavo seduto al quinto piano del Palestine Hotel a Baghdad impossibilitato a prendere sonno per il fragore delle esplosioni e immerso nella lettura del libro che mi ero portato per riempire quelle lunghe, buie, pericolose ore. «Guerra e Pace» di Tolstoj mi ricordava come un conflitto possa essere descritto con sensibilità, grazia ed orrore (consiglio la Battaglia di Borodino). Avevo con me anche numerosi articoli di giornale. Nella mia cartellina c’era anche un lungo pezzo di Pat Buchanan, scritto cinque mesi prima e ancora oggi mi colpiscono l’assoluta onestà storica e la preveggenza di quelle parole: «con la reggenza in stile MacArthur a Baghdad, la pax americana raggiungerà il suo apogeo. Ma poi ci sarà il riflusso della marea perché se c’è una cosa in cui eccellono i popoli islamici è nel cacciare le potenze imperiali con la guerriglia e il terrorismo. Hanno cacciato i britannici dalla Palestina e da Aden, hanno cacciato i francesi dall’Algeria, i russi dall’Afghanistan, gli americani dalla Somalia e da Beirut, gli israeliani dal Libano. Abbiamo iniziato la strada che porta all'impero e al di là della prossima collina incontreremo quelli che hanno iniziato prima di noi. La sola lezione che impariamo dalla storia è che non impariamo nulla».
Con quanta facilità quegli ometti ci hanno trascinato all’inferno senza nulla sapere di storia o, quanto meno, senza alcun interesse per la storia. Nessuno di loro aveva letto qualcosa sull’insurrezione irachena del 1920 contro l’occupazione britannica né sulla brusca e brutale sistemazione della questione irachena ad opera di Churchill l’anno seguente.

Sui nostri radar storici non è apparso nemmeno Crasso, il più ricco del generali romani, che chiese la corona da imperatore dopo aver conquistato la Macedonia - «Missione compiuta» - e che poi, animato da desiderio di vendetta, si era apprestato a distruggere la Mesopotamia. In un luogo nel deserto non lontano dall’Eufrate, i Parti - antenati degli attuali insorti iracheni - annientarono le legioni romane, mozzarono la testa a Crasso e la rispedirono a Roma piena d’oro. Oggi avrebbero realizzato un video della decapitazione di Crasso.

A riprova della loro monumentale arroganza, questi ometti che ci hanno trascinato in guerra cinque anni fa, oggi ci dimostrano di non aver imparato nulla. Anthony Blair dovrebbe essere trascinato in tribunale per aver mentito. E invece ora ha la presunzione di portare la pace in Palestina, di risolvere il conflitto arabo-israeliano che ha contribuito in larga misura ad aggravare. Ed ora l’uomo che ha cambiato idea riguardo alla legittimità della guerra, osa proporre di sottoporre gli immigranti ad un test per concedere loro la cittadinanza britannica. La prima domanda, ritengo, dovrebbe essere: quale procuratore generale dalle mani macchiate di sangue con le sue menzogne ha contribuito a mandare a morire 176 soldati britannici? E la seconda domanda: come è riuscito a farla franca?

Ma in un certo senso la stupidità della proposta di Lord Goldsmith ci aiuta a comprendere la debolezza e l’assurdità del nostro processo decisionale. I grandi temi con cui dobbiamo fare i conti - si tratti di Iraq o Afghanistan, di economia americana o di riscaldamento globale, di piani di invasione o di “terrorismo” - non vengono discussi in funzione di importanti scadenze politiche, ma nel rispetto dei palinsesti televisivi e degli orari delle conferenze stampa.

I primi raid aerei sull’Iraq coincideranno con il prime-time televisivo negli Stati Uniti? Fortunatamente sì. I primi soldati americani entreranno a Baghdad durante i programmi televisivi che vanno in onda all’ora di colazione? Naturalmente. La cattura di Saddam Hussein verrà annunciata da Bush e Blair contemporaneamente? Ma tutto questo è un aspetto del problema. Sì è vero, Churchill e Roosevelt discussero accanitamente sul momento in cui bisognava dare l’annuncio che la guerra in Europa era finita. E furono i russi a rompergli le uova nel paniere. Ma noi dicemmo la verità. Quando i soldati britannici si stavano ritirando in direzione di Dunquerque, Churchil dichiarò che i tedeschi «erano penetrati in profondità e che avevano seminato il panico e la confusione tra le nostre linee».

Perché Bush e Blair non ci hanno informato quando gli insorti iracheni hanno cominciato ad attaccare le forze di occupazione occidentali? Forse perché erano troppo occupati a raccontarci che le cose stavano andando meglio, e che i ribelli non «avevano scampo».
Il 17 giugno 1940 Churchill disse al popolo britannico: «Le notizie che arrivano dalla Francia sono pessime e sono addolorato per i valorosi francesi che hanno avuto questa terribile disgrazia». Perché Blair o Bush non ci hanno detto che le notizie che giungevano dall’Iraq erano pessime e che erano addolorati - magari appena qualche lacrimuccia per un minuto o due - per gli iracheni?

E questi erano gli uomini che avevano avuto la temerarietà, l’incredibile coraggio di atteggiarsi ai Churchill della situazione, di scimmiottare la parte degli eroi in una sorta di riedizione della seconda guerra mondiale, al punto che la Bbc definiva gli invasori “alleati” e dipingeva il regime di Saddam Hussein come il Terzo Reich.

Naturalmente quando andavo a scuola i nostri leader - Attlee, Churchill, Eden, Macmillan o Truman, Eisenhower e Kennedy negli Stati Uniti - avevano esperienza di guerra, quella vera intendo. Oggi nemmeno un leader occidentale ha esperienze di prima mano in materia di conflitti bellici. Quando ebbe inizio l’invasione anglo-americana dell’Iraq, in Europa il principale oppositore della guerra era Jacques Chirac che aveva combattuto in Algeria. Ma ora non è più al potere. Così come non è più al potere Colin Powell, un reduce del Vietnam che tuttavia si era fatto abbindolare da Rumsfeld e dalla Cia.

E non di meno per uno strano e terribile scherzo della storia gli statisti americani più assetati di sangue - Bush e Cheney, Rumsfeld e Wolfovitz - non hanno mai sentito il rumore di un colpo d’arma da fuoco o non hanno combattuto per il loro Paese quando ne hanno avuto l’occasione. Ci possiamo meravigliare se la Casa Bianca va pazza per espressioni hollywoodiane come «Colpisci e terrorizza»? I film sono la loro unica esperienza in materia di conflitti. E lo stesso dicasi per Blair e Brown.

Churchill dovette giustificare la perdita di Singapore davanti alla Camera dei Comuni gremita di parlamentari. Brown non intende fornire giustificazioni sull’Iraq prima che la guerra sia finita.

È una grottesca e lapalissiana verità che oggi - dopo tutti gli atteggiamenti tronfi dei nostri nanetti cinque anni fa - ci sia finalmente consentita una seduta spiritica con i fantasmi della seconda guerra mondiale. Le statiche possono fare la parte del medium e la stanza deve essere avvolta nelle tenebre. Ma è un dato di fatto che il totale dei caduti americani in Iraq (3.978) supera di parecchio il numero dei soldati americani caduti in occasione dello sbarco in Normandia (3.384 morti e dispersi), il 6 giugno 1944, ed è superiore di oltre tre volte al totale dei soldati britannici morti ad Arnhem quello stesso anno (1.200).

Sono appena un terzo delle perdite totali (11.014) subite dall’intero corpo di spedizione britannico dall’invasione tedesca del Belgio all’evacuazione da Dunquerque nel giugno del 1940. Il numero dei soldati britannici morti in Iraq - 176 - è quasi pari al totale dei caduti britannici nella battaglia di Bulge nel 1944-45 (poco più di 200). Il numero dei feriti americani in Iraq - 29.395 - è più di nove volte superiore al numero dei feriti americani il 6 giugno 1944 (3.184) e oltre un quarto dei feriti americani in tutta la guerra di Corea del 1950-53 (103.284).

I caduti iracheni consentono un raffronto ancor più indicativo con la seconda guerra mondiale. Pur accettando le stime più prudenziali sul numero delle vittime civili - da 350.000 ad un milione - siamo di gran lunga oltre il numero dei civili britannici morti a Londra sotto i bombardamenti nel 1944-45 (6.000) e ben oltre il totale dei civili uccisi dai bombardamenti tedeschi in tutto il Regno Unito - 60.595 morti e 86.182 feriti gravi - dal 1940 al 1945.

Il numero dei civili morti in Iraq dal giorno dell’invasione anglo-americana è superiore al totale dei soldati britannici caduti durante la seconda guerra mondiale, cioè a dire 265.000 morti (alcuni storici dicono 300.000) e 277.000 feriti. Pur stando alle stime più prudenziali, resta il fatto che i civili della Mesopotamia hanno subito sei o sette Dresda o due Hiroshima.

E non di meno tutto questo ci allontana dalla terribile verità contenuta nell’ammonimento di Buchanan. Abbiamo inviato i nostri eserciti nella terra dell’Islam. Lo abbiamo fatto con l’unico incoraggiamento di Israele le cui false informazioni di intelligence sulla situazione irachena sono state dimenticate dai nostri governanti, impegnati a versare lacrime di coccodrillo sulle centinaia di migliaia di iracheni morti.

Il prestigio militare americano ha subito un colpo duro e irrimediabile. Se ci sono - secondi i miei calcoli - soldati occidentali nel mondo musulmano in numero 22 volte superiore rispetto all’XI e al XII secolo all’epoca delle Crociate, dobbiamo chiederci cosa stiamo facendo. Siamo lì per il petrolio? Per la democrazia? Per Israele? Per paura delle armi di distruzione di massa? O per paura dell’Islam?

In maniera molto superficiale stabiliamo una correlazione tra Iraq e Afghanistan. Se Washington non si fosse fatta distrarre dall’Iraq, i talebani non sarebbero riusciti a ritirare fuori la testa, almeno questa è la vulgata attuale. Ma Al Qaeda e lo sfuggente Osama bin Laden non si sono fatti distrarre ed è per questo che hanno cominciato ad operare in Iraq e poi hanno messo a frutto la loro esperienza per attaccare le truppe occidentali in Afghanistan impiegando un’arma fino ad allora sconosciuta in quel Paese: gli attentatori suicidi.

E azzardo una terribile previsione: abbiamo perso l’Afghanistan così come abbiamo perso l’Iraq e come, altrettanto certamente, “perderemo” il Pakistan. È la nostra presenza o il nostro potere o la nostra arroganza o il nostro rifiuto di imparare le lezioni della storia e il nostro terrore - sì terrore - dell’Islam che ci stanno trascinando nell’abisso. Fin quando non avremo imparato a lasciare in pace i popoli musulmani, la nostra catastrofe in Medio Oriente sarà sempre più grave. Non c’è alcun rapporto tra Islam e “terrorismo”. Ma c’è uno stretto rapporto tra la nostra occupazione delle terre musulmane e il “terrorismo”. Non è una equazione eccessivamente complicata. E non c’e bisogno di una commissione di inchiesta per capirlo.

© The Independent
Traduzione di
Carlo Antonio Biscotto
Quanto poi all’esistenza di una «democrazia irachena» imposta con uno «sforzo americano» che si sostanzia nelle cifre e nei risultati di cui dice Fisk si tratta di un macabro eufemismo che ancora una volta conferma l’abituale infamia di quanto pretendono di insegnare agli altri cosa sia “informazione corretta”, dopo esserne la presunta incarnazione. Si presti attenzione a questo brano sopra messo in corsivo: «Lo abbiamo fatto con l’unico incoraggiamento di Israele le cui false informazioni di intelligence sulla situazione irachena sono state dimenticate dai nostri governanti». Si capiranno le ragioni del profondo “odio” che i sionisti torinesi possono nutrire per Richard Fisk, colpevole di essere uno dei pochi a dire la verità nell’Oceano della Menzogna.

2. Un faro nell’Oceano della Menzogna. – Non ho ancora terminato la lettura sequenziale delle 1200 pagine (ma solo oltre le 800) delle Cronache Mediorientali di Robert Fisk, ma mi sono ormai persuaso che si tratta per me di un punto di riferimento. Conoscendo il libro e la capacità di analisi del suo autore, trovo penose le punture di spillo dei diffamatori professionali di “Informazione Corretta”. Insieme al testo di Fisk, tratto dall’Unità e finito nell’archivio di IC, riporto anche i loro penosi commenti, intervallati al testo: mi hanno copiato la tecnica, senza però essere bravi come me. Contrariamente ai nuovi criteri di monitoraggio, nel caso di Fisk riporto per intero i testi ovunque si trovino. Li considero un’appendice e un aggiornamento rispetto alle Cronache che si fermano al 2005.

L'UNITA' - Robert Fisk: " Il potere delle parole "
Visto l’autore e il taglio dell’articolo, non ci stupisce che sia solo l’UNITA' a riportare l'articolo. La prima parte dell'articolo di Fisk è un'ode a Obama e al suo discorso del Cairo. Fisk apprezza l'apertura di Obama all'islam, ma, nella conclusione dell'articolo, scrive : "
[Purtroppo l’articolo è censurato, dunque, dai Corretti Informatori. Ci manca così l’«ode a Obama» scritta da Robert Fisk, sostituita dalle ordinarie diffamazioni dei Soliti Inqualificabili. Sarebbe facile riferire loro gli epiteti che meritano, ma sarebbe scadere al loro stesso livello.]
Non ha fatto parola - né durante né dopo i rimproveri pur sottotono all’Iran - delle 264 testati nucleari che secondo le stime si troverebbero negli arsenali israeliani. Ha ammonito i palestinesi per la loro violenza - perché «sparano missili contro bambini che dormono e fanno saltare in aria povere vecchie negli autobus». Ma non ha parlato della violenza di Israele a Gaza, ma semplicemente della «ininterrotta crisi umanitaria a Gaza». Né ha parlato dei bombardamenti israeliani contro i civili in Libano, delle ripetute invasioni del Libano (17.500 morti nella sola invasione del 1982). ". Insomma, Obama non è stato abbastanza compiacente con l'islam, e lo è stato troppo con Israele. Per quanto riguarda Gaza, Obama va criticato per non aver specificato con chiarezza i veri responsabili della situazione (i terroristi
[oscenità lessicale ormai in cancrena, la litania sul terrorismo e i terroristi, che Obama come si apprende più sotto ha evitato di ripetere]
di Hamas che, da anni, bombardano quotidianamente la popolazione israeliana con razzi qassam) e non per non aver bacchettato con sufficiente veemenza Israele e l’operazione Piombo Fuso. Fisk lo omette, ma tutte le guerre combattute da Israele sono state di difesa. Ma per odiatori di Israele come Fisk, Israele dovrebbe farsi distruggere senza opporre nessuna resistenza. Poco più avanti si legge :
[Sembra il commento di Vermilinguo davanti all’evidenza delle malefatte di Saruman. Sembra di capire che vi sia stato un altro taglio, che ci priva di un prezioso contenuto informativo sostituito appunto dalle parole di Vermilinguo. Sono ridotti piuttosto male se non sanno fare altro che insistere sui sigari Kassam, innocui dal punto di vista militare ma perfettamente legittimi in quanto forma di difesa spontaneo da parte di popolazioni inermi che tuttavia non si piegano e non si arrendono: una lezione di eroismo e di dignità per il mondo intero, che si sveglia piano piano quanto più i palestinesi resistono nella loro sofferenza. Quanto ad Obama, che temo condizionato da apparati e retroterra più potenti di lui, non è mai vana la speranza. Io non ne faccio grande affidamento, ma le antenne di Fisk sono da considerare con la massima attenzione.]
"Nel suo discorso ha più volte parlato dell’Olocausto e ha detto che il giorno dopo avrebbe fatto visita al campo di concentramento di Buchenwald.
Considerato che Obama sta inviando qualche altro migliaio di soldati in Afghanistan - un disastro annunciato secondo il parere degli arabi e degli occidentali - la cosa e’ apparsa impudente. ". Non è chiaro quale sia il nesso logico fra le operazioni americane in Afghanistan e la Shoah. Nel primo caso si tratta di una guerra contro i talebani, nel secondo caso del genocidio sistematico degli ebrei in Europa.
[No, che non è chiaro, ma non è chiaro perché l‘articolo è stato tagliato e manca evidentemente qualche passaggio logico. Quanto poi al “genocidio sistematico degli ebrei” bisognerebbe essere innanzitutto liberi di poterne parlare. Quanti stanno in carcere per il solo fatto di contestare le verità degli industriali dell’«Olocausto» testimoniano che questo Occidente che vuole trasportare in Afghanistan la sedicente “democrazia” non riesce a garantire ai suoi cittadini neppure l’elementare libertà di parola e di pensiero]
Ecco l'articolo:
[speriamo di riuscire a leggerlo senza le “corrette contaminazioni”]
Il presidente Obama tende la mano al mondo islamico con un discorso che segna una svolta. Predicatore, storico, economista, moralista, insegnante, critico, guerriero, imam, imperatore. Talvolta si finisce per dimenticare che Barack Obama è il presidente degli Stati Uniti d’America. Il suo discorso dinanzi ad una platea attentamente selezionata all’università del Cairo «ridisegnerà il mondo» e rimarginerà le ferite vecchie di secoli tra musulmani e cristiani? Contribuirà a risolvere la tragedia arabo-israeliana dopo oltre 60 anni? Se le parole avessero questo potere...non lo potremmo escludere.
Il discorso di Obama è stato un discorso molto intelligente, un discorso accattivante e deciso come tutti si aspettavano - e pendevamo tutti dalle sue labbra. Ha lodato l’Islam. Ha detto che amava l’Islam. Ha parlato della sua ammirazione per l’Islam. Ha detto di amare la cristianità. E naturalmente ha parlato della sua ammirazione per l’America. Sapevamo che ci sono sette milioni di musulmani in America, che ci sono moschee in ogni stato dell’Unione, che il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere gli Stati Uniti e che è nostro dovere combattere i luoghi comuni sui musulmani così come i musulmani debbono combattere i luoghi comuni sull’America? Queste affermazioni contengono gran parte della verità anche se espressa in maniera attenuata per evitare di offendere i sentimenti di Israele. Negare l’Olocausto è «infondato, ignorante e odioso», ha detto chiamando ovviamente in causa l’Iran. E Israele ha diritto alla sicurezza e «i palestinesi debbono abbandonare la violenza...».
Gli Stati Uniti auspicano due popoli e due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Ha detto a Israele che deve porre immediatamente fine alla colonizzazione della Cisgiordania. «Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità degli insediamenti israeliani». I palestinesi hanno sofferto senza una patria. «La situazione del popolo palestinese è intollerabile», ha detto Obama e gli Stati Uniti non ignoreranno «la legittima aspirazione palestinese ad avere uno Stato indipendente». Israele deve fare «passi concreti» per contribuire a far migliorare la vita quotidiana dei palestinesi nel quadro del processo di pace. Israele deve riconoscere le sofferenze dei palestinesi e il diritto all’esistenza dei palestinesi. Accidenti!! Critiche del genere da un presidente americano Israele non aveva mai dovuto sentirle.
[Si notino gli attacchi isterici, sempre in IC, di Ugo Volli, troppo isterici e idioti per dover prestare loro eccessiva attenzione. Le sue “cartoline” sono veritiere e aggiornate radiografie dello stato mentale e morale del loro mittente.]
Sembra la fine del sogno sionista. È mai esistito George Bush?
Purtroppo è esistito. Infatti in certi momenti il discorso di Obama sembrava opera del Servizio Manutenzione di Bush in visita nel mondo musulmano per spazzare via montagne di candelieri rotti e di carne a brandelli. Il presidente degli Stati Uniti - e questo è stato stupefacente - ammetteva gli errori del suo Paese, la reazione eccessiva dopo l’11 settembre, l’istituzione di Guantanamo che, come Obama ha ricordato a noi tutti, si appresta a chiudere. Non male, Obama…..
Poi siamo passati all’Iran. Un Paese che cerca di dotarsi delle armi nucleari rappresenta «un pericolo» per noi tutti, specialmente per il Medio Oriente. Dobbiamo impedire una corsa agli armamenti. Ma l’Iran è una nazione che va trattata con dignità. Ma la cosa più straordinaria va individuata nel fatto che Obama ci ha ricordato che gli Stati Uniti negli anni 50 furono complici nel colpo di Stato che portò al rovesciamento del governo iraniano Mossadeq democraticamente eletto. È stato «difficile superare decenni di sfiducia». Ma non era finita qui: democrazia, diritti delle donne, economia, qualche ottima citazione dal Corano ("chiunque uccide un innocente, uccide tutta l’umanità"). I governi debbono rispettare «la loro gente» e le loro minoranze. Ha parlato dei copti cristiani in Egitto e persino i cristiani maroniti del Libano hanno meritato una citazione. E quando Obama ha detto che alcuni governi «una volta al potere sono spietati nel soffocare i diritti degli altri», è scoppiato un fragoroso applauso dalla platea che si riteneva, forse a torto, addomesticata. Non c’è da meravigliarsi se il governo egiziano voleva scegliere quali parti del discorso di Obama potevano essere adatte per gli egiziani. Ovviamente gli egiziani non erano molto contenti dello Stato di polizia di Hosni Mubarak. Ad onor del vero, infatti, Obama non ha fatto nemmeno una volta il nome di Mubarak.
Non facevo che ripetere tra me e me: Obama non ha parlato dell’Iraq - e proprio in quel momento lo faceva («una guerra che abbiamo scelto di fare...ma le nostre truppe combattenti se ne andranno»). Ma non ha parlato dell’Afghanistan - e Obama mi smentiva subito («non vogliamo lasciare i nostri soldati in Afghanistan...saremmo felicissimi di far tornare in patria tutti i soldati»). Quando ha cominciato a parlare della «coalizione di 46 Paesi» in Afghanistan - un dato questo molto dubbio - mi è sembrato di ascoltare il suo predecessore. E qui, inevitabilmente, è sorto un problema. Come ha sottolineato l’intellettuale palestinese Marwan Bishara, è facile lasciarsi «abbagliare» dai presidenti. E quella di Obama è stata una esibizione abbagliante. Ma a rileggere il testo mancava qualcosa. Non ha fatto parola - né durante né dopo i rimproveri pur sottotono all’Iran - delle 264 testate nucleari che secondo le stime si troverebbero negli arsenali israeliani. Ha ammonito i palestinesi per la loro violenza - perché «sparano missili contro bambini che dormono e fanno saltare in aria povere vecchie negli autobus». Ma non ha parlato della violenza di Israele a Gaza, ma semplicemente della «ininterrotta crisi umanitaria a Gaza». Né ha parlato dei bombardamenti israeliani contro i civili in Libano, delle ripetute invasioni del Libano (17.500 morti nella sola invasione del 1982). Obama ha detto ai musulmani che non debbono vivere nel passato, ma ha sorvolato sugli israeliani. Nel suo discorso ha più volte parlato dell’Olocausto e ha detto che il giorno dopo avrebbe fatto visita al campo di concentramento di Buchenwald.
Considerato che Obama sta inviando qualche altro migliaio di soldati in Afghanistan - un disastro annunciato secondo il parere degli arabi e degli occidentali - la cosa e’ apparsa impudente. [o imprudente?] Quando abbiamo parlato del debito che tutti abbiamo nei confronti dell’Islam - la «luce del sapere» in Andalusia, l’algebra, il compasso magnetico, la tolleranza religiosa - è stato come accarezzare un gatto prima di portarlo dal veterinario e il veterinario, naturalmente, ha fatto un predicozzo ai musulmani sui pericoli dell’estremismo, sui «cicli di sospetto e discordia», anche se America e Islam hanno «principi comuni» che vanno individuati nella «giustizia, nel progresso e nella dignità di tutti gli esseri umani».
C’è stata una pietosa omissione: in un discorso di quasi 6.000 parole non c’era la parola letale «terrore». «Terrore» o «terrorismo» sono diventati segni di interpunzione per tutti i governi israeliani e sono divenuti un elemento essenziale dell’osceno lessico dell’era di Bush. Ragazzo intelligente questo Obama. Non esattamente Gettysburg. Non esattamente Churchill, ma niente male. Possiamo solo ricordare un commento di Churchill: «le parole sono molte e facili, mentre i fatti sono difficili e rari».
Nella Rassegna di IC il testo di Fisk è preceduto da altri testi sintonici con il mondo morale e intellettuale dei «Correttori» dell’Umanità. Ne ormai ampianente saggiato la faziosità quanto l’inutilità scientifca. Non occorre soffermarsi su di essi, mentre invece conserviamo le incrostazioni dei Correttori con la loro pretesa di commento critico. Osserviamo che l’«Occidente» ha esportato solo la corruzione, la violenza, la morte, il genocidio, la menzzogna. A fronti di questa offerta commerciale non può non considerasi il contenuto morale dell’Islam, anche se poi diventa ovvio che politica ed etica religiosa non possono sempre camminare sulla stessa strada, per forza di cose più che per volontà degli uomini. Inutile aspettare che lo capiscano le teste “forti” di un Meotti o di un Introvigne, abituale risorse idriche dei Corretti Informatori.

3. Il sorriso della morte. – L’articolo di Fisk sul vasto fenomeno degli attenati suicidi in Iraq deve essere integrato con la lettura del suo libro di Cronache Mediorientale, che si ferma al 2005. In questo senso l’articolo appare come un aggiornamente di quel racconta. Paradossalmente anche l’«infame commento» che precede il testo di Fisk aiuta a capire le ragioni dei “martiri”, che non hanno nessun riscontro con il pur vasto fenomeno del terrorismo occidentale, dove per prima cosa gli attentatori badavano a mettere al sicuro la loro propria pelle e quindi a mantenere il più stretto anonimato. Il fenomeno del “suicida” era presente a Machiavelli.
Khaled mi guardava con un largo sorriso. Era quasi sul punto di scoppiare a ridere. Ad un certo punto, quando gli ho detto che doveva abbandonare ogni idea di diventare un attentatore suicida - e che avrebbe potuto esercitare una maggiore influenza sulla sua gente facendo il giornalista - ha rovesciato la testa all'indietro e mi ha lanciato un ghigno, come di chi è stanco della vita già a meno di venti anni. «Tu hai la tua missione», mi ha detto. «Io ho la mia». Le sue sorelle lo guardavano con soggezione. Era il loro eroe, il loro amanuense e il loro maestro, il loro rappresentante e il loro aspirante martire.
Era molto bello, giovane - appena 18 anni - indossava una t-shirt nera Giorgio Armani, aveva la barba molto curata da conquistador spagnolo, i capelli con il gel. Ed era pronto ad immolarsi.
Una sorpresa sinistra. Ero andato a casa di Khaled per parlare con sua madre. Avevo già scritto un libro su suo fratello Hassan e volevo presentare alla famiglia un mio collega giornalista canadese, Nelofer Pazira. Quando Khaled è apparso sul portico, Nelofer ed io abbiamo immediatamente - e simultaneamente - capito che sarebbe stato il prossimo a morire, il prossimo "martire". Ce lo diceva il suo sorriso. Avevo già incontrato questi giovani prima d’allora, ma mai il loro destino mi era apparso evidente come in questo caso.
La sua famiglia si è seduta intorno a noi sulla veranda della loro casa da cui si dominava la città libanese di Sidone. Il salotto era pieno di foto a colori di Hassan che era già andato in paradiso - cosi mi hanno garantito - quello stesso paradiso al quale Khaled era certo di essere destinato. Hassan si era schiantato con la sua autobomba contro un convoglio militare americano a Tal Afar nel nord-ovest dell’Iraq, il suo corpo, o quel che ne restava, era stato sepolto sul posto - o per lo meno questo avevano detto alla madre.
In Libano è facile trovare le famiglie di coloro che sono appena morti. I loro nomi vengono letti dai minareti delle moschee di Sidone (per lo più sono palestinesi) e a Tripoli, nel nord del Libano, il movimento sunnita “Tawhid” si vanta di annoverare centinaia di suicidi tra i suoi sostenitori....
Ciò che sorprende - e di cui non parlano gli americani né il governo iracheno o le autorità britanniche e nemmeno molti giornalisti - è la dimensione di questa offensiva suicida, l’enorme numero di giovani (solo raramente donne) che volontariamente pongono fine alla loro vita in mezzo ai convogli americani, dinanzi alle stazioni di polizia irachene, nei mercati, nei paraggi delle moschee, nelle strade commerciali e in strade isolate e vicino a remoti posti di blocco, nelle grandi città e nei vasti deserti dell’Iraq. Non è mai stato calcolato il numero vero di questa campagna stupefacente e senza precedenti di auto-distruzione... In Iraq si sono fatti saltare in aria 1.121 attentatori suicidi musulmani... È forse questo il più spaventoso e mostruoso lascito dell’invasione dell’Iraq voluta da George Bush cinque anni fa. Gli attentatori suicidi hanno ucciso in Iraq almeno 13.000 uomini, donne e bambini - la stima più prudente parla di 13.132 vittime - e ne hanno feriti almeno 16.112. Se teniamo conto anche dei morti causati dal panico e dalla folla in fuga - per paura degli attentatori suicidi - su un ponte sul Tigri nell’estate del 2005, il numero sale, rispettivamente, a 14.132 e 16.612. Va sottolineato, ancora una volta, che si tratta di stime prudenziali...
Un fenomeno di attentatori suicidi di queste dimensioni è senza precedenti nel mondo arabo. Durante l’occupazione israeliana del Libano, dopo il 1982, un attentato suicida al mese ad opera di Hezbollah era considerato un fatto straordinario. Durante la prima e la seconda Intifada palestinese, negli anni 80 e 90, quattro attentati suicidi al mese erano considerati un fatto senza precedenti. Ma in Iraq gli attentatori suicidi hanno colpito al ritmo di due ogni tre giorni dall’invasione anglo-americana nel 2003...
Studiosi e politici dibattono da tempo sulle motivazioni degli attentatori, sull’identikit psicologico degli uomini e delle donne che con estremo sangue freddo decidono di giustiziare delle persone sacrificando la loro vita. E di fatto sono giustizieri, assassini che vedono le loro vittime - siano essi soldati o civili - prima di far detonare l’esplosivo di cui sono imbottiti. Molto tempo fa gli israeliani sono giunti alla conclusione che non era possibile tracciare il profilo “perfetto” dell’attentatore suicida e, alla luce della mia esperienza in Libano, la penso allo stesso modo...
Khaled è - o era, dal momento che non so se è ancora vivo da quando l’ho incontrato appena qualche settimana fa - influenzato dal fratello Hassan il cui viaggio in Iraq fu organizzato da un gruppo sconosciuto, presumibilmente palestinese, e il cui addestramento militare nei pressi del fiume Tigri fu ripreso con una videocamera dai suoi compagni. La madre di Hassan mi ha fatto vedere la cassetta - che finisce con Hassan che saluta felice agitando la mano dal finestrino di un’auto sgangherata, probabilmente la stessa con la quale si apprestava a scagliarsi contro un convoglio americano a Tal Afar.
Ma nulla di quanto detto finora riguarda il problema della fede religiosa. Mentre molte sono le prove secondo cui i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale venivano talvolta costretti con le minacce e le intimidazioni a lanciarsi in volo contro le navi da guerra americane nel Pacifico, molti ritenevano che si sacrificassero per l’Imperatore. Secondo loro la caduta del fiore del ciliegio e il vento divino - il “kamikaze” appunto - avrebbero benedetto la loro anima mentre dirigevano i caccia contro le portaerei americane. Ma persino una dittatura industrializzata come quella giapponese - sull’orlo del collasso della sua struttura sociale per mano di una superpotenza - riuscì a mobilitare appena 4.615 kamikaze. I soli attentatori suicidi iracheni sono già più o meno la metà...
Sul piano individuale, è possibile vedere le tensioni e il trauma psicologico delle famiglie. La madre di Khaled, ad esempio, non faceva che dirsi orgogliosa del suo figlio morto, Hassan, e guardava con pari amore il fratello ancora vivo. Ma quando il mio collega ha detto a Khaled di non sacrificare la sua vita per il bene di sua madre - ricordandogli che lo stesso Profeta ha detto che il primo dovere di un musulmano è proteggere sua madre - la donna stava per scoppiare a piangere. Era combattuta tra il suo amore di madre e il suo dovere politico-religioso di donna che aveva messo al mondo un aspirante martire. Quando il mio amico ha ripetuto a Khaled di non suicidarsi, di rimanere a Sidone e di sposarsi - sinistramente il muezzin aveva intonato la preghiera proprio mentre parlavamo - Khaled ha scosso la testa.
Nemmeno un commento denigratorio su coloro che lo avrebbero mandato a morire - che gente è quella che continua a vivere ma che condanna a morte ragazzi come Khaled? - poteva scoraggiarlo. «Non diventerò uno “shahed” (martire) per la gente - ci ha risposto - Lo faccio per Dio»...
Ma c’è una spiegazione razionale dietro al fenomeno degli attentati suicidi in Iraq? I primi casi si sono verificati quando le truppe americane avanzavano alla volta di Baghdad. Vicino alla città sciita di Nassirya, un poliziotto iracheno fuori servizio, il sergente Ali Jaffar Moussa Hamadi al-Nomani, lanciò la sua autobomba contro un posto di blocco dei Marines americani. Sposato con cinque figli, aveva combattuto nella guerra Iran-Iraq del 1980-88 e si era arruolato come volontario per combattere contro gli americani dopo che Saddam aveva occupato il Kuwait. Non molto tempo dopo due donne sciite lo emularono.
Persino il governo, ormai morente, di Saddam Hussein ne rimase sconvolto...
Durante i cinque anni di guerra gli attentatori suicidi sin sono concentrati più sulle forze di sicurezza irachene addestrate dagli americani che sulle truppe americane. Almeno 365 attentati sono stati eseguiti con successo contro poliziotti o agenti paramilitari iracheni. Tra gli obiettivi almeno 147 stazioni di polizia (1.577 morti), 43 centri di reclutamento dell’esercito e della polizia (939 morti), 91 posti di blocco (con almeno 564 vittime), 92 pattuglie delle forze di sicurezza (465 morti) ed inoltre scorte, convogli con ministri del governo iracheno ecc. Uno dei centri di reclutamento - nel centro di Baghdad - è stato fatto oggetto di attentati suicidi in otto diverse occasioni.
Invece gli attentatori suicidi hanno attaccato solamente 24 basi americane, facendo 100 vittime americane e 15 irachene, e 43 pattuglie e posti di blocco americani uccidendo 116 soldati americani e almeno 56 civili, 15 dei quali probabilmente colpiti dai soldati americani che avevano aperto il fuoco, e 26 bambini che si trovavano accanto alla pattuglia americana. La maggior parte degli americani sono stati uccisi a ovest o a nord di Baghdad. Gli attentati suicidi contro le forze di polizia si sono concentrati a Baghdad e a Mosul e nelle città sunnite immediatamente a nord e a sud di Baghdad. La mappa degli attenti suicidi evidenzia una chiara preferenza per gli obiettivi militari durante tutto il corso dell’insurrezione. Gli attentati contro i soldati americani sono andati gradualmente diminuendo dal 2006 mentre gli attentati contro pattuglie di polizia irachene e reclute di polizia si sono andati intensificando negli ultimi due anni, specialmente in un tratto di 100 miglia a nord di Baghdad. Esattamente come gli assassini islamisti in Algeria - e i loro nemici militari - privilegiavano il mese di digiuno del Ramadan per i loro sanguinosi attacchi negli anni 90, anche gli attentatori suicidi in Iraq si mobilitano alla vigilia di qualunque festività religiosa. Dopo il 2005, durante il periodo del conflitto settario, ci fu un significativo calo degli attentati suicidi o perché gli attentatori temevano i tagliatori di gole delle bande tribali che confluivano a Baghdad o perché - ipotesi alquanto sinistra - venivano essi stessi arruolati e usati in quella drammatica campagna di sangue e violenza.
Gli attentati politicamente più devastanti sono stati quelli all’interno delle basi militari - compresa la Zona Verde a Baghdad (due nello stesso giorno nell’ottobre del 2004) - e contro la sede dell’ONU (con la morte dell’inviato delle Nazioni Unite Sergio de Mello) e della Croce Rossa Internazionale a Baghdad nel 2003. Nel dicembre 2003 le autorità britanniche avvertirono che ci sarebbero stati altri e più “spettacolari” attentati suicidi e il primo ebbe luogo nel gennaio dell’anno seguente quando un attentatore suicida si fece saltare in aria in una moschea sciita a Baquba, uccidendo quattro fedeli e ferendone 39.
Gli attentatori suicidi che si ispiravano ad Al Qaeda attaccavano con deliberato intento provocatorio le moschee sciite, ma anche i mercati e gli ospedali frequentati dai musulmani sciiti. Quasi tutti i 600 iracheni uccisi dagli attentatori suicidi nel mese di maggio 2005 era sciiti. Dopo la parziale demolizione della moschea sciita di Samarra, il 22 febbraio 2006, iniziò per gli attentatori suicidi dell’Iraq una vera e propria “guerra delle moschee”. Fu fatta saltare in aria una moschea sunnita con il bilancio di nove morti e dozzine di feriti e nella stessa settimana gli attentatori suicidi colpirono due moschee sciite. Ai primi di luglio del 2006 sette attentatori suicidi si fecero saltare in aria in moschee sunnite e sciite uccidendo 51 persone. Nello stesso periodo un attentatore suicida fu autore del primo attentato contro un gruppo di pellegrini sciiti che venivano dall’Iran.
Gli attentati suicidi non risparmiarono nemmeno i funerali delle vittime sciite di altri attentati e le feste di matrimonio. Tra gli obiettivi anche le università e i centri commerciali e le vittime erano per lo più sciite. Tuttavia nel corso dell’ultimo anno un crescente numero di leader tribali fedeli agli americani - tra cui Sattar Abu Risha, che ha incontrato pubblicamente il presidente Bush il 13 settembre 2007 ed ex insorti che si sono uniti alle milizie anti-Al Qaeda pagate dagli americani - sono stati oggetto di attentati ad opera di attentatori suicidi sunniti.
Sono stati identificati solamente circa dieci attentatori suicidi. Uno di loro, che si era scagliato nel giugno del 2005 contro una unita’ di polizia, si è rivelato essere un ex agente di polizia di nome Abu Mohamed al-Dulaimi, ma sembra che le autorità americane e irachene sappiano ben poco sulla provenienza di questi attentatori. In almeno 27 occasioni i funzionari iracheni hanno dichiarato di conoscere l’identità degli attentatori - affermando di aver recuperato passaporti e documenti di identità che provavano la loro provenienza dall’estero - ma non hanno mai fornito pubblicamente le prove. Si dubita che le due attentatrici suicide che si sono fatte saltare in aria in un mercato di uccelli all’inizio dell’anno fossero realmente due giovani mentalmente ritardate come sostenuto dal governo. Il fatto che le autorità non dispongono di informazioni affidabili è provato in maniera esemplare da due dichiarazioni contraddittorie rilasciate dagli americani e dai loro protetti iracheni nel marzo dell’anno scorso. Mentre David Satterfield, consigliere per l’Iraq della Segretaria di Stato Condoleezza Rice, affermava che il 90% degli attentatori viene dalla Siria, il primo ministro dell’Iraq, Nouri al-Maliki, annunciava che la maggior parte degli attentatori suicidi viene dall’Arabia Saudita - un altro Paese che confina con l’Iraq. I sauditi non avrebbero avuto alcun bisogno di arrivare fino a Damasco per poi varcare la frontiera ed entrare in Iraq visto che il loro Paese confina con l’Iraq. A Baghdad molti, tra cui alcuni ministri, sono convinti che gli attentatori suicidi siano in realtà per lo più iracheni. Ci vorranno molti anni prima di avere idee più chiare sul numero degli attentatori che si sono fatti saltare in aria durante la guerra in Iraq e sulla loro provenienza. Molto prima che The Independent scrivesse che gli attentatori suicidi erano arrivati a 500, Abu Musab al-Zarqawi, esponente di spicco di Al Qaeda, si vantava di "800 martiri" tra i suoi seguaci. E dal momento che la morte di al-Zarqawi non ha portato al benchè minimo calo degli attentati, dobbiamo presumere che ci sono molti altri "manipolatori" che si occupano di reclutare gli attentatori suicidi che operano in Iraq.
E’ sempre difficile risalire alle motivazioni delle stragi. Chi ricorda ora che l’attentato suicida che ha fatto il maggior numero di vittime - 516 morti e 525 feriti - ha avuto luogo in due remoti villaggi della regione di Kahtaniya, in Iraq, abitati da Yazidi? Sembra che una ragazza Yazidi si fosse innamorata di un sunnita e che la sua stessa gente avesse punito la sua "offesa contro l’onore" lapidandola. Gli assassini venivano probabilmente dalla comunità sunnita. E quindi uno dei lasciti più drammatici della presidenza Bush in Iraq rimane anche il più misterioso: il matrimonio tra nazionalismo e ferocia a sfondo religioso, la nascita di un esercito enorme e senza precedenti di musulmani attirati dall’idea della morte e del sacrificio.

© The Independent
Traduzione di
Carlo Antonio Biscotto
su l’Unità
Non conosco nessuna seria analisi nella stampa e nella letteratura italiana sul fenomeno sopra descritto. Il fatto che io non la conosca non significa che non esiste. Ricordo tuttavia in una trasmissione televisiva una sorta di scherno da parte di un noto personaggio, uno dei nostri amici sionisti. Credo che una riflessione vada sviluppata. L’articolo di Fisk è certamente un contributo importante.

4. Annapolis come Oslo. – Per chi non sapesse cosa siano stati esattamente gli accordi di Oslo, in pratica l’ennesima dilazione e perdita di tempo mentre il genocidio in atto si protrae negli anni, consiglio di leggere le pagine delle Cronache al riguardo. Esaurita una Oslo se ne apre un’altra scegliendo altro luogo. Così è stato per Annapolis, a cui per la verità non ricordo nessuno che vi abbia dato seriamente credito. Ecco qui un articolo di Fisk apparso sull’Unità e regolarmente irriso dai “Corretti Informatori”, la cui miseria intellettuale salta subito agli occhi a chi esce appane dalle lettura di un suo libro di 1200 pagine. Purtroppo il libro si ferma al 2005, ma gli articoli di Fisk successivi a quella data aggiornano il quadro e l’ampio contesto già noto.

Ma non ci siamo già stati da queste parti? Annapolis non è stata per caso la replica del prato della Casa Bianca e degli accordi di Oslo con una serie di pie dichiarazioni e promesse che vede due uomini deboli, Abu Mazen e Olmert, usare quasi le stesse parole di Oslo?

«È ora di porre fine al ciclo di sangue, violenza e occupazione», ha detto la scorsa settimana il presidente palestinese Abu Mazen. Ma a me pare di ricordare Yitzhak Rabin dire sul prato della Casa Bianca «è ora di porre fine al ciclo di sangue...». O forse la memoria mi gioca un brutto scherzo? Però non si parla di Gerusalemme come capitale palestinese e israeliana. E se Israele ottiene il pieno riconoscimento dello Stato israeliano - e le cose non possono che stare in questi termini - non può esservi alcun “diritto di rimpatrio” per le centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti (o le cui famiglie fuggirono) da quella terra che nel 1948 divenne Israele.

E cosa dovrei pensare del brano che segue tratto dalla dichiarazione congiunta: «il comitato direttivo formulerà un piano di lavoro congiunto e supervisionerà l’operato delle delegazioni negoziali (sic) affinché affrontino tutti i temi sul tappeto e siano guidate ciascuna da un rappresentante di primo piano»? Ci risiamo?

Non è la prima volta che sentiamo parlare di comitati direttivi: e non hanno mai funzionato. Vero è che è stata fissata la data del 12 dicembre per la prima riunione di questo cosiddetto “comitato direttivo” e vero anche che il presidente Bush ha acceso la tenue speranza - infiorettata, ovviamente, dalla solita presunzione - che si arriverà ad un accordo entro il 2008. Ma come possono i palestinesi avere un loro Stato senza che Gerusalemme ne sia la capitale? Come possono avere uno Stato quando il loro territorio è stato spezzettato e diviso dagli insediamenti ebraici, dalle strade costruite dai coloni e, in parte, dalla guerra?

Ovviamente vogliamo tutti che finisca lo spargimento di sangue in Medio Oriente, ma per conseguire questo risultato gli americani avranno bisogno dell’appoggio della Siria e dell’Iran - o quanto meno del sostegno siriano per controllare Hamas - e come sarà possibile ottenerlo? Bush continua a minacciare l’Iran e ad Annapolis, il presidente Bush ha detto alla Siria che non deve immischiarsi nelle elezioni libanesi altrimenti...

Sì, è vero, Hezbollah è il fantoccio dell’Iran e sta giocando un ruolo di primo piano nell’opposizione al governo libanese. Bush e Condoleezza Rice (o, se vogliamo, Abu Mazen e Olmert) pensano veramente che avranno mano libera per un anno senza alcuna interferenza da parte degli altri attori regionali? Oltre la metà dei palestinesi che subiscono l’occupazione sono sotto il controllo di Hamas.

Leggendo i discorsi - in particolare il documento congiunto - si ha l’impressione che tutti si sforzino di illudersi e di seminare illusioni. Attualmente il Medio Oriente è un infernale disastro e il presidente degli Stati Uniti pensa di poter risolvere tutto con un colpo di bacchetta magica dimenticandosi dell’Afghanistan, dell’Iraq e dell’Iran - e del Pakistan, ben inteso. L’aspetto peggiore della messa in scena di Annapolis va individuato nel fatto che ancora una volta milioni di persone in tutto il Medio Oriente - musulmani, ebrei e cristiani - crederanno alle promesse e - quando si accorgeranno dell’ennesimo fallimento - se la prenderanno con furia contro i loro antagonisti accusandoli di non avere rispettato gli accordi.

Da oltre due anni i sauditi offrono ad Israele sicurezza e riconoscimento da parte degli Stati arabi in cambio del completo ritiro delle forze israeliane dai territori occupati. Cosa c’è che non va con questa proposta? Ehud Olmert ha promesso che «i negoziati affronteranno tutti i temi che finora sono stati evitati». Ma la frase «ritiro delle forze israeliane dai territori occupati» puramente e semplicemente non compare nel documento congiunto.

Come la maggior parte di coloro che vivono in Medio Oriente, vorrei poter credere che questi sogni diventeranno realtà. Ma non è così. Basta aspettare la fine del 2008.

The Indipendent
traduzione su l’Unità di
Carlo Antonio Biscotto
il 4 dicembre del 2007.

Viene da pensare quale potrà mai essere la fine di questa storia ultrasecolare e se chi vive oggi vivrà abbastanza per asssistere ad una conclusione che francamente io non immagino quale possa essere. Ma credo che non dobbiamo porci in un’ottica di previsioni, bensì dobbiamo trarre le conclusioni di ciò che accade, di ciò che è oggi, per le nostre decisioni di oggi.

5. Il ruolo dei giornalisti. – Nelle Cronache Fisk ha già trattato il tema della partecipazione dei giornalisti agli eventi che dovrebbero descrivre con neutralità. L’articolo che segue è deg 14 maggio 2007, due dopo anni dopo la conclusione della narrazione contenuta nelle Cronache. Diventa sempre più chiaro ciò che dopo “Piombo fuso”, almeno per quello che riguarda le amie acquisizioni teoriche, è stato definitivamente acquisito: che il giornalismo e la comunicazione è parte integrante della guerra stessa. Nel libro Fisk narrà come lui stesso abbia per un soffio sfuggito la morte. Miserabile come sempre il “corretto commento”. È ormai assodato anche il loro ruolo sionista.
Quando è che ci è venuto a mancare il fegato a noi giornalisti? Quando è tramontata l’illusione dell’immunità? Quando abbiamo accettato di indossare i giubbotti antiproiettile o le divise militari nella guerra del Golfo del 1991? In Bosnia? Nel maligno, ripetitivo uso della parola «terrorismo, terrorismo, terrorismo» nei nostri articoli? In Iraq quando ce ne stavamo nei nostri alberghi blindati protetti delle torri di controllo e dalle guardie del corpo? Quando ci siamo abituate a quelle che Martin Bell chiama le «due palme», il boschetto alla Monty Python che fa da sfondo a qualunque servizio della Bbc trasmesso dal tetto della sede di Baghdad? Come è possibile che Alan Johnston possa essere tenuto prigioniero per sei settimane - un reporter di prima classe, un giornalista innocente, onesto, rispettabile - senza che le dimostrazioni dei giornalisti che chiedono la sua liberazione abbiano alcun effetto?
Per me tutto è cominciato nel settembre del 1983 - il 6 settembre, per essere precisi - quando Terry Anderson, capo della sede della Associated Press a Beirut, e io ci trovavamo nella cittadina semi-distrutta di Bhamdoun tra le montagne del Libano centrale.
Le navi americane bombardavano i miliziani drusi e palestinesi in quanto gli americani - sì, ci risiamo - sostenevano il governo libanese di Amin Gemayel «democraticamente eletto».
Terry ed io avevamo scavalcato alberi divelti su strade coperte di bossoli di munizioni quando ci si avvicinò un palestinese armato. Era scarmigliato e con la barba lunga. Ed emanava un cattivo odore. «Da dove venite?», chiese. «Stampa», rispondemmo in coro. «Che ci fate qui?». Terry gli mostrò il tesserino libanese da giornalista. E altrettanto feci io. «America». «L'America uccide i palestinesi». Ricordo ancora l'espressione di Terry. «Giornalisti», ripetemmo ancora una volta. «Sahafa». Reporter.
A questo punto al primo uomo si erano aggiunti altri uomini armati uno dei quali vestito di nero si rivolse a Terry: «L'America uccide i musulmani. Perché volete uccidere i musulmani? Sei una spia?». Non ero mai stato trattato così prima di allora. Qualcosa non era andato per il verso giusto. Per decenni avevamo viaggiato in tutto il Medio Oriente con il nostro tesserino da giornalisti gridando «sahafa» a ogni posto di blocco e sempre ci avevano fatto segno di passare, magari mugugnando, ma sempre accettando il fatto che facevamo il nostro lavoro, che non lavoravamo per i governi, che eravamo giusti, imparziali, coperti dall'immunità.
Ebbene quel tacito patto si era rotto. Non eravamo più giornalisti. Eravamo stranieri, «ajnabi» in arabo. Alla fine a salvarci fu un giovane palestinese che disse che eravamo giornalisti che facevamo il nostro mestiere pericoloso e che dovevamo essere protetti. Gli altri uomini armati rimasero impassibili e ci fissarono con aria diffidente mentre ce ne andavamo.
Nel giro di sei settimane gli attentatori suicidi avrebbero ucciso 241 soldati americani nella caserma dei Marines a Beirut e nel giro di meno di 18 mesi Terry sarebbe stato rapito e trattenuto come ostaggio - fate bene mente locale mentre entriamo pazientemente nella settima settimana del rapimento di Alan Johnston - per quasi sette anni.
È facile prendercela con noi stessi. I nostri vantaggiosi rapporti con le ambasciate straniere hanno portato i nemici dei nostri paesi a pensare che eravamo agenti segreti. Aver indossato la divisa militare nel 1991 è stato un atto di follia. I famigerati «pool» di giornalisti - sostituiti ora dagli altrettanto famigerati giornalisti «al seguito» (come abbiamo finito per accettare queste scandalose parole?) - non ci hanno fatto del bene. Ma ora noi giornalisti siamo chiaramente in prima linea.
Sebbene detesti il modo in cui i ragazzetti e le ragazzette della televisione si addobbano con i giubbotti militari antiproiettile per andare in onda - avete notato come i loro accoliti impediscono a chiunque non sia mascherato da guerriero di passare davanti alle telecamere in queste occasioni per evitare che il telespettatore si chieda per quale motivo il giornalista è vestito in quello strano modo? - devo ammettere che ora siamo noi i bersagli.
Eravamo bersagli - e deliberatamente - a Sarajevo. I militari americani ci hanno sparato. La vergognosa risposta americana alla morte dei giornalisti britannici fuori Bassora nel 2003 dimostra con quanta indifferenza i «nostri» trattino ora la nostra vita. Quando un cameraman della Reuters è stato ucciso dai soldati americani ad Abu Ghraib, i soldati coinvolti in quella brutta storia hanno mentito. Il cameraman era un palestinese.
La nostra professione è sempre più isolata, rinchiusa, confinata. E ai «nostri» va bene così. Né gli americani né i britannici vogliono che ce ne andiamo liberi e senza controllo in giro per l'Iraq a scoprire le bugie dei nostri governi, a portare alla luce le malefatte dell'aviazione americana in Iraq o in Afghanistan.
Così stanno le cose. Non possiamo muoverci in Iraq per paura di essere massacrati dai nemici dei nostri paesi. Non possiamo muoverci nel sud dell'Afghanistan. I giornalisti italiani possono essere riscattati dai loro governi. I giornalisti afgani - penso all'interprete/giornalista dell'italiano sequestrato - finiscono puramente e semplicemente con la testa mozzata. Il giornalismo non è mai stato così limitato e circoscritto da simili orrori. Mai prima d'ora siamo stati informati così poco e così male.
Suppongo si possa dire che le cose non erano molto diverse durante la seconda guerra mondiale. Anche allora indossavamo la divisa dell'esercito. Richard Dimbleby prese parte all'incursione della Raf su Amburgo. («Tutto quello che riesco a vedere dinanzi a me è una grande palla di luce»). I giornalisti della Germania nazista andavano in guerra con la Wehrmacht e la Luftwaffe. E noi non passavamo il tempo a lamentarci dell'obiettività.
Quando un corrispondente della Associated Press fu sganciato con le truppe americane dietro le linee nemiche, i tedeschi lo giustiziarono insieme agli altri prigionieri. Perché dovremmo aspettarci oggi un trattamento diverso?
Beh, una ragione è che questa non è la seconda guerra mondiale. E non è nemmeno - ne prenda nota per cortesia Tony Blair - la terza guerra mondiale. Stiamo illegalmente combattendo delle guerre in Medio Oriente sostenendo una occupazione e - attraverso l'appoggio insensato ai governi più discutibili - stiamo uccidendo decine di migliaia di innocenti.
Come giornalisti possiamo opporci a tutto questo. Possiamo alzare la voce contro queste grandi ingiustizie. Ma solo se siamo liberi. Ovviamente aggiungo la mia voce a quella di quanti chiedono la liberazione di Alan Johnston. La sua detenzione in mano ai sequestratori è un disastro per i palestinesi e per tutti gli arabi del Medio Oriente. E fin tanto che sarà in mano ai suoi sequestratori come possiamo scrivere delle atrocità dell'Iraq, dell'Afghanistan e di Gaza?
L’ideologia del “terrorismo terrorismo terrorismo” è una costante della stampa internazione volta a cancellare dall’opinione pubblica l’idea della resistenza legittima da parte dei popoli del Medio Oriente, l’idea che siamo stati noi ad andare da loro senza averne alcun diritto e non viceversa. E non ci siamo andati per portare il bene, la democrazia, la libertà e frottole simili a cui possono credere oramai solo gli sprovveduti o i complici e direttamente interessa nell’utima guerra di conquista coloniale dell’Occidente.

6. La fine del dollaro. – Dopo la lettura delle ponderose delle sue “Cronache mediorientale” Robert Fisk è per me un autore familiare. Leggo perciò con estremo interesse ogni suo articolo successivo alla data del libro. È interessante già per i suoi aspetti generali l’articolo di cui al link. tratto questa volta non dall’archivio hasbariano torinese, ma da “Come don Chisciotte”, al quale attingerò sempre più per superare la parte polemica contenuta nel monitoraggio di «Informazione Corretta», il cui contenuto propagandistico e diffamatorio mi è ormai divenuto perfettamente noto nei suoi schemi costruttivi e nelle sue strategie. Almeno credo. L’articolo di Fisk contiene una spiegazione, che non ricordo di aver letto nelle Cronache, sulle cause della guerra di Bush all’Iraq, o meglio forse non la si può individuare come la causa, ma è un fatto che Saddam aveva annunciato la sua volontà di uscire dal sistema del dollaro per passare all’euro. Subito dopo è venuta la guerra. Una coincidenza? Un fatto concomitante? Non c’entra nulla?

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